lunedì 29 settembre 2008

O mio dio!

Non è persecutorio? Nemmeno la spesa in pace si potrà più fare (e a volte è una gran rottura di palle fare la spesa, ci mancava questo). Già ti citofonano quelli che ti vogliono redimere, vogliono benedire la casa, portarti la salvezza anche se tu non la vuoi, ti lasciano pubblicità clericali nella cassetta della posta, che ogni scusa è buona natale pasqua e ferragosto.
Pure al supermercato?
Apprezzerei molto un dio silenzioso. Che se vuoi arriva, ma non può essere così invadente. Ma forse il guaio non è dio, quello tutto sommato tace.

domenica 28 settembre 2008

Ma sicurezza non vuol dire privacy

Astigmatismo
Il dibattito sui dati genetici è vivace quando si parla di un’eventuale discriminazione da parte dei datori di lavoro e delle assicurazioni sanitarie. Sull’uso a scopo investigativo e sulla creazione di una banca dati nazionale del DNA, invece, c’è silenzio. E già questo potrebbe essere preoccupante. Come è preoccupante che il Big Brother Award Italia 2008, sezione “Tecnologia più invasiva”, sia stato assegnato proprio alla banca (abusiva) del DNA del R.I.S. di Parma. La creazione di una banca dei profili del DNA pone non solo la questione dell’informazione genetica e del suo possibile abuso; ma quella delle modalità e delle ragioni per cui si preleva un campione di DNA. Invocare l’annientamento del crimine è pretestuoso – comunque non sufficiente a sgretolare la tutela della riservatezza di ogni cittadino.
Sebbene l’informazione dei profili del DNA di per sé potrebbe non costituire un danno, la prima domanda è se ci si può rifiutare di farsi prelevare un campione di DNA. Tanto più che le informazioni genetiche trascendono il singolo, coinvolgendo tutto il suo gruppo familiare: tutte le persone legate ad un “sospetto” sarebbero esposte ad una intollerabile intrusione.
Per quali ragioni si potrebbe giustificare la violazione di un domicilio tanto privato quale il nostro profilo del DNA?
Come potrebbero essere usate queste informazioni? Le garanzie contro i possibili abusi, offerte dal disegno di legge sulla Banca dati nazionale del DNA, sembrano poco rassicuranti. Come si può giustificare la violazione di un diritto tanto fondamentale quale la tutela dei propri dati personali?
Quale “sicurezza” può spingere a violare l’intimità e la privacy? La sicurezza non può essere ridotta ad un ideale astratto cui sacrificare la vita privata di alcuni cittadini in carne ed ossa. È paradossale invocare un principio per giustificarne la violazione. È una pessima e diffusa abitudine invocare la sicurezza per annientare la libertà e la giustizia.
Le domande sono troppe, e le risposte elusive o assenti.
Colpisce, poi, come l’antiscientismo diffuso in questo caso prenda le sembianze del suo alter ego: la fiducia cieca e smisurata per la dimostrazione assoluta di colpevolezza (la “certezza” della prova) tramite il DNA, ottenuta quasi magicamente – neanche si trattasse di un episodio di CSI, celebre telefilm americano che ha reso famosa la polizia scientifica (e in cui i colpevoli sono sempre incastrati dal DNA!).

l’Unità, 27 settembre 2008

venerdì 26 settembre 2008

Discutendo con Buttiglione

Il più delle volte gli integralisti non fanno che ripetere slogan stantii e spesso mal compresi o addirittura alterati nel passaggio da una bocca all’altra; ma qualche volta propongono anche argomenti. Magari non tutti originalissimi e non tutti particolarmente meditati, ma pur sempre argomenti. È quanto fa Rocco Buttiglione sul Tempo di due giorni fa («Legge ok, ma patti chiari. Testamento biologico non significa eutanasia», 24 settembre 2008, p. 17), e noi proveremo a rispondere punto per punto.
1. Un primo principio che non deve mai essere perso di vista mi pare che sia il seguente: nessuno può trasferire ad altri diritti che non possiede egli stesso. Il testamento biologico serve a dare indicazioni a chi ci ha in cura sui trattamenti che vorremmo o non vorremmo ricevere. Non possiamo però, attraverso il testamento biologico, dare l’ordine di essere uccisi. Non possiamo dare questo ordine quando siamo coscienti, non possiamo darlo quando siamo incoscienti attraverso il testamento biologico. C’è qui da dissipare un equivoco. Alcuni dicono: la vita è mia e ne faccio quello che mi pare. Il principio è discutibile (si potrebbe sostenere che la mia vita appartiene contemporaneamente alle persone che amo e che mi amano e chi dice “la mia vita appartiene solo a me” deve essere una persona molto sola e molto infelice), tuttavia esso non giustifica l’eutanasia. Al massimo può giustificare il suicidio.
Quanto dice Buttiglione è sostanzialmente corretto, nell’attuale quadro giuridico. La norma che impedisce l’omicidio del consenziente sarebbe chiaramente in contrasto con la previsione dell’eutanasia attiva (cioè della somministrazione di un farmaco che causi direttamente il decesso del paziente), sia che questa venga eseguita quando il paziente è cosciente sia che venga prevista nelle direttive anticipate. Ma nessuno chiede oggi che il testamento biologico possa contemplare l’eutanasia attiva. Il massimo che viene richiesto è la possibilità di sospendere nutrizione e idratazione artificiali; e questo è un diritto che già possediamo, un ordine che già possiamo impartire ai medici mentre siamo coscienti, e che quelli sono obbligati a rispettare (art. 53 del Codice di deontologia medica), come ammette – lo vedremo fra poco – persino lo stesso Buttiglione.
Con l’eutanasia io non dispongo della mia vita. Dispongo contemporaneamente della vita di un altro, al quale dò l’ordine di uccidermi. E dispongo di tutta la comunità umana da cui pretendo che imponga a qualcuno di eseguire il mio ordine e che non consideri quel [sic] atto come punibile. È evidente che esiste una differenza fra il suicidio e l’omicidio del consenziente.
Con l’eutanasia – che, ripeto, è cosa diversa dal testamento biologico come oggi viene concepito e richiesto – nessuno dà l’ordine o impone a un altro di uccidere. Non si afferra un passante mettendogli in mano una siringa di Pentothal e non gli si intima «vai e uccidi!»; non è così che funziona. A praticare l’iniezione letale, nei paesi dove la legge ne consente la possibilità, è un medico che ha liberamente sottoscritto un contratto che prevede questo impegno; e se per qualche motivo la cosa disgusta alla sua coscienza è altrettanto libero di dedicarsi a un’altra specialità o a un’altra professione. In questi paesi, poi, l’eutanasia è stata approvata con leggi democratiche, non certo «imponendo» alla comunità di non considerare l’atto come punibile.
2. Il trattamento terapeutico è un atto in cui conviene la libertà e la responsabilità di due persone: il medico ed il paziente. Ambedue devono partecipare al medesimo atto con scienza e coscienza. Non è possibile ridurre il medico al livello di un esecutore di ordini che vadano contro la sua coscienza. Medico e paziente sono uniti dal perseguimento di un bene oggettivo che è la salute del paziente. Le indicazioni del paziente nel suo testamento biologico vanno certamente tenute da conto da parte del medico, ma non possono essergli imposte in modo vincolante quando esse contrastino con le regole tecniche e deontologiche della professione medica.
Come mai secondo Buttiglione non è possibile ridurre il medico a esecutore di ordini che vadano contro la sua coscienza, ma allo stesso tempo è possibile ridurre il paziente a oggetto passivo di ordini che vadano contro la sua coscienza? Io non posso obbligare il medico a fare alcunché (almeno in assenza di un impegno contrattuale), ma nemmeno lui può impormi di subire ciò che vuole. Quanto alla salute, può essere anche un bene oggettivo, ma chi decide che è il massimo bene possibile, da anteporre a tutti gli altri? Da uno che proviene da una tradizione culturale in cui un tempo si esortava così: «Non abbiate paura di chi può uccidere il vostro corpo; temete piuttosto chi ha il potere di uccidere la vostra anima», ci si aspetterebbe una diversa scala di valori... In ogni caso, il medico è il più qualificato a stabilire cosa è bene per la mia salute, ma non a stabilire cosa è bene per me. C’è una grande differenza.
3. Nessun trattamento può essere imposto al paziente contro la sua volontà. In altre parole non è lecito imporre un trattamento sanitario con la forza. Ciò comporterebbe una inaccettabile violazione della dignità umana del paziente. Qui però dobbiamo domandarci in cosa consista la volontà vera del paziente. Quanto più l’espressione di volontà del paziente appare strana e contrario al suo interesse bene inteso, quale lo intenderebbe in genere un tutore legale, tanto più è necessario avere delle espressioni di volontà inequivocabili. E anche quando vi fossero, sarebbero sempre valide?
Immaginiamo, per esempio, che le disposizioni siano dettate in una fase di malattia e di depressione. Siamo sicuri che in quel contesto il soggetto conservi pienamente le sue facoltà di intendere e di volere? Molta gente in una fase di depressione e di disperazione arriva a tentare il suicidio. Dovremo proibire di dare assistenza sanitaria all’aspirante suicida, visto che egli ha mostrato in modo inequivocabile di voler morire e di rifiutare di conseguenza qualunque trattamento medico? In realtà noi agiamo in modo esattamente opposto e l’aspirante suicida in genere è grato a chi gli ha salvato la vita. Noi riteniamo che si possa presumere che l’aspirante suicida non sia pienamente in grado di intendere e di volere. Non possiamo impedirgli di tentare il suicidio, ma possiamo salvargli la vita dopo che ha tentato, e questo è esattamente quello che facciamo.
Cosa faremo con chi rifiuta un trattamento sanitario che può salvargli la vita? Non lo somministreremo se egli attivamente lo rifiuta. E se è incosciente ed ha lasciato scritto di volerlo rifiutare non riterremo che ricorra qui una analogia con il tentato suicidio? Il testamento biologico non può avere l’ultima parola su tutto. Quanto più esso si allontanasse dalla ragionevolezza tanto più il medico avrebbe il diritto ed il dovere di disattenderlo.
Questo è un argomento degno di considerazione. Chi decide tuttavia la misura della «ragionevolezza»? A molti pare assolutamente ragionevole rifiutare le cure nel caso si sia ridotti in uno stato vegetativo permanente; il caso Englaro ha dimostrato che è proprio chi ama di più la vita, senz’ombra di depressione, a rifiutare con più decisione la prospettiva di trascorrere la vita a letto ridotto come un vegetale. Ci si limiti dunque a rendere obbligatorio un colloquio previo con il medico o comunque un qualche documento giustificativo solo per chi rifiuta nelle proprie direttive anticipate ciò che pare del tutto accettabile al senso comune e alla stragrande maggioranza delle persone, p.es. le pratiche ordinarie di rianimazione in presenza di prognosi favorevole (è il caso dei Testimoni di Geova, che rifiutano le trasfusioni).
[Ometto il punto 4 sull’accanimento terapeutico, che non dice nulla di particolarmente rimarchevole.]
5. Quando si sospendono le terapie non si può però fare venire a mancare al paziente un elementare sostegno e l’assistenza. Si continuerà a nutrirlo, a dissetarlo, a tenerlo pulito, ad avere cura per quanto possibile del suo benessere. Queste non sono terapie straordinarie, ma atti di semplice assistenza comunque dovuti ad un essere umano che soffre. Privare un essere umano di questa assistenza e cura significa ucciderlo. In modo particolare, privarlo dell’acqua e del cibo significa farlo morire di fame. Alcuni vorrebbero trattare l’alimentazione artificiale come un mezzo straordinario di cura e quindi interromperla in modo da provocare la morte del paziente. In realtà l’alimentazione artificiale consiste in una piccola operazione che permette di inserire nell’esofago una cannula attraverso la quale passano le sostanze nutrienti. Una volta fatta, alla nutrizione può provvedere personale non specializzato.
Certo, se il paziente è conscio non è possibile imporgli l’alimentazione artificiale. Sarebbe una violazione della sua intimità personale. Ma quando l’operazione sia già stata fatta ed il paziente sia incosciente, è irragionevole sospendere l’alimentazione.
È già un progresso che qualcuno si renda conto che già oggi è vietato imporre l’alimentazione artificiale a un paziente cosciente. Ma perché sarebbe irragionevole estendere il divieto al paziente incosciente? Buttiglione non lo spiega. Il maniaco che brancica la paziente in coma non ne sta forse violando l’intimità?
La natura non straordinaria della nutrizione artificiale è poi del tutto irrilevante. Nel nostro ordinamento giuridico è possibile rifiutare trattamenti medici del tutto usuali ed essenziali alla vita del paziente, come la somministrazione di antibiotici; non si vede dunque perché la somministrazione enterale o parenterale di alimenti dovrebbe fare eccezione (e la questione sulla sua natura di trattamento medico non ci deve interessare minimamente; non mi posso mettere a tatuare senza autorizzazione pazienti colpiti da demenza con la scusa che un tatuaggio non è una terapia e che lo faccio per il loro bene, per farli riconoscere nel caso si perdessero: si tratta di un’intrusione nella sfera corporea di un altro, e tanto basta).
É inoltre evidente che il trattamento, una volta iniziato, non può essere sospeso su semplice indicazione del paziente. Sarebbe come dire che chi è stato salvato da un tentativo di suicidio per annegamento ha il diritto, se cambia idea, di farsi ributtare in mare da chi lo ha salvato.
A me non pare affatto evidente. Sarebbe come dire che una donna che ha iniziato un rapporto sessuale non può più ritirare il proprio consenso, e che non ci troviamo di fronte a uno stupro se il suo compagno la forza a continuare. Il paragone con il suicidio ignora ancora una volta l’analogia fra l’azione che si impone di compiere e l’azione che si impone di subire: certo che il suicida non può costringermi a ributtarlo in mare; ma neanche io ho il diritto di incatenarlo a un palo perché non ci riprovi.
Su questi principi non è difficile fare una buona legge sulle disposizioni di fine vita.
No, in effetti non è difficile. È impossibile, direi.

