Qualitative Study Explores Women's Perceptions of Pregnancy RiskGuttmacher Institute.
In-depth interviews with 49 women obtaining abortions in the United States found that most of the study participants perceived themselves to be at low risk of becoming pregnant at the time that it happened. According to "Perceptions of Susceptibility to Pregnancy Among U.S. Women Obtaining Abortions," by Lori Frohwirth of the Guttmacher Institute et al., the most common reasons women gave for thinking they were at low risk of pregnancy included a perception of invulnerability, a belief that they were infertile, self-described inattention to the possibility of pregnancy and a belief that they were protected by their (often incorrect) use of a contraceptive method. Most participants gave more than one response.
The most common reason women gave for their perceived low risk of pregnancy was perceived invulnerability to pregnancy. Study participants understood that pregnancy could happen, but for reasons they couldn't explain, thought they were immune or safe from pregnancy at the time they engaged in unprotected sex. One reported that she "always had good luck," while another said, "…It's like you believe something so much, like 'I just really don't want children,' [and] for some reason, I thought that would prevent me from getting pregnant." This type of magical thinking—that pregnancy somehow would not happen despite acknowledged exposure—suggests a disconnect between the actual risk of pregnancy incurred by an average couple who does not use contraceptives (85% risk of pregnancy over the course of a year) and a woman's efforts to protect herself from unintended pregnancy.
Equal proportions (one-third) of respondents thought they or their partners were sterile, said the possibility of pregnancy "never crossed my mind" and reported that (often incorrect) contraceptive use was the reason they thought they were at low risk. Perceptions of infertility were not based on medical advice, but rather on past experiences (e.g., the respondent had unprotected sex and didn't get pregnant) or family history. Among those who thought they were protected by their contraceptive method, most women reported inconsistent or incorrect method use. For example, one woman felt a few missed pills did not put her at risk: "I just thought…they were like magic. If I missed it one day, it wouldn't really matter."
martedì 29 ottobre 2013
A year of magical thinking leads to… unintended pregnancy
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Etichette: Abortion, Aborto, Contraccezione, Pregnancy
Rebecca Gomperts: Abortion pills safer than penicillin
The Dutch physician Rebecca Gomperts says abortion pills are safe and recognised by the World Health Organization as life-saving medicines.BBCNews.
Dr Gomperts is a women's rights activist from the Netherlands. In 1999 she founded Women on Waves, allowing women living in countries with strict abortion laws to have a termination by boarding a clinic ship which would sail into neutral waters where Dutch laws would apply.
But she has encountered strong opposition from pro-life groups and governments - including facing down warships when her yacht approached Portugal.
More recently her organisation has been sending abortion pills directly to women wishing to terminate a pregnancy.
giovedì 17 ottobre 2013
Legge contro l’omofobia: una galleria degli orrori /4
Basta la parola
Dopo aver esaminato nella prima parte di questa serie il modo in cui la lettera della proposta di legge contro l’omofobia è stata in qualche caso alterata, e nella seconda e terza alcune delle interpretazioni aberranti che ne sono state date, è tempo di passare agli errori più generali che sono alla base della violenta reazione integralista alla proposta di legge Scalfarotto.
