lunedì 28 dicembre 2009

Per non pagare gli affitti

«Un'altra tragedia di questi microaccampamenti abusivi». Così il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha commentato l'episodio. Il sindaco durante la sua visita presso l'area dove sorge il micro campo abusivo ha sottolineato che «in questa zona già la polizia municipale è intervenuta quattro volte, aveva sgomberato e abbattuto baracche, in qualche caso, che poi sistematicamente si sono riformate. Si tratta di persone che vivono di piccoli lavori - ha aggiunto il sindaco dopo essere entrato in una delle baracche - che per non pagare gli affitti si attrezzano in questa maniera».
Fuoco in una baraccopoli, diciottenne carbonizzata, Il Corriere della Sera, 28 dicembre 2009.

mercoledì 23 dicembre 2009

Il perdono


"Perdono Tartaglia, purché i magistrati lo giudichino per ciò che ha fatto". Alle stesse condizioni perdonerei anche Berlusconi. [f. cocco]
Spinoza.it

(In effetti non ci dormivamo la notte).

sabato 19 dicembre 2009

Spot.Us

[...] vi parlo di monnezza, tanto per cominciare. Non di quella di Napoli, né di quella di Palermo, ma di quella che nell’oceano Pacifico copre una superficie pari a circa tre volte l’Italia. Si tratta di una vera e propria discarica galleggiante aggregata dal gioco delle correnti, in larghissima scala quel che accade negli angoli delle piscine poco curate. La cosa è di certo interesse, tanto che una giornalista americana free lance propone al New York Times un reportage. Il quotidiano si dice disponibile a pubblicarlo, ma non intende coprire le spese di viaggio, una voce consistente visto che l’area interessata si trova molto oltre l’arcipelago delle Hawaii. Lindsey Hoshaw, questo il nome della giornalista, non si perde d’animo e si rivolge a Spot.Us, un’organizzazione no profit che ha lo scopo di trovare i fondi per la realizzazione di reportage su argomenti inediti, di interesse generale, ma trascurati dai poli di informazione classici. In sostanza, sono i cittadini a sostenere i progetti da loro stessi proposti o dai reporter che hanno idee irrealizzabili senza il supporto pubblico. Come nel caso della pattumiera oceanica: la Hoshaw pubblica sul sito il suo progetto e inizia la colletta. Sulla base di una sorta di listino, viene stimato il costo per la realizzazione dell’articolo. I contributi, per inciso, sono di modica entità, normalmente pari a 20 dollari. Le regole stabiliscono che nessuno può donare somme superiori al 20% della somma prestabilita, ciò al fine di scongiurare il pericolo che soggetti spinti da interessi particolari esercitino pressioni sul giornalista. Da questa regola sono escluse solo le “news organizations”, cioè gli editori locali i quali, a fronte di coperture finanziare più corpose, che possono arrivare anche al 100%, acquisiscono diritti temporanei di esclusiva. Se invece la copertura è ottenuta solo con le sottoscrizioni dei cittadini, l’articolo che viene realizzato è ceduto liberamente per la pubblicazione a chiunque ne faccia richiesta. Il regolamento prevede ovviamente diverse fattispecie volte a tutelare i sottoscrittori per i loro contributi, i reporter per il loro impegno e le organizzazioni private che dei lavori giornalistici si avvalgono. Tra le varie possibilità previste da Spot.Us è da sottolineare quella per i cittadini di collaborare con i reporter nei casi in cui la mole di lavoro o la strategia operativa richiedano il contributo di più persone.
Continua: Popolo! Cosa ti interessa davvero?, di Emanuele Costanzo, FotoCult, dicembre 2009.

mercoledì 16 dicembre 2009

Fai agli islamici ciò che vorresti fosse fatto a te

Timothy Garton Ash risponde a uno degli argomenti più sciocchi avanzati dagli islamofobi, quello della reciprocità («I minareti e la sindrome svizzera», La Repubblica, 14 dicembre 2009, p. 31):

C’è chi ribatte che molti paesi islamici non consentono la costruzione di chiese cristiane. Perché allora i paesi europei dovrebbero permettere agli islamici di erigere minareti? È come dire beh, in America c’è la pena di morte, perché quindi in Italia non si condanna alla sedia elettrica Amanda Knox? Oppure: in Arabia Saudita lapidano le adultere, perché noi non dovremmo torturare gli arabi? In molti paesi a maggioranza musulmana è diffusa l’intolleranza verso i cristiani, gli ebrei ed altri gruppi religiosi (Bahai, Ahmadiyya ecc.) e, non da ultimo, verso gli atei, ma le nostre critiche a tale intolleranza sono credibili solo se in patria mettiamo in pratica i principi universali che predichiamo all’estero. Come disse un tempo qualcuno: fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te.
Considerazioni ovvie, ma a questo siamo costretti: a ripetere l’ovvio.

martedì 15 dicembre 2009

Ottanta anni fa

Il volantino riprodotto qui sopra (tratto da: Clara Gallini, Il ritorno delle croci, Roma, Manifestolibri, 2009, p. 71) è stato stampato nel 1926, in occasione della ricollocazione della croce (pesante cinque quintali!) nel Colosseo, e mostra Mussolini mentre saluta romanamente il crocifisso. Il testo recita:

LA CROCE che i passati Governi bandirono dalle scuole e dagli ospedali, togliendo così ai nostri Figli il culto della fede e ai morenti l’ultimo conforto fu per volere del DUCE ricollocata nelle aule e nelle doloranti corsie ed è oggi trionfalmente riportata nel Colosseo di dove cinquantaquattro anni or sono era stata rimossa. La domenica VII Novembre MCMXXVI una devota moltitudine di popolo si [parola incomprensibile] nel vetusto anfiteatro per rendere grazie alla CROCE che aveva pochi giorni avanti salvata all’Italia la preziosa esistenza del DUCE invitto. Un pio sacerdote, dopo il solenne Te Deum, pronunciava fra la più intensa commozione del popolo nobili e sante e patriottiche parole, così concludendo: LA CROCE CHE IL NOSTRO DUCE ONORA ED ESALTA È QUELLA CHE LO PROTEGGE.
Il testo allude al fallito attentato a Mussolini eseguito il 31 ottobre di quell’anno dall’anarchico quindicenne Anteo Zamboni, linciato immediatamente dopo il fatto dai fascisti. Si trattava del quarto tentativo fallito in un anno, e il regime ne approfittò per inasprire la dittatura.
Interessante l’accenno del volantino al fatto che i crocifissi erano stati in precedenza rimossi da aule ed ospedali, contrariamente alla vulgata che circola attualmente, interessata (per ovvi motivi) a mettere il rilievo la continuità di quella presenza.

lunedì 14 dicembre 2009

Una occasione mancata: il silenzio

Il commento di Rosy Bindi mi fa pensare alla triste storiella della gonna come attenuante per uno stupro. Insomma te la sei cercata.
Bindi dimostra coraggio solo in modi inopportuni.

Le Usl venete assumano medici e infermieri, non preti!

Bacio le mani
Le Usl Venete hanno deciso di assumere 96 preti come assistenti spirituali per un esborso annuo di oltre 2 milioni di euro.
Saranno assunti a tempo indeterminato, su indicazione dei vescovi e parificati nel trattamento agli infermieri professionali laureati (categoria D).
Nelle Usl venete ci sono circa 500 precari tra medici, infermieri e tecnici.
Noi pensiamo che l’assistenza spirituale ai malati dovrebbe essere un atto di carità secondo l’insegnamento evangelico e non una professione.
Noi pensiamo che i 2 milioni di euro dovrebbero essere spesi per medici, infermieri e tecnici che servono negli ospedali per accorciare le liste d’attesa e curare i malati.
Noi pensiamo che la Chiesa Cattolica abbia notevoli risorse economiche, anche dall’8 per mille, per pagare, se non trova preti che lo facciano per missione, gli assistenti spirituali.

Per questo i sottoscritti cittadini chiedono che la Regione receda dall’accordo in oggetto.

Per firmare la petizione vai su www.atalmi.it

La risposta della conferenza dei vescovi.

Un diritto morale

Considerazioni estremamente condivisibili (e molto eloquenti) in margine al caso di Rom Houben, l’uomo belga vittima di un incidente 23 anni fa e rimasto da allora paralizzato e incapace di comunicare con il mondo esterno (Ann Neumann, «Why The Case of Rom Houben Resonates», Otherspoon, 5 dicembre 2009):

Ieri ho ricordato al mio rappresentante fiduciario per le decisioni sui trattamenti sanitari il luogo in cui conservo le mie direttive anticipate. Prego – sì, lo faccio anch’io – che se dovessi rimanere vittima di un incidente d’auto, come lo è stato Houben tanti anni fa, io possa essere sottratta ad ogni sostegno vitale artificiale. Non mantenuta in vita per essere accudita dalla mia famiglia e dai miei amici, non rinchiusa artificialmente in un corpo deforme, in isolamento per 23 anni, non catechizzata dai medici o dalla Chiesa o dallo Stato sul modo in cui dovrei vivere.
Questa non è una dimostrazione dei miei «pregiudizi sulla qualità della vita», non è depressione o odio di sé, non è discriminazione nei confronti di Houben o di altri membri disabili della società, non è adesione alla «cultura della morte», o negazione dell’onnipotenza divina, o compiacenza per l’allontanamento della medicina dal modello ippocratico (una colossale sciocchezza); non è paura di essere un peso o paura che un’infermiera mi pulisca il culo, non è nulla di ciò che quelli che lavorano per imporre la propria virtuosa pietà sui malati chiamano «disprezzo della vita». È un mio diritto morale. E non amo per questo di meno la vita, ogni vita.

venerdì 11 dicembre 2009

Protesi a fini estetici

Dai che il prossimo ddl magari includerà anche i *bras.

