sabato 28 dicembre 2013

Mini Miss


La storia è questa: il governo francese è contrario ai concorsi di bellezza destinati alle minorenni e il Parlamento sta discutendo un progetto di legge per vietare a chi ha meno di 16 anni di partecipare alle sfilate. Le principali motivazioni sono l’ipersessualizzazione e lo sfruttamento commerciale dei più piccoli.
Il divieto e le ragioni addotte a sostegno del divieto hanno attirato la mia attenzione. Perché in generale un divieto legale andrebbe giustificato con argomenti solidi. Una volta che abbiamo rifiutato un sistema politico teocratico (“è vietato perché un dio così vuole”) o paternalista (“è vietato per il tuo bene”), quello che dovrebbe rimanere è un sistema che deve motivare i divieti che impone, molto approssimativamente ispirandosi al principio del danno a terzi: un divieto è legittimo quando è sostenuto da un danno che noi infliggeremmo a qualcun altro (omicidio, aggressione e così via).
Le motivazioni che invochiamo a sostegno di un divieto, poi, non dovrebbero essere facilmente riutilizzabili per vietare mille altre cose. Possiamo pensare che i concorsi di bellezza - in generale o solo quelli per i minorenni - facciano schifo, che siano inopportuni, volgari, noiosi, ma stiamo parlando di un divieto e non di una preferenza. Non possiamo mica vietare per legge le cose stupide o di cattivo gusto. Non finiremmo mai.
Ci dovremmo quindi domandare se partecipare a un concorso di bellezza sia intrinsecamente dannoso o se lo sia in alcune circostanze, come quelle di avere meno di 18 anni e di esservi stati portati verosimilmente dai propri genitori (quando una ragazzina può davvero scegliere?). Partecipare a Miss Francia provoca un danno tale da autorizzare i legislatori a dire “vietato per legge”?
Passiamo all’invocazione dello sfruttamento commerciale delle piccole aspiranti miss da parte dei genitori: se valesse, dovremmo estenderlo a molti altri casi, affini e lontani. Attori e cantanti in miniatura, tanto per cominciare. Modelli per giocattoli, vestitini, magliettine, palloncini.
Ma poi anche quei genitori che decidono che il figlio debba diventare un grande campione: come non pensare ad Andre Agassi - che racconta in Open le torture inflittegli dal padre - o a Jennifer Capriati o a tanti altri le cui vite sono state profondamente indirizzate dal potere dei genitori. Potere che è inevitabilmente esteso, soprattutto nei primi anni. Potere che non è assoluto, ma i cui confini sono difficili da tracciare: far partecipare la propria figlia a un concorso di bellezza somiglia più a torturarla o a iscriverla a scuola?
Se accettiamo la bontà dell’argomento dello sfruttamento commerciale dovremmo dunque augurarci che le prossime leggi vieteranno un lungo elenco di attività decise dai genitori e destinate ai figli.
I due tennisti, Agassi e Capriati, non sono i soli esempi a disposizione, ovviamente. Mettendo insieme la giovane età, il travestimento e quel senso di fake che possiamo immaginare connessi a un concorso di Miss teen mi è venuta in mente la comunione. Rituale per me abbastanza estraneo, mi è capitato di osservarlo qualche mese fa perché la figlia di amici celebrava il sacramento.
Ora, provate a pensarci dismettendo la familiarità che avete accumulato in anni e anni: sono piccoli, vestiti in modo inusuale e sulla loro autonoma decisione si può avanzare qualche dubbio. Quanto allo sfruttamento commerciale, potremmo pensare ai regali, alle bomboniere, ai pranzi e a quello che sembra in tutto e per tutto un banchetto di nozze in miniatura. E se nei concorsi si rischierebbe l’ipersessualizzazione, durante il catechismo non si potrebbe rischiare l’obnubilamento? Sarebbero queste condizioni sufficienti per un divieto legale? ×

Il Mucchio di gennaio.

mercoledì 18 dicembre 2013

Di aborto, minorenni, diritti riproduttivi, astensioni e distrazioni

A proposito della relazione Sulla salute e i diritti sessuali e riproduttivi avevo già scritto lo scorso ottobre.
Nei giorni passati se n’è parlato di nuovo in occasione della bocciatura: «Con soli 7 voti di scarto è stata cancellata la risoluzione sulla salute e i diritti sessuali e riproduttivi, presentata dalla socialista portoghese Edite Estrela, in cui si chiedevano tra l’altro “servizi di qualità per l’aborto legali, sicuri e accessibili a tutti” e “regolamentazione e monitoraggio” della obiezione di coscienza, esprimendo preoccupazione perché i medici sono “costretti a praticarla nelle cliniche religiose. La relatrice, subito dopo il voto (334 sì, 327 no, 35 astenuti) che ha sostituito il suo testo con una versione - sostenuta dai popolari del Ppe e dai conservatori dello Ecr - di fatto senza alcun contenuto, ha “deplorato” la “ipocrisia e l’oscurantismo” dell’aula».

Il rituale dei commenti un po’ a caso si è ripetuto (vedi alla voce “Reazioni” nel primo link; qui il comunicato stampa del Center for Reproductive Rights; qui il processo verbale dello scorso 11 dicembre).

Ci sono state molte polemiche sia sul risultato finale sia sul comportamento del PD (i cui membri astenuti sono: Silvia Costa, Franco Frigo, Mario Pirillo, Vittorio Prodi, David Sassoli e Patrizia Toia). Alcuni di loro hanno spiegato le ragioni dell’astensione.

Silvia Costa si è giustificata dicendo (Rapporto Estrela. Costa (Pd): «Non l’ho votato perché faceva dell’aborto un totem. Ma è presto per cantare vittoria», 13 dicembre 2013, Tempi): «Innanzitutto perché la relazione Estrela non bilanciava l’aborto con il diritto del nascituro e perché il diritto alla vita veniva completamente ignorato. Inoltre perché eliminava l’obiezione di coscienza, promuoveva l’accesso diretto delle minorenni all’aborto senza il consenso dei genitori e la procreazione assistita per single omosessuali. La relazione inoltre non poneva alcuna attenzione sul diritto alla maternità e alla paternità, e accresceva la responsabilità delle donne, con il rischio di accentuarne la solitudine».

La questione “minorenni senza genitori” torna anche nella giustificazione di David Sassoli, capo delegazione PD.
Sassoli risponde così a Marco Zatterin (Sassoli: “Mozione Pse inaccettabile. L’aborto non è competenza Ue, 15 dicembre 2013, la Stampa): «Una cosa era positiva: l’invito rivolto a tutti gli Stati che non hanno una legge sull’aborto a darsene una. Ma altre erano inaccettabili per me. Come l’idea di concedere ai giovanissimi, sotto i 16 anni, l’opzione di interrompere la gravidanza senza consenso parentale. O considerare l’obiezione di coscienza come un ostacolo per il ricorso all’aborto».

L’argomento gli sta proprio a cuore e il dibattito prosegue su Twitter. Il 12 dicembre domanda:




Qualcuno gli suggerisce di leggere la legge 194 al riguardo. Mica tutta, basta legge l’articolo 12 che stabilisce: «La richiesta di interruzione della gravidanza secondo le procedure della presente legge è fatta personalmente dalla donna. 
Se la donna è di età inferiore ai diciotto anni, per l’interruzione della gravidanza è richiesto lo assenso di chi esercita sulla donna stessa la potestà o la tutela. Tuttavia, nei primi novanta giorni, quando vi siano seri motivi che impediscano o sconsiglino la consultazione delle persone esercenti la potestà o la tutela, oppure queste, interpellate, rifiutino il loro assenso o esprimano pareri tra loro difformi, il consultorio o la struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, espleta i compiti e le procedure di cui all’articolo 5 e rimette entro sette giorni dalla richiesta una relazione, corredata del proprio parere, al giudice tutelare del luogo in cui esso opera. Il giudice tutelare, entro cinque giorni, sentita la donna e tenuto conto della sua volontà, delle ragioni che adduce e della relazione trasmessagli, può autorizzare la donna, con atto non soggetto a reclamo, a decidere la interruzione della gravidanza. 
Qualora il medico accerti l’urgenza dell’intervento a causa di un grave pericolo per la salute della minore di diciotto anni, indipendentemente dall’assenso di chi esercita la potestà o la tutela e senza adire il giudice tutelare, certifica l’esistenza delle condizioni che giustificano l’interruzione della gravidanza. Tale certificazione costituisce titolo per ottenere in via d’urgenza l’intervento e, se necessario, il ricovero. Ai fini dell’interruzione della gravidanza dopo i primi novanta giorni, si applicano anche alla minore di diciotto anni le procedure di cui all’articolo 7, indipendentemente dall’assenso di chi esercita la potestà o la tutela».

Il giorno dopo sottolinea che lui vuole difendere la 194 (nelle parti che si ricorda):


Qualcuno allora gli suggerisce che la famiglia non è mica sempre quell’aggregazione bucolica ove tutti si vogliono bene. Ma Sassoli insiste (è sempre il 13 dicembre e c’è un reply sbagliato a un tweet).