Iniziamo dal blog Orarel, in cui poche settimane fa Massimo Zambelli così commentava, in occasione delle note dichiarazioni di Guido Barilla («Omofobia», 27 settembre 2013):
Omo-fobia. Stanno facendo una legge basata su un errore linguistico e concettuale, tipico di chi confonde la realtà delle cose inventandosi il terzo sesso, o eliminando padre e madre, o imponendo uguaglianze nel matrimonio (da “mater”) che non esistono... Omofobia non vuol dire “odio per l’omosessuale” ma semmai “paura dell’omosessualità”. E da quando in qua una paura diventa reato? Stanno imponendo un regime liberticida e questo episodio di Barilla ne è l’ennesimo antipasto.Si tratta, come si vede, dell’ennesima riproposizione della fallacia etimologica, cioè dell’argomento erroneo secondo cui il «vero» significato di una parola, quello in cui dovrebbe essere sempre usata, coinciderebbe con il suo significato «originale» o con il significato «originale» delle parole che la compongono. Così, la parola matrimonio si deve usare solo se a sposarsi c’è una mater, cioè una donna; il termine laico deve indicare solo una persona battezzata che non appartiene alla gerarchia ecclesiastica; etc. Spesso – come in questo caso – la fallacia si spinge addirittura oltre: non solo si afferma che le parole devono essere usate secondo il loro significato originario, ma anche che gli oggetti che esse designano possiedono in realtà tutte e sole le caratteristiche indicate dall’etimologia. Per esempio, sembra dire Zambelli, gli omofobi non odiano gli omosessuali, ma ne hanno soltanto timore; ed è rimasto celebre il caso del tizio che voleva dimostrare che la logica non è altro che un gioco di parole, perché la parola logica viene dal greco logos, che significa appunto (tra le altre cose) «parola».
Tutto ciò è naturalmente in contrasto assoluto con quello che la più banale ragionevolezza prescrive: non confondere le cose con le parole che le designano, e usare il linguaggio in accordo con le finalità che ci poniamo. Così, se ci vogliamo far capire dal prossimo – la funzione di gran lunga più comune della lingua – dovremo usare le parole nel loro significato corrente; se teniamo alle forme tenderemo a privilegiare un uso più puristico (e quindi finché sarà possibile, per esempio, non impiegheremo «piuttosto che» come congiunzione, anche contro l’uso sempre più diffuso che se ne fa); se abbiamo una finalità estetica scriveremo poesie in cui le parole sono usate magari più per il loro suono che per il loro significato corrente; se vogliamo farci capire solo da qualcuno e non da altri useremo un codice in cui le parole hanno un significato segreto che non coincide con quello solito; infine, se vogliamo indagare le origini delle parole, ne studieremo l’etimologia. Come si vede, non si nega né si «confonde» in questo modo nessuna realtà; semplicemente, invece di farci dettare del tutto arbitrariamente da un aspetto particolare (o anche generale) della realtà un fine contrario ai nostri bisogni, traiamo da essa i mezzi per soddisfare dei fini che rimangono però umani ed autonomi. Che è poi quello che fanno anche coloro che ricorrono alla fallacia etimologica: non li vedrete mai parlare usando esclusivamente i significati originali delle parole (finirebbero diritti in un reparto psichiatrico); questa gente usa l’etimologia solo quando conferma le sue ideologie preferite. Non si sente nessuno, tranne forse qualche misogino estremo, dire che il patrimonio (da pater) deve essere esclusivo appannaggio dei maschi, o che laico è chi appartiene al popolo (secondo l’etimologia greca, che precede quella latina; e chissà cosa significava la relativa radice nel proto-indoeuropeo).
Tutto ciò è in fondo abbastanza scontato, e non valeva forse la pena di scriverci sopra un post, se non fosse per il fatto che troviamo qui esemplificato un passaggio estremamente diffuso nel pensiero cattolico: quello che va da una natura delle cose ritenuta per vari motivi più «profonda» ed «essenziale» (come l’etimologia, o la finalità procreativa degli atti sessuali) a una prescrizione immotivata e assurda («si devono usare le parole nel significato originale!»; «non si devono compiere atti sessuali tra persone dello stesso sesso!»), che tuttavia l’integralista spesso difende accusando bizzarramente chi non la pensa allo stesso modo di «negare» o «confondere» la realtà delle cose («avete commesso un errore linguistico»; «volete negare che i bambini nascano da un uomo e da una donna»). I difensori della cosiddetta «legge naturale» usano questa logica pervertita – anche se in genere non sono tanto ingenui da farsi cogliere a usare fallacie troppo evidenti, come quella di cui abbiamo parlato qui: la fallacia naturalistica imperversa, quella etimologica è riservata a chi è di bocca particolarmente buona.