L’esperienza della Ram, medici per tutti


Andare dal dentista non piace quasi a nessuno. A renderlo ancora più sgradevole ci si mette spesso il costo dell’intervento, che per alcuni non è assolutamente sostenibile.
Negli Stati Uniti 85 milioni di persone non hanno l’assicurazione per le cure odontoiatriche e non possono permettersele. Il New York Times racconta la storia di Michael Bettis: gli mancano molti denti e il costo per rimetterli si aggira tra i 7.000 e i 15.000 dollari.
Michael racconta che la gente lo considerava ombroso e scontroso, ma che in realtà lui non sorrideva perché non aveva i denti e temeva che gli altri se ne accorgessero. Michael trova un modo per farsi curare: scopre la Remote Area Medical (RAM), una organizzazione medica di volontari che offrono cure mediche, odontoiatriche e veterinarie e assistenza di vario genere a persone e animali.
La RAM si è presa cura di migliaia e migliaia di individui dal 1985, anno della sua fondazione, raggiungendo luoghi sperduti e lontanissimi da ospedali. Lo stesso fondatore, Stan Brock, è cresciuto nel cuore della foresta amazzonica, a circa 25 giorni di marcia da un ospedale, ed è sopravvissuto alla malaria, agli attacchi di animali e ad altre disavventure. Ma quelli meno fortunati di lui sono morti perché non avevano modo di raggiungere un medico. Una delle idee fondanti della RAM è portare i medici e le cure nei luoghi più inaccessibili e alle persone che non potrebbero permettersi nemmeno di provare a sopravvivere.

DNews, 11 dicembre 2009

giovedì 10 dicembre 2009

mercoledì 9 dicembre 2009

Le tre leggi divine della robotica

Sono state scritte qualche anno fa (l’autore è Edwin Evans), ma non sembrano aver goduto di molta fortuna. Forse perché fanno sì sorridere, ma è un sorriso un poco amaro...

  1. Un robot deve essere costruito in modo da soffrire dolore fisico e psichico.
  2. Un robot deve essere capace in qualsiasi momento di trasformarsi in un robot malvagio, soprattutto se ciò favorisce la prima legge.
  3. A un robot non deve essere fornita nessuna informazione sul suo creatore se non tramite oscuri manoscritti creati da altri robot, soprattutto se ciò favorisce la prima o la seconda legge.

venerdì 4 dicembre 2009

Minareti e campanili

Alexandre Erler ha da dire alcune cose sensate a proposito del referendum svizzero sui minareti («Why the minaret ban?», Practical Ethics, 4 dicembre 2009):

The proponents of the initiative have argued that it did not infringe on religious freedom, as Muslims would still be able to practice their religion with or without minarets. But obviously this ignores the fact that the minaret ban restrains the capacity for Muslims to manifest their faith, in this case via the architectural arrangement of their places of worship, and the exercise of this capacity is partly what freedom of religion is meant to protect – which is why the compatibility of the initiative with international law has been called into question (see here and here).
Schlüer and his colleagues have made the absurd claim (in their contribution to the pre-election leaflet) that minarets “have no religious function”, but are only a symbol of a claim to political power. But obviously one main function of minarets is to serve as a visible sign for Muslims of the presence of a place of worship, as church steeples signal the presence of a Christian place of worship. (The other main function of minarets is to serve as a vantage point for the call to prayer by the muezzin, which admittedly might pose a problem from a secularist perspective, but one that could in principle have been solved without a ban.) One might as well argue that church steeples have no religious function, and that eradicating them would not in any way infringe on the right for Christians to practice their religion freely, as they could go on doing so even if churches went out of existence completely.
Da leggere anche il resto.

giovedì 3 dicembre 2009

Le dichiarazioni del cardinale Barragán

Le dichiarazioni del cardinale Barragán, raccolte il 2 novembre 2009 da Bruno Volpe per la rivista online Pontifex.Roma, meritano di essere tramandate integralmente ai posteri:

La cosiddetta pillola del giorno dopo o meglio aborto chimico, è stata al centro di valutazioni diverse ed anche polemiche. Ne abbiamo discusso con il cardinale messicano Javier Lozano Barragan, Presidente Emerito del Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari, Pastorale per la salute. Eminenza, qual è il suo giudizio sulla pillola del giorno dopo?: «che è una pillola che ha effetti abortivi e come tale, l’aborto va considerato un assassinio». Il cardinale lo ripete con calma: «ogni aborto, in quanto soppressione di una vita umana, è un crimine, un delitto e merita una punizione». Si è pensato, dietro severe valutazioni, di permetterla in strutture ospedaliere: «io non mi interesso delle cose italiane o di singoli stati, ma la mia idea è che libera o dietro guardia medica, la sostanza non cambia affatto. Si tratta sempre e comunque di un mezzo abortivo e come tale, rappresenta una violazione gravissima della vita umana che è sacra ed inviolabile, che nessuno può manipolare a suo piacimento ed è un dono di Dio». Il cardinale fa un paragone: «questa storia mi sembra assimilabile a chi compra una rivoltella in un negozio. Colui il quale esce con una pistola è potenzialmente pericoloso, di fatto ha la possibilità di trasformarsi in omicida se la usa male e contro la legge. Ma è un potenziale criminale, lo diventa solo se agisce male. Chi abortisce non è potenziale, ma di fatto, in quanto ammazza. Pertanto la condotta di chi compie e pratica un aborto è sicuramente più grave di chi compra un revolver nell’armeria». Eminenza, quando inizia la vita?: «la scienza lo dice, da quando lo spermatozoo entra nell’ovulo. Allora già esiste una vita ed è sacra. Lo ripeto, sopprimere una esistenza umana, salvi i casi di emergenza, è un crimine e merita questa definizione, non ho dubbi». E se si usa in ospedale?: «non cambia nulla. È assassino chi ammazza fuori o dentro la clinica, sia che lei compia la esecuzione in caserma o nel domicilio particolare della vittima, le modalità possono solo aggravare l’evento, ma pur sempre di assassinio si tratta». Eminenza passiamo ad altro tema caldo. In che modo valuta sia la omosessualità che i trans?: «trans e omosessuali non entreranno mai nel Regno dei Cieli, e non lo dico io, ma San Paolo». Ma se una persona è nata omosessuale?: «non si nasce omosessuali, ma lo si diventa. Per varie cause, per motivi di educazione, per non aver sviluppato la propria identità nell’adolescenza, magari non sono colpevoli, ma agendo contro la dignità del corpo, certamente non entreranno nel Regno dei Cieli. Tutto quello che consiste nell’andare contro natura e contro la dignità del corpo offende Dio».
Lo stesso giorno il cardinale ha «ribadito» il suo pensiero all’agenzia ANSA, che in alcuni dispacci sintetizza il contenuto dell’intervista e vi aggiunge delle «precisazioni»:
«non sta a noi condannare»; «sono comunque persone e in quanto tali da rispettare» (ANSA 13:43);
«L’omosessualità è dunque un peccato ma questo non giustifica alcuna forma di discriminazione. Il giudizio spetta solo a Dio, noi sulla Terra non possiamo condannare, e come persone abbiamo tutti gli stessi diritti» (ANSA 13:57).
L’ANSA ha rivelato anche che l’allusione a Paolo si riferiva a Romani 1,26-27.

Quando l’antiabortista fa propaganda pro-aborto

Gli integralisti sembrano avere qualche problema con le soluzioni di compromesso. Non che le rifiutino del tutto: basta considerare per esempio la legge 40 sulla procreazione assistita. Si tratta di un compromesso iniquo, pesantemente spostato da una parte, certo, ma pur sempre di un compromesso, visto che per il magistero ecclesiastico praticamente tutte le tecniche di fecondazione artificiale sono moralmente inammissibili, e non solo la fecondazione eterologa o la diagnosi preimpianto. Eppure nella percezione comune – è qui il problema di cui parlavo all’inizio – la legge 40 è espressione fedele di quel magistero, sì che probabilmente nell’opinione di molti la fecondazione in vitro, a certe condizioni, è del tutto coerente con gli insegnamenti della Chiesa cattolica.
I motivi di questa credenza diffusa non sono chiarissimi. È probabile che in parte vadano addebitati all’esito referendario, che ha rappresentato (ed è stato rappresentato come) una vittoria netta dei clericali; da questo a ritenere che anche i contenuti della legge oggetto del referendum fossero del tutto in linea con i dettami della Chiesa il passo è abbastanza naturale. Ovviamente non sono mancate le precisazioni sull’autentica dottrina cattolica in materia; ma spesso sono apparse un po’ troppo sommesse, quasi non si volesse rovinare la vittoria ottenuta mostrando di aver concesso qualcosa. E questa è forse un’altra causa dell’equivoco: chi pensa di possedere una verità assoluta ha spesso più difficoltà ad ammettere di essere sceso in qualche modo a patti con il nemico ideologico.

