lunedì 27 marzo 2006

Il Protocollo di Groningen e la bêtise

Dopo la performance ad Otto e Mezzo del 22 marzo, i giornalisti e i collaboratori del Foglio sono tornati l’altro ieri a parlare del Protocollo di Groningen e dell’eutanasia pediatrica in Olanda dalle colonne della casa madre.
Cominciamo da un editoriale non firmato a p. 3, «Non è eutanasia, è eutanazia», che attribuirei a Giulio Meotti: i lettori lo ricorderanno con la sua faccia da pretino superbo mentre snocciolava cifre a Otto e Mezzo, sotto lo sguardo paternamente orgoglioso del suo direttore. Ritorna qui la cifra di 600 bambini la cui morte nel primo anno di vita «è preceduta da decisioni dei medici sull’interruzione della vita»: così a sentire l’articolista confesserebbe l’articolo di Eduard Verhagen e Pieter J.J. Sauer sul New England Journal of MedicineThe Groningen Protocol — Euthanasia in Severely Ill Newborns», NEJM 352, 2005, pp. 959-62). La cifra è girata ossessivamente anche in Tv, sbattuta in faccia ad europarlamentari olandesi e a segretari di partito italiani come dato oggettivo e testimonianza irrefutabile dell’olocausto infantile in corso nei Paesi Bassi: 600 bambini sono molti, e questo vorrebbe dire che l’eutanasia olandese non si applica solo ai casi più disperati. Già nel Foglio del 9 marzo, in un articolo sempre non firmato (ma attribuito durante la trasmissione al Pretino Superbo), si proclamava («L’Olanda ora vuole anche il primato dell’eutanasia infantile», p. 3):