Attenti, arriva il cognonismo femmineo!

Il beniamino di Bioetica, l’onorevole Luca Volontè, non poteva certo lasciarsi sfuggire il recente pronunciamento della Cassazione in favore dell’adozione del cognome materno accanto a quello paterno; eccolo dunque prodursi in un intervento sul tema, per la gioia dei suoi fan («Col cognome materno gli alberi genealogici diverranno cespugli», Libero, 25 settembre 2008, p. 23), da cui riportiamo un significativo excerptum:
Oltre ad essere un ossequioso cedimento della paternità all’assolutismo della maternità, il “cognonismo femmineo” consente di distruggere definitivamente, ben più che divorzi, separazioni e “scambismo di fatto”. Il pronipote non conoscerà più il nonno, si perderà ogni albero genealogico e le più grandi querce familiari si ridurranno a piccolissimi cespugli.
Confesso di non essere riuscito a capire bene in che modo dare dignità al cognome materno dovrebbe portare all’oblio dei propri nonni: io sono in grado di recitare i nomi di tutti e quattro i miei nonni, anche se solo uno aveva il mio stesso cognome (e lo stesso vale, con qualche sforzo aggiuntivo di memoria, per i miei otto bisnonni); e comunque, nell’ipotesi, portare un doppio cognome dovrebbe portare in realtà a un raddoppio della memoria. Mah. Però «cognonismo femmineo» rimane – si converrà – una definizione geniale, e Luca Volontè si candida ad essere il rappresentante più illustre di quello che potremmo chiamare «cognonismo virile» – o di qualcosa che suona quasi identico a questo.

giovedì 25 settembre 2008

Salviamo il San Giacomo

12
Cosa può un concerto contro una decisione già presa secondo logiche inintelliggibili per i più? Ove non hanno potuto le proteste dei pazienti, le obiezioni dei medici e di tutto il personale sanitario. E nemmeno le questioni più “oggettive”: i milioni di euro spesi per la ristrutturazione dei reparti che andranno sprecati (sia i milioni di euro, sia i reparti); una farmacia avveniristica che sarà smantellata; una sala di rianimazione all’avanguardia che sarà rimpiazzata da non si sa bene cosa e perché. Tutto in nome di un “necessario” taglio della spesa sanitaria? Sarà interessante farsi questa domanda tra qualche mese, quando non sarà più un mistero la destinazione di una struttura gigantesca nel cuore di Roma. Cuore pulsante per speculatori e costruttori; spreco per quei malati che potranno certo fare qualche chilometro in più senza morire!
Una decisione che potrebbe essere la prima di una grande cambiamento delle strutture ospedaliere romane – chiuse o ridimensionate per questioni di bilancio. E, si sa, non necessariamente i grandi cambiamenti sono salutari e benefici; e non necessariamente si riesce a contenere le spese tagliando (serve ben altro).
Non servirà, dunque, un concerto a porre rimedio ad un destino già scritto. Ma almeno serve a testimoniare della protesta di tutti quei cittadini che subiscono l’ennesima decisione dall’alto. E non vogliono farlo passivamente.
Il 24 settembre sera il maestro Uto Ughi e il maestro Stelvio Cipriani hanno tenuto un concerto nella Chiesa di Santa Maria del Popolo a sostegno di quanti protestano.

Mercoledì 24 settembre, a Piazza del Popolo, ore 17: controlli sanitari gratuiti; ore 20: presso la Chiesa di Santa Maria del Popolo, Porta del Popolo (Roma) il concerto.
Giovedì 25 settembre, ore 14.30: manifestazione presso l’Ara Pacis.
In queste occasioni vengono raccolte le firme contro la destinazione d’uso dell’ospedale. Si può firmare in qualsiasi momento presso il cortile del San Giacomo (via Canova).

Agoravox Italia, 25 settembre 2008; altre foto qui.

mercoledì 24 settembre 2008

Il testamento biologico secondo Bagnasco

Le recenti dichiarazioni di Angelo Bagnasco, presidente della Cei, a proposito del caso Englaro e del testamento biologico, sono ben lungi dal rappresentare, come si illudono alcuni, un’apertura in senso liberale (qui la blogosfera, grazie a Malvino e JimMomo, ha fatto meglio in media dei giornali, che si sono quasi tutti lasciati incantare dall’ambiguo eloquio del cardinale). In realtà le parole di Bagnasco rappresentano la conclusione di un dibattito, interno alla galassia integralista, che è andato avanti durante l’estate (e di cui abbiamo dato conto, a più riprese, su Bioetica), che ha visto contrapposte un’ala di realisti e un’ala di duri e puri. Le gerarchie ecclesiastiche – come del resto era pressoché scontato – danno ora ragione ai primi, e passano il dossier al Parlamento, perché confezioni una legge che soddisfi in pieno i loro desiderata.

Per molto tempo il testamento biologico è stato tabù. Ancora durante la scorsa legislatura ogni tentativo di approvare un disegno di legge in materia è stato fatto abortire senza pietà dai rappresentanti del Vaticano che sedevano in Parlamento; sebbene le norme costituzionali delinino il diritto a rifiutare le cure in ogni situazione, è pur vero che l’assenza di una legge apposita rendeva problematico l’esercizio di tale diritto.
E tuttavia un diritto costituzionale deve essere fatto valere, anche in assenza di una legge apposita; un ruolo, questo, che spetta alle corti di giustizia – checché ne pensino gli analfabeti che hanno sollevato il conflitto di attribuzione contro la Corte di Cassazione proprio riguardo il caso Englaro. Sono stati precisamente i pronunciamenti recenti delle corti a cambiare la situazione, come del resto ammette esplicitamente lo stesso Bagnasco. Il caso Welby aveva aperto la strada (anche se non aveva nulla a che vedere col testamento biologico, ma solo con il diritto a rifiutare le cure), ma non era stato decisivo: il calvario giudiziario di Mario Riccio, benché conclusosi felicemente, non era decisamente incoraggiante per gli aspiranti emulatori. Invece per Eluana Englaro il via libero finale della corte era stato più deciso e preventivo; e riguardava direttamente le direttive anticipate di trattamento, che è tema più controverso del semplice rifiuto delle cure, già più o meno digerito dalla normativa (al di là delle complicazioni peculiari del caso Welby).

Si imponeva a questo punto un cambiamento di strategia. Per sbarrare il passo a interpretazioni analoghe a queste (che, anche se non hanno forza di precedente nel nostro sistema giuridico, sono comunque fonte di diritto, e ancor più orientano il costume e i comportamenti concreti) si è deciso di concedere un po’ di terreno, in modo analogo a quanto successo con la legge 40, che non collimava con la dottrina cattolica ma limitava comunque severamente i diritti dei cittadini in modo conforme alle direttive ecclesiastiche. È chiaro infatti che nell’atto di approvare una legge tramite i propri rappresentanti in Parlamento, le gerarchie sono obbligate a riconoscere la Costituzione, e a fare i conti con essa. Diventa a questo punto difficile continuare ad opporsi al concetto stesso di testamento biologico, in particolare per quanto riguarda il rifiuto delle cure: impedire di esercitare questo diritto a chi si trova in stato di incoscienza è una violazione sfacciata dell’art. 3 (eguaglianza di fronte alla legge). Ed è qui che nasce l’opposizione degli ultrà, contrari ad ogni concessione, e fautori per esempio di un’improbabile (ed eversiva) «interpretazione autentica del dettato Costituzionale». A costoro si aggiunge adesso il Foglio, che in un editoriale rimprovera Bagnasco per le sue parole di «rinuncia» («Eminenza, qui la cosa non funziona», 23 settembre 2008, p. 3; da antologia dell’assurdo il finale: «Puoi rifiutare una cura e lasciarti morire. È un fatto. Ma una legge che stabilisca questo fatto come diritto è un’altra cosa»); con il rischio – reale, vista l’ingenuità di molti ‘laici’ – che Ferrara assuma più o meno consapevolmente il ruolo di «poliziotto cattivo», avallando per contrasto l’immagine di una Chiesa liberale.

