giovedì 23 dicembre 2010

In guerra



Cominciamo dalla guerra in senso letterale: ti sei mai sentita invadente nell’infilarti nelle vite altrui e nel loro dolore?
Qualche volta sì, ma quello che ti trovi davanti - soprattutto nelle situazioni più violente - sono persone che hanno voglia di raccontare cosa è successo loro e come vivono. Anche le donne che hanno subito atroci violenze, come le afghane o le pakistane, mi hanno sempre detto “scrivi la nostra storia nella speranza che non accada ad altre”.
Ho sempre rispettato, ovviamente, chiunque non volesse raccontare, ma non mi è quasi mai accaduto. Hanno sempre voluto parlarmi: dalla prostituta alla ragazzina che si è finta uomo durante il regime talebano per mantenere la sua famiglia.
Sono andata nel centro antiviolenza di Peshawar per raccogliere 2 o 3 storie. Tutte le donne presenti mi hanno voluto raccontare. Il fatto che ci fosse qualcuno che le avrebbe ascoltate dava loro un po’ di conforto. Donne umiliate, picchiate, terrorizzate, sopraffatte dalla sofferenza. Le ho ascoltate fino a sera inoltrata. Io sono uscita devastata.

Su Il Mucchio Selvaggio di gennaio.

mercoledì 22 dicembre 2010

La Congregazione per la Dottrina della Fede ci mette una pezza

Abbiamo seguito alcune settimane fa, a partire da un’anticipazione del libro intervista Luce del mondo comparsa sull’Osservatore Romano, la vicenda dell’imprevista apertura papale nei confronti del preservativo. Non che Benedetto XVI abbia detto alcunché di clamoroso: non ha certo dato il via libera all’uso del condom fra coppie sposate. L’apertura è avvenuta per così dire lateralmente; assieme a qualche altro commentatore, ho cercato di mostrare come il papa (al netto di alcuni equivoci mediatici), indicando nell’uso del profilattico per contrastare la diffusione dell’Aids un «primo passo verso una moralizzazione», abbia aperto di fatto una breccia nella tradizionale opposizione cattolica alla dottrina del male minore. I cattolici sostengono infatti che ciò che è intrinsecamente male – come è, per loro, l’uso di un contraccettivo – non deve mai essere compiuto, nemmeno allo scopo di prevenire un male maggiore, come per esempio un contagio mortale.
Questa novità ha suscitato subito le perplessità di alcuni moralisti cattolici, e ha infine indotto ieri la Congregazione per la Dottrina della Fede (l’ex Sant’Uffizio) a pubblicare una nota «sulla banalizzazione della sessualità. A proposito di alcune letture di “Luce del mondo”», in cui si cerca di dimostrare che nulla è cambiato. In particolare, ecco quanto scrive riguardo al male minore:

Alcuni hanno interpretato le parole di Benedetto XVI ricorrendo alla teoria del cosiddetto “male minore”. Questa teoria, tuttavia, è suscettibile di interpretazioni fuorvianti di matrice proporzionalista (cfr. Giovanni Paolo II, enciclica Veritatis splendor, nn. 75-77). Un’azione che è un male per il suo oggetto, anche se un male minore, non può essere lecitamente voluta. Il Santo Padre non ha detto che la prostituzione col ricorso al profilattico possa essere lecitamente scelta come male minore, come qualcuno ha sostenuto. La Chiesa insegna che la prostituzione è immorale e deve essere combattuta. Se qualcuno, ciononostante, praticando la prostituzione e inoltre essendo infetto dall’Hiv, si adopera per diminuire il pericolo di contagio anche mediante il ricorso al profilattico, ciò può costituire un primo passo nel rispetto della vita degli altri, anche se la malizia della prostituzione rimane in tutta la sua gravità. Tali valutazioni sono in linea con quanto la tradizione teologico-morale della Chiesa ha sostenuto anche in passato.
È difficile capire in che consista la confutazione che la nota pretende di apportare. Sostenere che «il ricorso al profilattico … può costituire un primo passo nel rispetto della vita degli altri» implica infatti che l’uso del profilattico sia preferibile in quelle circostanze al non uso. Che per il papa la prostituzione rimanga «immorale» e debba «essere combattuta» è ovvio e irrilevante; come dice il nome stesso, quella che Joseph Ratzinger sembra aver abbracciato è la dottrina del male minore.