La discussione sembra essere finita qui, ma stamattina ecco Sassoli ribadire che la 194 dice quello che dice lui:



Non sarebbero dovuti essere i genitori a decidere? A essere resi consapevoli e informati?
In conclusione, suggerisco di leggere anche la Corte Costituzionale (ordinanza 196) dello scorso anno, soprattutto il seguente passaggio (i corsivi sono miei): «anche di recente, è stato ancora una volta riaffermato, nella ordinanza n. 126 del 2012, come, conformemente alla sopra identificata funzione del procedimento dinanzi al giudice tutelare, sia «attribuito a tale giudice – in tutti i casi in cui l’assenso dei genitori o degli esercenti la tutela non sia o non possa essere espresso – il compito di “autorizzazione a decidere”, un compito che (alla stregua della stessa espressione usata per indicarlo dall’art. 12, secondo comma, della legge n. 194 del 1978) non può configurarsi come potestà co-decisionale, la decisione essendo rimessa – alle condizioni ivi previste – soltanto alla responsabilità della donna» (ordinanza n. 76 del 1996); e che «il provvedimento del giudice tutelare risponde ad una funzione di verifica in ordine alla esistenza delle condizioni nelle quali la decisione della minore possa essere presa in piena libertà morale» (ordinanza n. 514 del 2002)».

Aggiornamento:
Sassoli continua a parlare da solo.



L’articolo 44 (al paragrafo Educazione sessuale completa e servizi su misura per gli adolescenti: «invita gli Stati membri a fornire servizi per la salute sessuale e riproduttiva adatti agli adolescenti e che tengano conto dell'età, della maturità e delle capacità che evolvono, che non siano discriminatori rispetto al genere, allo stato civile, alla disabilità, allorientamento/identità sessuale, e che siano accessibili senza il consenso dei genitori e dei tutori») è qui.

sabato 14 dicembre 2013

Eutanasia dei minori in Belgio: la proposta di legge

Il 12 dicembre scorso il Senato belga ha approvato il testo della proposta di legge che prevede l’estensione ai minori della legge sull’eutanasia (in vigore in quel paese dal 2002). La proposta di legge passa adesso alla Camera per l’approvazione definitiva; non è certo che l’iter possa concludersi in tempo prima dello scioglimento del Parlamento (le prossime elezioni si terranno il 25 maggio 2014).
In queste materie la tendenza a giudicare su notizie parziali o infondate è ben radicata, tanto più quando si parla di eventi accaduti all’estero; può così capitare di leggere su uno dei blog integralisti più seguiti queste parole (Daniela Bovolenta, «Il seme del futuro», Il blog di Costanza Miriano, 5 dicembre 2013):

La proposta di legge belga per l’estensione dell’eutanasia anche ai bambini piccolissimi, per richiedere la quale la “sofferenza dei genitori” sarà considerato un valido motivo, sembra essere un primo passo per forzare nello stesso senso anche altre legislazioni europee.
Qui la vera proposta di legge è stata sostituita da un’altra, frutto integrale – si direbbe – della fantasia sovreccitata dell’autrice (ma tutto il post reca i segni della stessa febbrile creatività).
Per fare dunque opera di informazione, propongo qui di seguito la mia traduzione del testo della proposta di legge belga. Per comodità del lettore riporto il testo della legge preesistente (Loi relative à l’euthanasie, 28 mai 2002) con le modifiche sostanziali approvate dal Senato in evidenza (limitatamente agli articoli 2 e 3).
In sintesi: l’eutanasia può essere effettuata solo su richiesta del paziente; il paziente minore dovrà dunque essere dotato della necessaria capacità di discernimento, verificata da uno psichiatra dell’infanzia o da uno psicologo. A differenza che per gli adulti, nel caso dei minori l’eutanasia potrà essere richiesta solo da pazienti terminali e soltanto in caso di sofferenze fisiche, e non anche psichiche. Sarà necessario infine il consenso dei tutori legali.


CAPO I. Disposizioni generali.

Art. 2. Ai fini dell’applicazione della presente legge, si intende per «eutanasia» l’atto, eseguito da un terzo, che mette intenzionalmente fine alla vita di una persona su richiesta di quest’ultima.

CAPO II. Dei requisiti e della procedura.

Art. 3.
§ 1. Il medico che pratica un’eutanasia non commette reato se si è assicurato che:
- il paziente è maggiore d’età o è un minore emancipato, capace, o è un minore dotato della capacità di discernimento, ed è cosciente al momento della richiesta;
- la richiesta è espressa in modo volontario, ponderato e ripetuto, e non è frutto di una pressione esterna;
- il paziente maggiore d’età o minore emancipato si trova in una situazione medica senza speranza ed è oggetto di una sofferenza fisica o psichica costante e insopportabile che non può essere mitigata e che è il risultato di un’affezione accidentale o patologica grave e incurabile;
- il paziente minore dotato della capacità di discernimento si trova in una situazione medica senza speranza che comporta il decesso a breve scadenza ed è oggetto di una sofferenza fisica costante e insopportabile che non può essere mitigata e che è il risultato di un’affezione accidentale o patologica grave e incurabile;
e di rispettare i requisiti e le procedure prescritti dalla presente legge.

§ 2. Il medico, senza pregiudizio delle condizioni supplementari che vorrà porre al suo intervento, deve, preliminarmente e in ogni caso:
1º informare il paziente del suo stato di salute e della sua speranza di vita, concertarsi con il paziente sulla sua richiesta di eutanasia e tratteggiargli le possibilità terapeutiche ancora disponibili nonché le possibilità offerte dalle cure palliative e le loro conseguenze. Egli deve giungere, assieme al paziente, alla convinzione che non rimanga nessun’altra soluzione ragionevole nella situazione data e che la richiesta del paziente sia completamente volontaria;
2º assicurarsi della persistenza della sofferenza fisica o psichica del paziente e della sua volontà reiterata. A questo scopo, effettua con il paziente numerosi colloqui, separati da intervalli di tempo ragionevoli in considerazione dell’evoluzione dello stato del paziente;
3º consultare un altro medico sul carattere grave e incurabile dell’affezione, precisando le ragioni del consulto. Il medico consultato prende conoscenza della cartella clinica, esamina il paziente e si assicura del carattere costante, insopportabile e non mitigabile della sua sofferenza fisica o psichica. Egli redige un rapporto sui propri accertamenti.
Il medico consultato deve essere indipendente, sia rispetto al paziente sia rispetto al medico che effettua il trattamento, e deve essere competente per quanto riguarda la patologia in oggetto. Il medico che effettua il trattamento informa il paziente dei risultati del consulto;
4º dialogare, se esiste un’équipe curante in contatto regolare con il paziente, sulla richiesta del paziente con l’équipe o con alcuni dei suoi membri;
5º dialogare, se questa è la volontà del paziente, sulla sua richiesta con i congiunti da lui indicati;
6º assicurarsi che il paziente abbia avuto l’opportunità di dialogare sulla sua richiesta con le persone che desiderava incontrare;
7º consultare inoltre, quando il paziente è un minore non emancipato, uno psichiatra dell’infanzia o uno psicologo, precisando le ragioni del consulto.
Lo specialista consultato prende conoscenza della cartella clinica, esamina il paziente, si assicura della capacità di discernimento del minore e la attesta per iscritto.
Il medico che effettua il trattamento informa il paziente e i suoi tutori legali del risultato di questi consulti.
Il medico che effettua il trattamento dialoga con i tutori legali del minore, fornendo loro tutte le informazioni previste al § 2, 1º, e si assicura che aggiungano per iscritto il loro consenso alla domanda del paziente minore.


§ 3. Se il medico è del parere che il decesso del paziente maggiore d’età o minore emancipato non si verificherà sicuramente a breve scadenza, deve inoltre:
1º consultare un secondo medico, psichiatra o specialista della patologia in oggetto, precisando le ragioni del consulto. Il medico consultato prende conoscenza della cartella clinica, esamina il paziente, si assicura del carattere costante, insopportabile e non mitigabile della sua sofferenza fisica o psichica e del carattere volontario, ponderato e ripetuto della richiesta. Egli redige un rapporto sui propri accertamenti. Il medico consultato deve essere indipendente, sia rispetto al paziente sia rispetto al medico che effettua il trattamento e al primo medico consultato. Il medico che effettua il trattamento informa il paziente dei risultati del consulto;
2° lasciar passare almeno un mese tra la domanda scritta del paziente e l’eutanasia.

§ 4. La richiesta del paziente così come il consenso dei tutori legali se il paziente è minore devono essere registrati in forma scritta. Il documento viene redatto, datato e firmato dal paziente stesso. Se egli non è in grado di farlo, la sua richiesta viene registrata in forma scritta da una persona maggiorenne di sua scelta che non deve avere nessun interesse materiale al decesso del paziente.
Questa persona menziona il fatto che il paziente non è in grado di formulare la propria richiesta per iscritto e ne indica i motivi. In questo caso, la richiesta viene registrata in forma scritta in presenza del medico, e la persona in questione indica il nome del medico nel documento. Questo documento deve essere allegato alla cartella clinica.
Il paziente può revocare la sua richiesta in ogni momento, nel qual caso il documento viene prelevato dalla cartella clinica e restituito al paziente.

