sabato 30 aprile 2011

venerdì 29 aprile 2011

Questa orrenda prepotenza

Adriano Sofri sulla Repubblica di ieri («Diritto di vivere diritto di morire», 28 aprile 2011, p. 1):

Ministri e Parlamento vogliono decretare che la nutrizione forzata (avete provato? Io sì) non è una terapia. Hanno decretato che una ragazza cui vanno tutti i miei auguri era, secondo il capo del governo, una nipote d’Egitto. Scherzi da prete, seriamente argomentati e votati da uomini (e donne) adulti e ben pagati: al cui colmo sta lo scherzo da vescovo per il quale la persona non può decidere di sé, della propria nutrizione forzata, della rinuncia a cure non più volute e anzi temute e aborrite. Si è detto mille volte che il risvolto paradossale di questa orrenda prepotenza sta nella diffusa indifferenza al bisogno di aiuto morale e materiale di coloro che, a costo di ogni sofferenza, desiderano continuare a essere curati e a vivere. Si usa come un esorcismo la parola “eutanasia”, facendone il sinonimo del rifiuto dell’accanimento della cura. E si ignora la differenza da chi rivendica una libertà per sé battendosi perché a ciascun altro sia assicurata la stessa libertà, anche quando si traduca in scelte opposte. È questa, oltre alla constatazione di un governo e una maggioranza parlamentare di introvabile ottusità e arroganza, la ragione vera della superfluità di una legge, che non vuole garantire a tutti un diritto, ma solo negarlo ad alcuni (e gli alcuni sono per di più la maggioranza dei cittadini: ma sarebbe lo stesso se si trattasse della minoranza di uno). […]
Dirò un’ultima cosa seria a Berlusconi e a chi per lui. Questa legge solleva in tante persone di ogni età e condizione d’animo e di salute una paura, un’offesa e uno scandalo tali che potrà diventare il fomite di decisioni estreme, dettate dalla volontà di sottrarre sé o i propri cari a una violazione e una sofferenza senza riparo. Ci pensi, chi abbia ancora a che fare con la vocina della coscienza.

mercoledì 27 aprile 2011

La legge truffa

Il premier invia una lettera in vista dell’arrivo in Aula alla Camera del disegno di legge sul testamento biologico. Il testo, scrive il presidente del Consiglio, è “un risultato largamente condivisibile di sintesi e di mediazione alta”.
No, il testo è una mostruosità ripugnante.

Poi presogue:
Questa legge sancisce per la prima volta il principio laico di 'consenso informato' per cui nessun trattamento sanitario può essere compiuto sul paziente senza che questi abbia espresso il proprio consenso assicurando così la libertà di cura.
Cosa dice? Per la prima volta? Cosa dice? (Per esasperazione incollo il link a questo).

Uomini e topi


Nel dicembre 2010, su queste pagine, Umore Maligno fa una battuta sulla sperimentazione animale. I protagonisti sono un cagnolino sottratto alla ricerca medica e un bambino che sta morendo di leucemia. Nelle settimane seguenti alla redazione del Mucchio arrivano molte mail di protesta. I temi più comuni e ricorrenti sono l’inopportunità di fare dell’ironia su un argomento tanto spinoso e l’inutilità della sperimentazione animale. In tutte le lettere si condanna la vivisezione. La scelta del termine è significativa. Riguardo alla critica che scherzarci su non sarebbe ammesso o gradito, ognuno sceglierà se concordare o sollevare dubbi al riguardo. L’ironia è un’indubitabile manifestazione di cinismo indifferente? I controesempi, dai giullari a Train de vie, sarebbero tanto numerosi da portarci su un altro piano e su un altro pezzo. Lasciamo da parte il come si parla e si scrive e arriviamo ai contenuti: l’aspetto che più colpisce del dibattito sulla sperimentazione animale è il disaccordo sulla utilità scientifica del ricorso agli animali.

(A CHE) SERVE LA SPERIMENTAZIONE ANIMALE?
Decido di saperne di più sulla storia e sui risultati medici ottenuti passando attraverso la sperimentazione animale e di parlarne con Gilberto Corbellini, professore ordinario di Storia della medicina alla Sapienza di Roma.
Quando è cominciata la sperimentazione animale e che cosa oggi dobbiamo alle ricerche passate? Come sarebbe la nostra esistenza senza? Corbellini ci riporta al 300 a.C. e alla scuola medica di Alessandria: la filosofia naturalistica antica cerca di capire come funzionano gli organismi viventi. Comincia la sperimentazione sugli animali umani e non umani. “Galeno, circa quattro secoli più tardi, ha costruito la sua dottrina fisiologica sulla sperimentazione animale. C’erano molte ingenuità, perché trasferiva agli uomini le osservazioni fatte sulle scimmie, sugli ungulati e sui cani, senza rendersi conto che non era possibile trasferire per analogia all’uomo queste osservazioni. Pensava che l’utero umano fosse a forma di corno, perché così era quello di cane”.

[...]