Una nota così palesemente inadeguata mostra meglio di mille discorsi che l’innovazione c’è stata, ed è stata profonda. Ma l’uscita della Congregazione per la Dottrina della Fede non può non essere stata concordata col papa, che si è dunque convinto – o è stato convinto – a tornare sui propri passi. Anche i generali in capo, a volte, possono essere costretti a rientrare nei ranghi.

giovedì 16 dicembre 2010

Epidurale por favor

Il blog lo abbiamo segnalato più volte. Paola Banovaz ha scritto un libro, Epidurale por favor.

L’84% delle strutture sanitarie pubbliche e convenzionate non garantisce un trattamento efficace e sicuro per lenire il dolore nel parto. L’epidurale diventa un pretesto per approfondire i miti, i tabù, i pregiudizi che ancora sopravvivono intorno a gravidanza, parto e maternità.

“La cosa che ancora oggi mi fa riflettere non è tanto la questione di riconoscere il diritto all’epidurale alle partorienti che la desiderano, che è addirittura tautologico, ma sono le giustificazioni balbuzienti di chi comunque si mette per traverso”.
Dalla prefazione di Ivan Cavicchi.

mercoledì 15 dicembre 2010

Strana idea di integrazione

Ovvero: il pallone è mio e le regole le faccio io. Ecco.

Aggiornamento al 16 dicembre.

lunedì 13 dicembre 2010

Hugef, Human Genetics Foundation

Domani a Torino si inaugura la nuova sede dello Hugef, Human Genetics Foundation. Il programma della giornata qui.

Incesto asimmetrico

Ci sono argomenti di cui è quasi impossibile discutere senza essere travolti dal peso emotivo: uno di questi è senza dubbio l’incesto.
Un caso recente ci offre la possibilità di fare qualche riflessione, soprattutto sulle ragioni e sulle modalità della condanna morale e legale.
Molto dipende anche dalla relazione in cui l’incesto avviene: tra genitore e figlio, tra fratelli o tra gradi di parentela più laschi.
Probabilmente il primo caso è quello più esplosivo.
Pochi giorni fa David Epstein, professore alla Columbia, è stato accusato di avere da tre anni una relazione consensuale con la figlia ventiquattrenne.
Alexa Tsoulis-Reay pone una domanda cruciale: Is Incest a Two-Way Street? David Epstein is charged with having sex with his adult daughter. Isn’t she guilty, too? (december 10, 2010, Slate).
Pur essendo consenziente e maggiorenne, la ragazza non è oggetto di indagine.
Perché?
Perché è considerata a priori e necessariamente come una vittima - in quanto figlia e in quanto più giovane del proprio carnefice. Ci convince questa visione? Quanto è verosimile sostenere che a 21 anni si sia tanto soggiogati da non poter scegliere liberamente? La domanda in generale ha senso? Non andrebbe accertato ogni caso specifico sul piano del condizionamento e del potere esercitato dal presunto carnefice? Cambieremmo idea nel caso in cui l’età del genitore - cioè il carnefice - sia così alta da far sospettare che la vittima sia proprio il genitore e non il figlio ormai adulto?

Se comunque in questo caso, e in casi analoghi, riusciamo a sospendere queste domande e a considerare la motivazione asimmetrica razionale e condivisibile, in altri l’asimmetria ci appare in tutta la sua contraddizione e pericolosità. Come nel caso, citato alla fine del pezzo, di due fratelli coetanei. Lui 16 anni, lei 15. Lui viene condannato, lei no.
Come racconta Tony Washington dopo 7 anni dall’accaduto (Unforgiven, august 31, 2010, ESPN).