(4 - continua)
Postato da Giuseppe Regalzi alle 20:36 6 commenti
Etichette: Fallacia etimologica, Fallacia naturalistica, Legge naturale, Massimo Zambelli, Omofobia
martedì 8 ottobre 2013
Nobel
Non riuscirò mai a capire l’importanza spropositata che si concede alle preferenze di un pugno di distinti ma semi-sconosciuti e con ogni probabilità non tutti supremamente brillanti soci di accademie scandinave, che una volta all’anno sembrano quasi diventare nell’opinione generale il canale attraverso cui passa un giudizio divino. Anche quando li si rimprovera di aver sbagliato (e succede spesso), è come se si separasse l’importanza del premio dalle persone di coloro che lo assegnano: che errore, si lamentano i critici, aver dato un premio tanto importante a Tizio, che non lo meritava! Ma come fa un premio a essere più importante della sua giuria? Cosa può mai rappresentare questo premio, al di là dell’approvazione solennemente certificata dell’esimio Professor Sven Svensson e colleghi? In ballo ci sono anche un bel po’ di soldi, d’accordo, ma non credo che la spiegazione sia così cinica. Non riesco proprio a capire.
lunedì 7 ottobre 2013
Legge contro l’omofobia: una galleria degli orrori /3
Pietra batte Carta
Proseguendo, dopo la seconda parte, nell’esame delle interpretazioni errate della proposta di legge contro l’omofobia, ci imbattiamo in quello che rappresenta il cuore delle obiezioni integraliste alla futura norma: il timore che, una volta approvata la legge, possa divenire un reato anche il semplice obiettare al matrimonio tra omosessuali; l’estensione della legge Mancino sarebbe insomma maliziosamente propedeutica – una volta imbavagliata l’opposizione – a una futura legge sulle nozze gay.
C’è anche chi si spinge più in là, come Paola Binetti, che sulla Nuova Bussola Quotidiana («Si rischia di creare un reato di opinione», 18 luglio 2013) così argomenta:
Potrebbe ad esempio apparire come reato, in quanto giudicato segno e sintomo di omofobia, l’opporsi al matrimonio gay o alla adozione da parte delle coppie gay, cosa particolarmente rilevante se si tiene conto che proprio in questo momento al Senato si stanno discutendo questi disegni di legge. L’approvazione della legge in materia di “Discriminazioni motivate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere” limiterebbe la possibilità di discussione, perché il rischio di una potenziale incriminazione potrebbe essere tutt’altro che remoto, in potenziale contraddizione con l’art. 68 della stessa Costituzione, che afferma: “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”.La citazione dell’articolo 68 non lascia adito a dubbi: per la Binetti, a essere intimiditi sarebbero potenzialmente i membri stessi delle Camere; basterebbero un’opinione espressa durante i lavori parlamentari o un voto palese contro il matrimonio gay per ritrovarsi con il collo esposto alla mannaia della neomodificata Legge Mancino.
C’è però un piccolo problema: come osserva la stessa Binetti, un’interpretazione siffatta delle disposizioni di legge sarebbe incostituzionale. L’art. 68 della Costituzione può avere qualche punto dibattuto (lo vedremo tra poco), ma su una cosa è chiarissimo: opinioni e voti espresse e dati dai membri delle Camere nelle aule parlamentari sono insindacabili, come lo è ogni altra attività «di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento» (legge 20 giugno 2003, n. 140, art. 3 c. 1), e in ogni caso l’azione dei magistrati è limitata da precise salvaguardie per il parlamentare. Per quanto creative possano essere le interpretazioni della legge date dal perfido magistrato laicista-massone-comunista di turno, ben difficilmente questi potrà avere l’improntitudine di leggere «nero» là dove c’è scritto «bianco»; e se per assurdo l’avesse, non avrebbe comunque bisogno della giustificazione di una semplice legge ordinaria. Si può poi facilmente immaginare l’esito di una simile iniziativa, e forse anche il destino personale di chi la prendesse.