Qualcosa di relativamente simile sta avvenendo con la pillola abortiva. La posizione integralista coerente sarebbe naturalmente quella di rifiutare in toto ogni tecnica abortiva; ma questo non è politicamente possibile nel presente momento storico, e così l’opzione che è stata scelta è stata quella di insistere sull’incompatibilità della RU-486 con la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, e sulla presunta maggiore pericolosità dell’aborto farmacologico rispetto a quello chirurgico.
Ovviamente nessuno potrà mai pensare che le gerarchie ecclesiastiche siano a favore della legge 194 o che raccomandino l’aborto per aspirazione; in questo la situazione è diversa rispetto a quella della procreazione assistita. Ma non c’è dubbio che l’artiglieria retorica messa in campo a favore dell’adesione strettissima alla lettera della legge sull’aborto sia talvolta così possente da far apparire la 194 come una luminosa conquista di civiltà, sì da causare alla fine le smarrite rimostranze dei duri e puri.
Anche certe comparazioni fra l’aborto farmacologico e quello chirurgico (in particolare realizzato con l’aspirazione, il cosiddetto metodo Karman) sembrano a volte uscite dalla penna di qualche propagandista pro-choice degli anni ’70. Penso ad alcune pagine del libro di Assuntina Morresi ed Eugenia Roccella dedicato alle presunte nefandezze della RU-486; ma sono posizioni che tendono a diffondersi. Qualche giorno fa un commentatore antiabortista sosteneva qui su Bioetica che «l’aborto chirurgico […] non è affatto “invasivo e doloroso” come si vuol far credere perché avviene in anestesia totale», dimenticando che esiste anche il dolore post-operatorio.
Un esempio un po’ estremo si trova sul Foglio di due giorni fa («La Ru486 non offre vantaggi. Anzi sì, aumenta gli aborti facili», 1 dicembre 2009, p. 2), dove Roberto Volpi sostiene che, al contrario della pillola abortiva, «il metodo Karman non ha mai ucciso alcuna donna». Che l’aborto per aspirazione sia uno dei trattamenti sanitari più sicuri al mondo è vero, ma un’affermazione così recisa mostra subito di essere poco fondata: non esistono purtroppo metodi chirurgici esenti da rischio. Sarebbero bastati a Volpi cinque minuti su MedLine per trovare ad esempio l’articolo di P.C. Jeppson et al., «Multivalvular Bacterial Endocarditis After Suction Curettage Abortion» (Obstetrics & Gynecology 112, 2008, pp. 452-55), in cui si descrive un caso fatale (e rarissimo, è bene precisare) di endocardite batterica insorta in seguito a un aborto chirurgico per aspirazione.
Non si tratta purtroppo dell’unico decesso: negli Stati Uniti, per esempio, il tasso di mortalità per aborto legale fino ad 8 settimane di gestazione è stato nel periodo 1988-1997 di 1 su 1.000.000 (L.A. Bartlett et al., «Risk Factors for Legal Induced Abortion-Related Mortality in the United States», Obstetrics & Gynecology 103, 2004, pp. 729-37), e la maggioranza di questi aborti viene effettuata per aspirazione; non ho dati analitici, ma è estremamente improbabile che tutte le morti siano da addebitare ad altri metodi chirurgici (all’epoca negli Usa l’aborto farmacologico ancora non era stato approvato dagli organismi competenti).
Per fare un paragone, in Francia dal 1993 ad oggi la RU-486 è stata usata, in associazione con il misoprostolo e seguendo le indicazioni raccomandate dalla casa produttrice (cosa che purtroppo non è accaduta altrove), su circa 1.000.000 di pazienti, in massima parte entro la 7ª settimana di gestazione, con un unico decesso, di cui peraltro non si sa nulla (del dossier inviato qualche mese fa dalla casa produttrice alla nostra Agenzia del Farmaco si è rivelato – contravvenendo all’impegno di riservatezza – solo quel poco che poteva servire alla propaganda integralista).
L’aborto chirurgico per aspirazione e quello farmacologico, se effettuati correttamente, hanno una pericolosità (bassissima) molto probabilmente comparabile. Entrambi possono comportare effetti collaterali e complicanze, anche se in generale l’aborto chirurgico è più ‘comodo’ da gestire, per il tempo minore della sua durata e perché l’anestesia generale è più efficace nel sopprimere i dolori dell’intervento di quanto non lo siano gli analgesici che può essere necessario assumere nell’aborto farmacologico. La RU-486, oltre ad essere il metodo ideale per chi non può o non vuole affrontare un intervento chirurgico, ha un vantaggio fondamentale: potenzialmente è in grado di sottrarre l’aborto legale all’arbitrio degli obiettori di coscienza, che stanno rendendo sempre più difficile ottenerlo in questo paese. Ed è questo che gli integralisti di ogni risma vogliono impedire con ogni mezzo; se serve, persino con la propaganda unilaterale a favore di altri metodi abortivi.

domenica 29 novembre 2009

Non colpevolizziamo Alessandro Meluzzi

Alessandro Meluzzi, psichiatra, portavoce della Comunità Incontro di Don Pierino Gelmini, ci elargisce dalle colonne del Giornale le sue opinioni sull’attualità bioetica, in particolare sulla pillola abortiva RU-486 («Domanda: ma un embrione ha meno neuroni di un astice?», 28 novembre 2009, p. 18). Vediamo con quali risultati.

È giusto occuparsi del dolore di Caino, ma anche di quello di Abele. La vicenda del risveglio, dopo 23 anni di stato vegetativo ci può fare immaginare quale angoscia ci sarebbe stata nel trapasso, provocato, di chi pur senza poter parlare, come in un incubo, era perfettamente consapevole di quanto accadeva intorno a lui.
Il riferimento, nonostante la forma un po’ contorta, è chiaramente alla vicenda di Rom Houben, l’uomo belga che i medici hanno riconosciuto possedere una coscienza quasi completa di ciò che lo circonda, dopo che per 23 anni era rimasto in totale mutismo e immobilità a causa di un grave incidente. C’è qualche dubbio sullo stato di Houben nel corso di questi anni, ma su una cosa tutti – o almeno tutti meno Meluzzi – sembrano essere d’accordo: l’uomo non si è risvegliato dallo stato vegetativo, perché in realtà in stato vegetativo persistente – a differenza per esempio di Eluana Englaro – non c’è mai stato.
Il Movimento Per la Vita ha dimostrato che una delle più efficaci forme per far riflettere una donna circa la scelta di interrompere la gravidanza, è mostrare la dettagliata ecografia tridimensionale di un feto di 12 settimane perfettamente eliminabile, anche senza ragioni terapeutiche, per sola scelta della donna. È un piccolo bambino quasi perfettamente formato, con occhi, naso, bocca, gambine, piedini, un cuoricino che batte, 5 dita nelle mani e nei piedi e i primi movimenti spontanei per succhiarsi il pollice.
[…] Bene, sapete quanto ci mette a morire questa creatura dopo la somministrazione di una RU486? Circa 48 ore, cioè 2 giorni. E per asfissia da espulsione dall’endometrio, cioè per soffocamento.
La retorica dei piedini va ancora forte in campo antiabortista, ma un veterano del Movimento per la Vita non la applicherebbe mai – beh, mai per iscritto – a un aborto compiuto con la RU-486, visto che la pillola abortiva si usa in genere fino alla 7ª settimana di gestazione (cioè fino alla 5ª settimana dal concepimento), quando il feto – o meglio, l’embrione – ha l’aspetto di questo ragazzo qui. Niente piedini, temo.
Non so da dove Meluzzi tragga il dato delle 48 ore di agonia: 48 ore sono il periodo che nell’aborto farmacologico intercorre fra la somministrazione del primo farmaco (la RU-486) e quella del secondo (il misoprostolo); la morte dell’embrione può avvenire in qualsiasi momento di questo intervallo di tempo, o anche dopo. La cosa comunque è abbastanza irrilevante, visto che il «soffocamento» (altri, sempre naturalmente col nobile scopo di far «riflettere» le donne, preferiscono parlare di «morte per fame») in seguito al distacco dall’endometrio, che fornisce ossigeno (non aria!) e nutrimento al prodotto del concepimento, ha ben poche delle connotazioni che siamo soliti attribuire alla parola: prima di tutto perché l’embrione non percepisce nulla, e quindi nemmeno la mancanza di ossigeno nel sangue. Ma naturalmente Meluzzi su questo la pensa diversamente:
Si obietterà che non c’è dolore perché non c’è coscienza. Innanzitutto, chi lo sa? Visto che comprovatamente poco più avanti nella gravidanza i feti persino sognano.
«Poco più avanti nella gravidanza» sta qui per «a un’età quasi tre volte maggiore», visto che un sonno paragonabile al sonno REM inizia solo alla 30ª settimana (secondo Carlo Bellieni, noto antiabortista ma anche neonatologo). Spingendo un po’ più in là la stessa logica, Meluzzi avrebbe potuto dire che «poco più avanti» i feti scrivono persino articoli per il Giornale...
Lungi dal voler colpevolizzare donne che non potranno mai essere obbligate a trattenere dentro il proprio corpo una creatura che considerano poco meno di un alien.
Per carità! Chi potrebbe mai pensare che il buon Meluzzi voglia colpevolizzare le donne – queste Ellen Ripley della porta accanto – che «considerano poco meno di un alien» la loro creatura? Lungi, lungi!
Ma l’uso diffuso di un veleno, distribuito in Spagna alle minorenni in farmacia e senza l’autorizzazione dei genitori, ci pare davvero troppo.
Ahia, Meluzzi! Mi cade proprio sul finale... Oramai l’hanno imparato persino quelli dei TG Rai a non confondere la pillola del giorno dopo (il Norlevo, quello che in Spagna distribuiscono in farmacia anche alle minorenni, ’sti disgraziati) con la pillola abortiva (che in Italia sarà disponibile solo in ospedale)... Vabbeh, cose che capitano; non colpevolizziamo il povero Meluzzi (certo che però dalla redazione del Giornale, un giornale così autorevole, uno si aspetterebbe più attenzione...). Vedrete che la prossima volta andrà meglio. Sicuramente.

venerdì 27 novembre 2009

Segno di identità

Ansa, 27 novembre, 16.07:

GENOVA - Con in mano i volantini per difendere il crocifisso, un attivista della Lega Nord Liguria si è fatto scappare una serie di bestemmie stamani a Genova durante una animata discussione con un passante che la pensava diversamente. È accaduto nella centrale Piazza De Ferrari, dove la Lega Nord ha allestito un gazebo per raccogliere firme per mantenere i crocifissi nelle scuole.
Verso le 11.20, un attivista del partito che distribuiva volantini ha iniziato a discutere animatamente con un passante che la pensava diversamente. In pochi secondi si è passati agli insulti e l’attivista, un uomo sui cinquant’anni, ha dato uno spintone all’altro, un uomo sui 60 anni. Sono intervenuti alcuni attivisti che hanno cercato di dividere i contendenti ma a quel punto il leghista ha perso il controllo e ha iniziato a urlare bestemmie tra lo stupore dei passanti. Sono intervenuti due agenti della Digos ai quali l’uomo ha spiegato di aver agito così perché da poco aveva perso il lavoro e l’altro gli aveva detto di “andare a lavorare”.
(Hat-tip: UAAR Ultimissime.)

Il vero bersaglio resta l’aborto non la pillola

Dopo mesi di discussioni e dibattiti bizzarri sulla RU486 arriva dal Senato il no alla sua commercializzazione. La commissione Sanità ha votato e la maggioranza, costituita da Pdl e Lega, vuole un parere tecnico sulla compatibilità della RU con la legge 194 sulla interruzione volontaria di gravidanza. Soldi, tempo e energie spesi per avere un parere che anche un bambino potrebbe dare. Si legge infatti nella legge 194, articolo 15: “Le regioni […] promuovono l’aggiornamento del personale sanitario ed esercente le arti ausiliarie sui problemi della procreazione cosciente e responsabile, sui metodi anticoncezionali, sul decorso della gravidanza, sul parto e sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l'interruzione della gravidanza”. Non è superfluo ricordare che la RU486 è usata da decenni in altri Paesi e che si offre come un mezzo diverso per ottenere una interruzione di gravidanza – cioè il medesimo risultato. Risultato che in Italia è ancora permesso, almeno sulla carta. Sembra verosimile che le polemiche sulla RU486 siano soltanto pretestuose e che il bersaglio non sia il “modo” in cui si abortisce, ma l’aborto stesso. Già poco tollerato, l’aborto diventa inammissibile se connotato di una sfumatura in più di scelta: aborto chirurgico o farmacologico? Impossibile lasciare la scelta alle donne.