“Incest,” he says, looking straight ahead.
He says he didn’t plan to do it. He was a teenager. Unstrung. Unsupervised. His world was at war. He was scared. Isolated. Except she was there, the two of them best friends, close as book pages. They loved each other, trusted each other. And one day that tipped into something more. Something neither one felt was wrong in the moment. “We were just sitting there, and it was like, ‘Do you want to?’” he says. There was no discussion. “We did it. And it was like, ‘OK, what’s next?’ We never talked about it after that.”
Doveroso leggere l’intera storia, le modalità e le conseguenze della condanna.
Non può non tornare alla mente il caso dei fratelli tedeschi.

venerdì 10 dicembre 2010

La decadenza della cultura cattolica

Stavo leggendo il libro di Roberto Reggi, I «fratelli» di Gesù (Bologna 2010), uscito presso un editore cattolico di un certo prestigio, le edizioni Dehoniane di Bologna, e in una collana – «Studi biblici» – che ha ospitato ancora di recente autori importanti (come per esempio Alexander Rofé, forse il più grande studioso contemporaneo della Bibbia ebraica), quando mi sono imbattuto in una nota (n. 12 p. 80), in cui l’autore traduce un passo della Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, integrandolo fra parentesi quadre con alcuni dati cronologici per renderlo più intelligibile al lettore non esperto:

Dopo il martirio di Giacomo [62] e la conquista di Gerusalemme avvenuta successivamente [Pompeo nel 63] …
Giacomo è il «fratello di Gesù», martirizzato nel 62 d.C.; ma la conquista di Gerusalemme avvenuta successivamente non può essere quella di Gneo Pompeo Magno: Pompeo entrò sì nella città nel 63, ma avanti Cristo, non dopo Cristo; Eusebio stava parlando ovviamente della conquista di Tito, avvenuta nel 70 d.C.
L’errore è talmente monumentale da non essere neppure concepibile in chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la storia della Palestina ai tempi del Nuovo Testamento; e l’attribuiremmo perciò volentieri a un momentaneo obnubilamento dell’autore – se non fosse che lo ritroviamo ripetuto pari pari più avanti (n. 36 p. 90). A questo punto si fa strada l’agghiacciante sospetto che il Reggi pensi veramente che Pompeo fosse ancora vivo nel 63 d.C.; lo scacciamo ancora una volta, seppur a fatica, e ci diciamo che in fin dei conti l’errore non riguarda la tesi del libro, che è poi quella tradizionale cattolica dei «fratelli» di Gesù che sarebbero stati invece suoi cugini. Ma ecco che ci imbattiamo subito (a p. 87) in un’interpretazione di un passo dello storico Egesippo, questo sì fondamentale per la questione, in cui Reggi imputa ai sostenitori della tesi contraria uno svarione grossolano nella sintassi greca; svarione che però non esiste, in quanto è il Reggi stesso ad aver preso un abbaglio (per quegli autori déuteron si riferisce al pronome hon, non a epískopos!)
Non mancano altri problemi: per esempio, a p. 27 l’autore sostiene che i «cugini» erano chiamati fratelli perché il termine greco anepsiós era raro nel lessico della traduzione greca dei Settanta, che gli autori del Nuovo Testamento avevano ben presente; questa però è una falsa dicotomia, perché, anche ammesso che le cose stessero così, gli autori avrebbero potuto benissimo ricorrere a una perifrasi del tipo «figli di X fratello di Giuseppe [o di Maria]», cosa che invece non fanno mai (nell’Antico Testamento, al contrario, ogni qual volta la parola ebraica ’ah viene usata per indicare qualcosa di diverso da «fratello», il testo stesso precisa subito prima o subito dopo il grado esatto di parentela). Questa e altre fallacie invalidano la tesi del libro: i «fratelli» di Gesù erano molto probabilmente davvero suoi fratelli, o al più fratellastri; ma qui siamo almeno nel campo degli errori accettabili, mentre invece topiche clamorose come il Pompeo redivivo gettano una seria ombra sulla reputazione della casa editrice (non è una giustificazione che oggi comunemente si risparmi sulla correzione delle bozze) e su quella della Pontificia Commissione Biblica, cui secondo la quarta di copertina sarebbe stata presentata la «presente ricerca … come lavoro per la licenza e l’autore è risultato “licentiatus magna cum laude”».

lunedì 6 dicembre 2010

Terza via per i pink boys

La lettera di una lettrice, Sarah Hoffman, ha spinto la bioeticista Alice Dreger, che insegna alla Feinberg School of Medicine della Northwestern University, a riconsiderare le alternative disponibili ai genitori dei pink boys, i bambini maschi che mostrano tratti di comportamento generalmente ritenuti propri dell’altro sesso («Pink Boys with Puppy Dog Tails», Bioethics Forum, 6 dicembre 2010). Una lettura altamente raccomandata per chiunque abbia un figlio con tracce del disturbo della identità di genere.