LA COSCIENZA DEGLI ANIMALI
Il manifesto dell’iniziativa nata esattamente un anno fa e voluta da Maria Vittoria Brambilla per promuovere il rispetto per “i nostri amici a quattro zampe” solleva perplessità fin dal titolo. Gli animali non umani avrebbero “un elevato livello di consapevolezza, coscienza, sensibilità e molti di loro hanno la capacità di sviluppare sentimenti”.
Quando si passa alla gerarchia di importanza, allora si perde davvero la pazienza.

- È necessario porre un freno al massacro degli animali nella stagione venatoria, fino alla totale abolizione della caccia.
- Va eliminata la inumana detenzione di animali nei circhi e negli zoo.
- Va drasticamente vietata l’importazione di animali esotici da altri Paesi e continenti.
- Va regolamentato il barbaro trasporto di animali da macello in condizioni vergognose, senza cibo e acqua per giorni, ammassati in spazi invivibili. Anche agli animali presenti negli allevamenti occorre garantire un ambiente sano e che consenta libertà di movimento.
- Deve essere sempre vietato il feroce sgozzamento degli animali da macello senza stordimento e la conseguente agonia per dissanguamento.
- Va vietata e penalizzata la vivisezione, che è priva di reale validità scientifica.
- Va inoltre punito l’abbandono degli animali domestici e la loro detenzione in condizioni degradanti e va promossa un’azione di sensibilizzazione contro l’uccisione di animali per ricavarne capi di abbigliamento, come le pellicce.
A parte la vaghezza dell’elenco e la mancanza di ipotesi per realizzare i punti indicati, a parte l’uso del termine “vivisezione”, a parte l’invito a regolamentare pratiche già regolamentate o a vietarne altre che già costituiscono reati (giustamente!, come l’abbandono o i maltrattamenti), a parte la perplessità di trovare Umberto Veronesi tra i firmatari del manifesto (sostiene il divieto della sperimentazione lui che incarna contemporaneamente la lotta ai tumori?), la promozione della sensibilizzazione contro l’uccisione di animali per farne pellicce lascia davvero sgomenti.
Si vuole vietare l’importazione di animali esotici e solo sensibilizzare sulle pellicce? Allevare e scuoiare ermellini e volpi è moralmente preferibile alla detenzione in uno zoo? E secondo quale gerarchia? Quella delle prime alla Scala di Milano?

Su Il Mucchio Selvaggio di maggio.

Pink and Blue

If you are buying clothes for a newborn, what color do you buy? The general rule these days is that girls are more likely to wear pink and boys are more likely to wear blue. But that wasn’t always the case. In 1918, an article in Ladies Home Journal advised: “The generally accepted rule is pink for the boys, and blue for the girls. The reason is that pink, being a more decided and stronger color, is more suitable for the boy, while blue, which is more delicate and dainty, is prettier for the girl.”
David Brooks, april 22, 2011.

Chernobyl Legacy

Play (Magnum Photos).

martedì 26 aprile 2011

Referendum rien ne va plus



Ogni gioco ha le proprie regole. Se non le rispetti non dovresti poter giocare o, almeno, gli altri dovrebbero accusarti di cialtroneria e estrometterti. Vale per gli scacchi e per il calcio, perché non dovrebbe valere per la deliberazione? Ecco, allora, quali sono le regole della buona deliberazione: conoscere il tema su cui si delibera, soprattutto nel caso di un referendum che ci invita a scegliere tra il “sì” e il “no” su una specifica questione; saper costruire buoni argomenti e saper riconoscere quelli fallaci o deboli; essere in grado di analizzare gli argomenti proposti a favore delle diverse posizioni e, dopo le necessarie informazioni, anche costruirne a sostegno della posizione prescelta. A contare insomma non è tanto il risultato finale, ma come ci arriviamo. Come in un processo non ci si può limitare, tanto nella difesa che nell’accusa, a proclamare: “Sono innocente!”, ma è necessario costruire ipotesi credibili e coerenti. Sembra scontato, ma non lo è affatto, abituati come siamo a sentir parlare tuttologi presuntuosi che si cimentano in monologhi di dubbia tenuta razionale. Di questo parliamo con il filosofo Giovanni Boniolo, autore di Il pulpito e la piazza, Democrazia, deliberazione e scienze della vita (Cortina, 2011, pp. 316, euro 26).

Cominciamo con alcune definizioni di concetti fondamentali della nostra vita politica: deliberazione, democrazia partecipativa, con particolare attenzione alla forma aggregativa, e referendum.
L’idea della democrazia partecipativa si basa sul fatto che siano i cittadini a partecipare attivamente al processo democratico. Nella versione deliberativa i cittadini, che partono da punti di vista diversi, attraverso un dibattito ben costruito dovrebbero arrivare a una scelta - politica o di etica pubblica - comune. Questa deliberazione dovrebbe essere basata su un processo razionale. Il referendum è uno dei modi in cui il cittadino viene chiamato direttamente a decidere, è una forma di democrazia diretta. Non prevede però alcuno strumento che permetta una buona costruzione del modo in cui decidere.
Soprattutto ora e specie in Italia, il referendum è diventato un modo di decidere senza una preparazione corretta, senza un precedente dibattito pubblico ben costruito e ben realizzato, senza un vero e proprio dibattito deliberativo. Prima ci si dovrebbe informare e discutere e solo poi andare alle urne. Sfortunatamente questo da noi non avviene quasi mai. Pensiamo a ciò che accadde con il referendum sulla Legge 40 nel giugno del 2005: la battaglia si è svolta a colpi di slogan e nessuno ha spiegato cosa fosse un embrione, quali fossero i problemi filosofici sollevati dalle tecniche riproduttive e perché i cittadini erano chiamati a votare. Di solito, si verifica una manipolazione dell’immaginario e della conoscenza collettivi, non si informa correttamente (cioè in modo non ideologico) il cittadino né gli si forniscono quegli strumenti che gli permetterebbero di ragionare in modo non fallace.Ma in fondo a chi veramente interessa un cittadino informato e razionalmente critico?