Ma in realtà i più fanatici – sinceri o di facciata che siano – hanno poco da temere dalla nuova legge. Questa nasce infatti seriamente depotenziata: in primo luogo con l’esclusione (ribadita da Bagnasco) dell’idratazione e del nutrimento artificiali dal novero dei trattamenti a cui si può rinunciare. Ma soprattutto con la non obbligatorietà per il medico delle direttive del paziente, che ovviamente mina alla base la credibilità del testamento biologico – sebbene rimanga la possibilità di cercarsi il medico ‘giusto’, con le immaginabili sofferenze e peregrinazioni di chi verrà chiamato a far rispettare la volontà di chi non può più esprimersi.
Vale la pena di vedere cosa dice Bagnasco a questo proposito, perché è qui che l’ambiguità del suo discorso può indurre più facilmente false speranze:
Si è imposta così una riflessione nuova da parte del Parlamento nazionale, sollecitato a varare […] una legge sul fine vita che […] riconoscendo valore legale a dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita, dia nello stesso tempo tutte le garanzie sulla presa in carico dell’ammalato, e sul rapporto fiduciario tra lo stesso e il medico, cui è riconosciuto il compito – fuori da gabbie burocratiche − di vagliare i singoli atti concreti e decidere in scienza e coscienza [corsivo mio].
Per apprezzare il reale significato di queste parole bisogna conoscere bene la neolingua integralista, e non farsi fuorviare dall’incoraggiante accenno al valore legale del documento. Per «rapporto fiduciario tra paziente e medico», o anche per la gettonatissima «alleanza terapeutica tra paziente e medico», gli integralisti non intendono, come si potrebbe credere, la concordanza di volontà fra il malato e chi lo cura, ma invece la supremazia indiscussa del secondo sul primo. Vera alleanza è lo stivale che schiaccia la faccia dell’aggredito.
Vogliamo una riprova? Ecco il commento a caldo di Assuntina Morresi su Sussidiario.net:
Dichiarazioni anticipate solo se all’interno di un rapporto di fiducia con il proprio dottore, che quindi ne dovrà sicuramente tenere conto ma che non sarà obbligato ad eseguire: il medico non potrà che agire in scienza e coscienza nell’esercizio della sua professione, che prevede il dovere di prendersi cura dei propri pazienti, innanzitutto non abbandonandoli [corsivo mio].
Ribadisce Eugenia Roccella sul Mattino“Bioetica: la Chiesa apre, ora il dialogo”», 23 settembre, p. 7), usando parole simili a quelle di Bagnasco:
Sono convinta del fatto che [il testamento biologico] non debba avere valore vincolante per il medico. Se così fosse, infatti, ad uscirne distrutta sarebbe proprio l’alleanza terapeutica che naturalmente esiste tra il medico e il suo paziente, che ne rappresenta il fondamento. Il rapporto verrebbe pesamente dequalificato, facendo del sanitario, al più, un mero burocrate. Ciascuna esperienza è unica ed è per questo che la possibilità di deroga non può essere annullata.
Cosa ci aspetta nelle prossime settimane? L’approvazione di una legge che segua queste linee è a questo punto cosa certa (non capisco bene donde derivi la fiducia di JimMomo che si possa ancora «difendere ordinatamente il risultato» delle sentenze giudiziarie). Beninteso, anche con le concessioni di facciata che conterrà, la legge rimane incostituzionale: l’esclusione della nutrizione artificiale va contro l’art. 13 sull’inviolabilità della libertà personale (oltre che contro lo stesso Codice di deontologia medica!); purtroppo l’errore capitale di accettare di porre la discussione sul piano voluto dagli integralisti – la nutrizione artificiale è/non è un trattamento medico – tende a velare questo fatto, e lascia a costoro la comoda possibilità di limitarsi a reiterare il loro «no, non lo è» fino ad esaurimento. Quanto alla possibilità del medico di non obbedire alle volontà del paziente, qui siamo in un certo senso al di là della mera incostituzionalità, al diritto fatto strame. Il richiamo alla libertà di coscienza dei medici può avere un senso – pur con tutte le distorsioni, anche profonde, che conosciamo nel caso dell’aborto e della procreazione assistita – quando si tratta di azioni richieste al medico; ma non quando al medico si chiedono delle omissioni, che – come si sa – possono essere equiparate alle azioni solo in presenza di un obbligo giuridico (art. 40 Cod. Pen.). E dov’è l’obbligo giuridico di una pratica che la Costituzione proibisce? Il fanatico integralista che si ostina a mettere le mani addosso al suo paziente inerme, nonostante l’espressa volontà contraria di quello, non può invocare la propria coscienza: sta commettendo un reato (art. 610 Cod. Pen.).
L’unica possibilità di opporsi alla legge risiede dunque, come ben vede Malvino, nel ricorso alla Corte Costituzionale. I precedenti con la legge 40 – con ricorsi laboriosissimi, ed esaminati in modo talvolta non ineccepibile – non lasciano molte speranze; ma nell’assenza di un’opposizione laica in Parlamento questo solo ci resta. Fino ad allora non esisterà più in Italia il diritto di morire in pace.

martedì 23 settembre 2008

SALVIAMO IL SAN GIACOMO

Salviamo il San Giacomo
Mercoledì 24 settembre alle ore 20 si terrà un concerto con il maestro Uto Ughi e il maestro Stelvio Cipriani presso la Chiesa di Santa Maria del Popolo, Porta del Popolo (Roma).

sabato 20 settembre 2008

Cassazione e trasfusione

La sentenza n. 23676 della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, relativa al caso di un Testimone di Geova cui era stata praticata una trasfusione contro la sua volontà, sta facendo discutere. Da alcune parti si è messa in rilievo una presunta contraddizione con la sentenza emessa l’anno scorso dalla Suprema Corte sul caso di Eluana Englaro; anche se la sentenza odierna non ha ovviamente nessuna conseguenza giuridica per quella vicenda, essa rappresenterebbe una «correzione» dei principi usati per giustificare la sospensione dell’alimentazione della giovane. Cerchiamo di capirci insieme qualcosa.

Il caso
Nel gennaio del 1990 Mirco G. viene ricoverato in gravi condizioni all’Ospedale di Pordenone. L’uomo ha urgente bisogno di trasfusioni di sangue, ma è Testimone di Geova; non può esprimere il proprio rifiuto a essere sottoposto al trattamento, perché è privo di coscienza (o comunque in stato di semi-coscienza), ma proprio in previsione di questa eventualità reca con sé un cartellino con la scritta «Niente sangue», firmato da lui e controfirmato da testimoni.
I sanitari però decidono di procedere ugualmente alle trasfusioni, nonostante le proteste dei parenti di Mirco. Questo, una volta fuori pericolo, adisce le vie legali per la rifusione dei danni morali (e materiali, perché nel frattempo ha contratto l’epatite B, quasi certamente in seguito alle trasfusioni). Nel 2002 il tribunale gli dà ragione, ma l’anno dopo la Corte d’Appello rovescia la sentenza. Adesso la Cassazione chiude la vicenda riconoscendo i danni materiali ma non quelli morali.

La sentenza
Va detto subito che la Corte riconosce il diritto del paziente a non curarsi, anche a rischio della vita (p. 11), confermando quello che è ormai l’orientamento consolidato della giurisprudenza:
il conflitto tra [i] due beni – entrambi costituzionalmente tutelati – della salute e della libertà di coscienza non può essere risolto sic et simpliciter a favore del primo, sicché ogni ipotesi di emotrasfusione obbligatoria diverrebbe per ciò solo illegittima perché in violazione delle norme costituzionali sulla libertà di coscienza e della incoercibilità dei trattamenti sanitari individuali (così, un rifiuto “autentico” della emotrasfusione da parte del Testimone di Geova capace – avendo, in base al principio personalistico, ogni individuo il diritto di scegliere tra salvezza del corpo e salvezza dell’anima – esclude che qualsiasi autorità statuale – legislativa, amministrativa, giudiziaria – possa imporre tale trattamento: il medico deve fermarsi).
Principi, come si vede, del tutto condivisibili; al massimo si potrebbe discutere su qualche sfumatura. Ma allora perché la sentenza negativa?
Ciò che la Corte mette in dubbio è la validità del «non consenso» nelle forme espresse dal paziente (pp. 11-12):
È convincimento del collegio […] che, nell’ipotesi di pericolo grave ed immediato per la vita del paziente, il dissenso del medesimo debba essere oggetto di manifestazione espressa, inequivoca, attuale, informata.
Esso deve, cioè, esprimere una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata; un’intenzione non meramente programmatica ma affatto specifica; una cognizione dei fatti non soltanto “ideologica”, ma frutto di informazioni specifiche in ordine alla propria situazione sanitaria; un giudizio e non una “precomprensione”: in definitiva, un dissenso che segua e non preceda l’informazione avente ad oggetto la rappresentazione di un pericolo di vita imminente e non altrimenti evitabile, un dissenso che suoni attuale e non preventivo, un rifiuto ex post e non ex ante, in mancanza di qualsivoglia consapevolezza della gravità attuale delle proprie condizioni di salute.
A prima vista il dettato leggermente verboso della sentenza sembrerebbero doversi sintetizzare così: si può opporre un rifiuto a un trattamento medico solo dal momento in cui insorge la patologia o sopravviene lo stato morboso che quel trattamento ha lo scopo di curare. Ma aspettiamo di arrivare in fondo: ci attende una sorpresa.

Le motivazioni
Le condizioni, come si vede, sono – almeno in apparenza – fortemente restrittive; come le giustifica il collegio giudicante? Piuttosto sorprendentemente, la parte giustificativa occupa due pagine scarse della sentenza (pp. 12-13):
E ciò perché, a fronte di un sibillino sintagma “niente sangue” vergato su un cartellino, sul medico curante graverebbe in definitiva il compito (invero insostenibile) di ricostruire sul piano della causalità ipotetica la reale volontà del paziente secondo un giudizio prognostico ex ante, e di presumere induttivamente la reale “resistenza” delle sue convinzioni religiose a fronte dell’improvviso, repentino, non altrimenti evitabile insorgere di un reale pericolo di vita, scongiurabile soltanto con una trasfusione di sangue.
Di talché, come la validità di un consenso preventivo ad un trattamento sanitario non appare in alcun modo legittimamente predicabile in assenza della doverosa, completa, analitica informazione sul trattamento stesso, così la efficacia di uno speculare dissenso ex ante, privo di qualsiasi informazione medico-terapeutica, deve ritenersi altrettanto impredicabile, sia in astratto che in concreto, qualora il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo scientemente, e ciò perché altra è l’espressione di un generico dissenso ad un trattamento in condizioni di piena salute, altro è riaffermarlo puntualmente in una situazione di pericolo di vita.
Al di là della coltre un po’ spessa del giuridichese l’argomento reitera soltanto, senza dimostrarla, la tesi su esposta, che altro non è che uno degli argomenti cari al paternalismo medico più frusto: nessun paziente è in grado di rappresentarsi correttamente in anticipo una situazione di pericolo di vita, e quindi è necessario che qualcuno decida al posto suo. Tesi ovviamente da rigettare: il paziente in stato di incoscienza non può, per definizione, formarsi una volontà più ‘attuale’ rispetto a quella espressa in condizioni di relativa salute, che possa prendere il posto di quest’ultima; la migliore approssimazione del suo volere rimane dunque quella precedentemente formulata, che – se prendiamo sul serio il rispetto della libertà – deve essere rispettata senza condizioni. Per fare un paragone, sarebbe altrimenti come se rifiutassimo di eseguire le ultime volontà di un defunto perché da vivo non poteva rappresentarsi realisticamente la sua condizione di morto...