Sarah identifies herself as a mother of a “pink boy” – a boy whose manner of play and dress has often tended toward what’s common in girls. Sarah was writing to me specifically in response to a piece I’d written for the Hastings Center Report called “Gender Identity Disorder in Childhood: Inconclusive Advice to Parents.” There I had outlined the two basic clinical approaches taken to children labeled as having “gender identity disorder,” and had mentioned my sympathies for and reservations about each.
The approach I called “therapeutic” seeks to see a child’s gender dysphoria evaporate, if at all possible. This typically involves strictly limiting the child’s access to gender-atypical activities and trying to help the child adjust to fit a social environment that (supposedly) requires gender divisions. It also often involves family therapy.
Though it would seem to promise to make a child more comfortable with his body, there’s very little data that the therapeutic approach “works.” Moreover, the proponents of it have tended to be obsessed with measuring outcomes in terms of ultimate gender identity and sexual orientation rather than ultimate well-being, which surely is what should really matter.
By contrast, the approach I called “accommodating” seeks to prepare the gender dysphoric child for a transgendered life – a life that will ultimately involve hormonal and surgical sex change. Though it seems superficially more gender progressive, the problem I have with this approach is that it may end up sending more children down a high-medical-intervention path than is really necessary to maximize well-being in the population of children who go through gender dysphoria.
“You’ve done a good job of outlining the warring factions,” Sarah told me. But, she added, “I think that there is a third, quieter point of view – the perspective that, sure, transgender kids exist, but really, most of these gender-nonconforming kids are just kids who don't fall to the most-masculine or most-feminine ends of the spectrum, and that's okay. They don't need treatment, they don't need sexual reassignment, they just need a supportive home life, schools with anti-bullying protocols, and therapy for any harassment they face for being different.” […]
Sarah Hoffman ha un blog in cui parla delle proprie esperienze di madre di un pink boy.

martedì 30 novembre 2010

Il racconto laico non è «contro»

Sulle ragioni degli autori di Vieni via con me l’essenziale è stato già detto molte volte e chiaramente: da Malvino, da Luca Sofri, da Chiara Lalli su questo blog. Ma siccome repetita iuvant, ecco ancora una volta spiegato, dalla bocca di uno degli autori del programma, perché è stato giusto negare la replica ai cosiddetti movimenti «pro-vita» (Francesco Piccolo, «Ma il racconto laico non è “contro”», L’Unità, 29 novembre 2010, p. 3):

Tutti hanno detto agli autori di Vieni via con me (di cui faccio parte), con molta facilità: cosa vi costa dare voce a un punto di vista in più – esibendo con questa affermazione una presunta e più ampia laicità. La questione però è mal posta, ed è mal posta in modo tendenzioso. La questione non è quella di ospitare un punto di vista in più; ma che, facendolo, accetteremmo la tesi che abbiamo parlato contro qualcuno. La domanda quindi dovrebbe essere non: perché non date la parola a un punto di vista in più? Ma: avete parlato contro qualcuno?
Quello che i movimenti pro-vita, e molti cattolici poco generosi non capiscono, è che non abbiamo parlato contro nessuno per un motivo semplice: noi siamo totalmente d’accordo con le loro tesi. Abbiamo già accettato le loro ragioni, a priori.
Sono loro a non ammettere le ragioni degli altri. Un laico vero ritiene che bisogna accettare tutt’e due le possibilità di scelta davanti a una tragedia umana così incomprensibile per chi la vive, figuriamoci per chi non la vive. Un cattolico invece ritiene che ci sia solo una possibilità, e l’altra è sacrilega. In uno stato laico, però, dovrebbe prevalere il pensiero laico – che, ripeto, comprende quello cattolico. Se prevale il pensiero cattolico che non comprende quello laico – c’è qualcosa che non va. E questo va raccontato. E a questo racconto non si può affiancare un altro che si definisce opposto, perché nel racconto laico sono già compresi tutti e due i punti di vista; quindi un racconto opposto non c’è.