§ 4/1. Dopo che la richiesta del paziente è stata esaudita dal medico, le persone interessate vengono informate della possibilità di ricevere un sostegno psicologico.

§ 5. L’insieme delle domande espresse dal paziente, così come gli atti del medico che effettua il trattamento e il loro risultato, compreso(/i) i(l) rapporto(/i) del(/i) medico(/i) consultato(/i), sono annotati regolarmente nella cartella clinica del paziente.

venerdì 22 novembre 2013

Funerale e sepoltura dei feti*


“Lo sapevo”, disse lei ridendo, “vivere è una cosa tanto sciocca
che ci si attacca persino alla sciocchezza di essere nati.”
Cesare Pavese, Tra donne sole

Però a me non sembrava che era il caso di prendere per il culo.
Per il culo, ci potevano prendere a tutti e quattro:
si può prendere per il culo chiunque è infelice,
basta che si è abbastanza crudeli.
Nick Hornby, Non buttiamoci giù

È passato quasi un anno dall’inaugurazione del giardino degli angeli, un’area destinata ai feti e agli embrioni nel cimitero Laurentino di Roma. Durante la cerimonia nel gennaio 2012 Sveva Belviso, vicesindaco, parlava di “corpicino” e di dignità. La camelia bianca piantata quel giorno non c’è più, al suo posto c’è qualche vaso con delle margherite bianche.
Allora ci furono entusiasti sostenitori e feroci oppositori. Nel giro di qualche giorno tutti se ne sono dimenticati, fino alla Marcia per la Vita del maggio seguente. Ho deciso di andarci, ho cercato su Google maps e ho telefonato per gli orari: via Laurentina al chilometro 13,500, dalle 7.30 alle 17.00.
È l’inizio di novembre, il fine settimana dei morti e dei santi e penso che non ci possa essere periodo migliore per andare in un cimitero. Telefono alla mia amica fotografa Francesca Leonardi, con cui da tempo sto lavorando sull’aborto, e prendiamo accordi per il giorno seguente, sabato 3 novembre.
Bisogna percorrere la via Laurentina, passare accanto a palazzoni alti e orribili, alcuni color verde militare e probabilmente partoriti dalla mente di un geometra frettoloso, oltrepassare il raccordo. Poi si cominciano a vedere i cartelli pubblicitari di marmi e lapidi e si intuisce che siamo nei dintorni. Ci sono molte rotonde e almeno un paio di volte rischio di girare prima del dovuto e di prendere la Pontina. Siamo quasi a Trigoria. Ci sono 3 o 4 cartelli con l’indicazione “cimitero Laurentino” e poi uno spiazzo con alcuni banchetti che vendono fiori.
Alcune persone aspettano il loro turno, carte colorate e retine, forbici e colori addossati gli uni agli altri. Me li lascio sulla destra e oltrepasso il cancello aperto. Oltre la soglia comincia una salita e non vedo che qualche cipresso e in lontananza la sagoma dei palazzoni che ora sembrano tutti grigi. C’è una cappella sulla sinistra, a destra la camera mortuaria e alcune costruzioni non finite, alcuni loculi vuoti e le scale per salire fino a quelli messi in alto. C’è una donna in bilico che manda baci al marmo freddo, il movimento veloce del braccio dalle sue labbra alla lapide, sta arrampicata su quella scala con le ruote e il terreno è in lieve pendenza.
Prato e croci bianche.
Dopo qualche decina di metri vedo la statua di un angelo – quella che ho visto nel video girato il giorno dell’inaugurazione. Poco più in là c’è una roccia con la scritta in stampatello IL GIARDINO DEGLI ANGELI e un’altra statua di un altro angelo, uguale alla prima. Al collo hanno qualche rosario. È un’area (ricordo di avere letto) di 600 metri quadrati, delimitata da una siepe e quasi vuota. Le piccole lapidi rettangolari bianche sono 12, su una non c’è scritto nulla, sulle altre ci sono alcuni nomi, le date, qualche riga di iscrizione. Sul lato opposto e separato dalla strada c’è un rettangolo di prato con le lapidi di bambini. Accanto ai nomi e alle date ci sono pupazzi, macchinette, fiori di plastica, collanine, bracciali, girandole e campanellini. Nel silenzio quasi assoluto si sentono più o meno intensamente a seconda del vento. Alcuni pupazzi e scacciaguai – che altro può succedere a un morto? – sono legati agli alberi esili che ondeggiano tra le lapidi e la strada.
Si ferma una macchina e scendono un uomo e una donna. Si avvicinano a una delle piccole lapidi bianche. Stanno lì per alcuni minuti. Io mi tengo a distanza di sicurezza perché il dolore mi imbarazza e perché sul dolore non ho nulla da dire. Mi domando se curare una piccola lapide possa lenirlo. Non lenirebbe il mio, ma per qualcuno magari funziona.
Guardando queste lapidi mi distraggo a pensare alle vite interrotte, a sinistra della strada, o mai cominciate, a destra. Queste tombe invase da giochi e colori sembrano inopportune, intollerabili. Magari perché penso che un morto sia morto e basta. Se invece credi che stia da qualche parte puoi anche credere che abbia bisogno dei suoi giocattoli, come facevano gli Egizi con i propri morti. Li metti in una bara con gli oggetti più cari e più utili per il viaggio. In questo caso però stanno fuori, e potrebbe essere anche più difficile per il morto accorgersene. Oppure è un rituale benefico e i pupazzi servono a chi è vivo. In entrambi i casi sono invidiosa: per me non sarebbe di alcuna consolazione. I cadaveri sono cadaveri, nulla di più. Quando l’uomo e la donna se ne vanno la piccola lapide è coperta di fiori, una girandola colorata, qualche pianta grassa, una luce incastrata dentro a una statuetta a forma di rana, alcuni cuoricini di pietra, una statuetta di un santo (forse padre Pio) e un angelo bianco che porta una rosa bianca come un tedoforo. Il marmo e le scritte sottostanti sono quasi scomparsi. Oltre alla sepoltura si può anche fare il funerale, come in The little death [stagione2, episodio 9]. La protagonista di The Big C è Cathy, dopo avere ricevuto una diagnosi di melanoma, un cancro aggressivo e terminale (C sta per Cancer). Cathy ha un fratello un po’ sciroccato, Sean, che ha una fidanzata, Rebecca. Rebecca rimane incinta, ma ha un aborto spontaneo alla diciottesima settimana. La reazione di Rebecca è inizialmente di ostentata indifferenza e di negazione. E di ostinata volontà di organizzare una celebrazione. “Ognuno elabora il lutto in modo diverso. Quando ho abortito, ho piantato un albero.” “Non voglio stare in lutto. Voglio celebrare la vita che ho portato dentro di me per 18 settimane. Questo feto merita di essere festeggiato.” E per celebrare il feto Rebecca vuole organizzare un funerale grandioso. Cathy prova a suggerirle che forse sta sublimando il suo dolore con il sushi e gli addobbi. Rebecca non ne vuole sapere, insiste nei suoi propositi e suggerisce all’amica di preoccuparsi del fratello che ha reagito molto male all’aborto. Fin dall’inizio il funerale per baby Cathy è una occasione in più per Cathy per pensare alla propria morte e, addirittura, per assistere al proprio funerale: nel necrologio c’è scritto infatti “per la morte di Cathy Tolke”. Il feto abortito e Cathy sono omonimi, e molte delle persone che arrivano sono convinte che sia morta Cathy senior. Paul, il marito di Cathy, avanza qualche protesta per il malinteso creato da Rebecca.

Rebecca intanto è impassibile e concentrata nell’organizzare e poi nel presenziare a questo “little festival of denial”, al contrario di Sean. “Voglio dire, guardati, Rebecca. Ti ho visto più agitata quando qualcuno ti ha rubato il parcheggio.”
Il giorno del funerale sono in molti ad essere sorpresi e contenti che Cathy non sia morta e dopo una serie di malintesi, condoglianze per una morte mai avvenuta e fotografie di come sarebbe potuta diventare la piccola Cathy se fosse nata, c’è la resa dei conti tra “big Cathy” e Rebecca, infastidita per l’attenzione che le persone manifestano alla non-morta e per la disattenzione verso baby Cathy.
In questa vicenda accade anche qualcosa che è abbastanza comune: dopo un aborto – volontario o spontaneo – i due si lasciano, come se avessero condiviso un segreto vergognoso che impedisce loro di guardarsi ancora in faccia. O un dolore troppo profondo. Lo spazio tra il dolore per un aborto spontaneo e la morte di un figlio può assottigliarsi fino a scomparire nella percezione soggettiva. Come ho già detto, il dolore è incontrovertibile, ma si offre a indagini e a riflessioni.