Sembra quasi che per la Binetti la proposta di legge sull’omofobia possa divenire, una volta approvata, misteriosamente superiore alla Costituzione, che rimarrebbe per qualche motivo sospesa e priva di efficacia. Credo proprio che questo sia concedere un po’ troppo alle capacità di legislatore dell’onorevole Scalfarotto...
Di queste considerazioni di diritto spicciolo sembra consapevole un altro critico della proposta di legge, Mauro Ronco – il che non sorprende, visto che è professore ordinario di Diritto Penale all’Università di Padova. Scrive infatti Ronco, sempre sulla Nuova Bussola Quotidiana («Legge contro l’omofobia è una violazione della libertà», 9 luglio):
La portata della norma è difficilmente percepibile da chi non sia esperto di cose giuridiche. Per esemplificarne il senso va detto che, alla stregua di tale proposta, potrebbero essere sottoposti a processo, in quanto incitanti a commettere atti di discriminazione per motivi di identità sessuale, tutti coloro che sollecitassero i parlamentari della Repubblica a non introdurre nella legislazione il “matrimonio” gay e, ancor più, tutti coloro che proponessero di escludere la facoltà di adottare un bambino a coppie omosessuali. […] Una campagna di opinione organizzata affinché i parlamentari si opponessero al “matrimonio” gay, costituirebbe, pertanto, incitamento a commettere atti di discriminazione penalmente punibili.Come si vede, a differenza della Binetti, per Ronco a essere in pericolo non sarebbero i parlamentari (coperti dall’art. 68), ma chiunque li «incitasse» a non approvare il matrimonio tra omosessuali. A prima vista questo sembrerebbe un po’ paradossale: se il voto di un parlamentare non costituisce mai reato, come è possibile incriminare qualcuno per avere incitato lo stesso parlamentare a votare in un certo modo? In realtà il paradosso potrebbe essere solo apparente: nella giurisprudenza recente c’è una chiara tendenza a interpretare l’art. 68 come una causa di esclusione della punibilità del parlamentare, e non come una qualificazione di liceità del fatto; quest’ultimo rimane un reato, e anche se il membro del Parlamento non può essere punito per averlo commesso, chiunque altro vi concorra può subirne le conseguenze in sede penale o civile (cfr. Ugo Adamo, «La prerogativa dell’insindacabilità parlamentare ex art. 68 Cost. come causa soggettiva di esclusione della punibilità», Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2 luglio 2010).
Proseguendo, è importante capire cosa Mauro Ronco non sta dicendo. Anche se la proposta di legge sull’omofobia venisse approvata, non per questo diverrebbe un reato negare il matrimonio a una coppia di omosessuali. Gli articoli del Codice Civile che specificano che il matrimonio può avvenire solo tra un uomo e una donna non verrebbero abrogati dalla nuova versione della Legge Mancino: questa non parla per nulla di nozze, e l’idea che possa incidere sul Codice Civile è chiaramente estranea all’intenzione del legislatore. Se capisco bene, ciò che Ronco teme piuttosto è che qualcuno possa interpretare le nuove disposizioni di legge come se costituissero una metanorma, una norma cioè che disciplina altre norme. Più in particolare, in base alla nuova legge gli articoli in questione del Codice Civile potrebbero essere considerati come una norma discriminatrice, che sarebbe dovere del legislatore eliminare; venire meno a questo supposto obbligo di fare – sempre se capisco bene – potrebbe configurare insomma per qualche magistrato un reato omissivo.