mercoledì 24 novembre 2010

«Il Papa ha torto»

Prime reazioni a quella che si è rivelata alla fine, dopo varie incertezze, una sorprendente – seppur parzialissima e non magisteriale, cioè non specialmente autorevole – apertura del papa sui preservativi; reazioni, in particolare, dei bioeticisti cattolici, per i quali le parole di Benedetto XVI vanno contro la tradizionale dottrina della Chiesa che ha fin qui dichiarato illecita la scelta del male minore. Le riporta il New York Times di ieri (Rachel Donadio e Laurie Goodstein, «After Condom Remarks, Vatican Confirms Shift», 23 novembre 2010):

“We’re in a new world,” said the Rev. Jon Fuller, a Jesuit priest and a physician at the Center for H.I.V./AIDS Care and Research at Boston Medical Center. The pope is “implicitly” saying, he said, “that you cannot anymore raise the objection that any use of the condom is an intrinsic evil.”
Catholic conservatives who believed Catholic teaching against contraception to be inviolable were reeling. “This is really shaking things up big time,” said Dr. John M. Haas, the president of the National Catholic Bioethics Center in Philadelphia, who serves on the governing council of the Vatican’s Pontifical Academy for Life.
Dr. Haas, a moral theologian, said he had seen an embargoed copy of a new book in which the pope conceded there might be extreme cases in which there were grounds for the use of condoms. “I told the publisher, ‘Don’t publish this; it’s going to create such a mess,’” he added. […]
Indeed, Dr. Haas, of the National Catholic Bioethics Center, could barely countenance Father Lombardi’s comments that broadened the debate to include women. “I don’t think it’s a clarification; it’s a muddying of the waters,” he said. “My opinion is that the pope purposely chose a male prostitute to avoid that particular debate.”
And if Benedict was in fact opening that debate? “I think the pope’s wrong,” Dr. Haas added.

martedì 23 novembre 2010

Contrordine, fratelli: le prostitute sono comprese

Una sorpresa dalle agenzie:

Città del Vaticano, 23 nov. (Apcom) – È indifferente parlare di “prostituta”, come indicato nel testo italiano, o di “prostituto”, al maschile, secondo la versione originale tedesca, in merito all’affermazione del Papa sull’uso del preservativo per persone infette da aids: lo dichiara il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, precisando di aver parlato della questione direttamente con Benedetto XVI dopo le discussioni suscitate dalla apertura al condom contenuta nel libro-intervista al Papa ‘Luce del mondo’.
“Ho chiesto al Papa se c’era problema serio di scelta nel maschile piuttosto che nel femminile”, ha spiegato Lombardi nella conferenza stampa di presentazione del volume. “Lui mi ha detto di no”.
“Il punto – e per questo non vi ho fatto alcun riferimento nella nota di domenica – è il primo passo di responsabilità nel tenere conto del rischio della vita dell’altro con cui io sono in rapporto. Se si tratta di un uomo o di una donna o di un transessuale è lo stesso”. Il Papa “non è ingenuo, sapeva cosa era successo dopo le sue frasi nel viaggio in Africa, sapeva che ci si sarebbe rimessi a parlare di questo tema, e lui lo ha fatto. Ha avuto il coraggio di rispondere. Perché ritiene che la questione è seria per il mondo di oggi e lui ha dato il suo contributo all’umanizzazione della società e alla responsabilità che interessa tutti in tutte le condizioni, specialmente quelle di povertà”.
In base a quanto scrivevo ieri, dunque, l’affermazione del papa riguardo l’uso del profilattico si prospetta ora davvero come clamorosa (benché comunque non rivoluzionaria): se anche una prostituta può chiedere ai propri clienti di usare il preservativo, in modo da proteggersi dall’infezione da Hiv a spese della «finalità intrinseca» procreativa dell’atto sessuale, la tradizionale ripulsa cattolica del principio del male minore vola via per la finestra. Le conseguenze, al di là del profilattico, potrebbero essere abbastanza profonde; cito di nuovo, e in maniera più completa, il passo di Elio Sgreccia che portavo ad esempio ieri:
Quando si tratta di due mali morali, l’obbligo è di rifiutarli entrambi, perché il male non può essere oggetto di scelta e ciò anche quando, rifiutando quello che si presenta come il male minore, si provocasse un male maggiore.
L’esempio più frequente è quello del medico che si trova di fronte al dilemma posto dalla paziente che richiede la prescrizione dei contraccettivi altrimenti prospettando l’idea dell’aborto (male maggiore rispetto alla contraccezione). L’eventualità dell’aborto non sarebbe imputabile al medico, specialmente quando questi avesse istruito la paziente che è male sia l’una che l’altra cosa e che esistono vie per evitare entrambe le situazioni.
È chiaro che se a una prostituta è permesso come male minore l’uso di quello che rimane in ogni caso un mezzo contraccettivo per proteggere la propria vita, a maggior ragione lo stesso dovrebbe essere concesso a una coppia decisa a ricorrere all’aborto in caso di gravidanza (per esempio perché portatrice di gravi malattie genetiche trasmissibili al feto), e non disposta a seguire i cosiddetti metodi naturali o a ridursi all’astinenza: c’è anche qui in gioco – per la Chiesa – una vita umana.