Su Il Mucchio Selvaggio di maggio.

Pagina 3

Pagina 3 è una rassegna delle pagine culturali in onda su Radio 3 ogni giorno dalle 9 alle 9.30.
Dallo scorso finesettimana il sabato e la domenica ci sono io in conduzione. Qui la puntata di domenica e quella di sabato.

martedì 19 aprile 2011

Leggere prima di commentare

Dicevamo su questo blog, poco più di una settimana fa, come la sentenza pronunciata dalla Quarta Sezione Penale della Cassazione il 13 gennaio scorso fosse molto diversa da quanto andavano raccontando all’unanimità giornali e altri media, che si erano inventati dal nulla un solenne pronunciamento contro l’accanimento terapeutico. Adesso la verità emerge anche altrove; ecco cosa scriveva ieri Mario Pirani, come sempre inappuntabile («Chirurghi sotto accusa con sentenza inventata», La Repubblica, 19 aprile 2011, p. 26):

La seconda citazione è tratta dall’editoriale del Corriere Medico, a firma del presidente dell’Ordine dei medici di Roma Mario Falconi […]: «Suggerisco un’Authority contro i media che manipolano la realtà... Persino una recente sentenza della Cassazione è stata stravolta con palese alterazione della verità». Come, del resto, sostiene la terza citazione, un comunicato a firma di Giovanni Hermanin, già assessore della giunta Veltroni ed oggi responsabile Sanità dell’Api (Alleanza per l’Italia), secondo cui «non esiste nessuna sentenza della Cassazione che affermi quanto riportato su tutti i giornali in merito agli interventi chirurgici su pazienti in condizioni estreme». Il comunicato si riferisce, appunto, alla notizia riportata con grande rilievo, su una condanna, sancita dalla Cassazione, nei confronti di tre chirurghi […] i quali avrebbero operato, suffragati dal consenso informato della paziente e dei familiari, una giovane donna, con due figli, al fine di prolungarne almeno per qualche tempo la vita. Il tentativo però fallì, ma la famiglia, consapevole del suo impegno, si guardò bene dal denunciare gli operatori. Questi furono egualmente condannati e ricorsero fino alla Cassazione per rivendicare la giustezza del loro operato. Sulla base però di una interpretazione erronea diffusa dalle agenzie, la notizia venne data come se la Suprema Corte avesse condannato i chirurghi e stabilito «in modo perentorio il principio secondo cui gli interventi chirurgici senza speranza (chi può definirli in anticipo? ndr) non devono essere tentati anche se esiste il consenso informato del paziente». Per capirne di più ho letto integralmente la sentenza la quale, in buona sostanza, non ha condannato nessuno né emesso alcun principio, ma, preso atto del decorso del termine di prescrizione, si è limitata a dichiarare estinto il reato, rifiutando di entrare nel merito. Resta da chiedersi perché sia stata fatta circolare una versione così ingannevole. […]
La coscienziosità di Pirani, che è andato a leggersi la sentenza, può utilmente essere messa a confronto con quella di Massimo Gandolfini, che su AvvenireOttimi princìpi ribaditi [e legge benvenuta]», 16 aprile, p. 2), ancora tre giorni fa, adoperava la versione di fantasia del pronunciamento della Cassazione per giustificare la legge sulle DAT in discussione alla Camera, pur dichiarando – molto candidamente, almeno in apparenza – di non conoscere gli atti del «caso specifico»! A merito di Gandolfini va comunque ascritto di averci fatto capire quale sia la risposta alla domanda di Pirani: perché è stata fatta circolare una versione così ingannevole della sentenza? Il motivo, a questo punto, è evidente...

giovedì 14 aprile 2011

How Did Dinosaurs Have Sex?

Slate, april 13, 2011.

Feticidio

Bei Bei è quasi alla fine della gravidanza. Il compagno la lascia e le rivela che ha già una famiglia. Bei Bei tenta il suicidio ingerendo del veleno per topi. Non si sente subito male, è un amico cui confida cosa ha fatto a portarla in ospedale. Angel nasce il 31 dicembre, ma muore un paio di giorni dopo.
Bei Bei è accusata di omicidio e feticidio e dovrà affrontare un processo. Comunque la si pensi, la vicenda è sintomatica di un clima inferocito e presenta molti nodi difficili da sciogliere. La legalità della interruzione di gravidanza, l’attribuzione di diritti all’embrione, i diritti della donna, la possibilità di scegliere su se stesse e il proprio corpo (tenendo a mente Judith Jarvis Thomson), la considerazione delle condizioni psicologiche di Bei Bei, l’uso politico di casi umani, la legge federale Unborn Victims of Violence Act (e la simpatia verso questa legge soprattutto da parte di alcuni Stati ultraconservatori, come l’Indiana) - tutto questo e molto altro si intreccia in questa vicenda di cronaca. Come al solito, l’unica reazione da evitare è quella di fare finta di niente.