Nell’articolo Verhagen spiega che «dei 200 mila bambini nati ogni anno in Olanda, circa mille muoiono nel primo anno di vita. Per 600 di loro, la morte è preceduta da una decisione medica sulla fine della vita». Tradotto: il 60 per cento della mortalità infantile in Olanda ha un’origine intenzionale. Ritradotto: è in corso un olocausto medico sul quale l’Unione europea fa finta di niente.
A proposito di traduzioni, cominciamo col notare che in questo primo articolo si usava un più neutro «fine della vita», mentre ieri si era già passati a parlare di «interruzione della vita». Noi di Bioetica siamo andati a leggerci l’articolo dei due medici olandesi (ringrazio Fabrizio F. per la collaborazione): ci sono questi 600 bambini eutanasizzati all’anno? Ovviamente, no. Ecco cosa dice l’originale inglese:
Of the 200,000 children born in the Netherlands every year, about 1000 die during the first year of life. For approximately 600 of these infants, death is preceded by a medical decision regarding the end of life. Discussions about the initiation and continuation of treatment in newborns with serious medical conditions are one of the most difficult aspects of pediatric practice. Although technological developments have provided tools for dealing with many consequences of congenital anomalies and premature birth, decisions regarding when to start and when to withhold treatment in individual cases remain very difficult to make. Even more difficult are the decisions regarding newborns who have serious disorders or deformities associated with suffering that cannot be alleviated and for whom there is no hope of improvement.
La parola chiave qui è «preceded»: la morte di questi 600 è preceduta, non (necessariamente) causata da una decisione medica sulla fine (eh sì, è «fine», non «interruzione») della vita. Tradotto: nella cifra di 600 sono compresi anche i casi in cui si decide di sospendere o non intraprendere un trattamento medico ritenuto ormai inutile, in vista della fine imminente. Ritradotto: sono compresi cioè anche i casi in cui si decide di non praticare l’accanimento terapeutico, secondo quelli che sono i dettami anche della Chiesa (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2278); è quello che si fa correntemente anche in Italia, per esempio con i prematuri minori di 21 settimane. La frase di Verhagen e Sauer è ambigua? Lo possiamo concedere; ma quel che segue lo è molto di meno: «Discussions about the initiation and continuation of treatment», «decisions regarding when to start and when to withhold treatment». Ancora non soddisfatti? Andiamo un po’ più avanti:
Infants and newborns for whom such end-of-life decisions might be made can be divided into three categories. First, there are infants with no chance of survival. This group consists of infants who will die soon after birth, despite optimal care with the most current methods available locally. These infants have severe underlying disease, such as lung and kidney hypoplasia. … Deciding not to initiate or to withdraw life-prolonging treatment in newborns with no chance of survival is considered good practice for physicians in Europe and is acceptable for physicians in the United States. Most such infants die immediately after treatment has been discontinued.
Chiaro, no? Ma allora che cosa hanno letto il Pretino Superbo e gli altri della sua parrocchia?
Quanti sono, dunque, su quei 600 i casi di vera e propria eutanasia, cioè di attiva terminazione della vita di un infante? Diamo di nuovo la parola ai due dottori olandesi:
there are infants with a hopeless prognosis who experience what parents and medical experts deem to be unbearable suffering. Although it is difficult to define in the abstract, this group includes patients who are not dependent on intensive medical treatment but for whom a very poor quality of life, associated with sustained suffering, is predicted. … A national survey of neonatologists in the Netherlands has shown that each year there are 15 to 20 cases of euthanasia in newborn infants who would be categorized in the third group.
Tra i 15 e i 20 casi, dunque. Non 600. Esiste però una categoria intermedia, che rimane non quantificata:
Infants in the second group have a very poor prognosis and are dependent on intensive care. These patients may survive after a period of intensive treatment, but expectations regarding their future condition are very grim. They are infants with severe brain abnormalities or extensive organ damage caused by extreme hypoxemia. When these infants can survive beyond the period of intensive care, they have an extremely poor prognosis and a poor quality of life. … Neonatologists in the Netherlands and the majority of neonatologists in Europe are convinced that intensive care treatment is not a goal in itself. Its aim is not only survival of the infant, but also an acceptable quality of life. Forgoing or not initiating life-sustaining treatment in children in the second group is acceptable to these neonatologists if both the medical team and the parents are convinced that treatment is not in the best interest of the child because the outlook is extremely poor.
Si tratta in altre parole di bambini con una prospettiva di sofferenza non mitigabile, alla cui esistenza non viene posta fine in maniera attiva, ma piuttosto sospendendo o non iniziando cure intensive, e lasciando fare alla natura il suo corso; anche se – a differenza del primo gruppo – la morte non sarebbe una prospettiva ineludibile. Il nome di questa pratica varia, a riprova del suo carattere di caso di confine: rifiuto dell’accanimento terapeutico, eutanasia passiva, etc. Non si tratta affatto di un’esclusiva olandese, come dimostrano le parole dell’articolo (cfr. anche Marina Cuttini et al., «The European Union Collaborative Project on Ethical Decision Making in Neonatal Intensive Care (EURONIC): findings from 11 countries», Journal of Clinical Ethics 12, 2001, 290-96).
Tanto per far capire fino in fondo lo scrupolo documentario dell’autore dell’editoriale, esaminiamo quest’altra sua affermazione:
Se passasse il Protocollo, citando Verhagen, la medicina non dovrebbe più solo tenere in vita il bambino, «ma anche assicurare una qualità di vita accettabile». Per 22 nuovi nati con spina bifida questa frase ogni anno si traduce in morfina inoculata nelle vene.
A parte la citazione vagamente tendenziosa (già sentita a Otto e Mezzo dalla bocca del Pretino Superbo; nell’originale sono le cure intensive, non la medicina, a dover assicurare una qualità della vita accettabile), la cifra di 22 nuovi nati all’anno con spina bifida eutanasizzati contraddirebbe quella fornita nello stesso articolo di 15-20 casi totali di eutanasia infantile. E infatti:
Twenty-two cases of euthanasia in newborns have been reported to district attorneys’ offices in the Netherlands during the past seven years. … They all involved infants with very severe forms of spina bifida [corsivo mio].
Eppure l’inglese non è una lingua così difficile...