Gli angeli

Il cimitero di Roma non è l’unico spazio dedicato ai “bambini non nati”. Dal punto di vista giuridico il riferimento è il Decreto del presidente della Repubblica del 1990 n. 285, “Approvazione del regolamento di polizia mortuaria” secondo cui è possibile seppellire “prodotti abortivi” di età presunta tra le 20 e le 28 settimane. A richiesta anche quelli di età inferiore.
Il giardino degli angeli non è dunque una novità giuridica e la possibilità di seppellire i “prodotti abortivi” c’era già. Le inaugurazioni degli spazi dedicati non hanno dunque introdotto una possibilità prima inesistente, ma l’hanno sottolineata e forse usata politicamente. E hanno introdotto con prepotenza l’espressione “bambini non nati”, perché prodotti abortivi era irrispettoso.
Quando è stata la volta di Firenze gli animi erano già infiammati dalle pressioni dei movimenti conservatori e dalle alte percentuali di obiettori di coscienza negli ospedali. La discussione che ne è seguita si è trasformata – tanto per cambiare – in uno scontro feroce tra i sostenitori della necessità dei “cimiteri degli angeli” e i contrari, spesso in quanto si violerebbe la 194 e si offenderebbero le donne. Dimenticano che alcune donne scelgono di seppellire i propri bambini non nati e non si capisce come la possibilità di farlo le offenderebbe. Spesso si parla in nome di qualcuno cui non si è mai rivolto la parola.

Finché la sepoltura è volontaria non sembra avere molto senso impedire o urlare a sproposito. Diverso il caso della Lombardia: “Per la sepoltura del feto ci pensa lei o preferisce che lo faccia l’azienda sanitaria? Metta una croce e una firma qui”. Il regolamento regionale voluto da Roberto Formigoni obbliga a porre quella domanda, e in caso di declino, investe la struttura ospedaliera dell’obbligo di sepoltura per la dignità del feto. Rimane il dubbio se sia possibile compiere una scelta diversa dalla sepoltura, perché esistono anche religioni che prevedono altri rituali o la volontà di trattare il bambino non nato come un rifiuto ospedaliero. Lo slittamento dalla scelta all’obbligo e dal desiderio della donna all’ontologia dell’embrione fa la differenza.
È innegabile che chi appoggia i funerali o decide di farne una causa politica sta compiendo una precisa scelta simbolica, sta ammiccando a una precisa fazione. Ma non è con un divieto che si risponde a un eventuale abuso di una scelta individuale trasformata in battaglia politica.
Ci sono poi altre differenze profonde, determinate non solo dall’età gestazionale ma dalle modalità di morte dell’embrione o del feto. Un aborto spontaneo è diverso da uno volontario, e più si è in prossimità del parto più il senso di perdita può essere inconsolabile e l’aborto vissuto come una morte di una persona cara (anche se non ancora nata e anche se il termine persona è qui usato in senso colloquiale). E poi il dolore per la perdita di x non ci dice nulla sullo statuto ontologico di x. Si seppelliscono anche cani e gatti o altri animali amati e non è che si pretenda che questo li trasformi in persone. E per alcuni il dolore per la perdita o la distruzione di un oggetto può essere tanto intenso da essere paragonabile a un lutto – per la morte di una persona cara.

Secondo alcuni la sepoltura può aiutare a gestire il vissuto di un lutto: per un figlio desiderato e il cui futuro è negato da un evento imprevisto o da una decisione sofferta come nel caso di una patologia fetale. Per alcuni può essere una consolazione e non c’è ragione per cui si dovrebbe impedire o limitare una consolazione. Il panorama è molto diverso se pensiamo a una interruzione volontaria nel primo trimestre. Ma è diverso soprattutto a seconda delle persone.

In parte è questa ambiguità ad avere sollevato le polemiche sui regolamenti regionali o comunali: se seppellisci x, allora x è una persona e allora non far nascere x (abortire) è immorale e dovrebbe essere illegale. Ci sono molte fallacie dietro alle conclusioni che hanno spinto molti a credere che criticare il cimitero dei feti volesse dire difendere l’accesso legale e sicuro all’interruzione di gravidanza e viceversa. È ovvio che poi ci siano le intenzioni e i piani simbolici, ma questi sono terreni molto più sfumati. E soprattutto è l’intento di equiparare le esperienze e i vissuti che tende la trappola: tutte le donne vivono l’aborto come un lutto. Sarebbe necessario distinguere per ogni donna, o almeno distinguere gli aborti volontari e precoci da quelli tardivi e involontari.

Il cimitero di Firenze prevede una area dedicata ai feti, “ai prodotti abortivi e i prodotti del concepimento”. Anche chi si inalbera a condannare, scegliendo argomenti e parole inappropriati, fa più danni che se avesse taciuto. Vittoria Franco, senatrice Pd, avrebbe definito il regolamento fiorentino: “Una provocazione verso il dramma dell’aborto e del rapporto delle singole donne con la maternità” (il corsivo è mio). Claudia Livi: “Mi dissocio da un atto che mi offende profondamente come donna”. Più a fuoco Tea Albini, consigliera e parlamentare Pd, ma ancora sedotta dagli universali: “‘Molto ideologico e poco pratico [...] Anche perché già oggi la legge consente la sepoltura di feti e aborti e non c’era nessuna necessità di presentarlo. Si rischia una spaccatura forte all’interno del gruppo consiliare e nella sinistra. Ne valeva la pena? Io sono per la politica come arte della mediazione. Il sindaco, invece, cerca lo scontro. Spesso mediatico’”. Liberetutte di Firenze, un’associazione che nello statuto ha tra gli obiettivi la difesa della libertà e l’autodeterminazione delle donne, ha chiesto a tutte le consigliere comunali un incontro. “‘Vogliamo discutere quello che per noi è un attacco alla 194 – spiega la portavoce [di Liberetutte] Luisa Petrucci –. Il regolamento vuole trasformare feto ed embrione in una persona e non è questo lo spirito della legge. L’articolo del regolamento approvato ci pare una macabra trovata che lede la sfera privata delle donne e la loro dignità’.” Non riesco a non pensare che sarebbe più importante garantire le scelte di ogni persona che impantanarsi in discussioni in cui ognuno ha già deciso e non ha alcuna intenzione di concedere nulla: se una donna vuole seppellire o fare il funerale all’embrione o al feto deve avere la libertà di farlo. Se una donna vuole abortire anche. Il funerale e il seppellimento non hanno nulla a che fare con lo statuto dell’embrione e del feto, ma con i desideri delle persone.

*Capitolo 8 di A. La verità, vi prego, sull’aborto, 2012, Fandango.

martedì 29 ottobre 2013

A year of magical thinking leads to… unintended pregnancy

Qualitative Study Explores Women's Perceptions of Pregnancy Risk

In-depth interviews with 49 women obtaining abortions in the United States found that most of the study participants perceived themselves to be at low risk of becoming pregnant at the time that it happened. According to "Perceptions of Susceptibility to Pregnancy Among U.S. Women Obtaining Abortions," by Lori Frohwirth of the Guttmacher Institute et al., the most common reasons women gave for thinking they were at low risk of pregnancy included a perception of invulnerability, a belief that they were infertile, self-described inattention to the possibility of pregnancy and a belief that they were protected by their (often incorrect) use of a contraceptive method. Most participants gave more than one response.
The most common reason women gave for their perceived low risk of pregnancy was perceived invulnerability to pregnancy. Study participants understood that pregnancy could happen, but for reasons they couldn't explain, thought they were immune or safe from pregnancy at the time they engaged in unprotected sex. One reported that she "always had good luck," while another said, "…It's like you believe something so much, like 'I just really don't want children,' [and] for some reason, I thought that would prevent me from getting pregnant." This type of magical thinking—that pregnancy somehow would not happen despite acknowledged exposure—suggests a disconnect between the actual risk of pregnancy incurred by an average couple who does not use contraceptives (85% risk of pregnancy over the course of a year) and a woman's efforts to protect herself from unintended pregnancy.
Equal proportions (one-third) of respondents thought they or their partners were sterile, said the possibility of pregnancy "never crossed my mind" and reported that (often incorrect) contraceptive use was the reason they thought they were at low risk. Perceptions of infertility were not based on medical advice, but rather on past experiences (e.g., the respondent had unprotected sex and didn't get pregnant) or family history. Among those who thought they were protected by their contraceptive method, most women reported inconsistent or incorrect method use. For example, one woman felt a few missed pills did not put her at risk: "I just thought…they were like magic. If I missed it one day, it wouldn't really matter."
Guttmacher Institute.