Alla pancia non si comanda

Giorgio Israel cita con approvazione un passo de L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera: glielo ha fatto venire in mente, dice, l’odierna «dilagante ossessione di rifugiarsi nel riduzionismo biologico».

L’autore narra che la prima volta che Tereza entrò nell’appartamento di Tomás, il suo futuro amante, la sua pancia si mise a gorgogliare, rivelando così «l’inconciliabile dualità di corpo e anima, esperienza umana fondamentale». […] Ormai, osserva Kundera, la scienza ci spiega «che l’anima non è che un’attività della materia grigia del cervello. La dualità di corpo e anima si è avviluppata in una terminologia scientifica e ne possiamo ridere allegramente come di un pregiudizio fuori moda. Ma basta innamorarsi follemente e sentire il brontolio del proprio intestino, perché l’unità di corpo e anima, questa lirica illusione dell’età della scienza, svanisca di colpo».
A me – che pure non sono un riduzionista radicale – sembra che un’esperienza come quella di Tereza riveli non la dualità di corpo e anima, ma al massimo la dualità di intestino e cervello. Ma forse sono troppo prosaico...

(Nella foto: “Big Brain Small Stomach”, di Olaf Breuning.)

mercoledì 13 aprile 2011

“L’acqua che elimina l’acqua”

Ogni cittadino sa già che i prossimi 12 e 13 giugno 2011 si voterà su 4 quesiti referendari. Due di questi riguardano l’acqua e la sua gestione: pubblica o privata? (Qui i quesiti per intero e le tappe che hanno portato fino al referendum). La questione è complessa e lo spazio che il referendum lascia ai cittadini è angusto. Non ci possono essere sfumature o aggiustamenti. È richiesta una risposta secca: “sì” o “no”. In effetti ci sarebbe anche la possibilità di annullare le schede, oppure quella di non andare a votare. Se si vuole esprimere un parere in modo esplicito però rimane il “sì” oppure il “no”, perché le ragioni dell’annullamento o dell’astensione rimarrebbero oscure e implicite.

Tutte queste scelte hanno qualcosa in comune: il bisogno di sapere cosa ci viene chiesto se non vogliamo calpestare il significato profondo dello scegliere. Come potremmo scegliere se ignoriamo l’argomento di cui si discute? Si può sempre votare a caso o decidere se votare o andare in gita a seconda del tempo, ma non sarebbe l’esercizio di un diritto di voto. Non sarebbe una scelta, ma un segno su un pezzo di carta. Dopo avere conosciuto l’argomento, dovremmo conoscere le ragioni a favore delle diverse posizioni e, infine, decidere come votare.

Un ben intenzionato cittadino X, simpatizzante per il sì, non ne sa ancora abbastanza e vuole informarsi per tempo. Il nostro cittadino non vuole votare tanto per fare, non vuole eseguire quanto il proprio partito gli indica, né la portinaia o la fidanzata che magari è ambientalista oppure è una fan delle privatizzazioni. Vuole conoscere le ragioni a favore delle diverse posizioni per poi decidere quale gli sembra più convincente, cioè quale possa vantare le argomentazioni più forti. Vuole esercitare il suo diritto di scelta e non essere il burattino nelle mani di qualcuno. Vuole trasformare la sua simpatia in una argomentazione forte, magari per poter convincere altri cittadini – correndo volentieri il rischio di dovere arrendersi alle ragioni del no, se fossero migliori di quelle del sì.

Ecco allora il nostro cittadino che cerca su Google e arriva alla pagina del Comitato promotore per il sì all’acqua pubblica. Sembra il luogo adatto. Alla sezione “perché l’acqua” il cittadino si aspetta di trovare le ragioni per cui si dovrebbe votare sì.

“L’acqua deve essere pubblica perché ognuno di noi è fatto al 70% di acqua” c’è scritto alla prima riga. Qui il cittadino si confonde, perché non capisce l’argomento. Non è certo su quella percentuale di acqua che siamo chiamati a votare. Non letteralmente insomma: non ci sono signori grigi che vogliono comprare la nostra acqua, in una specie di versione acquatica di Momo.

Deve esserci qualche passaggio implicito, che però il cittadino non riesce a cogliere. Spera che proseguire nella lettura possa aiutarlo a capire, ma molti altri “perché” suscitano la sua perplessità.