Ci sono qui alcuni punti che mi lasciano perplesso; ma io sono un giurista della domenica, mentre Ronco insegna Diritto Penale all’università. Non mi avventurerò dunque in tentativi di confutazione, che lascio semmai ai più esperti di me. Non posso fare a meno di notare, tuttavia, che la futura legge sull’omofobia, se verrà approvata, sarà come tutte le leggi modificabile o abrogabile da una norma di pari grado (è vero che la Legge Mancino – o meglio la legge 13 ottobre 1975, n. 654, che la Mancino ha modificato e integrato – attua un trattato internazionale, ma solo per le parti riguardanti la discriminazione razziale ed etnica). Dato e non concesso che sollecitare «i parlamentari della Repubblica a non introdurre nella legislazione il “matrimonio” gay» possa essere considerato da qualcuno un reato, sarebbe per contro impossibile incriminare i fautori di una campagna di opinione che sollecitasse le Camere ad escludere per esempio l’applicabilità delle norme contro l’omofobia a questioni matrimoniali tramite una apposita legge di interpretazione autentica, come condizione dichiarata per non essere «costrette» a introdurre il matrimonio gay. La distinzione può apparire pedantesca, ma è la stessa distinzione che passa fra l’incitare il Parlamento ad approvare una legge incostituzionale (anche se questo – significativamente – non mi pare che costituisca un reato) e l’incitarlo a modificare la Costituzione allo scopo di approvare poi quella stessa identica legge. Per ripetere una massima lapidaria di Gustavo Zagrebelsky (Il sistema delle fonti del diritto, Torino 1991, p. 40), «la legge anteriore non può sottrarsi alla forza abrogativa delle leggi successive»; opporsi alle nozze gay non sarà mai illegale, ma solo sempre incivile.
È vero che qualche tempo fa qualcuno ha preteso che si perseguisse penalmente chi chiedeva solo di modificare una certa legge; ma la minaccia è stata accolta con indifferenza o, al massimo, un po’ di scherno. No, non si trattava di laicisti desiderosi di imbavagliare i poveri cattolici, ma di qualche integralista e clericale che aveva tentato di intimidire gli animatori di una campagna a favore dell’eutanasia (cfr. il mio «Se parlare di eutanasia è reato», Bioetica, 11 novembre 2010, e il post pressoché contemporaneo di Alessandro Gilioli, «Semplicemente fascisti», Piovono rane, 11 novembre 2010). Scommetto che adesso sono lì a torcersi le mani per la «gravissima minaccia» alla loro libertà di parola...
(3 - continua)
Postato da Giuseppe Regalzi alle 09:15 0 commenti
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mercoledì 2 ottobre 2013
Assalto al Mulino Bianco
“Sacrale”, “tradizionale”, “classica”: sono questi i tre aggettivi usati da Guido Barilla per descrivere la sua famiglia ideale, ovvero una famiglia vuota di contenuti.
Quei tre aggettivi, infatti, non hanno alcun significato se non in un contesto temporale e storico e, in virtù della loro dipendenza, non sono intrinsecamente né buoni né cattivi.
La tradizione è un’abitudine che nel tempo è durata, è stata tramandata, ma non è detto che sia qualcosa da rivendicare e di cui andare fieri. Il tempo di per sé non è garanzia di nulla. Ci sono molti esempi di tradizioni odiose e moralmente ripugnanti: la schiavitù, il razzismo, l’esposizione del lenzuolo dopo la prima notte di nozze a testimonianza dell’illibatezza della sposa, la castità come condizione necessaria di un quanto mai vago “rispetto”. Se vogliamo rimanere nel dominio della famiglia non bisogna nemmeno andare molto indietro nel tempo per trovare tradizioni disgustose: il matrimonio riparatore, cioè la possibilità di estinguere l’abuso sessuale con le nozze, la dote, il reato di adulterio per la moglie e di abbandono del tetto coniugale, l’attenuante dell’onore nei delitti cosiddetti passionali.
Tradizioni tutte indigene, incardinate in un codice penale aggrappato a una società fortemente ingiusta e patriarcale, con la benedizione del fascismo e della sua idea di nucleo familiare e sacralità dei doveri domestici, i cui principi andati sono ancora oggetto di rimpianto per qualcuno.
Considerazioni simili si potrebbero fare per “sacrale” e “classica”.