DNews, 27 novembre 2009.

giovedì 26 novembre 2009

mercoledì 25 novembre 2009

Un po’ di scetticismo sul caso di Rom Houben

La storia di Rom Houben, l’uomo belga vittima di un incidente 23 anni fa e rimasto da allora paralizzato e incapace di comunicare con il mondo esterno ma tuttavia consapevole, mentre tutti lo ritenevano invece definitivamente privo di coscienza, ha fatto il giro del mondo, inorridendo e commuovendo l’opinione pubblica. Ma adesso cominciano a levarsi le prime voci scettiche sulla vicenda.
Se si guarda un video del paziente, ci si rende conto che – contrariamente a quanto affermato in alcuni resoconti giornalistici – non è Houben a muovere autonomamente la mano per battere sulla tastiera i suoi pensieri; invece la mano viene spostata da una terapeuta, Linda Wouters, che sostiene di essere guidata da una lieve pressione effettuata dal paziente, e di sentirne la resistenza quando sta per premere un pulsante sbagliato; il metodo si chiama «comunicazione facilitata». Vi ricorda qualcosa? Ebbene, questo è il medesimo principio delle tavolette ouija (il gioco del bicchierino), in cui un gruppo di persone pone le mano su una tavoletta o su un calice rovesciato, e l’oggetto comincia a muoversi in modo apparentemente autonomo su una base che reca impresse le lettere dell’alfabeto, componendo un messaggio di senso compiuto (che in genere viene interpretato come un messaggio dei defunti). Ovviamente sono le spinte – in genere inconsapevoli – dei partecipanti a muovere la tavoletta; molti sostengono che anche la «comunicazione facilitata» comunichi in realtà i pensieri del terapeuta e non quelli del paziente. Si tratta proprio per questo di una pratica generalmente ritenuta non credibile dagli ambienti medici.
Il dubbio è particolarmente lecito nel caso Houben: il video mostra chiaramente il contrasto fra lo stato fisico seriamente compromesso del paziente e la sicurezza e rapidità con cui l’assistente guida la sua mano sui pulsanti. Nota Arthur Caplan, uno dei maggiori bioeticisti americani, a proposito delle affermazioni attribuite a Houben:

Uno giace per 23 anni in un letto d’ospedale quasi del tutto privo di stimoli, e all’improvviso appare completamente coerente e razionale? C’è qualcosa che non va. I messaggi sono quasi poetici. Sembra tutto troppo lucido, come se qualcuno avesse preparato le cose da dire in anticipo. Non dico che sia tutta una frode, ma vorrei saperne molto di più.
James Randi, il noto smascheratore di falsi fenomeni paranormali, ha invitato Houben e la terapeuta a concorrere al premio da un milione di dollari messo in palio dalla James Randi Educational Foundation per chi dimostrerà in condizioni controllate la validità della comunicazione facilitata. In un aggiornamento apparso sul suo sito Randi punta il dito su un altro video, in cui Houben sembra avere gli occhi chiusi mentre la sua mano vola imperterrita sulla tastiera.

Tutto ciò non significa naturalmente che non ci sia stata comunque una diagnosi sbagliata di stato vegetativo, e che le analisi del team guidato dal dottor Steven Laureys, che hanno portato a correggere questa diagnosi, siano meno che corrette. Houben, a quanto è stato riportato, ha recuperato la capacità di rispondere con un sì o con un no a domande tramite i movimenti del piede (quindi senza comunicazione facilitata), e questo mostra che è consapevole. Ciò che non è chiaro – e non lo sarà fino alla pubblicazione di uno studio scientifico sul caso; studio che ancora non esiste, malgrado quello che hanno sostenuto alcuni media – è in che stato si trovasse Houben durante la maggior parte di quei 23 anni. I medici gli attribuiscono adesso una sindrome locked-in: si tratta di una condizione generata di solito da un trauma al Ponte di Varolio, una struttura che si trova nel tronco encefalico e che rappresenta uno snodo cruciale nelle comunicazioni fra il corpo e le zone superiori del cervello. Il trauma può interrompere queste comunicazioni, portando a una paralisi totale, lasciando però integre le funzioni cognitive del cervello, localizzate più in alto del Ponte. Nella sindrome locked-in classica il paziente è in grado di muovere gli occhi (i nervi visivi corrono anch’essi al di sopra del Ponte), e quindi di comunicare con il mondo esterno; ma questo non accadeva allo sfortunato Houben. Siccome un trauma al Ponte di Varolio può non venire da solo (specialmente se è causato da un incidente meccanico), è in teoria possibile che un secondo trauma interessi le vie nervose visive, lasciando il paziente oltre che paralizzato anche incapace di muovere gli occhi, e quindi a tutti gli effetti sepolto vivo nel suo stesso corpo; si parla in questo caso di sindrome locked-in totale.
Intuitivamente, però, una lesione così localizzata è improbabile: l’encefalo superiore è una sorta di campo minato per quanto riguarda le funzioni cognitive, e un trauma esterno sufficientemente grave da causare sia un danno al Ponte sia alle vie visive causerà generalmente anche un’alterazione più o meno grave dello stato di consapevolezza. Il paziente paralizzato, in questo caso, non sarà cosciente del proprio stato, o lo sarà in maniera estremamente parziale; è questo che, sommato alla paralisi, rende molto difficile diagnosticarne le reali condizioni. Non sono un neurologo, ma la mia sensazione è che lo stato di Houben, prima del recupero avvenuto negli ultimi tempi, fosse probabilmente questo.

Per quanto riguarda le implicazioni bioetiche del caso, va detto che ogni paragone con i casi di Terri Schiavo o di Eluana Englaro è del tutto improponibile: le autopsie effettuate sulle due donne hanno dimostrato oltre ogni possibile dubbio che i danni alle parti superiori dell’encefalo erano così estesi da escludere la possibilità di una consapevolezza residua o del suo recupero. È comunque vero che il caso ripropone il problema di una diagnosi certa dello stato vegetativo e della sua distinzione rispetto a condizioni più o meno analoghe; gli studi di Laureys e del suo team sono in questo senso promettenti.
Non è però scontato quale debba essere la valutazione di stati differenti da quello vegetativo: il bioeticista Jacob M. Appel sostiene per esempio («The Rom Houben Tragedy and the Case for Active Euthanasia», The Huffington Post, 24 novembre 2009) che il caso di Houben vada di fatto a favore dell’eutanasia. Si tratta, come si può capire, di idee quanto meno controverse; quello che è certo è che la tragedia di Rom Houben non è ancora finita, se davvero l’uomo si è destato solo per ritrovarsi inerme nelle mani di chi lo usa alla stregua di un pupazzo da ventriloquo.

Aggiornamento 18:30: da un articolo del Times (David Charter, «Mystery as coma survivor Rom Houben finds voice at his fingertips», 25 novembre) si apprende che il dottor Steven Laureys avrebbe messo alla prova la comunicazione facilitata mostrando a Houben degli oggetti in assenza della terapeuta, e quindi chiedendo al paziente di nominarli con l’aiuto della donna rientrata nella stanza. Le risposte ottenute sarebbero state corrette. Mi sentirei però più tranquillo se a controllare ci fosse stato James Randi... (hat-tip per questo aggiornamento: Daniela Ovadia).

Aggiornamento 27/11/2009: in un’intervista concessa a New Scientist (Celeste Biever, «Steven Laureys: How I know ‘coma man’ is conscious», 27 novembre) Steven Laureys si dice contrariato per i dubbi avanzati dagli scettici (che però riguardano propriamente non il suo operato ma quello della terapista), ma non aggiunge molto di nuovo a ciò che già si sapeva.

Nuova Proposta e Buoni genitori

Mercoledì 25 novembre, alle 20.30 Nuova Proposta organizza un incontro sulla omogenitorialità con alcuni rappresentati di Famiglie Arcobaleno. Presso il Circolo Mario Mieli (Roma, via Efeso 2).

martedì 17 novembre 2009

Testamento biologico, non ci siamo proprio


Se le intenzioni di Della Vedova erano buone, ovvero di sostituire il ddl Calabrò e di presentare una “soft law”, il risultato è a dir poco mediocre. Si finisce per sentirsi stupidi a ripetere continuamente le stesse cose (che significa “accanimento terapeutico”? Perché rinviare alla deontologia medica? Perché richiamare e rinforzare il fantasma dell’eutanasia?), ma ci si sente anche stupidi, e pure un po’ arrabbiati, ad essere presi in giro. Presi in giro sì: perché non c’è nulla in questo emendamento che possa tranquillizzare chi ha a cuore l’autodeterminazione. Nulla che ribadisca chiaramente che sul nostro corpo e sulla nostra salute dovremmo poter scegliere (ed eventualmente delegare o scegliere di far scegliere qualcun altro), senza che nessuno (medico o familiari) ci venga a fare la ramanzina o peggio si nasconda dietro a una dissennata invocazione alla obiezione di coscienza o altre parole lesive delle nostre scelte. Definire la vita umana “diritto inviolabile ed indisponibile” è abbastanza pericoloso e sta bene in bocca a un oltranzista paternalista piuttosto che a uno che si dichiara liberale. Perché, è evidente, se il diritto alla vita è inviolabile quello di scelta passa in secondo piano o è fortemente limitato dalla inviolabilità stessa – sarebbe come dire che siamo liberi di uscire ma dalle 7 di sera c’è il coprifuoco.