Rebecca Gomperts: Abortion pills safer than penicillin

The Dutch physician Rebecca Gomperts says abortion pills are safe and recognised by the World Health Organization as life-saving medicines.
Dr Gomperts is a women's rights activist from the Netherlands. In 1999 she founded Women on Waves, allowing women living in countries with strict abortion laws to have a termination by boarding a clinic ship which would sail into neutral waters where Dutch laws would apply.
But she has encountered strong opposition from pro-life groups and governments - including facing down warships when her yacht approached Portugal.
More recently her organisation has been sending abortion pills directly to women wishing to terminate a pregnancy.
BBCNews.

giovedì 17 ottobre 2013

Legge contro l’omofobia: una galleria degli orrori /4

Basta la parola
Dopo aver esaminato nella prima parte di questa serie il modo in cui la lettera della proposta di legge contro l’omofobia è stata in qualche caso alterata, e nella seconda e terza alcune delle interpretazioni aberranti che ne sono state date, è tempo di passare agli errori più generali che sono alla base della violenta reazione integralista alla proposta di legge Scalfarotto.
Iniziamo dal blog Orarel, in cui poche settimane fa Massimo Zambelli così commentava, in occasione delle note dichiarazioni di Guido Barilla («Omofobia», 27 settembre 2013):

Omo-fobia. Stanno facendo una legge basata su un errore linguistico e concettuale, tipico di chi confonde la realtà delle cose inventandosi il terzo sesso, o eliminando padre e madre, o imponendo uguaglianze nel matrimonio (da “mater”) che non esistono... Omofobia non vuol dire “odio per l’omosessuale” ma semmai “paura dell’omosessualità”. E da quando in qua una paura diventa reato? Stanno imponendo un regime liberticida e questo episodio di Barilla ne è l’ennesimo antipasto.
Si tratta, come si vede, dell’ennesima riproposizione della fallacia etimologica, cioè dell’argomento erroneo secondo cui il «vero» significato di una parola, quello in cui dovrebbe essere sempre usata, coinciderebbe con il suo significato «originale» o con il significato «originale» delle parole che la compongono. Così, la parola matrimonio si deve usare solo se a sposarsi c’è una mater, cioè una donna; il termine laico deve indicare solo una persona battezzata che non appartiene alla gerarchia ecclesiastica; etc. Spesso – come in questo caso – la fallacia si spinge addirittura oltre: non solo si afferma che le parole devono essere usate secondo il loro significato originario, ma anche che gli oggetti che esse designano possiedono in realtà tutte e sole le caratteristiche indicate dall’etimologia. Per esempio, sembra dire Zambelli, gli omofobi non odiano gli omosessuali, ma ne hanno soltanto timore; ed è rimasto celebre il caso del tizio che voleva dimostrare che la logica non è altro che un gioco di parole, perché la parola logica viene dal greco logos, che significa appunto (tra le altre cose) «parola».
Tutto ciò è naturalmente in contrasto assoluto con quello che la più banale ragionevolezza prescrive: non confondere le cose con le parole che le designano, e usare il linguaggio in accordo con le finalità che ci poniamo. Così, se ci vogliamo far capire dal prossimo – la funzione di gran lunga più comune della lingua – dovremo usare le parole nel loro significato corrente; se teniamo alle forme tenderemo a privilegiare un uso più puristico (e quindi finché sarà possibile, per esempio, non impiegheremo «piuttosto che» come congiunzione, anche contro l’uso sempre più diffuso che se ne fa); se abbiamo una finalità estetica scriveremo poesie in cui le parole sono usate magari più per il loro suono che per il loro significato corrente; se vogliamo farci capire solo da qualcuno e non da altri useremo un codice in cui le parole hanno un significato segreto che non coincide con quello solito; infine, se vogliamo indagare le origini delle parole, ne studieremo l’etimologia. Come si vede, non si nega né si «confonde» in questo modo nessuna realtà; semplicemente, invece di farci dettare del tutto arbitrariamente da un aspetto particolare (o anche generale) della realtà un fine contrario ai nostri bisogni, traiamo da essa i mezzi per soddisfare dei fini che rimangono però umani ed autonomi. Che è poi quello che fanno anche coloro che ricorrono alla fallacia etimologica: non li vedrete mai parlare usando esclusivamente i significati originali delle parole (finirebbero diritti in un reparto psichiatrico); questa gente usa l’etimologia solo quando conferma le sue ideologie preferite. Non si sente nessuno, tranne forse qualche misogino estremo, dire che il patrimonio (da pater) deve essere esclusivo appannaggio dei maschi, o che laico è chi appartiene al popolo (secondo l’etimologia greca, che precede quella latina; e chissà cosa significava la relativa radice nel proto-indoeuropeo).

Tutto ciò è in fondo abbastanza scontato, e non valeva forse la pena di scriverci sopra un post, se non fosse per il fatto che troviamo qui esemplificato un passaggio estremamente diffuso nel pensiero cattolico: quello che va da una natura delle cose ritenuta per vari motivi più «profonda» ed «essenziale» (come l’etimologia, o la finalità procreativa degli atti sessuali) a una prescrizione immotivata e assurda («si devono usare le parole nel significato originale!»; «non si devono compiere atti sessuali tra persone dello stesso sesso!»), che tuttavia l’integralista spesso difende accusando bizzarramente chi non la pensa allo stesso modo di «negare» o «confondere» la realtà delle cose («avete commesso un errore linguistico»; «volete negare che i bambini nascano da un uomo e da una donna»). I difensori della cosiddetta «legge naturale» usano questa logica pervertita – anche se in genere non sono tanto ingenui da farsi cogliere a usare fallacie troppo evidenti, come quella di cui abbiamo parlato qui: la fallacia naturalistica imperversa, quella etimologica è riservata a chi è di bocca particolarmente buona.

(4 - continua)

martedì 8 ottobre 2013

Nobel


Non riuscirò mai a capire l’importanza spropositata che si concede alle preferenze di un pugno di distinti ma semi-sconosciuti e con ogni probabilità non tutti supremamente brillanti soci di accademie scandinave, che una volta all’anno sembrano quasi diventare nell’opinione generale il canale attraverso cui passa un giudizio divino. Anche quando li si rimprovera di aver sbagliato (e succede spesso), è come se si separasse l’importanza del premio dalle persone di coloro che lo assegnano: che errore, si lamentano i critici, aver dato un premio tanto importante a Tizio, che non lo meritava! Ma come fa un premio a essere più importante della sua giuria? Cosa può mai rappresentare questo premio, al di là dell’approvazione solennemente certificata dell’esimio Professor Sven Svensson e colleghi? In ballo ci sono anche un bel po’ di soldi, d’accordo, ma non credo che la spiegazione sia così cinica. Non riesco proprio a capire.

lunedì 7 ottobre 2013

Legge contro l’omofobia: una galleria degli orrori /3

Pietra batte Carta
Proseguendo, dopo la seconda parte, nell’esame delle interpretazioni errate della proposta di legge contro l’omofobia, ci imbattiamo in quello che rappresenta il cuore delle obiezioni integraliste alla futura norma: il timore che, una volta approvata la legge, possa divenire un reato anche il semplice obiettare al matrimonio tra omosessuali; l’estensione della legge Mancino sarebbe insomma maliziosamente propedeutica – una volta imbavagliata l’opposizione – a una futura legge sulle nozze gay.
C’è anche chi si spinge più in là, come Paola Binetti, che sulla Nuova Bussola QuotidianaSi rischia di creare un reato di opinione», 18 luglio 2013) così argomenta:

Potrebbe ad esempio apparire come reato, in quanto giudicato segno e sintomo di omofobia, l’opporsi al matrimonio gay o alla adozione da parte delle coppie gay, cosa particolarmente rilevante se si tiene conto che proprio in questo momento al Senato si stanno discutendo questi disegni di legge. L’approvazione della legge in materia di “Discriminazioni motivate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere” limiterebbe la possibilità di discussione, perché il rischio di una potenziale incriminazione potrebbe essere tutt’altro che remoto, in potenziale contraddizione con l’art. 68 della stessa Costituzione, che afferma: “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”.
La citazione dell’articolo 68 non lascia adito a dubbi: per la Binetti, a essere intimiditi sarebbero potenzialmente i membri stessi delle Camere; basterebbero un’opinione espressa durante i lavori parlamentari o un voto palese contro il matrimonio gay per ritrovarsi con il collo esposto alla mannaia della neomodificata Legge Mancino.
C’è però un piccolo problema: come osserva la stessa Binetti, un’interpretazione siffatta delle disposizioni di legge sarebbe incostituzionale. L’art. 68 della Costituzione può avere qualche punto dibattuto (lo vedremo tra poco), ma su una cosa è chiarissimo: opinioni e voti espresse e dati dai membri delle Camere nelle aule parlamentari sono insindacabili, come lo è ogni altra attività «di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento» (legge 20 giugno 2003, n. 140, art. 3 c. 1), e in ogni caso l’azione dei magistrati è limitata da precise salvaguardie per il parlamentare. Per quanto creative possano essere le interpretazioni della legge date dal perfido magistrato laicista-massone-comunista di turno, ben difficilmente questi potrà avere l’improntitudine di leggere «nero» là dove c’è scritto «bianco»; e se per assurdo l’avesse, non avrebbe comunque bisogno della giustificazione di una semplice legge ordinaria. Si può poi facilmente immaginare l’esito di una simile iniziativa, e forse anche il destino personale di chi la prendesse.
Sembra quasi che per la Binetti la proposta di legge sull’omofobia possa divenire, una volta approvata, misteriosamente superiore alla Costituzione, che rimarrebbe per qualche motivo sospesa e priva di efficacia. Credo proprio che questo sia concedere un po’ troppo alle capacità di legislatore dell’onorevole Scalfarotto...