Nello stesso numero del Foglio, a p. 4, troviamo una lettera di Loris Brunetta, segretario dell’Associazione Ligure Thalassemici, che comincia così:
Solidarietà a Carlo Giovanardi per quanto ha avuto coraggio di affermare riguardo alla crudezza e brutalità della legge olandese sull’eutanasia. Spesso nelle valutazioni che si fanno riguardo a questo delicatissimo argomento si tiene poco conto delle sensibilità che vanno a toccare, soprattutto quella delle persone malate, che rientrerebbero in molti di quei parametri che sono indicativi per il giudizio di «essere non meritevole di continuare a vivere». Certe cose fanno veramente rabbrividire.
«Essere non meritevole di continuare a vivere» è virgolettato, ma ovviamente non c’è traccia di questa espressione nell’articolo di Verhagen e Sauer né in qualsiasi altro documento legato alla questione; essa appartiene – sia detto con tutto il rispetto – ai fantasmi personali di Brunetta. Ma com’è possibile un simile travisamento della realtà?
Il fatto è che i sostenitori dell’eutanasia infantile usano talvolta parlare di «vita non degna di essere vissuta»; e questa espressione viene spesso tradotta – soprattutto dal pubblico prevenuto – in un’altra simile, ma niente affatto equivalente: «persona non degna di vivere». Una persona non degna di vivere è qualcuno non conforme a un canone morale e/o estetico, presunto oggettivo: una persona che con la sua stessa esistenza macchierebbe un’astratta ‘perfezione’. Una vita non degna di essere vissuta, al contrario, è una vita soggettivamente intollerabile, in cui la quantità di sofferenza di chi la vive soverchia e anzi rende impossibile ogni residua esperienza positiva, tanto da far ritenere preferibile la non esistenza all’esistenza.

Ritroviamo un equivoco molto simile sotto la lettera di Brunetta, in un articolo scritto da Christian Rocca, un blogger che collabora col Foglio («Da radicale dico: la linea radicale sull’eutanasia olandese è cialtrona»). Dopo un’interminabile introduzione, in cui Rocca enumera le proprie credenziali di progressista, liberale, radicale e laico (che curiosamente non gli impediscono di manifestare una certa propensione a votare Forza Italia alle prossime elezioni), e nella quale si trova comunque una battuta degna di essere riportata («Considero Antonio Socci il più brillante intellettuale italiano del XIII secolo»), eccoci finalmente al punto:
La questione, al di là di come la si pensi sull’eutanasia e al netto delle stupidaggini di Giovanardi, è questa: è vero, come dicono i radicali, che in Olanda sperimentano e discutono una legge sull’eutanasia come forma compassionevole per non far soffrire i neonati sofferenti destinati comunque a morire? … Ma, al contrario, se fosse vero ciò che dicono Meotti, Giovanardi e Ferrara, la questione sarebbe ben diversa e negarlo un trucchetto da treccartari. Cosa dicono Meotti, Giovanardi e Ferrara? Dicono che il caso olandese non riguarda soltanto i neonati sofferenti destinati a morte certa, ma anche handicappati gravi. Fosse vero ciò che dicono si tratterebbe di legalizzazione di pratiche di soppressione della razza impura. I radicali negano. Allora sono andato a leggere il protocollo di Groningen, sulla base del quale in Olanda si sperimenta l’eutanasia nei confronti dei neonati. Bene. Parla di bimbi che non hanno chance di sopravvivenza, come dicono i radicali, ma anche di neonati con gravi lesioni cerebrali o danni agli organi vitali che però «possono sopravvivere», malgrado le «aspettative circa le condizioni future» non siano invitanti. C’è anche un terzo caso, «più astratto» e «più difficile da definire», di neonati incurabili la cui esistenza non dipenderà da trattamenti intensivi, ma che a giudizio di genitori e medici avranno «una pessima qualità della vita». Mi dispiace, ma questa volta i propagandisti sono i miei amici radicali.
La lettura compiuta da Rocca è stata, evidentemente, molto selettiva: come abbiamo già visto l’articolo originale aggiunge una specificazione importante: «this group includes patients who are not dependent on intensive medical treatment but for whom a very poor quality of life, associated with sustained suffering, is predicted». E ancora, a p. 959: «must infants with disorders associated with severe and sustained suffering be kept alive when their suffering cannot be adequately reduced?». E ancora, nella tabella n. 2: «Requirements that must be fulfilled: Hopeless and unbearable suffering must be present» (i corsivi sono tutti miei). La parola «suffering» ricorre 20 volte nel testo; e anche là dove si parla solo di «pessima qualità della vita», il riferimento è sempre palesemente alla presenza di sofferenze insopportabili, come è reso esplicito dalla tabella n. 1, in cui compare la dicitura «Extremely poor quality of life (suffering)». Cosa abbia a che fare questa considerazione pietosa per le sofferenze intollerabili di pochi bambini (tra i quali non si trovano né down, né sordomuti, né ciechi, checché ne farnetichi Giovanardi) con le «pratiche di soppressione della razza impura», è un mistero che neppure lo stesso Christian Rocca saprebbe risolvere.
Fortunatamente, a risollevare l’onore della blogosfera ci pensa Federico Punzi, che in un post ben meditato («Risveglio dagli incubi su Groningen. Gli olandesi non sono nazisti», stamattina su JimMomo) fa un po’ di necessaria chiarezza sulla questione.