Su Giornalettismo.

domenica 15 novembre 2009

Ossimori

sabato 14 novembre 2009

Tutto quello che avreste voluto sapere sull’influenza (ma il governo non ha mai osato dirvi)

Mentre si avvicina il picco pandemico dell’influenza H1N1 (o influenza suina, o influenza A, o messicana), un nuovo sito, darwinFlu, si propone di comunicare informazioni scientifiche accurate sulla malattia; informazioni sommerse finora da un lato dall’ottimismo sparso a piene mani da un governo che sembra considerare la spensieratezza del pubblico il rimedio a ogni male, economico o sanitario che sia (ma qualche incrinatura comincia già a vedersi nei sorrisi ostentati) e dall’altro lato dal catastrofismo dei media tradizionali, nonché dal complottismo paranoide (che in questa occasione ha raggiunto vette di autentico interesse psichiatrico) dei media non tradizionali. E forse questi vari atteggiamenti non sono del tutto slegati fra loro, come ci spiegano Peter Sandman e Jody Lanard in uno dei pezzi presenti sul sito («La via italiana alla comunicazione del rischio»):

tutta l’attività di comunicazione tesa a normalizzare la pandemia per creare l’impressione che sia come l’influenza stagionale è fuorviante, a meno che non metta fortemente in risalto anche le ragioni per cui il ceppo pandemico e quelli stagionali sono diversi. A volte questi messaggi fuorvianti vengono da fonti che non sono consapevoli dell’errore, come funzionari locali o giornalisti che non hanno studiato l’influenza o non hanno analizzato con attenzione le statistiche governative rilevanti. Ma quando il meme per cui la pandemia è «come l’influenza stagionale» viene diffuso da figure istituzionali allora la comunicazione ha lo scopo deliberato di ingannare. Spesso l’intenzione di questo fuorviante meme della normalizzazione è di evitare che l’opinione pubblica si spaventi. Noi abbiamo scritto estensivamente su questo tema, ovvero su come i funzionari della salute pubblica abbiano paura della paura. Quando questo tipo di rassicurazione eccessiva si combina con degli sforzi per spingere il pubblico ad adottare più precauzioni del solito (n.d.r. dalle misure igieniche alla vaccinazione), il messaggio finale è ibrido ed è probabile che si riveli controproducente in alcuni modi prevedibili:
  1. alcune persone, quelle che credono nella metà rassicurante del messaggio, non vedranno alcuna ragione per prendere delle precauzioni;
  2. altri, pur non credendo nella metà rassicurante del messaggio, prenderanno ugualmente le precauzioni, ma perderanno fiducia delle istituzioni da cui il messaggio proviene;
  3. altri ancora non crederanno a nessuna parte del messaggio e cercheranno fonti di informazione non ufficiali per decidere come comportarsi. E tutti noi sappiamo che genere di informazioni si trovino nella blogosfera.
Da seguire assiduamente.

(Disclaimer: il sito è curato dalla redazione di Darwin; collaboro regolarmente con questa rivista, ma non ho avuto nessuna parte nella costruzione e gestione di darwinFlu.)

venerdì 13 novembre 2009

Segni dei tempi

Gabriella Gallozzi, «Alessandra Mussolini contro “Francesca”: l’uscita in sala sarà decisa dal tribunale», L’Unità, 12 novembre 2009, p. 43:

La data d’uscita nelle sale è prevista il prossimo 27 novembre. Ma dipenderà dalla sentenza del giudice del Tribunale civile di Roma che si è riservato di decidere dopo la visione del film. Stiamo parlando, infatti, dell’ultimo caso «politico cinematografico» del momento: Francesca, la pellicola del rumeno Bobby Paunescu portato sul banco degli imputati da Alessandra Mussolini …
Ad aver fatto scattare la richiesta di sequestro da parte della parlamentare è una frase pronunciata dal padre della protagonista che, cercando di convicere la ragazza a non emigrare in Italia, afferma: «la Mussolini, una troia che vuole ammazzare tutti i rumeni». …
Per Procacci [Domenico Procacci, distributore del film per Fandango] … è sorprendente che la querelle sia nata a causa dell’epiteto rivolto alla parlamentare e non per la seconda parte della frase in cui si dice «“che vuole ammazzare tutti i romeni”, questo non ha scandalizzato nessuno, neppure lei. Eppure rivela qualcosa di molto più grave».

giovedì 12 novembre 2009

Eugenia Roccella e il caso Cucchi

Cos’ha da dire il sottosegretario al Welfare, Eugenia Roccella, sul caso di Stefano Cucchi, il giovane massacrato di botte mentre si trovava in custodia cautelare e morto all’ospedale Pertini di Roma? Vuole forse spendere qualche parola contro i medici che hanno lasciato morire Cucchi senza intraprendere tutte le misure atte a salvarne la vita? In un certo senso sì; ma per la Roccella la colpa dei medici consisterebbe sorprendentemente nell’aver rispettato il consenso informato. Scrive infatti sul Riformista di ieri («Cucchi andava curato pure contro la sua volontà», 11 novembre 2009, p. 6):

Non è ancora chiaro se Cucchi abbia effettivamente firmato il foglio con cui negava l’autorizzazione a informare i parenti, ma non abbiamo motivo, a oggi, di dubitare delle dichiarazioni degli operatori sanitari circa il suo rifiuto delle cure, del cibo, dell’idratazione per endovena. Cucchi, dicono, ha mantenuto la sua lucidità per tutto il tempo, e fino alla fine, lucidamente, non ha voluto le terapie, mostrando disinteresse per la propria salute. Ma anche se così fosse, se Stefano avesse firmato tutti i consensi informati possibili, e davvero si fosse lasciato andare alla disperazione, basterebbe questo a giustificare umanamente, e non solo burocraticamente, la sua morte?
Dopo aver elencato alcuni casi controversi di rifiuto delle cure, compreso per ultimo quello di Eluana Englaro, scrive ancora:
Oggi c’è il caso, del tutto speculare, di Stefano, che forse ha rifiutato consapevolmente acqua e cibo. Ma di fronte a una persona sola e provata, a un ragazzo fragile, non era più giusto ribellarsi, intervenire, rischiare una solidarietà magari non voluta?
Lo scopo della Roccella sembra essere duplice: da un lato, sotto l’apparenza di far loro un rimprovero, si assolvono sostanzialmente i sanitari – ma anche si attenua, senza parere, la responsabilità di chi ha provocato le lesioni al giovane; Stefano Cucchi, per il sottosegretario, si è praticamente suicidato. Dall’altro lato, e soprattutto, si cerca di segnare un punto nella diatriba in corso sull’autodeterminazione del malato, facendo leva sull’emozione suscitata dal caso Cucchi proprio in coloro che sono favorevoli a lasciare al paziente la più ampia possibilità di scelta.

Sfortunatamente per la Roccella, però, la vicenda di Stefano Cucchi è estremamente diversa da quella di un malato che sceglie di non proseguire i trattamenti sanitari per salvaguardare la propria visione di ciò che costituisce una vita degna di essere vissuta. Se si sfoglia la corposa documentazione clinica del caso (PDF, 12MB), meritoriamente raccolta e messa a disposizione da Luigi Manconi e dall’Associazione A buon diritto, ci si rende conto che il rifiuto delle terapie e dell’alimentazione non era altro che un mezzo disperato messo in opera da Stefano Cucchi per poter parlare con il proprio legale. A p. 27 del file troviamo infatti il diario clinico relativo al 21 ottobre, in cui un medico ha annotato di proprio pugno: «il paziente rifiuta perché vuole parlare prima con il suo avvocato e con l’assistente della comunità CEIS di Roma [una comunità di assistenza ai tossicodipendenti]». Lo stesso concetto è ripetuto in un fax inviato lo stesso giorno dall’ospedale al Tribunale di Roma (p. 30). (Un ulteriore motivo alla base del rifiuto sembra consistere in alcune informazioni errate che Stefano Cucchi aveva sulla celiachia di cui soffriva: il giovane, come nota il diario clinico alla stessa pagina 27, credeva di non poter mangiare riso, patate e carne.) Il dovere dei medici, dunque, era di attivarsi immediatamente per procurare un contatto del legale di Cucchi con il suo assistito, e non certo di sottoporre il giovane all’alimentazione forzata, atto vietato dal Codice di deontologia medica, mentre il codice di procedura penale (art. 104, c. 1) stabilisce che «L’imputato in stato di custodia cautelare ha diritto di conferire con il difensore fin dall’inizio dell’esecuzione della misura» (non mi risulta che sussistessero le «specifiche ed eccezionali ragioni di cautela», previste dallo stesso articolo, che sole possono far dilazionare l’esercizio del diritto di conferire con il difensore). Non so cosa abbiano fatto i medici, ma in ogni caso era troppo tardi, perché il giorno dopo Stefano Cucchi moriva per una crisi cardiaca.
È importante notare che il sottosegretario sembra conoscere questo diario clinico, visto che ne cita quasi alla lettera un passo: si confronti la frase «mostrando disinteresse per la propria salute» della Roccella con l’annotazione «il paziente tuttavia esprime verbalmente disinteresse per le proprie condizioni di salute» a p. 26 del file. E del resto del rifiuto delle terapie allo scopo di poter parlare con il proprio avvocato si era parlato nei giorni precedenti (si veda il pezzo dello stesso Riformista, 10 novembre, p. 7). Ma delle circostanze più scomode per la sua tesi Eugenia Roccella non fa parola...

Quello prefigurato dalla Roccella è una sorta di ciclo integrale della violenza di Stato: lo Stato che prima viola l’integrità corporea di chi si trova in sua balia, rompendogli (letteralmente) la schiena a furia di percosse, la dovrebbe violare poi una seconda volta cacciandogli nel naso un sondino per l’alimentazione forzata; alla violazione delle libertà fondamentali (che la Roccella ovviamente condanna) si risponde non ripristinandole, ma procedendo a un’ulteriore violazione (che la Roccella loda). I diritti dileguano; il linguaggio dello Stato rimane unicamente quello del puro dominio, declinato ora nella forma più brutale delle legnate, ora in quella più ipocrita delle cure obbligatorie.

lunedì 9 novembre 2009

Rapporto di filiazione e omosessualità: profili giuridici

La Rete Lenford presenta il II Convegno nazionale: Rapporto di filiazione e omosessualità: profili giuridici (Aula degli Avvocati dell’Ordine, Piazza Cavour, Roma, il 27- 28 novembre 2009).