Una incredibile contraddizione
A questo punto potremmo chiudere l’argomento, riflettendo magari mestamente sulla contraddizione fra il rispetto proclamato per i principi costituzionali e la loro mancata applicazione nella pratica; ma la sentenza non finisce qui. Come anticipavo ci attende una sorpresa, che quanto letto fin qui rende a dir poco clamorosa.
Proseguono infatti inopinatamente i giudici (pp. 13-14):
Con ciò non si vuole, peraltro, sostenere che, in tutti i casi in cui il paziente portatore di forti convinzioni etico-religiose (come è appunto il caso dei testimoni di Geova) si trovi in stato di incoscienza, debba per ciò solo subire un trattamento terapeutico contrario alla sua fede. Ma è innegabile, in tal caso, l’esigenza che, a manifestare il dissenso al trattamento trasfusionale, sia o lo stesso paziente che rechi con sé una articolata, puntuale, espressa dichiarazione dalla quale inequivocamente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita, ovvero un diverso soggetto da lui stesso indicato quale rappresentante ad acta il quale, dimostrata l’esistenza del proprio potere rappresentativo in parte qua, confermi tale dissenso all’esito della ricevuta informazione da parte dei sanitari.
Ma questa, come il lettore avrà già capito, altro non è che la previsione del testamento biologico, delle direttive anticipate di trattamento! Cioè precisamente di quell’istituto che consente al paziente di esprimere in anticipo le proprie volontà, ben prima di trovarsi in pericolo e in stato di incoscienza. Ora, com’è mai possibile conciliare questa concessione con l’esigenza espressa poco prima nella medesima sentenza che quello del paziente sia «un dissenso che segua e non preceda l’informazione avente ad oggetto la rappresentazione di un pericolo di vita imminente e non altrimenti evitabile, un dissenso che suoni attuale e non preventivo, un rifiuto ex post e non ex ante»? La dichiarazione che il paziente reca con sé può essere «articolata, puntuale, espressa» e inequivoca quanto si vuole, ma sempre ex ante sarà, anteriore, e non ex post, posteriore, rispetto al verificarsi dello stato morboso.
Come uscire da questa contraddizione monumentale? Si potrebbe pensare che i giudici si siano espressi in modo ellittico, e che le dichiarazioni anticipate siano valide nel loro pensiero solo per chi, affetto da una patologia cronica, versi continuamente nell’imminente pericolo di una perdita di coscienza, e in previsione di questa porti con sé un apposito documento. In questo caso il dissenso suonerebbe appunto «attuale e non preventivo», e la contraddizione non ci sarebbe. Ma la sentenza, in un ultimo, sorprendente sviluppo, sembra escludere questa possibilità.
Leggiamo con attenzione: l’argomentazione è intricata ma chiara (p. 14, di seguito all’ultimo brano riportato):
Per tale ragione non sembra potersi attribuire pregio all’obiezione […] secondo la quale il cartellino recante la scritta “niente sangue” […] avrebbe la specifica funzione di indirizzare il medico verso un comportamento omissivo rispetto all’ipotesi del trattamento trasfusionale: se l’affermazione ha una sua logica e una sua coerenza con riferimento al possibile stato di incoscienza del ricoverato, essa non consente l’ulteriore inferenza che conduca a presumerne una sorta di implicita efficacia tout court, estesa, cioè, anche all’ipotesi del concreto pericolo di vita che il paziente stesso si troverebbe a correre in assenza di trasfusione, mentre è proprio con riferimento a questa specifica evenienza che – va ripetuto – il (non) consenso deve manifestarsi nella sua più ampia, espressa, consapevole, inequivoca forma.
In sintesi, ciò che qui si sta dicendo è che nel caso in esame il cartellino che il paziente recava con sé avrebbe avuto valore di dichiarazione anticipata se fosse stato più esplicito, se avesse cioè specificato «niente sangue neppure se necessario a salvare la vita». Ma Mirco G. non era affetto da patologia cronica: è stato infatti vittima di un incidente stradale; la contraddizione quindi rimane.
A ben vedere, in quest’ultimo brano i giudici stanno dando una motivazione alternativa (e parzialmente contraddittoria) del verdetto: se più su il cartellino del paziente non era valido perché nessuno può sapere in anticipo cosa penserà e cosa deciderà in stato di pericolo di vita, qui invece non è valido solo perché non sufficientemente esplicito. Motivazione a sua volta criticabile, perché non si capisce davvero a cosa sarebbe servita una dichiarazione più lunga, stanti la ben nota opposizione dei Testimoni di Geova alle trasfusioni e l’appartenenza (che niente fa ritenere ignota ai medici) dell’uomo a questa confessione.

Una possibile spiegazione
Non sono un giurista; è quindi del tutto possibile che mi sfugga qualche sottigliezza giuridica che dia conto della contraddizione. Da profano, l’unica spiegazione che mi viene in mente è che in seno al collegio giudicante si siano manifestate posizioni differenti e inconciliabili. In particolare mi pare possibile che almeno alcuni giudici si siano ritratti di fronte alle conseguenze «politicamente sensibili» della prima argomentazione presentata, che ovviamente escluderebbe di per sé la possibilità giuridica del testamento biologico; ma che non abbiano avuto la forza di sostituire il proprio argomento, ma solo di giustapporlo all’altro (forse temendo che da solo avrebbe avuto forza insufficiente a giustificare il verdetto?). Lascio ai competenti di giudicare della fondatezza di questo sospetto; certo che se fosse vero, questo comportamento non sarebbe il genere di cose che uno si aspetta di trovare riflesse in una sentenza della Suprema Corte.

La sentenza e il caso Englaro
È difficile operare un paragone fra una sentenza così contraddittoria e quella – infinitamente più coerente e meglio argomentata – del caso Englaro. Se proprio ci si vuole cimentare, il motivo comune va ravvisato in ciò che si dice qui a proposito del fiduciario del paziente incapacitato, cioè del «diverso soggetto da lui stesso indicato quale rappresentante ad acta il quale, dimostrata l’esistenza del proprio potere rappresentativo in parte qua, confermi tale dissenso all’esito della ricevuta informazione da parte dei sanitari», che richiama ovviamente la figura di Beppino Englaro, a cui la Corte ha affidato la decisione di sospendere le cure a cui è sottoposta Eluana.
Alcuni hanno subito cercato di mettere in rilievo una presunta maggiore severità della sentenza che stiamo esaminando, visto che qui il fiduciario del malato è «da lui stesso indicato quale rappresentante», mentre nel caso Englaro – si sostiene – non c’era stata nessuna designazione. Ma è facilissimo ribaltare l’argomento: mentre infatti nel caso Englaro era stata imposta la condizione di accertare l’autentica volontà del paziente sulla base di testimonianze verificate con cura, nulla di simile è previsto nella sentenza in esame – né del resto sarebbe possibile, visto che le considerazioni dei giudici si applicano in primo luogo al caso di trasfusioni di sangue da eseguire con urgenza. Qui il fiduciario deve solo dimostrare «l’esistenza del proprio potere rappresentativo», dopo di che non gli rimane che «confermare» verbalmente ai medici il dissenso del paziente a ricevere le cure.
L’onere della prova appare dunque nel complesso minore di quello richiesto nel caso Englaro; eppure è assolutamente evidente l’assoluta sproporzione dei beni in gioco: mentre nel caso del paziente in stato vegetativo si tratta semplicemente del proseguimento o meno di una vita meramente biologica, nel caso del trasfuso è in gioco la ripresa di una vita assolutamente normale e piena.
Non meriterebbero invece risposta quanti hanno sostenuto che direttive anticipate si applicherebbero unicamente al «paziente portatore di forti convinzioni etico-religiose», secondo quanto sembra dire la sentenza: si tratterebbe di una restrizione di assoluta, palmare incostituzionalità (art. 3 Cost.).

Decisamente, sarebbe stato meglio non affrettarsi a trarre lezioni da questa sentenza. Ma quando difettano le buone ragioni, le cattive sembrano improvvisamente ottime.

venerdì 19 settembre 2008

Palinodia al Foglio

Abbiamo visto qualche giorno fa come sia stata trattata dal Foglio la notizia della presunta presa di posizione della Royal Society a favore dell’insegnamento del creazionismo nelle scuole. Ieri il quotidiano di Giuliano Ferrara è tornato sull’argomento, ma per fare marcia indietro. Cosa del resto inevitabile, vista la fanfara con cui era stata proclamata la «svolta», e il nettissimo comunicato di smentita della Royal Society («Contrordine Royal Society, la porta si richiude in faccia al creazionismo», 18 settembre 2008, p. 2).
La marcia indietro, comunque, è radicale: «Svanisce sul nascere il presunto idillio»; «mentre girava voce che Reiss rappresentasse le idee del presidente della Royal Society» (corsivi miei). Considerando il tenore del primo articolo, questa è la cosa più vicina a una ritrattazione che io abbia mai visto fare al Foglio. Addirittura in un punto si dice «Facendo un rapido corto circuito tra le affermazioni di Reiss e la posizione della Royal Society i giornali si sono tuffati a pesce nel mare delle nozze tra scienza e fede»: un autoritratto, in pratica – se non fosse alla terza persona...
Notevole pure che venga adesso citata una dichiarazione di Michael Reiss omessa in precedenza, anche se si trovava nella fonte utilizzata per confezionare il primo articolo («Il fatto che il creazionismo non abbia una base scientifica non mi pare una ragione sufficiente per ometterlo dai corsi»); avevo segnalato questa ed altre curiose dimenticanze nel mio post, ma non mi illudo che al Foglio leggano Bioetica...
Naturalmente l’articolo non è firmato questa volta dal povero «gm», che salta un giro e cede il posto a Marina Valensise. Mica potevano chiedergli l’autocritica; e poi non si sa mai cosa poteva combinare, anche stavolta...

Sempre più single, sempre più giovani

Un interessante articolo del Guardian (Viv Groskop, «“I wanted a child more than a man”», 17 settembre 2008) ci informa del numero crescente di donne single eterosessuali che nel Regno Unito ricorrono all’inseminazione artificiale per concepire un figlio; cosa più importante, la loro età media è inoltre in diminuzione: mentre questa scelta era tipica in precedenza delle quarantenni, è adesso sempre più diffusa fra le donne attorno alla trentina. È chiaro che ha qui un ruolo l’accresciuta consapevolezza della diminuzione della fertilità dopo i 35 anni. La tendenza non è esclusiva del Regno Unito: conosco personalmente donne che hanno fatto ricorso a questa possibilità o che la hanno considerata seriamente.
Se per ora le madri single sono donne che per qualche motivo hanno avuto difficoltà a trovare un partner adatto e nelle quali il desiderio di avere un figlio è particolarmente forte, c’è da chiedersi se non stiamo assistendo all’inizio di una tendenza a larga scala. Esiste una discrepanza sempre più netta fra la durata tipica di una relazione sentimentale e il tempo – che si misura in decadi – che deve essere dedicato a un figlio; è possibile che questo porti sempre di più alla considerazione della maternità come un rapporto esclusivamente madre/figlio, ora che l’emancipazione economica delle donne è una condizione sempre più normale e lo stigma sociale che accompagnava in passato le madri singole è in via di sparizione? Esistono problemi, ovviamente, come il maggiore impegno (alleviato eventualmente da reti di amici e parenti) e la difficoltà a trovare partner per chi ha già un figlio; ma la tendenza sembra quella.

giovedì 18 settembre 2008

Senatore dica lei dove stanno i Pirenei

Sembra che John McCain ignori chi sia José Luis Rodríguez Zapatero, e/o pensi che la Spagna si trovi in America Latina. Questo è quanto si deduce da un’intervista a Radio Caracol Miami del 17 settembre: l’intervistatrice chiede dapprima a McCain se prevede, una volta entrato alla Casa Bianca, di incontrare il presidente [sic] spagnolo, Zapatero; il senatore non risponde direttamente, ma attacca a parlare in modo generico dei leader latino-americani. L’intervistatrice chiede di nuovo – due volte – di Zapatero, e McCain continua a parlare dell’America Latina; finalmente l’intervistatrice capisce che qualcosa non va, e sbotta: «Ok, ma riguardo all’Europa? Io sto parlando del presidente spagnolo». McCain a questo punto vive un attimo di totale confusione, e alla fine se la cava dando di nuovo una risposta generica.