Di queste considerazioni di diritto spicciolo sembra consapevole un altro critico della proposta di legge, Mauro Ronco – il che non sorprende, visto che è professore ordinario di Diritto Penale all’Università di Padova. Scrive infatti Ronco, sempre sulla Nuova Bussola QuotidianaLegge contro l’omofobia è una violazione della libertà», 9 luglio):
La portata della norma è difficilmente percepibile da chi non sia esperto di cose giuridiche. Per esemplificarne il senso va detto che, alla stregua di tale proposta, potrebbero essere sottoposti a processo, in quanto incitanti a commettere atti di discriminazione per motivi di identità sessuale, tutti coloro che sollecitassero i parlamentari della Repubblica a non introdurre nella legislazione il “matrimonio” gay e, ancor più, tutti coloro che proponessero di escludere la facoltà di adottare un bambino a coppie omosessuali. […] Una campagna di opinione organizzata affinché i parlamentari si opponessero al “matrimonio” gay, costituirebbe, pertanto, incitamento a commettere atti di discriminazione penalmente punibili.
Come si vede, a differenza della Binetti, per Ronco a essere in pericolo non sarebbero i parlamentari (coperti dall’art. 68), ma chiunque li «incitasse» a non approvare il matrimonio tra omosessuali. A prima vista questo sembrerebbe un po’ paradossale: se il voto di un parlamentare non costituisce mai reato, come è possibile incriminare qualcuno per avere incitato lo stesso parlamentare a votare in un certo modo? In realtà il paradosso potrebbe essere solo apparente: nella giurisprudenza recente c’è una chiara tendenza a interpretare l’art. 68 come una causa di esclusione della punibilità del parlamentare, e non come una qualificazione di liceità del fatto; quest’ultimo rimane un reato, e anche se il membro del Parlamento non può essere punito per averlo commesso, chiunque altro vi concorra può subirne le conseguenze in sede penale o civile (cfr. Ugo Adamo, «La prerogativa dell’insindacabilità parlamentare ex art. 68 Cost. come causa soggettiva di esclusione della punibilità», Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2 luglio 2010).
Proseguendo, è importante capire cosa Mauro Ronco non sta dicendo. Anche se la proposta di legge sull’omofobia venisse approvata, non per questo diverrebbe un reato negare il matrimonio a una coppia di omosessuali. Gli articoli del Codice Civile che specificano che il matrimonio può avvenire solo tra un uomo e una donna non verrebbero abrogati dalla nuova versione della Legge Mancino: questa non parla per nulla di nozze, e l’idea che possa incidere sul Codice Civile è chiaramente estranea all’intenzione del legislatore. Se capisco bene, ciò che Ronco teme piuttosto è che qualcuno possa interpretare le nuove disposizioni di legge come se costituissero una metanorma, una norma cioè che disciplina altre norme. Più in particolare, in base alla nuova legge gli articoli in questione del Codice Civile potrebbero essere considerati come una norma discriminatrice, che sarebbe dovere del legislatore eliminare; venire meno a questo supposto obbligo di fare – sempre se capisco bene – potrebbe configurare insomma per qualche magistrato un reato omissivo.
Ci sono qui alcuni punti che mi lasciano perplesso; ma io sono un giurista della domenica, mentre Ronco insegna Diritto Penale all’università. Non mi avventurerò dunque in tentativi di confutazione, che lascio semmai ai più esperti di me. Non posso fare a meno di notare, tuttavia, che la futura legge sull’omofobia, se verrà approvata, sarà come tutte le leggi modificabile o abrogabile da una norma di pari grado (è vero che la Legge Mancino – o meglio la legge 13 ottobre 1975, n. 654, che la Mancino ha modificato e integrato – attua un trattato internazionale, ma solo per le parti riguardanti la discriminazione razziale ed etnica). Dato e non concesso che sollecitare «i parlamentari della Repubblica a non introdurre nella legislazione il “matrimonio” gay» possa essere considerato da qualcuno un reato, sarebbe per contro impossibile incriminare i fautori di una campagna di opinione che sollecitasse le Camere ad escludere per esempio l’applicabilità delle norme contro l’omofobia a questioni matrimoniali tramite una apposita legge di interpretazione autentica, come condizione dichiarata per non essere «costrette» a introdurre il matrimonio gay. La distinzione può apparire pedantesca, ma è la stessa distinzione che passa fra l’incitare il Parlamento ad approvare una legge incostituzionale (anche se questo – significativamente – non mi pare che costituisca un reato) e l’incitarlo a modificare la Costituzione allo scopo di approvare poi quella stessa identica legge. Per ripetere una massima lapidaria di Gustavo Zagrebelsky (Il sistema delle fonti del diritto, Torino 1991, p. 40), «la legge anteriore non può sottrarsi alla forza abrogativa delle leggi successive»; opporsi alle nozze gay non sarà mai illegale, ma solo sempre incivile.
È vero che qualche tempo fa qualcuno ha preteso che si perseguisse penalmente chi chiedeva solo di modificare una certa legge; ma la minaccia è stata accolta con indifferenza o, al massimo, un po’ di scherno. No, non si trattava di laicisti desiderosi di imbavagliare i poveri cattolici, ma di qualche integralista e clericale che aveva tentato di intimidire gli animatori di una campagna a favore dell’eutanasia (cfr. il mio «Se parlare di eutanasia è reato», Bioetica, 11 novembre 2010, e il post pressoché contemporaneo di Alessandro Gilioli, «Semplicemente fascisti», Piovono rane, 11 novembre 2010). Scommetto che adesso sono lì a torcersi le mani per la «gravissima minaccia» alla loro libertà di parola...

(3 - continua)

mercoledì 2 ottobre 2013

Assalto al Mulino Bianco


“Sacrale”, “tradizionale”, “classica”: sono questi i tre aggettivi usati da Guido Barilla per descrivere la sua famiglia ideale, ovvero una famiglia vuota di contenuti.
Quei tre aggettivi, infatti, non hanno alcun significato se non in un contesto temporale e storico e, in virtù della loro dipendenza, non sono intrinsecamente né buoni né cattivi.
La tradizione è un’abitudine che nel tempo è durata, è stata tramandata, ma non è detto che sia qualcosa da rivendicare e di cui andare fieri. Il tempo di per sé non è garanzia di nulla. Ci sono molti esempi di tradizioni odiose e moralmente ripugnanti: la schiavitù, il razzismo, l’esposizione del lenzuolo dopo la prima notte di nozze a testimonianza dell’illibatezza della sposa, la castità come condizione necessaria di un quanto mai vago “rispetto”. Se vogliamo rimanere nel dominio della famiglia non bisogna nemmeno andare molto indietro nel tempo per trovare tradizioni disgustose: il matrimonio riparatore, cioè la possibilità di estinguere l’abuso sessuale con le nozze, la dote, il reato di adulterio per la moglie e di abbandono del tetto coniugale, l’attenuante dell’onore nei delitti cosiddetti passionali.
Tradizioni tutte indigene, incardinate in un codice penale aggrappato a una società fortemente ingiusta e patriarcale, con la benedizione del fascismo e della sua idea di nucleo familiare e sacralità dei doveri domestici, i cui principi andati sono ancora oggetto di rimpianto per qualcuno.
Considerazioni simili si potrebbero fare per “sacrale” e “classica”.
Ma il più bello deve ancora arrivare. Barilla infatti, incalzato dai conduttori de La Zanzara, dice massì facessero quello che vogliono [gli omosessuali], però «senza disturbare gli altri». Che è un concetto o superfluo o bizzarro. Buttato lì somiglia terribilmente a quei discorsi delle zie beghine rivolti a qualsiasi gruppo “estraneo” al proprio angusto panorama (per etnia, nascita, o per appartenenza a una città diversa da quella del proprio nipote che è tanto un caro ragazzo): «Che vengano pure in casa mia, basta che si lavino».
Mi viene in mente un giudice di pace statunitense che, rifiutandosi di celebrare un matrimonio tra una donna e un uomo di etnie diverse, si giustificò scivolando ancora più in basso: «Mica sono razzista io, ho tanti amici [ricorda qualcosa?] neri e vengono a casa mia e usano il mio bagno». Il tipo si chiamava Keith Bardwell. Era il 2009, mica il 1950. Ma il matrimonio no, fossi matto, chissà poi cosa succede ai bambini – stesso “argomento” di Barilla e di molti contro le adozioni gay e la genitorialità senza discriminazione.
Che Barilla pensi quello che vuole – ovviamente – ma ciò che è sorprendente è l’aver candidamente elencato abbastanza aggettivi da far innervosire moltissime persone. E far innervosire moltissime persone non è una geniale scelta di marketing. Nel giro di poche ore si sono moltiplicate le iniziative di boicottaggio, il cui effetto è per ora difficile da valutare anche se è verosimile pensare che nessun presidente aziendale consiglierebbe una strada del genere. Ingenuità? Un calcolo sbagliato? Ci vorrebbe un mago per capirlo, così come ci vorrebbe un allenato interprete di auspici per capire perché ha accettato di essere intervistato in quel contesto in cui – ormai lo sanno tutti – il minimo che può capitarti è di dire idiozie. Se non sei abbastanza sfortunato o di malumore per avere voglia di spaccare una sedia in testa al tuo interlocutore.
Soprattutto in un momento come questo, in cui ancora non si è sopito il clamore sollevato dalla discussione sulla legge sull’omofobia, sull’emendamento e sul subemendamento. Quel clamore in cui tutti hanno sentito l’urgenza improrogabile di intervenire, anche prima di leggere il testo, anche prima di capire, anche senza avere intrinsecamente la capacità di capire.
La parola d’ordine è: riempire un silenzio necessario. E allora, forse, anche Barilla è caduto in questa trappola – da lui stesso costruita eh, mica è una povera vittima di un complotto ordito alle sue spalle. Comunque Barilla è a favore del matrimonio, magari non entusiasta («facessero quello che vogliono»), tuttavia più avanzato di tanti altri. L’adozione no, non esageriamo, che poi lui è padre e conosce le complessità già da padre etero. Non aggiungiamo ulteriori complicazioni. Quali sarebbero le complessità da padre non etero rimane un mistero.
Peggio degli insensati aggettivi di Guido Barilla? Le sue scuse tardive – «sono stato malinteso», «volevo semplicemente sottolineare la centralità del ruolo della donna all’interno della famiglia» (come?!) – e chi lo difende, come il Moige – che è a favore della famiglia “naturale”, altro nonsense galattico – e Eugenia Roccella, secondo la quale Barilla è addirittura coraggioso nel difendere la famiglia “formata da un uomo e una donna”, come se qualcuno la stia minacciando. Come se l’uguaglianza fosse rischiosa. Il punto dolente, infatti, non è avere «un’idea del matrimonio diversa da quella dei militanti gay» ma ricordarsi che il matrimonio in Italia è discriminatorio. Se tutti potessero sposarsi, sarebbe quasi divertente ascoltare queste farneticazioni da finti tonti. Circondati come siamo da disparità e ingiustizia, è un po’ più facile prenderli sul serio. Ma è comunque un errore gravissimo, come quando rispondiamo a uno che parla nel sonno.