27 novembre 2009

16.00 Registrazione partecipanti

16.30 Saluti

Avv. Antonio Rotelli - Presidente Avvocatura per i Diritti LGBT

Avv. Alessandro Cassiani - Presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma

16.45 Introduzione

Prof. Stefano Rodotà

I SESSIONE - ESSERE GENITORI

17.00 – Coordina Avv. ta Saveria Ricci

Prof. Vittorio Lingiardi - Aspetti psicologici

Chiara Lalli - Aspetti bioetici


28 novembre 2009

II SESSIONE – DIVENTARE GENITORI

9.30 – Coordina Avv. Michele Potè

Avv.ta Susanna Lollini - La procreazione medicalmente assistita

Avv. Francesco Bilotta - Adozione e affido

Dott. Giacomo Oberto - Problemi di coppia e filiazione

Prof. Tiziana Vettor - Nuove famiglie e sfera pubblica: lavoro e sicurezza sociale

11.00 Pausa

III SESSIONE – VIVERE DA GENITORI

11.30 – Coordina Avv. Alexander Schuster

Avv.ta Maria Federica Moscati - La genitorialità sociale: profili di diritto comparato

Avv. Matteo Winkler - Aspetti di diritto internazionale privato

Avv.ta Maria Grazia Sangalli - Le prospettive di riforma

13.00 – Dibattito

domenica 8 novembre 2009

Il malato è l’omofobo

Elisa Battistini intervista Vittorio Lingiardi, medico, psicoanalista, direttore della Scuola di specializzazione in Psicologia Clinica dell’Università «La Sapienza» di Roma («Sul lettino c’è l’omosessuale ma il malato è l’omofobo», Il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2009, p. 7):

“Qualsiasi tentativo di cambiare un orientamento omosessuale è destinato al fallimento. La psicoterapia serve a riconoscere la propria omosessualità, non a correggerla”. […]
Perché allora un omosessuale si rivolge a un analista?
“Perché vive un conflitto a causa dell’interiorizzazione di uno stigma che viene dall’esterno. In generale, l’omosessualità è ancora vista come una devianza, una sfortuna, un’anomalia”.
Chi è il paziente tipo?
“Giovani sotto i 30 anni, nell’età in cui si struttura la personalità. Adolescenti che temono di dare un dispiacere ai genitori. Giovani che risentono di un contesto sociale discriminatorio. Perciò è fondamentale dare diritti e mostrare rispetto”.
[…]
Di cosa ha paura l’omofobo?
“L’omosessualità lo spaventa perché rappresenta un disordine rispetto a categorie che ritiene immutabili, come il maschile e il femminile, l’attivo e il passivo. L’omosessualità disorienta l’omofobo. Poi c’è la paura di ciò che non si conosce, dell’ignoto. Infine c’è anche una sorta di inaccettabile invidia per chi vive liberamente la propria sessualità”.
Da leggere tutto.

sabato 7 novembre 2009

Carlo Casini e l’argomento di Padre Kolbe

C’è sempre, in chi si occupa di bioetica (o anche di altri campi del sapere), un’attesa piena di aspettative per nuove argomentazioni che giungano a scompigliare le carte dei ragionamenti sempre identici, già percorsi mille volte; un’attesa se vogliamo anche un po’ masochistica, perché quelli che si aspettano con più impazienza sono spesso gli argomenti contrari alle nostre tesi più care. Affrontare per la prima volta un tentativo di confutazione costituisce una sfida intellettuale che non può che essere benvenuta, già solo per il mero piacere dello sforzo di ragionarci su, ma anche per la luce che può portare sulle nostre credenze morali, fino eventualmente a farcele mutare.
Ma proprio per questo, quando gli argomenti nuovi arrivano davvero la delusione può essere cocente. Prendiamo per esempio un’argomentazione – per me inedita – presentata da Carlo Casini, storico avversario della legge sull’aborto e presidente del Movimento per la Vita, in un articolo apparso due giorni fa sul giornale della Conferenza Episcopale Italiana («Approvare subito la “legge Calabrò” sul fine vita», Avvenire, 5 novembre 2009, p. 16):

il tempo ha attutito l’emozione provocata dalla morte della giovane donna lecchese [Eluana Englaro], ma la drammaticità del fatto resta. Per non stendere su di essa una nebbia ovattante ho ripensato in questi giorni a Padre Massimiliano Kolbe. Nel luglio del 1941 egli era prigioniero nel lager di Auschwitz. Si offrì di sostituire un padre di famiglia nella decimazione decisa per terrorizzare i detenuti dopo la fuga di uno di loro e, chiuso in un sotterraneo, fu ucciso «per fame e per sete». Morì il 14 agosto 1941. Dunque l’alimentazione e la idratazione non sono una terapia se la loro privazione costituisce, come è avvenuto per Padre Kolbe, una «condanna a morte con tormenti».
Quanti secondi ci vogliono per confutare questo argomento? Due sarebbero già troppi, perché la sua assurdità salta immediatamente agli occhi: siamo subito in grado di citare innumerevoli controesempi che invalidano il ragionamento di Casini. Si pensi per esempio all’edema polmonare, che se non curato provoca letteralmente l’annegamento del paziente nelle sue stesse secrezioni: questo dimostra forse che il trattamento di questa patologia (a base per esempio di nitroglicerina e diuretici) non costituisce un trattamento sanitario, visto che la sua privazione costituisce una «condanna a morte con tormenti»?
Carlo Casini avrebbe potuto fare benissimo a meno di scomodare noi e, soprattutto, l’incolpevole santo...

venerdì 6 novembre 2009

La tradizione non può essere un valore in sé

Useless

Il dibattito che si è scatenato sulla sentenza di Strasburgo sul crocifisso è perlopiù noioso e sciocco.
Uno degli argomenti più idioti, tra i molteplici e solo presunti tali a favore di Gesù in croce appeso alle pareti dei luoghi pubblici, è il richiamo alla tradizione.
Basterebbe un po’ di buon senso per capire che invocare la “tradizione” non dimostra nulla, se non che sia trascorso del tempo. Ma il trascorrere del tempo, di per sé, è neutrale.
E l’elenco di tradizioni moralmente ripugnanti sarebbe lungo, lunghissimo. E, si spera, ripugnante anche per chi oggi si sgola in difesa della ubiquità del simbolo religioso e cattolico. Il matrimonio riparatore, tanto per cominciare: quell’accomodamento per cui se un uomo sposava la donna che aveva stuprato era tutto a posto. La tortura e la pena di morte – radicate tradizioni. Il divieto di sposare qualcuno con un diverso colore della pelle e l’indissolubilità del contratto matrimoniale.
Esistono anche tradizioni neutrali e tradizioni moralmente ineccepibili. In tutti i casi lo spessore morale non deriva dalla loro durata.
Non importa da quanti secoli la croce se ne sta appesa sui muri, a contare è il suo significato. E questo un giudice straniero lo ha spiegato bene, anche un bambino distratto potrebbe capirlo. L’imposizione (simbolica) di una confessione è contraria alla libertà religiosa e alla laicità dello Stato. Sempre che lo Stato sia liberale e laico.

DNews, 6 novembre 2009.

giovedì 5 novembre 2009

La sentenza sul crocifisso in italiano

Si trova sul blog di Alessandro Gilioli («Signora Lautsi contro il governo: sentenza integrale», Piovono rane, 4 novembre 2009). Non c’è il nome del traduttore ma a una prima occhiata la versione sembra professionale, impeccabile.

Aggiornamento 10/11: un’altra traduzione della sentenza, a cura di Laura Morandi e Bruno Moretti Turri. Rispetto all’altra ha il vantaggio di riportare i numeri dei paragrafi.

L’Italia pseudo-religiosa della cattiva coscienza

In mezzo a tante sciocchezze e a tanta violenza verbale, un commento luminoso sulla vicenda del crocifisso in classe: quello di Marco Politi, ieri sul Fatto QuotidianoLa Croce che non s’impone», 4 novembre 2009, p. 18).

Da tempo l’Italia pseudo-religiosa della cattiva coscienza, per sfuggire alla questione della laicità delle istituzioni, si è inventata la spiegazione che il crocifisso sia soltanto un simbolo della tradizione italiana, un’espressione del suo patrimonio storico e ideale, un incoraggiamento alla bontà e a valori di umanità condivisibili da credenti e non credenti. Non è così. O meglio, tutto questo insieme di richiami è certamente comprensibile ma non può cancellare il significato profondo e in ultima istanza esplicito di un crocifisso esposto in un ambiente scolastico o nell’aula di un tribunale. Il crocifisso sulla cattedra è il richiamo preciso ad una Verità superiore a qualsiasi insegnamento umano. Il crocifisso sovrastante le toghe dei magistrati è il monito a ispirarsi e non dimenticare mai la Giustizia superiore che promana da Dio. È accettabile tutto ciò da parte di chi non crede in “quel” simbolo? E’ lecito imporlo a quanti sono diversamente credenti sia che seguano un’altra religione sia che abbiano fatto un’opzione etica non legata alla trascendenza? La risposta non può che essere no. […]
Il messaggio di Strasburgo porta in Italia una ventata di chiarezza. Non nega affatto la vitalità di una tradizione culturale. Non “colpisce”, come lamenta l’Osservatore Romano, una grande tradizione. Strade, piazze, monumenti continueranno a testimoniare il vissuto secolare di un’esperienza religiosa. Edicole, crocifissi, statue di santi, chiese e oratori continueranno a parlare di una storia straordinaria. (Ma meglio sarebbe che gli alfieri della difesa delle «radici cristiane» si chiedessero perché tante chiese vuote, perché tanta ignoranza religiosa negli alunni che escono da più di dieci anni di insegnamento della religione a scuola, perché sono semivuoti i seminari e deserti i confessionali). Né viene toccato il diritto fondamentale dei credenti, come di ogni altro cittadino di diverso orientamento, di agire sulla scena pubblica. La Corte europea dei diritti dell’uomo afferma invece un principio basilare: nessuna istituzione può essere sotto il marchio di un unico segno religioso. Laicità significa apertura e neutralità, rifiuto del monopolio.
Da leggere tutto.

Giurin giurello

mercoledì 4 novembre 2009

Identità crocifissa?