Queste comunque potrebbero non essere necessariamente cattive notizie per Zapatero: qualora sotto l’impulso della destra fondamentalista e cattolica McCain decidesse da presidente di bombardare la Spagna (notoriamente covo di pericolosi senzadio), gli spagnoli avrebbero il tempo di prepararsi, mentre alla Casa Bianca tentano invano di trovare il loro paese alla pagina sbagliata dell’atlante...

Aggiornamento 20:50: Randy Scheunemann, consigliere di McCain per gli affari esteri, sostiene in un’email al Washington Post che McCain aveva capito benissimo a chi si riferiva l’intervistatrice, ma che semplicemente «si è rifiutato di impegnarsi a tenere un incontro alla Casa Bianca con il Presidente [e dàgli!] Zapatero» («Senator McCain refused to commit to a White House meeting with President Zapatero»). Qualcuno ha fatto notare la stranezza di una politica del genere nei confronti di un paese alleato (anche se è noto il risentimento dei neocon nei confronti della Spagna per il ritiro dall’Iraq); nonché la stranezza di un consigliere per gli affari esteri che non sa che la Spagna è una monarchia...

mercoledì 17 settembre 2008

Effetti inaspettati del ddl di Mara Carfagna

Ddl Carfagna
Il mio armadio sarà più spazioso.
Il cambio di stagione sarà infatti eseguito con criteri più rigorosi: butto via qualsivoglia capo che possa sembrare indecoroso o equivoco.

Pandora TV: scopriamola

Lidia RaveraIl 15 settembre si è svolta a Roma la conferenza stampa per la presentazione di Pandora Tv. Presso la Sala della Stampa Estera è stato proiettato il documentario promozionale “Pandora. Appello per un’informazione libera”, che è possibile rivedere sul sito di Pandora Tv (www.pandoratv.it).
Che cos’è Pandora? “Uno spazio di informazione e di approfondimento giornalistico che sarà trasmesso su reti satellitari, analogiche e sul web”. Pandora vuole offrire una informazione libera e pluralista, vuole cercare di raddrizzare il “mondo alla rovescia” del giornalismo italiano, come lo ha definito il direttore Udo Gümpel.
E per far questo rifiuta padroni e committenti, e cerca il finanziamento direttamente dai suoi potenziali fruitori: i cittadini.
Tramite una quota di 100 o 250 euro ogni cittadino può contribuire a finanziare Pandora, e contemporaneamente riprendersi la propria voce. Pandora vuole dare voce a chi non ce l’ha – si legge nella presentazione.
Già 3.500 cittadini hanno aderito all’iniziativa e si sono costituiti gruppi locali per sostenere la nascita di Pandora.
Tra i primi firmatari dell’appello per una libera informazione, lanciato a marzo dall’Associazione Megachip, ci sono Giulietto Chiesa, Lucio Barletta, don Aldo Benevelli, Anna Maria Bianchi, Caparezza, don Andrea Gallo, Giuliano Giuliani, Gianni Minà, Diego Novelli, Moni Ovadia, Riccardo Petrella, Carlo Petrini, Franco Proietti, Lidia Ravera, Ennio Remondino, David Riondino, Francesco Sylos Labini, Antonio Tabucchi, Gianni Vattimo, Vauro, Elio Veltri, Dario Vergassola (la lista completa è sul sito di Pandora).
Per aderire e sottoscrivere l’appello basta registrarsi; in questo modo ci si iscriverà anche alla mailing list cui verranno inviate informazioni riguardo alle iniziative e agli appuntamenti.

Il mezzo scelto, la tv, è quasi d’obbligo per cercare di contrastare i due colossi nostrani: Mediaset e Rai. Sopprattutto tenendo conto del fatto che “30 milioni di italiani non comprano giornali né libri. Da dove ricavano la loro informazione, quella con cui vanno a votare?”, (si) domanda Giulietto Chiesa all’inizio del documentario promozionale. Se non si combatte con le stesse armi la battaglia per una informazione davvero tale è impossibile da avviare.
La libertà dell’informazione italiana è fatalmente compromessa dagli interessi di bottega e da quelli politici – che spesso coincidono. E il pluralismo è troppo spesso soltanto una parola svuotata di contenuto. O, come disegna Vauro, significa soltanto ripetere la stessa cosa in modi (e su canali) diversi.
Pandora intende raccontare la realtà, come ha commentato Lidia Ravera. Chi è interessato ad ascoltare una voce non imbavagliata e non stravolta dalla ossessiva attenzione al “non dare fastidio” può contribuire a finanziare Pandora.

(AgoraVox Italia, 17 settembre 2008)

lunedì 15 settembre 2008

Al Carrefour di Assago

Al Carrefour di Assago i bulli che maltrattano i vostri bambini sono maturi signori.

domenica 14 settembre 2008

La Royal Society e i creazionisti

Già il titolo ti procura un tuffo al cuore: «Scandalosa Royal Society, la casa di Darwin apre al creazionismo». Il testo dell’articolo, poi, ti lascia costernato:
La notizia è in grado di far crollare il falso clivage evoluzione/creazione. La Royal Society, il tempio della scienza fondato nel 1660, la crème de la crème della filosofia positivista anglosassone, apre al creazionismo e alla teoria del disegno intelligente e chiede d’inserire questa “visione del mondo” nei curricula scolastici inglesi, in quanto “legittimo punto di vista”. Michael Reiss, religioso e biologo all’Università di Londra nonché pezzo da novanta dell’istituzione in campo educativo, durante il festival della scienza a Liverpool ha esposto la nuova rivoluzionaria posizione ufficiale dell’istituzione. Immediate le reazioni di gran parte della comunità scientifica anglosassone. “Il creazionismo è basato sulla fede e non ha niente a che vedere con la scienza”, è il commento di Lewis Wolpert della College Medical School, mentre il biologo di fama John Fry afferma che “il creazionismo deve essere discusso come posizione alternativa sulle origini dell’uomo”.
[…] Ieri l’Accademia ha precisato che il pensiero di Reiss rappresenta quello del presidente, Lord Rees di Ludlow, e dei ventuno Nobel affiliati alla Royal Society.
A questo punto ti chiedi sgomento come una istituzione così venerabile possa cadere così in basso; e stai per passare a qualche amara considerazione sulla decadenza dei tempi, quando ti sovviene un dubbio. Su che giornale è apparsa la notizia? Sul Foglio (13 settembre, p. 2). E chi è l’autore del pezzo? La firma è «gm», che starà, quasi certamente, per Giulio Meotti. Ah, ti dici. Forse la Royal Society non è ancora perduta.

Cominciamo con l’identificare la fonte della notizia. Sono diversi i quotidiani britannici che l’hanno riportata, ma sembra che il Foglio si sia basato essenzialmente sul Times: il commento “il creazionismo deve essere discusso come posizione alternativa sulle origini dell’uomo” si ritrova in questa forma unicamente – secondo Google News – nell’articolo di Lewis Smith e Alexandra Frean, «Leading scientist urges teaching of creationism in schools», pubblicato il 12 settembre, un giorno prima di quello del Foglio. Ed è proprio con la frase citata che cominciano i guai: non tanto perché a pronunciarla non è stato John Fry ma John Bryant – questi sono errori che capitano – ma perché il nostro «gm» non l’ha riportata per intero. Subito dopo Bryant aggiunge infatti: «However, I think we should not present creationism as having the same status as evolution» («Tuttavia, penso che non dovremmo presentare il creazionismo come se avesse lo stesso status dell’evoluzione»).
L’omissione dà l’idea del metodo all’opera, ma non è, di per sé, gravissima; molto grave è invece una seconda omissione. Subito dopo aver riportato il sostegno della Royal Society a Reiss, che leggiamo anche nel Foglio, il Times prosegue infatti con le parole testuali del portavoce della Società:
«Teachers need to be in a position to be able to discuss science theories and explain why evolution is a sound scientific theory and why creationism isn’t».
(«Gli insegnanti devono trovarsi nella posizione di poter discutere teorie scientifiche e spiegare perché l’evoluzione è una teoria scientifica fondata mentre il creazionismo non lo è»; corsivi miei.)
Non stupisce di non trovare traccia di queste parole nell’articolo italiano, visto che ne minano alla base l’assunto: la Royal Society non sta in nessun modo avallando la credibilità scientifica del creazionismo.

Le colpe, bisogna ammetterlo, non sono tutte del disinvolto «gm». Anche il Times, a leggere bene, risulta alquanto contraddittorio: da un lato apre il pezzo scrivendo «Creationism should be taught in science classes as a legitimate point of view, according to the Royal Society» («Il creazionismo dovrebbe venire insegnato nelle ore di educazione scientifica come un legittimo punto di vista, secondo la Royal Society»), dall’altro riporta questa dichiarazione dello stesso Reiss: «Just because something lacks scientific support doesn’t seem to me a sufficient reason to omit it from a science lesson» («Solo perché qualcosa manca di prove scientifiche non mi sembra una buona ragione per ometterla da una lezione di scienze»; corsivi miei). Si noti però il contributo creativo di «gm» ad intorbidare le acque: «legittimo punto di vista» riceve nel suo articolo le virgolette, come se rappresentasse una citazione diretta della Royal Society, mentre in realtà è una frase solo del Times; dell’ultimo giudizio di Reiss non c’è ovviamente traccia, mentre più avanti nell’articolo sul Foglio, in una parte che non ho riportato, «gm» ne cita uno in cui lo studioso sembrerebbe dire l’opposto:
«Alcuni insegnanti di scienza pensano che il creazionismo e il disegno intelligente sono scientificamente invalidi e questo significa che chiunque li sostenga è un tantino stupido».
Qui la manipolazione raggiunge vette virtuosistiche. L’originale si trova sul Telegraph, sempre del 12 settembre (Aislinn Simpson e Richard Gray, «Creationism should be taught in science classes, says expert»):
«some science teachers think that because creationism and intelligent design are scientifically invalid, that means anybody holding them is being a bit stupid».
(«Alcuni insegnanti di scienze pensano che dato che il creazionismo e il disegno intelligente sono scientificamente invalidi, questo significa che chiunque li sostenga è un tantino stupido».)
Basta togliere un «dato che» e aggiungere un «e» per far dire a Michael Reiss una cosa un po’ diversa da quella che ha effettivamente detta...