Il Secolo XIX, 27 settembre 2013.

venerdì 27 settembre 2013

Legge contro l’omofobia: una galleria degli orrori /2

Quei privilegiati dei perseguitati
Abbiamo visto nella prima parte un esempio di come la lettera stessa della proposta di legge contro l’omofobia possa venire stravolta. Ma naturalmente sono gli errori di interpretazione delle disposizioni della legge a essere più frequenti. Uno in particolare sembra estremamente frequente, anche se è difficile capire come una incomprensione così grossolana abbia potuto diffondersi in questo modo. Ne troviamo un primo esempio nel blog di Assuntina Morresi («Papa Francesco, legge omofobia», Stranocristiano, 20 settembre 2013):

L’aggravante accettata [dai deputati], all’interno della legge Mancino, […] è un’aggravante legata a qualsiasi reato penale contro un omosessuale, non solo quelli di violenza (il pugno o l’insulto). Per esempio: io truffo un omosessuale? Si applica un’aggravante. Io scippo un omosessuale? Si applica un’aggravante. E così via.
L’aggravante di cui si parla è quella in forza della quale – se fosse approvata la proposta di legge di cui ci stiamo occupando – verrebbe aumentata fino alla metà la pena per i reati «fondati sull’omofobia o transfobia». Pare di capire che per la Morresi l’aggravante scatterebbe ogni qual volta la vittima è un omosessuale («qualsiasi reato penale contro un omosessuale»). Un’interpretazione identica a questa sembra anche quella espressa da Piero Ostellino («Gli errori della legge anti omofobia», Corriere della Sera, 3 agosto, p. 49):
non riesco a capire perché picchiare un omosessuale sarebbe un’aggravante, mentre picchiare me – che sono «solo» un essere umano senza particolari, selettive e distintive, qualificazioni sessuali – sarebbe meno grave.
Ancora, questo sembra essere il pensiero di una vecchia conoscenza dei lettori di Bioetica (Berlicche, commento a id., «Facciamolo!», Berlicche, 20 settembre, 10:19):
l’aggravante che la sinistra ha introdotto […] vuol dire che i giudici potranno perseguire autonomamente, senza denuncia, qualsiasi comportamento ritenuto omofobo, cosa di cui manca perlatro la definizione. Inoltre vuol dire anche che l’omofobia è una aggravante generica che può essere usata su ogni reato. Rubi ad un omosessuale? Hai l’aggravante. Litighi con un omosessuale? Hai l’aggravante. Di fatto gli omosessuali diventano cittadini di serie A, gli altri di serie B.
(In questo caso l’interpretazione della legge è particolarmente farraginosa: l’aggravante non si applicherebbe affatto a «qualsiasi comportamento ritenuto omofobo» ma solo ai reati già oggi previsti dal codice.)
Infine, già in passato, durante la scorsa legislatura, in occasione della discussione di una proposta di legge simile a quella odierna, avevano dato questa interpretazione dell’aggravante sia Carlo Lottieri sia Marcello Veneziani (cfr. su questo blog il mio «Carlo Lottieri e l’omofobia», 21 maggio 2011).

Inutile dire che la legge in discussione propone tutt’altro: a ricevere una pena aumentata non sarebbero affatto tutti i reati commessi a danno di omosessuali e transessuali, ma solo quelli motivati dall’odio contro gli omosessuali e i transessuali (per cui l’aggravante potrebbe benissimo venire inflitta a un omofobo che avesse commesso un reato contro un eterosessuale in quanto lo riteneva erroneamente omosessuale). È assolutamente ovvio che non c’è dunque nessun «privilegio» a favore degli omosessuali: chi truffa un omosessuale o lo scippa solo per ottenerne un illecito guadagno, chi lo picchia per una questione di precedenza stradale è trattato allo stesso modo di chi commette gli identici crimini contro un eterosessuale. E va notato che gli omosessuali, in media, sono vittime di reati non motivati dall’odio omofobico nella stessa misura degli eterosessuali; i reati omofobici si aggiungono a questi. Altro che «cittadini di serie A»!

Per concludere, è bene chiarire – anche se non ce ne dovrebbe essere bisogno – che i motivi di chi commette un reato hanno rilevanza penale solo in quanto e nella misura in cui si traducono in comportamenti osservabili e in seguito dimostrabili in base a concreti elementi di prova di fronte a un giudice. Non c’è dunque nessuno spazio per l’obiezione contenuta in un «manifesto» di Alleanza Cattolica («Unioni di fatto e omofobia: cinque punti fermi», Roma, 17 giugno 2013):
La previsione di nuovi reati o aggravanti di questo tipo è rischiosa per la libertà dei cittadini, poiché impone uno scandaglio dei moventi intimi, talora inconsci, che stanno alla base delle azioni umane.
Ben difficilmente si potrebbe parlare di «moventi intimi» o «inconsci» per chi, ad esempio, prendesse a sprangate una coppia di ragazze omosessuali gridando «Morte alle lesbiche!»; tali saranno i casi che cadranno nel raggio d’azione della legge, se sarà approvata. Ciò che risulta particolarmente incomprensibile è che poche righe più sopra, in questo pensoso manifesto, si sostenga che una legge è comunque inutile, dato che «il nostro ordinamento punisce già, senza distinzioni, ogni aggressione all’integrità della persona e alla sua sfera morale, e in più contiene le aggravanti dei “motivi abietti” e del profittare delle condizioni di debolezza della vittima». A quanto pare ai motivi abietti non si applica l’obiezione dell’intimità, a differenza dei motivi fondati sull’omofobia; viene quasi da chiedersi se è proprio vero che per gli estensori del manifesto i secondi siano interamente compresi nei primi, come proclamano. A volte i «motivi inconsci» fanno strani scherzi...

(2 - continua)

sabato 21 settembre 2013

Le leggi modificate dalla proposta di legge Scalfarotto

È forse utile riportare per esteso i testi delle leggi modificate dalla proposta di legge n. 245, così come apparirebbero se il Senato approvasse la norma senza ulteriori modifiche. (Il punto di partenza è il testo della proposta di legge uscito dalla Commissione, seguito dagli emendamenti approvati dall’Assemblea; il testo vigente delle leggi modificate si trova sul sito del Governo. In corsivo le parti aggiunte.)


Modifiche alla legge 13 ottobre 1975, n. 654, e successive modificazioni

Art. 3

1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell’attuazione della disposizione dell’articolo 4 della convenzione, è punito:
a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi o fondati sull’omofobia o transfobia;
b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi o fondati sull’omofobia o transfobia.

2. …

3. È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi o fondati sull’omofobia o transfobia. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni.