Continua su iMille Magazine di oggi.

martedì 12 aprile 2011

Obiezione a costo zero



Lo scorso 25 febbraio, sollecitato da un quesito del deputato Udc Luisa Capitanio Santolini, al Comitato Nazionale per la Bioetica è stato chiesto di esprimersi riguardo alla possibilità per i farmacisti di fare obiezione di coscienza sulla cosiddetta pillola del giorno dopo, ovvero sulla possibilità di non vendere quei farmaci di emergenza «per i quali nel foglio illustrativo non si esclude la possibilità di un meccanismo d’azione che porti all’eliminazione di un embrione umano». Nel comunicato stampa diffuso tempestivamente dalla Presidenza del Consiglio si legge che «in merito al problema specifico all’interno del CNB sono emersi orientamenti bioetici differenti», tuttavia, «a fronte dell’ipotesi che il legislatore riconosca il diritto all’obiezione di coscienza del farmacista e degli ausiliari di farmacia, i componenti del CNB si sono trovati d’accordo che, nel rispetto dei principi costituzionali, si debbano considerare e garantire gli interessi di tutti i soggetti coinvolti, come generalmente previsto in situazioni analoghe. Presupposto necessario e indispensabile per l’eventuale riconoscimento legale dell’obiezione di coscienza è, dunque, che la donna debba avere in ogni caso la possibilità di ottenere altrimenti la realizzazione della propria richiesta farmacologia e che spetti alle istituzioni e alle autorità competenti, sentiti gli organi professionali coinvolti, prevedere i sistemi più adeguati nell’esplicitazione degli strumenti necessari e delle figure responsabili per la attuazione di questo diritto».
In linea di principio, dunque, il CNB riconosce al farmacista (e persino al suo ausiliario) il diritto di sottrarsi ai propri doveri professionali rimpallando allo Stato il dovere di garantire comunque l’accesso al farmaco da parte della paziente, in totale analogia con quanto già previsto per i medici nel caso dell’interruzione volontaria di gravidanza. Considerato il devastante impatto che il ricorso all’obiezione di coscienza ha avuto sull’applicazione della legge 194 (sono obiettori oltre il 70% dei ginecologi (con picchi dell’85% nel Lazio e in Basilicata), oltre il 50% degli anestesisti e circa il 43% del personale non medico (Relazione del Ministro della salute sulla attuazione della legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza Legge, 194/78 - Dati preliminari 2009, dati definitivi 2008) e l’importanza di assumere il farmaco il prima possibile (se il farmaco viene assunto nelle 12 ore successive al rapporto sessuale l’efficacia è di circa il 95%, si scende al 60% nelle 72 ore successive), c’è di che preoccuparsi. E dunque, seppure in attesa di poter leggere il documento del CNB (ora disponibile qui), non ancora disponibile nel momento in cui scriviamo, a dieci giorni dalla sua approvazione, cerchiamo di capire a cosa stiamo andando incontro.

Su Sapere di aprile.

lunedì 11 aprile 2011

Una sentenza immaginaria

E così, la Corte di Cassazione avrebbe solennemente stabilito il principio che non basta il consenso informato per dare legittimità all’azione del medico; che i chirurghi che sottopongono i pazienti a interventi inutili tradiscono il giuramento di Ippocrate; che le operazioni senza speranza non devono essere nemmeno tentate. Questo abbiamo letto sui giornali nei giorni scorsi. Secondo Assuntina Morresi («Cassazione doppia. Chiarezza urgente», Avvenire, 10 aprile 2011, p. 2), quella pronunciata dalla Quarta Sezione Penale della Cassazione il 13 gennaio scorso sarebbe in più

una sentenza, insomma, in accordo con la legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) in discussione in Parlamento, per la quale il medico deve tenere conto delle volontà espresse dal paziente quando ancora era in grado di farlo, ma non è obbligato a eseguirle, perché non può trasformarsi in un mero esecutore delle sue richieste. E un alibi in meno a chi sostiene che la legge sulle Dat è incostituzionale perché le indicazioni contenute non sono vincolanti. Ancora una volta si conferma che l’autodeterminazione del paziente non è assoluta, perché non basta il suo consenso a rendere legittimo qualsiasi intervento medico: il professionista non può scaricare sul malato la responsabilità che gli compete, quella cioè del giudizio ultimo sulla terapia da intraprendere, sospendere, o non iniziare affatto.
È un vero peccato che tutte queste interpretazioni abbiano poco – e in qualche caso, nulla – a che fare con la vera sentenza.