Al di là delle falsificazioni con cui è stato presentato in quest’occasione, l’intervento di Reiss si prestava in effetti ad essere male interpretato, e infatti ha sollevato aspre polemiche anche in Gran Bretagna. Il 12 settembre – troppo tardi perché al Foglio ne prendessero contezza? – la Royal Society ha dunque emesso un comunicato stampa in cui fa giustizia delle interpretazioni errate e/o interessate delle sue posizioni:
The Royal Society is opposed to creationism being taught as science. Some media reports have misrepresented the views of Professor Michael Reiss, Director of Education at the Society expressed in a speech yesterday.
Professor Reiss has issued the following clarification. “Some of my comments about the teaching of creationism have been misinterpreted as suggesting that creationism should be taught in science classes. Creationism has no scientific basis. However, when young people ask questions about creationism in science classes, teachers need to be able to explain to them why evolution and the Big Bang are scientific theories but they should also take the time to explain how science works and why creationism has no scientific basis. I have referred to science teachers discussing creationism as a ‘worldview’; this is not the same as lending it any scientific credibility.”
The society remains committed to the teaching of evolution as the best explanation for the history of life on earth. This position was highlighted in the Interacademy Panel statement on the teaching of evolution issued in June 2006.
L’onore della Royal Society è salvo; quello di certi giornalisti italiani è affondato da tempo senza speranza.

Aggiornamento 16/9: Michael Reiss si è dimesso:
Some of Professor Michael Reiss’s recent comments, on the issue of creationism in schools, while speaking as the Royal Society’s Director of Education, were open to misinterpretation. While it was not his intention, this has led to damage to the Society’s reputation. As a result, Professor Reiss and the Royal Society have agreed that, in the best interests of the Society, he will step down immediately as Director of Education a part time post he held on secondment. He is to return, full time, to his position as Professor of Science Education at the Institute of Education.
The Royal Society’s position is that creationism has no scientific basis and should not be part of the science curriculum. However, if a young person raises creationism in a science class, teachers should be in a position to explain why evolution is a sound scientific theory and why creationism is not, in any way, scientific.
Mi chiedo se queste dimissioni siano una scelta saggia. L’intenzione di Reiss era chiara e nel complesso condivisibile – anche se se ne poteva discutere. Ora si corre il rischio che diventi un martire nel fervido immaginario creazionista...

Aggiornamento 19/9: Il Foglio fa marcia indietro...

venerdì 12 settembre 2008

Da incorniciare

Alex Tabarrok, «Why Libertarians Should Vote for Obama», Marginal Revolution, 9 settembre 2008:
Ricorda: se un partito politico può contare su di te, allora tu non puoi contare su di esso.
(Remember that if a political party can count on you then you cannot count on it.)
(Hat-tip: Phastidio)

giovedì 11 settembre 2008

Il ritorno del Papabanner

... dopo i noti avvenimenti, in uno spazio tutto suo, Papabanner’s Home. Come dice l’autore, Il Burbero Scontroso alias Rizar:
Non mi va di piegarmi ai metodi intimidatori di chi pensa che dall’alto della propria forza può minacciarti per farti tacere, senza passare per le vie legali che molto probabilmente gli darebbero torto marcio.
Ci vorrebbero dieci, cento, mille Rizar.

Differenze

Tra quella di strada e quella di altobordo ne’?

Leggenda metropolitana

Almeno un caso c’è stato, e non è solo una leggenda metropolitana! Ovviamente è stato poco divulgato perché altrimenti di che complotto staremmo parlando?
La storia è questa: un piccolo gruppo di turisti sbruffoni e viziati provenienti dal bel mondo ha un incidente. Il loro autobus rattoppato che dovrebbe portarli in giro per il Brasile li molla per strada.
Dopo la prima reazione di sconforto e di accuse reciproche sulla scelta del mezzo, i ragazzi scoprono una spiaggia paradisiaca e si consolano bevendo e (s)ballando(si) per tutta la notte.
Il risveglio è brutale: derubati, drogati, soli. Si ritrovano preda di uno psicovendicatore che toglie loro gli organi per donarli agli indigeni poveri e sfruttati. Per chi vuole saperne di più.
(Che Ida Magli abbia scambiato Sky Cinema per il canale del National Geographic??).

Una giornata con Eluana

Per chi ancora non l’avesse letto: Piero Colaprico, «Un giorno nella stanza di Eluana» (La Repubblica, 10 settembre 2008, p. 1). Eccolo tutto. Per sapere di che cosa stiamo parlando.
Eluana Englaro oggi ha i capelli corti. Dire che se ne sta a letto è già un mezzo inganno, perché, quando la si vede, quando la si osserva, si percepisce qualcosa che potrebbe essere anche la forza di gravità: qualcosa che non la lascia semplicemente adagiata tra le lenzuola, ma sembra risucchiarla giù, verso un altro luogo, mentre la ragazza, inerme in tutto, non può opporsi. Gli occhi, che nelle foto pubblicate dai giornali, sono spesso ironici e lucenti, colpiscono.
Sono strabici, perché questa forza oscura e le ferite cerebrali hanno vinto i muscoli, ormai appannati. Anche le giunture sono anchilosate, lo si vede dai polsi che escono dalla camicia da notte candida. Diteci com’è Eluana oggi, perché fate vedere le sue vecchie foto e non mostrate com’è adesso? Sono richieste anche legittime, quelle dei lettori nei blog e nei forum (non tutte, certo, perché in qualcuno si percepisce una curiosità che sconfina in un territorio meno nobile). Ma Eluana non è speciale. Se frequenti gli ospedali, sai che appartiene a una nuova umanità disgraziata, che si sta moltiplicando grazie ai progressi della medicina, quella degli esseri umani in stato vegetativo.
Solo in Italia sono circa tremila persone e in qualche modo si assomigliano tutti: alternano momenti di veglia (stanno con gli occhi aperti) a momenti di sonno (stanno con gli occhi chiusi), emettono suoni, gemiti, sospiri senza alcuna attinenza con quanto accade intorno al loro capezzale. I neurologi sostengono che non esiste alcuna possibilità di entrare in contatto con loro, perché non reagiscono in maniera intelligente. Possono avere un soprassalto se c’è un rumore, o una smorfia se si fa loro del male, si tratta però di riflessi. Respirano da soli. Ma se su quegli occhi aperti si avvicina la punta di una matita, restano aperti: nessuna minaccia li muove o li chiude. Perciò la giornata di Eluana, intesa come giornata, non esiste: esiste il non-mondo di Eluana.
Oggi questa donna di 36 anni sta al secondo piano della clinica, in una stanza da sola, dove siamo entrati anche noi. Non raramente è in penombra, con suor Rosangela quasi sempre accanto a lei. Lo fa dal 7 aprile del 1994. Prima, per quasi due anni, Eluana, finita fuoristrada con l’auto, spedita d’urgenza in rianimazione, a poco più di vent’anni – tanti ne aveva... – era stata ricoverata nel reparto di lungodegenza riabilitativa dell’ospedale di Sondrio. Risultati della rianimazione? Deprimenti. Ma «faremo il possibile», aveva promesso il primario di Sondrio.
Le hanno in effetti tentate tutte. Anche in questo caso, miglioramenti pari allo zero. Un giorno una compagna di scuola di Eluana è andata a trovarla proprio mentre la spostavano dal letto, usando un paranco: «Come se fosse un sacco di patate, lei che non voleva farsi mettere le mani addosso da nessuno...». Lo shock è stato tale da tenere questa ragazza lontana dall’ospedale per un bel po’.
Ogni briciola di quella speranza invocata qualche settimana fa in una lettera fraterna anche dal cardinal Tettamanzi è sparita in fretta. E non da sola. Anche la mamma di Eluana, restando accanto alla figlia, «si è consumata». Non compare mai, nelle interviste o in pubblico, perché si è ammalata di cancro e sta malissimo. Papà Beppino le fa da scudo, come fa da scudo alla figlia. I medici gli avevano suggerito: «Pensa alla tua vita, per Eluana non puoi fare più nulla, ci pensiamo noi». Ma questi Englaro, a dispetto di tutto, erano e sono una famiglia unita: e il papà non ha mai mollato per pensare a sé stesso, perché «Eluana intendeva la vita come libertà di vivere, tra noi c’era come un patto di rispetto reciproco delle nostre volontà». Parlando della figlia, l’ha definita «un cristallo». I pezzi di quel cristallo, i cocci della fragilità di una creatura, forse potranno avere sepoltura grazie a un tribunale, o forse no.
Al momento, accanto alla ragazza in questo stato «da 6082 giorni, 16 anni sette mesi e ventitré giorni», come scandisce il papà, ci sono i peluche, le sue foto al mare e sugli sci, i cassetti sono colmi di quegli abiti, di quella biancheria che la mamma esausta e piangente ha continuato a comprare, perché voleva che la figlia, bella, fosse bellissima. La sua bellezza ancora traspare, una bellezza di porcellana, dove qualcuno scorge il soffio della vita, e qualcuno no: ne intravede solo il diafano ricordo, un fantasma traslucido. Ma d’altra parte, gli stessi medici, al papà che chiedeva lumi, non avevano risposto: «Non abbiamo risposte, non abbiamo soluzioni»? Sua figlia, gli avevano detto, è una «non-morta, con gravi handicap».
Tutti, compresa e forse soprattutto la suora, e anche il professor Carlo Defanti, il neurologo che si è detto disponibile a staccare il sondino di questa sua paziente, hanno spiato la quotidianità di questa «non-morta». Mai un cenno, mai hanno percepito uno sguardo, mai una sensazione che qualche cosa della sua volontà, della sua energia sprizzasse all’esterno del guscio della pelle. E così non restano da fare che alcune cose pratiche. C’è stato chi, nelle polemiche venate di crudeltà che caratterizzano questa vicenda umana, clinica e giuridica, si è spinto sino a dire che Eluana fa anche ginnastica. La situazione è, in sintesi, questa.
Ogni pomeriggio alle 17 una sacca beige, con dentro un «pappone», un composto di nutrimenti e medicine, viene pompato, attraverso il sondino nasogastrico, direttamente nello stomaco di Eluana, che ha perso la capacità di deglutire, non potrebbe cioè essere imboccata. Questo pasto dura dodici ore. Poi viene sostituito dalla sacca dell’acqua, per l’idratazione. Per evitare le piaghe – e non se n’è mai formata una, tanto è efficiente l’amore di suor Rosangela – Eluana viene spostata dal letto.
E qua non c’è il paranco, come nell’ospedale, e non ci sono infermieri che protestano per la fatica: questa religiosa con spalle da artigliere l’abbranca, circonda con le sue forme e la sua forza quel fragile essere dalla testa ciondolante, mette Eluana a sedere sulla carrozzella, per un paio d’ore circa. Quando non ci sono giornalisti e fotografi (sarebbe vietato fotografare e pubblicare chi è incapace di intendere e volere, ma non si sa mai), la trasporta nel piccolo giardino, con panchine di pietra e fiori profumati. Comunque, Eluana va sorvegliata a vista, perché se non è imbracata, può cadere in avanti.
Poi c’è la fisioterapia passiva, cioè «le mani altrui», un concetto che per Eluana equivaleva a una violenza, la toccano, la muovono, danno tono per quel che si può ai muscoli inerti come gomma. Succede anche tre volte al giorno, il tempo deve passare, le cure si devono eseguire. Ed è così che «la mamma si è consumata come una candela accanto alla figlia», lamentandosi perché «non l’hanno lasciata morire». Lo stesso papà Beppino, vincendo il pudore che tante volte lo frena, una volta ha detto al cronista che «Sati è morta dentro quando è morta Eluana, e poi è sopravvissuta a se stessa, distruggendosi».
Eluana, nel letto, senza fame, senza sete, senza riconoscenza, senza affetto (lo affermano i neurologi) resta ignara di questa battaglia e di questi dolori dei suoi amatissimi genitori, e pure dei tanti pensieri e delle emozioni che causa la sua tragedia. Il papà, invece, convinto, forse anche da socialista vecchia maniera, che «la sola libertà è dentro la società» non ha accettato quel concetto di «portatela a casa, la facciamo morire di nascosto». Ancora ieri ripeteva: «Da quello che si è creato clinicamente, solo clinicamente si può uscire».