La marea delle reazioni alla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha dato ragione a una cittadina italiana che sosteneva che l’esposizione dei crocifissi nelle aule della scuola pubblica costituisce una lesione della libertà di coscienza e di religione e del diritto a ricevere un’istruzione conforme alle proprie convinzioni religiose e filosofiche, comprende come sempre una miscela di cattiva informazione e di cattivi argomenti. Nella prima possiamo far rientrare gli allarmi sulla imminente asportazione delle croci dalle scuole – quando invece nell’immediato la sentenza della Corte avrà il solo effetto di costringere lo Stato italiano a pagare un risarcimento alla ricorrente – e le ingiure lanciate contro l’Unione Europea, già colpevole di aver lasciato fuori dalla propria costituzione le «radici cristiane» – ma la Corte dei diritti dell’uomo è espressione del Consiglio d’Europa, che non ha nulla a che vedere con l’Unione Europea (ne fanno parte 47 stati, contro i 27 dell’Unione).
Fra i cattivi argomenti, che sono legione, ce n’è uno adoperato da molti commentatori, che vorrei qui esaminare. L’esposizione più eloquente, come accade spesso, si deve alla penna di Antonio Socci («Così cancellano la nostra cultura», Libero, 4 novembre 2009, p. 1):

Per coerenza i giudici dovrebbero far cancellare anche le feste scolastiche di Natale (due settimane) e di Pasqua (una settimana), perché violerebbero la libertà religiosa.
Stando a questa sentenza, l’esistenza stessa della nostra tradizione bimillenaria e la fede del nostro popolo (che al 90 per cento sceglie volontariamente l’ora di religione cattolica) sono di per sé un “attentato” alla libertà altrui.
I giudici di Strasburgo dovrebbero esigere la cancellazione dai programmi scolastici di gran parte della storia dell’arte e dell’architettura, di fondamenti della letteratura come Dante (su cui peraltro si basa la lingua italiana: cancellata anche questa?) o Manzoni, di gran parte del programma di storia, di interi repertori di musica classica e di tanta parte del programma di filosofia.
Infatti tutta la nostra cultura è così intrisa di cristianesimo che doverla studiare a scuola dovrebbe essere considerato – stando a quei giudici – un attentato alla libertà religiosa. In lingua ebraica le lettere della parola “Italia” significano “isola della rugiada divina”: vogliamo cancellare anche il nome della nostra patria per non offendere gli atei? E l’Inno nazionale che richiama a Dio?
Perfino lo stradario delle nostre città (Piazza del Duomo, via San Giacomo, piazza San Francesco) va stravolto? Addirittura l’aspetto (che tanto amiamo) delle vigne e delle colline umbre e toscane – come spiegava Franco Rodano – è dovuto alla storia cristiana e ad un certo senso cattolico del lavoro della terra: vogliamo cancellare anche quelle?
Ma non solo. Come suggerisce Alfredo Mantovano, «se un crocifisso in un’aula di scuola è causa di turbamento e di discriminazione, ancora di più il Duomo che "incombe" su Milano o la Santa Casa di Loreto, che tutti vedono dall’autostrada Bologna-Taranto: la Corte europea dei diritti dell’uomo disporrà l’abbattimento di entrambi?».
Signori giudici, si deve disporre un vasto piano di demolizioni, di cui peraltro dovrebbero far parte pure gli ospedali e le università (a cominciare da quella di Oxford) perlopiù nati proprio dal seno della Chiesa?
Infine (spazzata via la Magna Charta, san Tommaso e la grande Scuola di Salamanca) si dovrebbero demolire pure la democrazia e gli stessi diritti dell’uomo (a cominciare dalla Corte di Strasburgo) letteralmente partoriti e legittimati (con il diritto internazionale) dal pensiero teologico cattolico e dalla storia cristiana?
L’errore di questo tentativo di reductio ad absurdum è del tutto evidente. Socci crede (o finge di credere?) che alla base del ricorso alla Corte e della sentenza ci sia l’intolleranza verso qualsiasi manifestazione religiosa diversa dalla propria: l’ebreo, il musulmano o – come nel caso concreto – il non credente vedrebbero il crocifisso (o una croce appesa al collo, o il Duomo, o il velo di una monaca) e ne ricaverebbero un senso di turbamento: lì c’è qualcuno che non la pensa come loro, e questo spettacolo intollerabile va immediatamente cancellato rimuovendo il segno dell’appartenenza diversa. Ma lo spirito della sentenza – che Socci evidentemente non ha letto – è ovviamente tutt’altro. Quella che si condanna è l’esposizione di un simbolo religioso nello spazio dello Stato; quel che si condanna è la sanzione che lo Stato imprime su una tradizione religiosa a preferenza delle altre. Quella che si condanna è insomma una forma di statalismo: una forma impropria di aiuto di Stato, per così dire. Stato che getta il proprio peso spropositato sulla bilancia e fa percepire, specialmente (ma non solo) a menti ancora in formazione, di essere schierato a fianco di una religione particolare.

È chiaro che in quest’ottica le conseguenze estreme paventate da Socci mostrano tutta la loro pretestuosità. Tralasciamo quelle più vertiginosamente paradossali, come il significato ebraico del nome d’Italia (’i tal Yah, appunto «isola della rugiada del Signore», è solo un’espressione casualmente omofona di Italia) o l’aspetto delle colline umbre, e limitiamoci alle altre. La manifestazione del culto – anche pubblica, come portare una croce al collo o in processione – non ha nulla a che fare con lo Stato, con scuole, ospedali o tribunali, così come non ce l’ha la Santa Casa di Loreto. Quanto all’insegnamento nelle scuole a base di autori cattolici o di opere d’arte ispirate al cristianesimo o di dottrine filosofiche connesse a questa religione, non è possibile non vedere l’immane differenza rispetto a un simbolo esibito per il suo valore esemplare, là dove nell’educazione è fondamentale la distanza critica interposta fra soggetto e oggetto, che è ha tutt’al più un valore conoscitivo (si può – forse – fare un’eccezione là dove i valori non sono controversi e non investono la nostra coscienza più intima, come per esempio nell’educazione a certi tipi di gusto); tant’è vero che si possono e devono insegnare anche le pagine oscure della nostra storia: non si vorrà dire, spero, che non c’è differenza fra una lezione dedicata al fascismo e un ritratto del Duce appeso in classe... (Tralascio qui le pretese connessioni fra cristianesimo e democrazia, di cui mi sono occupato recentemente in un altro post.)

La tradizione dovrebbe essere una cosa viva, sempre mutevole, che cresce, si adatta, e infine – perché no? – muore. Religioni, modi di pensare, cucinare, parlare, ballare sono in flusso perenne, anche se spesso fingiamo di dimenticarlo. Qualcuno, in particolare, cerca sempre di cristallizzare quel fiume, essenzializzando la tradizione, facendone un modello iperuranio, sostanza di un popolo, la cui perdita sarebbe come una morte parziale (nella retorica di certi conservatori estremi si parla non a caso di etnocidio anche solo per cause banali come l’apertura di un McDonald’s...): oggi Mariastella Gelmini commentava in un’intervista la decisione della corte di Strasburgo con queste parole: «Le radici dell’Italia passano anche attraverso simboli, cancellando i quali si cancella una parte di noi stessi» (Flavia Amabile, «“Si distrugge tutto in nome della laicità”», La Stampa, 4 novembre, p. 3). Anche da idee come queste dipende la statalizzazione delle tradizioni, la corsa al sostegno statale. Ma sono solo le tradizioni morenti ad avere bisogno della stampella pubblica, proprio come – non è un paragone irriverente – le industrie decotte. Altrimenti dovremmo fare ciò che ci propone un commento, apparso stamattina in uno dei più foschi blog integralisti, piccolo capolavoro d’umorismo (credo non involontario) fra tanta furia impotente e lugubri vaticini: «La pizza! La pizza! Io appenderei anche la pizza. Non sia mai che i bambini crescano senza la tradizione italiana».

Buoni genitori a Ferrara (18 novembre 2009)

martedì 3 novembre 2009

Vi perdono: un romanzo post-cristiano

Ilaria, detta Miele, è una giovane donna che aiuta i malati senza speranza a morire. Clandestinamente, fra mille precauzioni, con farmaci acquistati in Messico; non (solo) per denaro, ma per alleviare il ricordo della madre, morta fra lunghe sofferenze senza possibilità di aiuto. Ilaria/Miele è la protagonista del romanzo Vi perdono (Einaudi 2009, pp. 164, Euro 16,00), di Angela Del Fabbro, nom de plume di una scrittrice (scrittore?) che ha scelto di rimanere anonima.
Può sembrare strano per un romanzo che non volge altrove lo sguardo quando si tratta di descrivere tecniche eutanasiche o corpi colpiti dalla malattia, ma Vi perdono è uno di quei libri che è difficile mettere giù anche solo per un attimo prima di averli finiti. Forse è per l’ansia di lasciarsi rapidamente alle spalle quelle pagine angosciosamente realistiche; forse è per la scrittura impeccabile, alla quale al massimo si può rimproverare di comunicare talvolta una sia pur indefinibile sensazione di deja vu (ma può darsi che questo accada perché l’autrice, che non sembra un’esordiente, avrà già dato altre prove letterarie); forse è per il guizzo della trama che a un tratto pone sulla strada di Miele la figura di Augusto Grimaldi, ingegnere in pensione con la passione per Virgilio, che vuole morire per taedium vitae, senza essere affetto da malattie di sorta. Ma non sta qui, nel dilemma morale se sia lecito aiutare a suicidarsi una persona perfettamente sana (dilemma che l’autrice del resto lascia sospeso), l’interesse principale del romanzo.