4. Ai sensi della presente legge, non costituiscono discriminazione, né istigazione alla discriminazione, la libera espressione e manifestazione di convincimenti od opinioni riconducibili al pluralismo delle idee, purché non istighino all’odio o alla violenza, né le condotte conformi al diritto vigente ovvero anche se assunte all’interno di organizzazioni che svolgono attività di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione ovvero di religione o di culto, relative all’attuazione dei principi e dei valori di rilevanza costituzionale che connotano tali organizzazioni.


Modifiche al decreto legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205 (cd. «Legge Mancino»), e successive modificazioni

Art. 3

1. Per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale, religioso o fondati sull’omofobia o transfobia, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità, la pena è aumentata fino alla metà.

venerdì 20 settembre 2013

Legge contro l’omofobia: una galleria degli orrori /1

Fin dal giorno in cui è stata presentata alla Camera, il 15 marzo 2013, la proposta di legge n. 245 di Scalfarotto ed altri sul «contrasto dell’omofobia e della transfobia» ha suscitato nel mondo integralista reazioni violentissime. Si è imputato alla futura norma di essere liberticida, in particolare perché – a detta dei critici – avrebbe trasformato in reato l’espressione dei tradizionali giudizi cattolici sull’innaturalità delle relazioni omosessuali e l’opposizione della Chiesa al matrimonio tra persone omosessuali. Si sono prospettate conseguenze apocalittiche; si sono promosse petizioni angosciate; si sono scritti articoli infuocati. Tanta virulenza non è nuova; ciò che in parte è nuovo è la sbalorditiva inconsistenza degli argomenti addotti a sostegno di accuse tanto spropositate – nelle rare occasioni in cui ci si preoccupati di addurre argomenti, e non di enunciare tesi apodittiche. Parzialmente inedita è stata anche l’intensità del sentimento vittimistico e della sindrome di accerchiamento che si sono percepiti in molti integralisti. Come definire questo atteggiamento? Isteria di massa? Paranoia religiosa? Moral panic? Complottismo? Quali sono le sue cause? Abbozzare ipotesi non è facile; per il momento, accontentiamoci di esaminare alcuni casi rappresentativi di questa peculiare reazione.

La norma che non c’è
L’autore del blog De libero arbitrio, Claudio LXXXI, ha dedicato tre degli ultimi otto post alle proposta di legge Scalfarotto («Parallele convergenti dentro una sfera troppo laica», 4 agosto; «Psicoreato», 16 agosto; «Omo-Matrix», 11 settembre); in coda a un altro post (che meriterebbe un commento a parte) c’è un ulteriore riferimento alla legge («Pari e dispari», 24 agosto). Un post su due, in media, dunque. Segno palese di un interesse profondo. Che implicherebbe una conoscenza adeguata del progetto di legge di cui si parla; tanto più che Claudio è – uso parole sue – un «giurist[a]», un «tecnic[o] della materia». Ecco però qual è per il blogger il testo della proposta di legge Scalfarotto («Omo-Matrix», cit.):

La proposta di legge cd. Scalfarotto-Leone intende inserire […] nell’art. 1 del decreto legge 26 aprile 1993, n. 122 la seguente norma:
«è punito con la reclusione sino a 3 anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sull’omofobia o transfobia».
Queste parole, a quanto sembra, non sono di Claudio, che le trae da un video di Youtube di autore ignoto; ma Claudio le fa palesemente sue, senza aggiungervi o correggervi nulla.

Peccato però che la proposta di legge Scafarotto non contenga affatto la norma citata. Nella forma in cui è approdata nell’aula della Camera (e che aveva nel momento in cui Claudio scriveva), propone tra le altre cose di modificare l’art. 3, comma 1, lettera a) della legge 13 ottobre 1975, n. 654 e successive modificazioni con il seguente testo:
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell’attuazione della disposizione dell’articolo 4 della convenzione, è punito con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi o fondati sull’omofobia o transfobia.
La proposta di legge originaria era in questo punto quasi identica:
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell’attuazione dell’articolo 4 della convenzione, è punito con la reclusione fino a un anno e sei mesi chiunque, in qualsiasi modo, diffonde idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi o motivati dall’identità sessuale della vittima.
La proposta di legge distingue quindi nettamente in questo comma due fattispecie di reato: la prima è la propaganda di idee, ma solo di quelle «fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico»; le idee fondate sulla superiorità (o persino sull’odio) nazionale o religiosa o sull’omofobia o la transfobia non costituiscono reato (almeno, non per la Legge Mancino). I motivi nazionali o religiosi o fondati sull’omofobia o la transfobia entrano in gioco solo nella seconda fattispecie, cioè l’istigazione a commettere o la commissione di atti di discriminazione. In pratica: se Giovanni va in giro a propagandare (non semplicemente a esprimere!) l’idea che i bianchi sono superiori per intelligenza ai neri, o che agli Ebrei sono da addebitare tutti i mali del mondo, commette un reato; ma se diffonde alacremente scritti in cui argomenta la superiorità della nazione italica su tutte le altre, o in cui ripete il tradizionale insegnamento cattolico extra ecclesiam nulla salus, o in cui sostiene che le famiglie eterosessuali sono incomparabilmente più felici di quelle omosessuali, nessun reato gli potrà essere imputato in base alla Legge Mancino, neppure se sarà approvata la proposta di legge Scalfarotto. Sarà invece punibile se, per esempio, rifiuta di servire un cliente del suo bar solo perché non è italiano o perché è protestante o perché omosessuale, o se istiga qualcun altro a commettere analoghi atti di discriminazione, o peggio (lettera successiva dello stesso comma) atti di violenza. È importante notare come si possa benissimo essere convinti della superiorità della propria nazione, fede od orientamento sessuale senza che questo spinga necessariamente a commettere atti discriminatori nei confronti degli altri.

Come si vede, la norma protegge con estrema chiarezza la mera espressione di idee, in accordo con l’esplicita intenzione del legislatore; uno dei relatori, Antonio Leone, infatti così argomentava nel suo intervento durante la seduta in Assemblea del 5 agosto:
Volutamente non si è voluto toccare la fattispecie alla propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico. Si è ritenuto che incidere anche su questa fattispecie avrebbe potuto comportare il rischio di formulare un reato di opinione.
Di tutto ciò Claudio sembra essere rimasto all’oscuro, o – interpretazione più benevola – sembra essersi presto dimenticato; il che è un po’ strano: da uno che considera una norma come un «pretesto per introdurre lo psicoreato» ci si aspetterebbe un’attenzione leggermente meno erratica. La cosa divertente è che nel corso della discussione seguita all’ultimo post il nostro blogger argomenta così:
È lecito esprimere qualunque opinione sul colore della pelle? Finché rimane un’opinione (cioè finché non è propedeutica ad atti concreti di discriminazione razziale), dovrebbe esserlo.
Ora, se sostituiamo opportunamente alcuni termini con altri, otteniamo la seguente riflessione:
È lecito esprimere qualunque opinione sull’orientamento sessuale? Finché rimane un’opinione (cioè finché non è propedeutica ad atti concreti di discriminazione fondata sull’omofobia), dovrebbe esserlo.
Il che è esattamente quello che implica la proposta di legge Scalfarotto.

Non dubito che Claudio saprà trovare altri motivi di critica alla proposta di legge contro l’omofobia (che è lungi dall’essere soddisfacente anche per molti che la pensano in modo opposto al suo); ma si spera che siano fondati, la prossima volta, su una conoscenza meno affrettata della legge e delle sue implicazioni.

(1 - continua)

domenica 15 settembre 2013

Legge 194: gli aborti diminuiscono mentre gli obiettori aumentano


Il 13 settembre 2013 il Ministero della Salute ha trasmesso al Parlamento la Relazione annuale sull’applicazione della Legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. I dati preliminari riguardano il 2012, quelli definitivi il 2011. Dalla Relazione emerge una fotografia che è ormai familiare: da un lato diminuiscono le interruzioni di gravidanza, dall’altro aumentano gli operatori sanitari obiettori di coscienza.

La diminuzione appare più netta se il termine di paragone è il 1982, anno in cui è stato registrato il numero più alto di IVG: 234.801, con un decremento del 54,9%. Il tasso di abortività, cioè il numero di IVG per 1.000 donne tra i 15 e i 49 anni, nel 2012 è di 7,8 per 1.000, un decremento dell’1,8% rispetto al 2011 e del 54,7% rispetto al 1982. È uno dei valori più bassi dei paesi industrializzati. Dal 1983 la diminuzione del ricorso alla IVG è stata continua e relativa a tutti i gruppi di età, minorenni comprese. Diminuiscono anche le interruzioni ripetute e quelle dopo i primi 90 giorni (quante donne vanno all’estero, soprattutto per gli aborti tardivi, e non compaiono in questi numeri?). Le donne straniere costituiscono un terzo delle IVG totali, ma la diminuzione si comincia a osservare anche in questo dominio. Volgendo l’attenzione all’obiezione di coscienza, regolata dall’articolo 9 della legge 194, si osserva, invece, il fenomeno opposto: i numeri aumentano.

La 27esima Ora, 15 settembre 2013.