Partiamo dai fatti. Il 10 dicembre 2001, all’Ospedale S. Giovanni di Roma, tre chirurghi sottopongono una paziente affetta da un tumore con metastasi diffuse a un intervento chirurgico. A una laparoscopia iniziale fa seguito una laparotomia, con cui vengono asportate le ovaie e una parte della massa neoplastica. Durante la notte la paziente si sente male e, nonostante i tentativi di rianimazione, muore all’una del giorno dopo. L’esame autoptico identificherà la causa della morte in una grave emorragia interna. L’accusa che viene formulata contro i tre medici è, in primo luogo, di aver causato lesioni alla milza e al legamento falciforme della donna, che sarebbero la causa del sanguinamento fatale. I tre sostengono invece che l’emorragia sarebbe stata causata dal cedimento fortuito e imprevedibile dei punti metallici usati per suturare i vasi sezionati, dovuto alle cattive condizioni dei tessuti operati.
In secondo luogo, si accusano gli imputati di aver violato le
disposizioni dettate dalla scienza e dalla coscienza dell’operatore. Nel caso concreto, attese le condizioni indiscusse ed indiscutibili della paziente (affetta da neoplasia pancreatica con diffusione generalizzata, alla quale restavano pochi mesi di vita e come tale da ritenersi “inoperabile”) non era possibile fondatamente attendersi dall’intervento (pur eseguito in presenza di consenso informato della donna quarantaquattrenne, madre di due bambine e dunque disposta a tutto pur di ottenere un sia pur breve prolungamento della vita) un beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita. I chirurghi pertanto avevano agito in dispregio al codice deontologico che fa divieto di trattamenti informati a forme di inutile accanimento diagnostico terapeutico.
Va notato che, contrariamente a quanto sostenuto da quasi tutte le fonti giornalistiche, queste non sono parole della Cassazione ma bensì della Corte d’Appello (i tre imputati, condannati in primo e secondo grado per omicidio colposo, avevano fatto ricorso alla Suprema Corte). Ma questo è in fondo solo un dettaglio. Il punto fondamentale è che, nel loro ricorso, i tre chirurghi non hanno mai messo in discussione il principio che non si devono praticare interventi inutili. Non hanno legittimato le proprie azioni invocando il consenso informato ottenuto dalla paziente; meno che mai nessuno di loro ha cercato di «scaricare sul malato la responsabilità che gli competeva». Come avrebbero potuto, del resto? La Corte d’Appello non aveva introdotto nessuna novità, ma solo ricordato un articolo del Codice deontologico dei medici, il n. 16, che recita:
Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita.
(Nel linguaggio del Codice «anche tenendo conto» va interpretato come «neppure tenendo conto».) Questo è un principio di banale buon senso, che nessun medico ha mai messo o metterebbe in discussione (anche se non tutti i medici, purtroppo, operano poi in conformità ad esso). Dovrebbe anche essere evidente che il principio secondo cui il paziente non può pretendere che il medico compia qualsiasi azione non inficia per nulla – anzi a ben vedere conferma – il principio complementare secondo cui neppure il medico può pretendere che il paziente subisca qualsiasi azione.
I tre imputati si sono invece difesi asserendo che l’operazione non appariva in partenza così disperata, essendo in quel momento l’origine del tumore ancora incerta: se fosse stato un tumore ovarico, la donna avrebbe potuto sopravvivere anche tre anni in più (le analisi successive hanno confermato che si trattava invece di un tumore del pancreas). I tre hanno anche lamentato il fatto che l’addebito di aver voluto effettuare l’intervento chirurgico non era stato contestato nel capo di imputazione, pregiudicando così la loro piena possibilità di difendersi; e questo è tutto.
La Cassazione ha annullato la condanna della Corte d’Appello per l’intervenuta prescrizione; ha giudicato che le prove addotte contro gli imputati non fossero contraddittorie o insufficienti, e che non si potesse quindi proscioglierli nel merito. Ha giudicato infine di non poter rilevare eventuali vizi di motivazione o analizzare questioni di nullità, a causa dell’avvenuta estinzione del reato. Non ha affermato o ribadito e neppure soltanto nominato nessun principio giuridico a proposito del consenso informato – cosa naturale, dato che nessun principio del genere, come abbiamo visto, era stato messo in questione dai tre ricorrenti.
Questo, almeno, nella sentenza reale; in una sentenza immaginaria, com’è noto, si può leggere qualsiasi cosa – soprattutto, qualsiasi cosa confacente ai propri scopi.

giovedì 7 aprile 2011

I codici di (vile) metallo della Giordania

Mentre sui giornali di tutto il mondo impazzano le interpretazioni più fantasiose sui codici di piombo e rame della Giordania che riporterebbero notizie clamorose sugli esordi del cristianesimo, sul Times Literary Supplement lo storico di Oxford Peter Thonemann ci spiega come è riuscito l’anno scorso a dimostrare al di là di ogni dubbio che uno di questi documenti è un falso estremamente grossolano, e come probabilmente lo siano anche tutti gli altri («The Messiah codex decoded», 6 aprile 2011). Thonemann aveva informato della cosa David Elkington, il principale promotore della «clamorosa scoperta», ma senza risultato.
Va detto che i blog hanno battuto sul tempo i media tradizionali: il 31 marzo un resoconto dello stesso Thonemann («Peter Thonemann on the Lead Codices»), più dettagliato di quello pubblicato dal TLS, è apparso sul blog di Daniel O. McClellan. Il giorno dopo è stato ripreso anche da James R. Davila («Hebrew-Inscribed-Metal-Codices Watch: A Fake», Paleojudaica, 1 aprile); questo post è stato meritoriamente tradotto in italiano da Luigi Walt («Il codice (coi piedi) di piombo», Paulus 2.0, 3 aprile). Anche la vituperata Wikipedia ha offerto finora un articolo tempestivamente aggiornato su tutti gli sviluppi.