È frequente, per chi argomenta a favore dell’eutanasia e più in generale del diritto a disporre del proprio corpo, presentare la propria posizione come quella di una minoranza, degna di rispetto a fianco di altre, opposte concezioni. Ma leggendo Vi perdono, con le sue rappresentazioni mai morbose ma tuttavia realistiche di disfacimento e di dignità offesa, è inevitabile giungere a considerare l’eutanasia come l’unica risposta veramente possibile al problema della sofferenza ineliminabile. Unica a causa della comune natura umana, della carne e del sangue che più di tanto non resistono agli insulti, e soprattutto dello spirito che non riesce più di tanto a piegarsi – anche se poi il terrore del nulla, la speranza irrazionale o, più banalmente, la difficoltà di trovare al momento giusto una misericordiosa Miele ci trattengono fino al limite estremo.
In questo senso Vi perdono è un romanzo post-cristiano: perché le ragioni contrarie all’eutanasia e al suicidio assistito sbiadiscono inevitabilmente di fronte alla terribile concretezza della dignità offesa dei corpi che il romanzo ci propone, e non riescono più a succhiare energia da un serbatoio ideologico che palesemente è ormai svuotato. Non occorre nemmeno una polemica esplicita, e non solo perché non abbiamo di fronte un pamphlet: quelle ragioni possono essere trascurate, tanto appaiono remote nella loro strana arcaicità. La guerra è, in un certo senso, già vinta.
Di questo sembrano in qualche modo essersi accorti i recensori cattolici: abbiamo così i fraintendimenti un po’ patetici di Famiglia cristiana, i tentativi di volgere il romanzo a una tesi più gradita di Lucetta Scaraffia, la pagina gonfia di livore di Nicoletta Tiliacos. (I laici non sono stati a dire il vero molto più simpatetici: si va dalla lettura corretta ma un po’ distaccata di Adriano Sofri all’intervista di un Michele Smargiassi che tenta in tutti i modi di far convenire l’autrice sulla propria errata interpretazione.)
Ma è questo anche un romanzo anti-cristiano? No, anzi. Del Fabbro giunge alla fine a una visione riconciliata del cristianesimo come bella invenzione che sottrae chi ci crede al terrore della fine: «Vi perdono» sono le parole che Miele rivolge infine a «stregoni, guerrieri, pastori» della fede. Una visione che è anche profondamente distaccata.
Per Miele infatti la morte non è schermata da care illusioni: è una cosa orribile, ingiusta, oscena, che non meritiamo, e che nulla allevia, neppure l’amore. Tutti gli aspiranti suicidi del romanzo hanno accanto chi li ama o chi offre loro amore, ma senza che questo cambi alcunché. Ed è il contatto prolungato, intimo con la morte, non altro, che alla fine piega Miele. L’unico rifugio sembra essere la narrazione: Ilaria/Miele/Angela comincia a scrivere, a confidare i segreti fino ad allora inconfidabili; noi leggiamo, e ciò che avremmo detto insostenibile ci sembra improvvisamente sopportabile, una storia di cui vuoi sapere la fine. La vecchia catarsi pare funzionare ancora – ma conviene sempre comunque tenere i barbiturici messicani a portata di mano, in fondo all’armadietto dei medicinali.

sabato 31 ottobre 2009

Se i senza-giudizio sognano i senza-genitori

La notizia, pubblicata il 28 ottobre scorso su Nature, che da cellule staminali embrionali sarebbero state derivate cellule germinali, progenitrici di spermatozoi e ovociti, ha generato il prevedibile sciame di commenti, oscillanti fra l’allarmismo infondato e l’indignazione compiaciuta. Colpisce in particolare la sconfortante uniformità con cui nei giornali italiani di ieri si è cercato di far passare il concetto che la scoperta aprirebbe la strada alla nascita di bambini privi di genitori: anche trascurando le volgarità di LiberoChe disastro, non ci saranno più i figli “di buona donna”», p. 23), in cui si cerca come d’abitudine di titillare le sordide paranoie e l’infondato senso di superiorità della canaille microborghese che costituisce il pubblico naturale di quel giornale, l’idea trova ospitalità sulle colonne della Stampa («bambini concepibili […] senza mamma e papà»; il titolo – indegno – è «Il papà di Dolly e i dubbi sul seme di Frankenstein», p. 13) e del Corriere («procreare, estremizzando, senza padre o senza madre»; la sfumatura di prudenza si perde nel titolo: «Le nascite senza genitori. La vita dalle staminali», p. 29). Paradossalmente è più prudente Avvenire, che almeno pone i propri terrori in prospettiva («Un’altra possibile deriva verso la vita “artificiale”», p. 6), mentre col Giornale ritorniamo all’ossessione dominante («Generazione X: così i bimbi nasceranno senza genitori», pp. 16-17), aggravata dalle curiose concezioni dell’articolista («Spermatozoi artificiali […] e ovuli artificiali […] accoppiati in una provetta potrebbero arrivare a fare tutto da soli: creare un embrione, un futuro essere vivente senza l’intervento di mamma e papà»: perché, spermatozoi e ovuli naturali accoppiati in una provetta o anche in una tuba di Falloppio cosa fanno? Hanno bisogno di essere accompagnati per mano?) e da qualche metafora infelice («scienziati che masticano cellule staminali da una vita»). Ci vuole Carlo Flamigni, intervistato dalla Stampa per un soprassalto di sanità mentale («“Passo fondamentale per battere la sterilità”», p. 13), per far notare ciò che dovrebbe essere ovvio a chiunque sia in possesso della dotazione minima di buon senso (e di un diploma di scuola superiore):

Allora professore, ci saranno bambini concepiti già «orfani»?
«Assolutamente no, mi sono stupito quando ho sentito questa sciocchezza. I genitori ci sono eccome e sono le persone dalle quali sono state estratte le cellule staminali. I cromosomi sono i loro. La creazione di bambini senza genitori presuppone la creazione di materiale genetico e siamo mille miglia lontano. È fantascienza».
E naturalmente anche la prospettiva di generare bambini con gameti tratti da staminali è abbastanza remota; per adesso l’unica possibile applicazione della scoperta è lo studio dei fattori che influiscono su sperma e ovociti per determinare sterilità e infertilità.

La cosa più grave, però, non sono le reazioni semi-pavloviane di cronisti fuori dal loro elemento, che cercano nel titolo ad effetto la maniera più spiccia per sbrigarsi e tornare a casa per la cena, ma bensì i commenti in teoria più meditati. In essi il legame con la realtà fattuale dell’annuncio degli scienziati di Stanford, già particolarmente esiguo nelle cronache passate in rassegna più sopra, viene del tutto abbandonato in favore di una sorta di associazione libera di parole e concetti, in cui a uno stimolo meramente verbale («bambini senza genitori») si risponde con ciò che per primo passa per la mente, in modo da far affiorare alla coscienza incubi e nevrosi personali. Così, sempre sul GiornaleSe la scienza ruba emozioni e incontri a uomini e donne», p. 17), per Annamaria Bernardini De Pace, celebre avvocato matrimonialista, la scoperta odierna «toglie definitivamente valore alla coppia»; inoltre, «qualche mamma sarà persino felice di non deformare il suo corpo; di non “partorire con dolore”, ma non potrà mai apprezzare la carezza dell’uomo amato al suo pancione e il primo strillo del bambino che si stacca da lei». Qui il lettore si ferma smarrito: cosa c’entra mai questo scenario da fantascienza con la produzione di gameti a partire da cellule staminali? Il fatto è che l’autrice s’è immaginata – Dio solo sa perché – che a Stanford abbiano tratto dalle cellule staminali, «per una sorta di autogerminazione, sperma e ovuli, tanto che non esisterebbero più né l’altro genitore biologico né, forse, l’utero formativo»; una sorta di partenogenesi combinata con utero artificiale, di cui non c’è ovviamente nessuna traccia nel lavoro degli scienziati (unire a caso gameti derivati da un solo individuo servirebbe oltretutto solo a ottenere embrioni affetti da malformazioni gravissime).
Ancora sul GiornaleQuei figli di nessuno condannati alla follia dal delirio dei medici», p. 17), Claudio Risé associa «la costruzione di figli di nessuno, di essere [sic] umani fabbricati in laboratorio […] senza nessun contributo né di un padre né di una madre» alla sua annosa personale battaglia in favore del ritorno alla figura del padre autoritario:
Quando la mamma non c’è, non guarda e non tocca il suo cucciolo, quello che gli psicologi chiamano Io non si costituisce […]. Quando il papà non è presente, e non aiuta i figli a uscire dalla fusione che si instaura con la madre nelle prime settimane di gravidanza e continua per anni, il soggetto umano non si forma […] Negli ultimi trent’anni, in cui i padri assenti, o espulsi dal matrimonio sono diventati fenomeno di massa, le statistiche hanno mostrato che questi figli senza padre rappresentano in ogni paese il gruppo di testa dei principali disagi psichici, dalle tossicomanie agli atti di violenza, dai disturbi alimentari alle depressioni.
La famiglia è spesso un problema, ma non averla per niente è peggio.
Di nuovo: cosa c’entra questo con la scoperta di cui parla Nature? L’unica possibilità di dare un senso a queste righe è che Risé abbia indebitamente generalizzato la notizia (già in partenza fasulla), interpretandola in maniera estensiva e passando quindi dal piano biologico a quello sociale: i bambini non sarebbero solo concepiti in laboratorio, ma – sembra di capire – vi verrebbero anche cresciuti.
Risé, ad essere sinceri, conclude l’articolo con un appello condivisibile: «Tuttavia di fronte al sinistro circo Barnum tecnoscienza & mercato dei bambini, preoccupiamoci pure, ma non cadiamo nell’isteria»; ma l’esempio che subito dopo ci fornisce di reazione non isterica è questo:
È proprio ciò che gli scienziati pazzi vorrebbero, per poter dire che gli amanti della natura sono poveri matti retrogradi, e loro i sani. Per contrastare i loro scenari avidi, occorre lucidità e sangue freddo. In fondo, non sono passati neppure due secoli da quando, nel 1916 [sic], Mary Shelley, spinta da Lord Byron a scrivere un racconto gotico, vide in un incubo uno studente, Victor Frankenstein, che si inginocchiava di fianco ad una creatura che aveva costruito; e questa, grazie a qualche forza ancora sconosciuta, mostrava segni di vita. Era l’annuncio della tecnoscienza, ed il primo grido di allarme per i suoi futuri deliri. Non serve scandalizzarsi per le visioni umane, vanno però messe sotto controllo. O sono guai.
Scienziati pazzi, «scenari avidi», il mostro di Frankestein e i deliri della tecnoscienza: non c’è che dire, una risposta proprio compassata...

Queste risposte, fra l’isterico e lo stralunato, a una scoperta che si sarebbe dovuta accogliere invece con interesse e apertura, ci mostrano ancora una volta come il sentimento antiscientifico dominante sia un segnale di grave pericolo per il progresso del nostro paese; progresso non solo civile ma anche materiale, non tanto perché la scienza costituisce il motore ultimo della crescita economica, ma perché là dove si reagisce con terrore inarticolato a ogni minima opportunità e a ogni minimo rischio, lo spirito di intraprendenza non può essere che morto da un pezzo.

Aggiornamento 1/11: da leggere la riflessione di Michele Serra (nell’«Amaca» di ieri) su come è stata data la notizia.