Rimane infine un quesito a cui rispondere: ci fanno, o ci sono? Abbiamo di fronte una banda di treccartari – il Pretino Superbo, il blogger ‘liberale’, il loro oh-così-intelligente direttore – che sta mentendo spudoratamente per ragioni di cinica propaganda elettorale, contando sul fatto che l’articolo originale è difficilmente reperibile? Oppure si tratta solo di poveracci, letteralmente incapaci di leggere due parole di fila, che riescono a trovare in un testo solo quello che si aspettano già di trovarci? La verità, forse, sta nel classico mezzo: questa è gente che – paradossalmente – si serve della propria incapacità, del proprio gusto per l’approssimazione come arma; è gente che sa bene che a una lettura appena meno affrettata le cose apparirebbero differentemente, ma che decide consapevolmente di non farla, di accontentarsi della prima, superficialissima impressione, quella che conferma i loro pregiudizi. E tanto peggio per chi tenta di trovare soluzioni il più possibile umane a problemi tragici: è un criminale, a cui non si deve neppure il favore elementare di leggerlo con un po’ di attenzione.

7 commenti:

JimMomo ha detto...

Eccellente anche le tue precisazioni puntuali. Leggiti "Bastardo sarà lei" su Malvino, è un utile lezione di tattica da apprendere: http://malvino.ilcannocchiale.it/?id_blogdoc=921821

ciao

Anonimo ha detto...

Un post lunghissimo che spacca il pelo in quattro con precisazioni surreali che dimostra solo che quelli de Il Foglio hanno ragione.


P.S.:Sarà il caso che ti informi sulle terapie del dolore: con i farmaci che ci sono a disposizione il dolore è sempre controllabile e tollerabile.

Anonimo ha detto...

Vi ho linkato in un post, spero che non vi dispiaccia :)
Analisi attenta, che dimostra o una distorsione dei fatti o una scarsissima conoscenza della lingua inglese da parte di ministri e giornalisti...

Anonimo ha detto...

A me non sembra affatto che il post spacchi il capello in quattro.

E , anzi, il post dimostra bene la mistificazione che viene operata al Foglio.
Quelle " precisazioni surreali ", poi,
davvero mi domando quali siano.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Grazie, Thomas.

Assuntina Morresi (che prego di ricordarsi di firmare i propri commenti: è sgradevole leggere attacchi anonimi) evidentemente ritiene che va benissimo contrabbandare per casi di eutanasia anche quelli di rinuncia all'accanimento terapeutico; concentrare in un anno solo i casi verificatisi in sette anni; sostenere che dire "ti uccido per purificare la razza" o "ti uccido perché non sei perfetto" è perfettamente equivalente a dire "ti do una morte pietosa per far cessare le tue sofferenze" (capirei che uno dicesse "non sono d'accordo neanche con questo"; ma capisco anche che opporsi apertamente alla cessazione delle sofferenze è meno efficace propagandisticamente che opporsi alla fantomatica "deriva eugenetica"). Direi proprio che sarebbe meglio lasciare definizioni come "il giornale più bello che c'è" all'ufficio marketing del Foglio...

Quanto alla terapia del dolore: sono molto scettico sulla capacità della medicina di oggi di lenire il 100% dei casi di dolore intrattabile. Ricordo che in genere le cure palliative servono ad accompagnare i pazienti alla morte imminente, mentre nel caso dei 15-20 casi di eutanasia vera e propria di cui si parla nel Protocollo la fine non è necessariamente vicina. In ogni caso, quando si parla di "sofferenza" si intende qualcosa di più del semplice dolore fisico: la perdita del controllo di molte funzioni vitali, la necessità di interventi medici invasivi, etc.

Anonimo ha detto...

Condivido tutto di quel che è stato scritto anonimamente, ma non sono stata io, altrimenti mi sarei firmata. Si dà il caso che dove lavoro ci siano più pc con lo stesso attacco internet.

Assuntina Morresi

Giuseppe Regalzi ha detto...

Beh, anche lo stile mi ricordava il tuo. Comunque scusa.
Naturalmente, visto che condividi le osservazioni dell'anonimo, ti rigiro la mia replica... ;-)