mercoledì 10 settembre 2008

L’antropologa e la leggenda metropolitana

A proposito ancora dello sconcertante articolo di Ida Magli sui trapianti, Paniscus ci ricorda opportunamente («Splatter antropologico», 10 settembre 2008) come quello che l’antropologa descrive in modo apocalittico come il «crimine più infame che l’umanità abbia mai compiuto: bambini, bambine, ragazze, rapiti e uccisi per rifornire di organi palpitanti il mercato dei trapianti», debba essere considerato, per quel che se ne sa, nient’altro che una leggenda metropolitana particolarmente difficile da estirpare. A tutt’oggi non esiste infatti un solo caso documentato di sequestro e omicidio a fini di predazione d’organi, come documenta lo studio più completo finora pubblicato sulla questione, La Légende des vols d’organes di Véronique Campion-Vincent (Paris, Les Belles Lettres, 1997).

Presentazione di Pandora


Lunedì 15 settembre alle ore 15.00 sarà presentata Pandora, approfondimento giornalistico finanziato dai cittadini, presso la Sala della Stampa Estera, via dell’Umiltà 83/c, Roma.
Pandora vuole diventare uno spazio di informazione indipendente in onda sulla TV satellitare, su reti regionali e sul web.
Pandora nasce dall’impegno di professionisti della comunicazione che si battono da sempre per la libera informazione, ma Pandora è aperta alla collaborazione di tutte le persone che hanno qualcosa da raccontare.
Pandora è il punto di partenza e di arrivo di una rete di contatti che attraversano l’Italia e che si collegano con molti angoli del mondo.
Pandora non è il megafono di qualcuno o per qualcuno, Pandora vuole dare voce a chi non ce l’ha.
Alla conferenza stampa saranno presenti: Giulietto Chiesa, Udo Gümpel, Anna Maria Bianchi, Tana De Zulueta, Claudio Fracassi, Gianni Minà, Moni Ovadia, Lidia Ravera, David Riondino, Vauro, Elio Veltri.
Per tutte le altre informazioni Pandora tv.

Olé!

Sul Foglio, commentando le notizie sull’iniziativa legislativa che dovrebbe portare all’introduzione in Spagna del suicidio assistito, un anonimo editorialista definisce quest’ultimo «la forma più chiara e brutale di eutanasia» («Faust a Madrid», 9 settembre 2008, p. 3).
Il suicidio assistito differisce dall’eutanasia attiva nel fatto che il farmaco letale non viene somministrato dal medico; questi si limita a procurarlo e ad assistere il paziente, che lo assumerà da sé. In che cosa questa sarebbe «la forma più chiara e brutale di eutanasia»? Uno si aspetterebbe magari da un critico «la forma più ipocrita»; di più chiaro e più brutale, rispetto all’eutanasia in senso proprio, non c’è nulla. Sembra proprio, quindi, che qualcuno abbia usato un paio di aggettivi a cavolo. Del resto, quando si tratta della Spagna degli ultimi anni, al Foglio reagiscono come il toro davanti al quale agitano il drappo rosso: non capiscono più niente, caricano a testa bassa, e si lasciano infilzare facilmente...

Ida Magli e l’ordine segreto ma inderogabile sui trapianti

In your eyes...
Gli esseri umani devono avere una qualche passione per l’orrido – lo scriveva Lucano nella sua Pharsalia e la televisione italiana lo conferma ora dopo ora.
Gli esseri umani, poi, hanno anche una spiccata tendenza alla negazione delle banali verità e barattano spesso l’attrazione per ciò che è ripugnante con il dovere di informarsi.
Dopo questa premessa necessaria passiamo all’argomento del giorno.
Due o tre cose che nessuno dice sui trapianti titola su Il Giornale un ignoto (a me) titolista per la riflessione di Ida Magli sui trapianti e sulla morte cerebrale (8 settembre 2008). E siccome la curiosità è un altro umano vizio è difficile resistere dal leggere per intero la rivelazione delle suddette due o tre cose.
L’incipit è degno di un thriller complottista in cui un piccolo gruppo paranoico e con deliri di onnipotenza cela alla ingenua (per non dire tonta) massa verità atroci, scempi inenarrabili. Tutto a discapito della massa ignara, spinta nell’angolo della privazione di cervello – non solo in senso metaforico.
“Nella questione dei trapianti i punti controversi sono talmente gravi e numerosi che non si finirebbe più di parlarne anche se la discussione fosse ammessa; in realtà, invece, esiste un ordine segreto ma inderogabile (sic) che vieta qualsiasi informazione sull’argomento, salvo qualche compiaciuta notizia che viene data su casi straordinari tesi a meravigliare l’opinione pubblica e a incitarla a mettere a disposizione senza remore tutti i corpi, quello proprio e quello dei familiari”.
Viene il dubbio che questa sia la prima cosa da sapere e che nessuno dice, e infatti subito dopo Magli scrive: “Questo è il primo dato sul quale bisogna riflettere: perché le istituzioni vogliono a tutti i costi incrementare la pratica dei trapianti e hanno impostato fin dall’inizio una campagna pubblicitaria indirizzata a convincere i sudditi in modo che non li sfiori neanche il minimo indizio negativo?”. L’inferenza scivola via, ma è piuttosto grave se le si dedica qualche minuto.
Ammesso anche che le istituzioni tramino nell’ombra – come in qualsiasi complotto che si rispetti – per estirpare i nostri organi da un corpo che lo Stato espropria (e perché non specificare “quando è ancora caldo e pulsante di vita” per aggiungere quel tratto pulp che non sta mai male); ammesso che si servano di una campagna pubblicitaria (dopo la spedizione del famoso cartellino donatore/non donatore e a parte qualche iniziativa a favore della donazione degli organi, le campagne pubblicitarie martellanti e ossessive sono ben altre); ammesso che ci sia un interesse economico (e un po’ pornografico nell’impadronirsi dei nostri involucri); insomma ammesso tutto questo panorama da Arlington Road la considerazione che dimostra di avere Magli verso i suoi compaesani è sconfortante. Sudditi, li chiama sudditi. Ci chiama sudditi. Non è solo un moto di orgoglio che ci fa inorridire, ma le conseguenze di tale definizione. Conseguenze che, come spesso accade nelle moderne Cassandre, non vengono messe sul piatto, ma scansate come un fastidioso ronzio logico.
Se siamo sudditi, se davvero lo siamo, allora il complotto dei trapianti ci dovrebbe far sorridere rispetto agli scenari politici che si dovrebbero delineare. O descrivere, perché se siamo sudditi è tutto già successo. Risparmiamo i soldi per le elezioni, per le discussioni, per la scuola pubblica (che abbiano già cominciato?). I sudditi non meritano tanta attenzione. Date loro un sovrano, e questo farà di loro schiavi felici. In fondo non è detto che l’insanabile contraddizione tra libertà e felicità debba essere risolta a favore della prima. No, non è proprio detto.

Il passo successivo dimostra – se ce ne fosse bisogno – che la logica è un orpello superfluo per Ida Magli: “continuano a non fare scalpore neanche oggi le notizie che pure si susseguono ogni giorno sul crimine più infame che l’umanità abbia mai compiuto: bambini, bambine, ragazze, rapiti e uccisi per rifornire di organi palpitanti il mercato dei trapianti. Per non parlare degli adulti, povere donne soprattutto, che in India vendono un rene per pochi dollari (condannandosi così a una morte precoce per l’impossibilità di sopravvivere con un solo rene alle gravidanze). Come mai nessuno inorridisce?”.
Cosa c’entra? Che cosa diavolo c’entra (sarebbe come criticare gli amori perché esistono i traditori; o meglio: come criticare la luce elettrica perché mia zia è morta di polmonite)? Dovremmo entrare nel merito della regolamentazione degli organi, ma abbiamo già abbastanza guai senza aggiungerne altri. Tra questi l’assurda affermazione che non si possa portare avanti una gravidanza con un solo rene: sarebbe bastato chiedere al proprio ginecologo. Ce l’avrà una ginecologo Ida Magli?
Qui basti sottolineare che rapire e uccidere (qualunque sia la ragione) sono azioni moralmente riprovevoli; ma che non sono una conseguenza necessaria del permettere il prelievo di organi da un essere umano morto cerebralmente e che vi abbia acconsentito.
Ed eccoci arrivati al cuore dello scandalo e all’apice del complotto – che coinvolge addirittura Karol Wojtila (perché, poi, sia lui ad essere nominato e non i medici è un mistero): la morte cerebrale.
“Perché la Chiesa, perché Karol Wojtyla ha dato il massimo impulso alla pratica dei trapianti presiedendo il Convegno organizzato appositamente al Gemelli? È stato in quella occasione che Wojtyla ha messo la parola fine a ogni discussione”.
La domanda è questa per Ida Magli: perché Wojtyla ha acconsentito (la ragione è molto prosaica, ma non è la risposta ad essere interessante; bensì la domanda di Magli). E si capisce, perché subito dopo si scopre l’effetto più grave, che poco ha a che fare con i poveri sudditi deprivati anche dei loro organi.
“Togliendo qualsiasi significato trascendente alla morte, la Chiesa ha compiuto un errore gravissimo, forse irreparabile. È sulla «morte» che sono state create le religioni, sull’al di là della morte che si fonda l’idea di Dio. Il trapianto di organi, nella sua brutale concretezza, ha tolto qualsiasi sacralità alla morte; e ha cancellato la trascendenza presente, con il suo immenso mistero, nel corpo del defunto. Ci si lamenta del «materialismo» del nostro tempo: l’utilizzazione come pezzi di ricambio dei corpi degli altri ne è la massima prova. Nessun materialismo può andare più in là di così. Né lo si camuffi con la terminologia del «dono»: il soggetto agente è quello che «ti pensa» come pezzo di ricambio, che «ti vede» come pezzo di ricambio, che ti utilizza come pezzo di ricambio”.
Su una questione non si può darle torto. Al mistero della resurrezione, già di per sé insondabile, si aggiunge un dettaglio: come potremo risorgere senza cuore? Come ce ne andremo in giro senza cornee e senza reni e senza fegato? Peccato che il cervello non si possa trapiantare.