Difficile capire come una novità del genere potrà essere digerita dalle gerarchie ecclesiastiche: il tentativo di evidenziare come il papa non parlasse ex cathedra (e quindi in modo infallibile), già compiuto dallo stesso Padre Lombardi in una precedente nota stampa, alla lunga sarebbe insostenibile, evidenziando solo l’imbarazzante situazione di un papa che dice nei suoi discorsi informali cose diverse dal magistero su una materia tanto centrale per la Chiesa come la morale sessuale. A questo punto non si può allora escludere un intervento magisteriale di Benedetto XVI, forse adombrato dalle oscure frasi sulla Humanae vitae che riportavo sempre ieri. Ci attendono tempi interessanti?

(Rimane irrisolto un dettaglio minore ma misterioso: perché mai il papa è andato a fare l’esempio peregrino di un prostituto maschio, se ciò che diceva si applicava a uomini e donne ugualmente?)

Aggiornamento 24/11: le prime reazioni alla nota di padre Lombardi del popolo tradizionalista, che aveva riposto più di qualche speranza in Benedetto XVI, si possono cogliere nei commenti a questo post del blog Messa in latino. In buona parte sono assai poco tenere nei confronti del papa.

lunedì 22 novembre 2010

Socci e Saviano

Antonio Socci scrive a Roberto Saviano una lettera aperta. Non intendo commentare la lettera per intero, ma soltanto un passaggio che rappresenta un errore comune, non so quanto intenzionale (sospetto abbastanza). Un errore che porta a vedere chi è a favore della scelta come qualcuno che impone un punto di vista: della morte contro la vita. Ebbene, chi è a favore della scelta non è precisamente a favore di un punto di vista, ma è a favore di tutti i punti di vista. O a favore di quel meta punto di vista che vuole lasciare ai singoli la scelta tra i punti di vista a disposizione. L’alternativa a questo meta punto di vista è, sì, l’imposizione di un punto di vista, è la coercizione, è la dissoluzione di qualsiasi spessore morale. Perché l’obbligo dissolve la scelta e insieme la morale del nostro agire.
Nella questione specifica, che riguarda il fine vita, ci si trova in una grottesca scenetta in cui chi è a favore della scelta viene dipinto come il cavaliere della morte, indifferente alle scelte altrui diverse e insensibile al dolore.
Essere a favore della libera scelta significa ben altro: significa che tu puoi scegliere cosa preferisci fare e io pure. I nostri atti non danneggiano terzi. Se io scelgo di morire non danneggio nessun altro e non impongo a nessuno di scegliere come me, esercito cioè soltanto la mia libertà. Però questo è illegale. Quindi dovrei usare i condizionali. Ecco perché si parla della possibilità (morale e poi legale) della eutanasia, e non si parla del diritto a vivere. Perché il diritto a vivere è dato giustamente per scontato. Se io voglio smettere di vivere in condizioni per me non accettabili non impongo a te - in condizioni simili o difformi - di fare lo stesso. Io muoio, tu vivi.
Non è complicato capirlo, eppure è un ritornello ossessivo: non avete fatto parlare gli altri! Siete per la morte! Diritto di replica!, e così via. O, nelle parole di Socci:

Magari potrai vedere addirittura la felicità dentro le lacrime e forse eviterai di straparlare sull’eutanasia, sulla malattia o sul fine vita (come hai fatto lunedì scorso) imponendo il tuo pensiero unico, perché i malati, i disabili che implorano di essere aiutati e sostenuti, nel salotto radical-chic tuo e di Michele Serra, non hanno avuto diritto di parola.