Le riflessioni sul rapporto fra nuovi media e media tradizionali che il caso ci propone sono banali e quindi le tralascio.

domenica 3 aprile 2011

Forse Marcello Veneziani non è un intellettuale modesto

Ho sempre considerato Marcello Veneziani un intellettuale modesto. Mai originale, mai scintillante, ottusamente conservatore, eternamente risentito nei confronti prima della «Sinistra» e poi degli ex camerati di AN, strategicamente schierato a difesa dell’Indifendibile.
Vedo però adesso che dovrei forse modificare il mio giudizio. Ecco cosa scrive Veneziani in difesa dell’ultima uscita di Roberto de Mattei («Cacciate quello studioso, è un cattolico vero», Il Giornale, 2 aprile 2011, p. 1):

È uscito in questi giorni un film terribile, «Non lasciarmi», dove un gruppo di cloni umani viene allevato per fornire pezzi di ricambio all’umanità. Dopo gli espianti d’organi, le loro giovani vite «completa­no» il loro corso, cioè muoiono. Ma quei cloni sono ragazzi e hanno emozioni, pen­sieri, amori, anima.
A pensarci, quel Dio crudele che manda catastrofi per liberare dal peccato è come quella Scienza crudele che manda a mori­re le sue creature per liberare dalle malat­tie. Anche lo scientismo ateo ha le sue vitti­me ed esige, come il Dio del Vecchio Testa­mento, di sacrificare Isacco in suo nome. Che dite, cacciamo pure i ricercatori che credono nella Scienza assoluta, o più sag­giamente puniamo le violazioni ma non le convinzioni?
Il problema di questo ragionamento è che Non lasciarmi non è un documentario: è un film di fantascienza. Le «vittime» che Veneziani addebita allo «scientismo ateo» sono i personaggi di un’opera di fantasia. E nonostante tutti i miei sforzi, non riesco a capire come si possano imputare ai «ricercatori che credono nella Scienza assoluta» – ammesso che esistano – non dico le opere, ma anche solo le intenzioni dei mad scientists ritratti in un film.
Un altro paragone di questo genere, e non considererò più Marcello Veneziani un intellettuale modesto. Lo giudicherò, più semplicemente, un cretino.

sabato 2 aprile 2011

Perché de Mattei dovrebbe dimettersi?


Le dichiarazioni sulla catastrofe giapponese (qui in trascrizione), rilasciate a Radio Maria dal vicepresidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) Roberto de Mattei, hanno sollevato un’indignazione diffusa; i promotori di una petizione online le hanno giudicate incompatibili con la carica ricoperta da de Mattei, di cui pertanto hanno chiesto e invitato a chiedere le dimissioni. Ma se è intuitivo riconoscere la contraddizione tra certe credenze e la vicepresidenza del massimo ente scientifico italiano, meno immediato risulta specificare in che cosa consista esattamente questa incompatibilità.
Diciamo subito che Roberto de Mattei ha dimostrato da tempo di non poter ricoprire quella carica. Creazionista, organizzatore nel 2009 di una conferenza di creazionisti (i cui atti sono stati malauguratamente pubblicati con un contributo finanziario dello stesso CNR), de Mattei dichiarava ancora pochi giorni fa, in margine alla vicenda odierna:

Oggi […] nel mondo cattolico è penetrata una visione evoluzionista e poligenista, per cui il genere umano non proverrebbe da una coppia primordiale. Ma Pio XII nell’enciclica Humani Generis ha riaffermato che l’esistenza personale di Adamo ed Eva fa parte del magistero della Chiesa. Questa è una delle tante ragioni per cui un cattolico non può accettare le teorie di Darwin.
La scienza ha dimostrato da molto tempo che il genere umano non proviene da una coppia primordiale; ed è – dovrebbe – essere pacifico che l’ultima cosa che l’autore di queste rozze affermazioni antiscientifiche può fare è di detenere la carica di vicepresidente del CNR.
Ma oggi non stiamo parlando di questo. Tralasciamo l’evoluzione; cosa c’è di contrario alla scienza in ciò che de Mattei ha detto sul terremoto?
La risposta sarebbe immediata se avesse per esempio sostenuto che la teoria della deriva dei continenti è contraria alla vera religione, e che i sismi sono in realtà provocati direttamente da Dio che scuote la Terra; ma de Mattei non ha detto questo.
Si potrebbe replicare che se l’offesa alla ragione non riguarda i dati empirici, essa è però palese nell’argomentazione logica. In effetti, i ragionamenti esposti a Radio Maria sono pateticamente inadeguati: ammettiamo pure con de Mattei che ci sia «la sicurezza che le catastrofi possono essere, e talora sono, esigenza della giustizia di Dio»: questo vuol dire che nelle zone sismiche abitano in media più peccatori che nelle zone non sismiche? Come mai costoro si vanno a concentrare proprio lì? Consideriamo ancora questo altro punto:
Dio non potrebbe fare in modo che un terremoto colpisca il colpevole e rispetti l’innocente se non attraverso la moltiplicazione di miracoli, attraverso una profonda modifica del piano della creazione divina. Ora è chiaro che Dio può salvare e talvolta salva l’innocente operando un miracolo ma Dio non è obbligato a moltiplicare i miracoli o a rinunziare al piano della sua creazione per salvare la vita di un innocente.
Sono certo che de Mattei creda nell’attributo divino dell’onnipotenza; ma un dio onnipotente, per definizione, dovrebbe sempre essere capace di predisporre un «piano della creazione» in cui gli innocenti si salvino naturalmente e periscano solamente i rei. È chiaro che l’argomento di de Mattei si applica solo a un demiurgo severamente limitato, non alla divinità onnipossente della tradizione monoteistica.
Come si vede, i ragionamenti di de Mattei fanno decisamente acqua; e tuttavia sono un po’ restio a individuare qui il punto decisivo. Un apologeta un po’ più abile – o persino lo stesso de Mattei, se ci si impegnasse allo spasimo – potrebbe a forza di argomenti ad hoc rendere la questione tanto nebulosa da eludere una confutazione troppo banale. Se è vero che la scienza non si fa con le argomentazioni ad hoc, è anche vero che una teodicea un po’ discutibile non basta, da sola, a determinare una drastica incompatibilità con il mondo della scienza, visto che devono essere molto pochi, credo, gli scienziati perennemente e inflessibilmente razionali.
Qualcuno potrebbe notare che non è il singolo ragionamento bacato a costituire il problema, ma l’adesione di de Mattei a una fede superstiziosa e in quanto tale antiscientifica (a occhio direi che questa sia la posizione più diffusa tra quanti ne chiedono le dimissioni). Qui però il vicepresidente del CNR segna un punto quando obietta che
avanzare questa motivazione per chiedere che io mi dimetta equivale a esigere la cacciata dall’università di un fisico che crede al dogma della transustanziazione, certamente antiscientifico, per cui al momento della consacrazione eucaristica pane e vino diventano corpo e sangue di Cristo.
Siamo pronti a sostenere che un cattolico convinto non possa diventare un manager della ricerca scientifica? Si ripropone la risposta di prima: ci sono stati eminenti scienziati che hanno creduto in cose assolutamente folli (il più famoso di tutti era stato anche uno stimato funzionario pubblico, mentre scriveva trattati sull’alchimia e sull’Apocalisse). Certo, a chi è un poco meno eminente si perdona di meno; ma io non so nulla dei meriti di de Mattei come storico e come vicepresidente del CNR, e quindi mi asterrò dal seguire questa linea di pensiero.

Ma allora esiste davvero un motivo per cui le dichiarazioni di de Mattei dovrebbero provocarne le dimissioni? Nonostante tutto, mi sembra proprio di sì.
La scienza non è soltanto un’avventura conoscitiva; è anche un’attività tesa a migliorare in ogni modo la condizione dell’uomo, a evitare o sanare i mali che lo affliggono, a realizzare in altre parole «tutto quello che è possibile». L’Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria e l’Istituto di Geoscienze e Georisorse del CNR, per esempio, non si occupano soltanto di studiare teoricamente le dinamiche della Terra, ma anche di mitigare il rischio sismico. Ora, chi come de Mattei dice che
se la Terra non avesse pericoli, dolori, catastrofi la Terra eserciterebbe sopra di noi un fascino irresistibile, non ci accorgeremmo che è un luogo di esilio e dimenticheremmo troppo facilmente che noi siamo cittadini del cielo
sta implicitamente sostenendo che i pericoli ci devono essere, e che sarebbe un male se ne corressimo di meno (suppongo che per de Mattei Dio ce ne invii già la giusta misura). Chi come de Mattei dice che
sta scritto che Dio manda la morte prematura agli innocenti per liberarli da un triste avvenire
sta implicitamente sostenendo che combattere la morte prematura significa fare un danno agli innocenti, e contrastare l’opera di Dio. Come può un uomo che sostiene queste cose guidare credibilmente un ente di ricerca che ha tra i suoi scopi istituzionali quello di contrastare terremoti e altre catastrofi naturali?
È vero che per de Mattei Dio potrebbe avere anche
un fine di ordine morale, come per esempio acuire il genio dell’uomo, eccitarlo a studiare la natura per difendersi dalla sua potenza distruggitrice e così determinare il progresso della scienza
(in questo brano, per inciso, riappare il demiurgo semi-impotente che non ha altri mezzi per favorire il progresso della scienza); ma il fatto che qui palesemente de Mattei contraddica se stesso non basta ad assolverlo.
Un ultimo punto, che riguarda i terremoti nostrani, recenti e meno recenti. Da un uomo delle istituzioni quale è de Mattei, le vittime di una catastrofe – che assieme agli altri cittadini ne pagano lo stipendio – si aspetterebbero una solidarietà incondizionata, non la lezioncina di un amico di Giobbe che insinua il sospetto che i loro cari morti e loro stessi abbiano forse ricevuto ciò che meritavano:
le nostre colpe possono essere personali o collettive, possono essere le colpe di un singolo o quelle di un popolo ma mentre Dio premia e castiga i singoli nell’eternità è sulla Terra che premia o castiga le Nazioni, perché le Nazioni non hanno vita eterna, hanno un orizzonte terreno.
Roberto de Mattei può coltivare per sé come libero cittadino la sua personale superstizione. Non può farlo come vicepresidente del CNR.