Ma il più bello deve ancora arrivare. Barilla infatti, incalzato dai conduttori de La Zanzara, dice massì facessero quello che vogliono [gli omosessuali], però «senza disturbare gli altri». Che è un concetto o superfluo o bizzarro. Buttato lì somiglia terribilmente a quei discorsi delle zie beghine rivolti a qualsiasi gruppo “estraneo” al proprio angusto panorama (per etnia, nascita, o per appartenenza a una città diversa da quella del proprio nipote che è tanto un caro ragazzo): «Che vengano pure in casa mia, basta che si lavino».
Mi viene in mente un giudice di pace statunitense che, rifiutandosi di celebrare un matrimonio tra una donna e un uomo di etnie diverse, si giustificò scivolando ancora più in basso: «Mica sono razzista io, ho tanti amici [ricorda qualcosa?] neri e vengono a casa mia e usano il mio bagno». Il tipo si chiamava Keith Bardwell. Era il 2009, mica il 1950. Ma il matrimonio no, fossi matto, chissà poi cosa succede ai bambini – stesso “argomento” di Barilla e di molti contro le adozioni gay e la genitorialità senza discriminazione.
Che Barilla pensi quello che vuole – ovviamente – ma ciò che è sorprendente è l’aver candidamente elencato abbastanza aggettivi da far innervosire moltissime persone. E far innervosire moltissime persone non è una geniale scelta di marketing. Nel giro di poche ore si sono moltiplicate le iniziative di boicottaggio, il cui effetto è per ora difficile da valutare anche se è verosimile pensare che nessun presidente aziendale consiglierebbe una strada del genere. Ingenuità? Un calcolo sbagliato? Ci vorrebbe un mago per capirlo, così come ci vorrebbe un allenato interprete di auspici per capire perché ha accettato di essere intervistato in quel contesto in cui – ormai lo sanno tutti – il minimo che può capitarti è di dire idiozie. Se non sei abbastanza sfortunato o di malumore per avere voglia di spaccare una sedia in testa al tuo interlocutore.
Soprattutto in un momento come questo, in cui ancora non si è sopito il clamore sollevato dalla discussione sulla legge sull’omofobia, sull’emendamento e sul subemendamento. Quel clamore in cui tutti hanno sentito l’urgenza improrogabile di intervenire, anche prima di leggere il testo, anche prima di capire, anche senza avere intrinsecamente la capacità di capire.
La parola d’ordine è: riempire un silenzio necessario. E allora, forse, anche Barilla è caduto in questa trappola – da lui stesso costruita eh, mica è una povera vittima di un complotto ordito alle sue spalle. Comunque Barilla è a favore del matrimonio, magari non entusiasta («facessero quello che vogliono»), tuttavia più avanzato di tanti altri. L’adozione no, non esageriamo, che poi lui è padre e conosce le complessità già da padre etero. Non aggiungiamo ulteriori complicazioni. Quali sarebbero le complessità da padre non etero rimane un mistero.
Peggio degli insensati aggettivi di Guido Barilla? Le sue scuse tardive – «sono stato malinteso», «volevo semplicemente sottolineare la centralità del ruolo della donna all’interno della famiglia» (come?!) – e chi lo difende, come il Moige – che è a favore della famiglia “naturale”, altro nonsense galattico – e Eugenia Roccella, secondo la quale Barilla è addirittura coraggioso nel difendere la famiglia “formata da un uomo e una donna”, come se qualcuno la stia minacciando. Come se l’uguaglianza fosse rischiosa. Il punto dolente, infatti, non è avere «un’idea del matrimonio diversa da quella dei militanti gay» ma ricordarsi che il matrimonio in Italia è discriminatorio. Se tutti potessero sposarsi, sarebbe quasi divertente ascoltare queste farneticazioni da finti tonti. Circondati come siamo da disparità e ingiustizia, è un po’ più facile prenderli sul serio. Ma è comunque un errore gravissimo, come quando rispondiamo a uno che parla nel sonno.
Il Secolo XIX, 27 settembre 2013.
Postato da Chiara Lalli alle 15:35 0 commenti
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