(Persona e Danno, 9 settembre 2008)

lunedì 8 settembre 2008

Contro i trapianti /2

Dopo aver cercato di individuare nel primo post di questa serie il vero significato delle idee esposte da Lucetta Scaraffia nel tristemente famoso articolo per l’Osservatore Romano, tentiamo adesso di delineare le possibili conseguenze degli atteggiamenti in materia di trapianti che si stanno diffondendo in alcuni ambienti cattolici.

La posta in gioco
Anche se sono in pochi ad averlo notato, non è solo la pratica dei trapianti ad essere messa in pericolo dalle ubbie di cui si è fatta portavoce la Scaraffia. Se si diffondesse l’opinione che una persona in stato di morte cerebrale è comunque ancora ‘viva’, e che sospendere i trattamenti cui è sottoposta significherebbe ‘ucciderla’, assisteremmo a un drammatico intasamento delle corsie dei reparti di rianimazione. Mentre ora infatti si staccano le macchine subito dopo la diagnosi di morte cerebrale (indipendentemente dal fatto che si proceda o meno al prelievo di organi), se il respiratore artificiale non venisse spento basterebbero i pochi giorni o settimane di sopravvivenza media di questi malati a tenere occupati letti e macchinari e a determinare di fatto la fine della medicina di urgenza in questo paese, con le vittime di incidenti d’auto o di infortuni domestici lasciate morire nei pronto soccorsi. Una strage di viventi per non togliere il posto ai morti.
Fortunatamente questo scenario è abbastanza improbabile, non foss’altro che per le ovvie conseguenze di ordine pubblico (e di impopolarità della Chiesa e dei suoi servitori politici). La giustificazione per staccare la spina non manca, persino se si cancella il concetto di morte cerebrale: si tratterebbe comunque di malati terminali, e le invadenti pratiche di rianimazione sarebbero etichettabili come accanimento terapeutico anche secondo gli angusti criteri della dottrina cattolica.

Nuove giustificazioni per i trapianti?
Molto più difficile giustificare, nella nuova prospettiva, la pratica dei trapianti. Ci ha provato nei giorni scorsi Lorenzo d’Avack, del Comitato Nazionale per la Bioetica («Il confine della vita e la difesa della donazione di organi», Il Messaggero, 5 settembre 2008, p. 21):
Forse è sbagliato continuare a giustificare la legittimità dei trapianti attraverso una pretesa scientifica della morte. Forse è necessario domandarsi se sia più conforme a dignità concepire l’aggressione al corpo morente come legittima aggressione al corpo di un uomo per suo consenso. Forse si potrebbe e si dovrebbe dire che la consapevole decisione di donare i propri organi dopo la morte cerebrale totale vada ritenuta valida in forza di un grande gesto di solidarietà sociale.
Si tratta però di argomenti abbastanza deboli: dopo tanto ossessivo insistere sul primato della vita sulla libertà, il magistero ecclesiastico potrebbe mai concedere quello che si potrebbe interpretare – nella sua stessa ottica – come un suicidio, sia pure a beneficio di altri?
Ma una soluzione va trovata. Qui la Chiesa ha interessi contrastanti: da un lato l’impopolarità che la colpirebbe nel caso imponesse il proprio veto alla pratica dei trapianti (impopolarità che potrebbe risultare massima soprattutto fra i settori della comunità cattolica in cui hanno ancora corso gli ideali della solidarietà con i deboli, del dono di sé, che i trapianti irresistibilmente richiamano); dall’altro, la coerenza del proprio apparato ideologico, che si pretende conforme alla «ragione», e dalla cui saldezza dipendono non solo il no all’eutanasia e al rifiuto delle cure, ma anche quello – per la Chiesa irrinunciabile e strategico – all’aborto.
Vedremo nei mesi prossimi se la creatività di teologi e filosofi cattolici riuscirà a venire a capo del dilemma; ma certo sarebbe stato meglio se la questione fosse rimasta avvolta in un prudente silenzio, o confinata tutt’al più sulle pagine delle riviste accademiche. In effetti, contro quella che era stata anche la mia prima impressione, c’è da chiedersi se l’articolo della Scaraffia non sia stato un motivo di disagio e una sgradita sorpresa anche per le gerarchie ecclesiastiche. Si noti il tono vagamente stizzito e le giustificazioni balbettanti che Francesco D’Agostino – sicuramente più organico a certi ambienti della Scaraffia – propone nel commentare l’articolo («“Se il cervello è fermo il corpo non è più vivo”», Il Mattino, 4 settembre, p. 4):
«[Q]uelli che contestano il criterio della morte cerebrale non dicono con quali strumenti migliori si potrebbe accertare un decesso».
Eppure, esistono scienziati che la pensano diversamente da lei.
«E io ritengo naturale che nel mondo scientifico si discuta anche perché conosciamo ancora poco della funzionalità del cervello. Ma si tratta di un dibattito che si deve svolgere in ambito scientifico e non riguarda affatto la bioetica. Medici e giuristi sono tenuti dal punto di vista etico a rispettare la posizione che è largamente dominante nel mondo scientifico. E solo dal mondo scientifico ci possono arrivare indicazioni diverse, anche non maggioritarie ma almeno scientificamente fondate: cosa che per ora non è».
Alcuni studiosi citano casi di persone morte cerebralmente con il cuore che batteva ancora e di donne in coma irreversibile che hanno portato a termine una gravidanza...
«Sono casi singoli che non fanno statistica. Potremmo anche pensare che il medico che ha decretato la morte cerebrale si sia sbagliato. E per quanto riguarda quelle gravidanze, sono state possibili grazie alle macchine che hanno sostituito alcuni organi, così come capita quando si mette un neonato in una incubatrice».
Ma allora di quali ambienti si è fatta veramente portavoce la Scaraffia?

Il golem diventa autonomo
Man mano che la Chiesa è andata spostando il punto focale del proprio messaggio sui temi della bioetica, riguadagnando allo stesso tempo il centro dell’attenzione politica e mediatica, ha sentito la necessità di cooptare numeri sempre maggiori di comunicatori, per lo più al di fuori dei ranghi dei teologi e dei sacerdoti, e con un accento privilegiato sulla presenza femminile. Là dove prima bastava un’intervista al vecchio Monsignor Sgreccia, ecco adesso che la scena è dominata dalle Roccella, dalle Morresi, dalla stessa Scaraffia, dalla figlia d’arte Marina Casini, tanto per citare solo alcuni nomi. Ma la moltiplicazione dei volti, unita alla necessità di fornire un messaggio comprensibile ai più, ha determinato un inevitabile abbassamento della qualità. I nuovi campioni dell’integralismo sono spesso incapaci di maneggiare i difficili concetti di sostanza individuale o di essenza razionale (e del resto, bisogna ammetterlo, non è che quei concetti abbiano mai avuto un significato chiaro e preciso); difficile immaginare la Roccella a suo agio con Severino Boezio...
Si è andata così formando col tempo una versione vulgata della complessa filosofia che esaminavamo nel post precedente, versione che si può trovare esposta in mille posti, dalle pagine del Foglio agli articoli di Avvenire, a certi commenti ai post di questo stesso blog; una versione per alcuni versi simile all’originale, ma anche sottilmente differente.
Per chi la sostiene l’uomo non è degno di rispetto in quanto creatura essenzialmente razionale, ma bensì solo in quanto biologicamente uomo. Se logicamente la posizione è indifendibile (perché allora garantirgli statuto morale? E perché solo alla specie umana, e non anche alla famiglia – gli ominidi – o all’ordine – i primati? O al contrario perché non soltanto all’etnia, o alla tribù, o alla famiglia?), essa consente a chi non ha familiarità con le essenze dei filosofi di continuare a sostenere l’illiceità dell’aborto (l’embrione non è razionale ma il suo Dna è umano). Questo crudo riduzionismo biologistico viene giustificato con l’appello a evitare ogni discriminazione, ricorrendo ecletticamente a un argomento che era stato una volta tipicamente progressista. Ma proprio la fobia per ogni richiamo nel discorso morale alle dimensioni della coscienza, dell’autocoscienza e della razionalità porta inevitabilmente a riconsiderare i criteri della morte: i cerebralmente morti sono sicuramente uomini, e sicuramente vivi; con che coerenza, allora, li usiamo per i trapianti? Anche una pseudo-dottrina priva di ogni dignità intellettuale può inseguire l’ideale della coerenza logica; ed è questa dinamica ad aver forse prodotto l’intervento di Lucetta Scaraffia.

L’integralista e il paranoico
Le gerarchie ecclesiastiche hanno naturalmente un certo controllo su questo ambiente; ma non totale. Il timore che le cose sfuggano loro di mano è quindi perlomeno sensato. Se non si giungerà alla fine dei trapianti per decreto legislativo – cosa per cui sarebbe necessario l’impulso della Chiesa – il pericolo è però che si crei un sentire diffuso ostile a questa pratica medica, operando una saldatura con i gruppuscoli paranoici che da tempo denunciano la cosiddetta «predazione di organi». Identico, del resto, è l’humus in cui sono radicati questi complottisti e gli integralisti: una piccola borghesia che si sente compressa sia dall’alto che dal basso (nel linguaggio integralista, rispettivamente dalle «lobby massoniche» e soprattutto dalla «tecnoscienza», e dalle «masse scristianizzate» ed «edoniste»), e che reagisce tipicamente con il ricorso alle teorie del complotto e con il vittimismo aggressivo. Al di là dei facili sociologismi, del resto, il cristianesimo integralista questo è: l’ideologia di una parte della piccola borghesia.
Già i prodromi del linguaggio complottista cominciano ad apparire: Stefano Lorenzetto si vanta sul Giornale di aver dato l’imbeccata alla Scaraffia («Quel dubbio etico censurato da 40 anni», 4 settembre, pp. 6-7), e conclude: «La verità è che una potentissima lobby da 40 anni ha tolto a queste frange minoritarie persino il diritto di parola». E la stessa Scaraffia, in un’intervista al Riformista“Niente dogmi sulla morte cerebrale. In Vaticano molti la pensano come me”», 4 settembre, p. 2), commenta a proposito delle reazioni suscitate dal suo primo articolo:
mi sembra anche che la questione tocchi interessi meno pietosi. La cosa evidentemente dà fastidio a diverse persone che sono interessate a che le cose non cambino. […] Sono troppi gli interessi che stanno dietro ai trapianti. Sembra che debbano essere sempre legittimi, si parla sempre delle vite che salvano, delle storie pietose, ma si è molto meno propensi a fornire dati sul numero dei trapianti riusciti, sulla sopravvivenza, e sulla qualità della vita dei trapiantati...
Del tutto interno alla logica complottista è invece il ripugnante articolo di Ida Magli pubblicato oggi dal GiornaleDue o tre cose che nessuno dice sui trapianti», 8 settembre, p. 1; un assaggio: «esiste un ordine segreto ma inderogabile che vieta qualsiasi informazione sull’argomento». Vedi anche le indignate considerazioni di Inyqua), che significativamente se la prende con la Chiesa stessa.
Questa retorica, nel migliore dei casi sospettosa e meschina (e demente nel peggiore), farà danni limitati finché rimarrà limitata a poche conventicole di fanatici. Ma in tempi di crisi sociale ed economica basta poco perché faccia prendere fuoco agli animi dei creduli e degli ignoranti. Gli aspiranti incendiari, come si vede, non mancano.

(2 - fine)