Il papa, il preservativo e il male minore

Vorrei tornare con più calma – anche per rispondere a qualche garbata critica – su un aspetto importante della questione delle presunte ‘aperture’ papali sul preservativo. Perché, come dicevo ieri, concedere che per un prostituto omosessuale sieropositivo sia lecito usare il profilattico (allo scopo di evitare di contagiare il proprio cliente) costituisce un’apertura tutto sommato assolutamente marginale da parte di Benedetto XVI?
Possiamo partire dal documento del magistero ecclesiastico che ha condizionato più di tutti la dottrina in materia di contraccezione: l’enciclica Humanae vitae di Paolo VI, che risale al 1968. Ecco cosa si afferma al punto 14 dell’enciclica (corsivo mio):

È altresì esclusa ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione. Né, a giustificazione degli atti coniugali resi intenzionalmente infecondi, si possono invocare, come valide ragioni: che bisogna scegliere quel male che sembri meno grave […]. In verità, se è lecito, talvolta, tollerare un minor male morale al fine di evitare un male maggiore o di promuovere un bene più grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene, cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali.
Come ribadirà ancora Elio Sgreccia nel suo Manuale di bioetica (4ª ed., Milano, Vita e Pensiero, 2007, vol. I p. 259),
quando si tratta di due mali morali, l’obbligo è di rifiutarli entrambi, perché il male non può essere oggetto di scelta e ciò anche quando, rifiutando quello che si presenta come il male minore, si provocasse un male maggiore.
È in base a questo principio, per esempio, che la Chiesa rifiuta l’aborto anche se compiuto per salvare la vita alla madre: si può forse ammettere che la morte di una donna che deve magari accudire altri bambini sia un male maggiore della morte di un feto, ma non è comunque lecito compiere ciò che la dottrina cattolica considera un male. Nel caso del preservativo (e della contraccezione in generale) il male – per la dottrina cattolica – consiste nell’impedire che la «finalità intrinseca» dell’atto sessuale, e cioè la procreazione, possa compiersi. Non importa se il contagio dell’Aids possa essere considerato un male maggiore di questo: il male non si deve mai scegliere, e quindi la Chiesa proibisce il preservativo anche nel caso in cui uno dei due coniugi sia sieropositivo. Naturalmente le gerarchie cattoliche si rendono conto che questo tipo di argomenti non ha molta presa sulla mentalità moderna (e anzi rischia di suscitare un senso spontaneo di ripulsa in chi lo ascolta); hanno dunque preferito affidarsi alla retorica del preservativo che non funziona e anzi «peggiora le cose», di più sicuro effetto, anche se alla lunga controproducente (cosa succede quando alla fine la gente si convince che il preservativo invece funziona davvero?). Ma le basi dottrinali del rifiuto del profilattico rimangono ancora quelle della Humanae vitae.

Veniamo ora al caso in esame. Se il papa avesse davvero detto che una prostituta può chiedere ai propri clienti di usare il preservativo per proteggersi dall’infezione dell’Hiv, avrebbe con ciò ammesso che un male minore – la prostituta non può più rimanere incinta dei suoi clienti – è preferibile a un male maggiore – la prostituta alla lunga rimarrà contagiata e, soprattutto se non ha accesso ai farmaci moderni, morirà. Avrebbe quindi negato uno dei principi più importanti della bioetica cattolica; e anche se un’intervista non può paragonarsi a un atto solenne del magistero, e non ha quindi valore dottrinale (il papa non parla qui ex cathedra, e non può quindi essere ritenuto infallibile), si sarebbe trattato comunque di un’affermazione clamorosa.
Ma nel caso del prostituto omosessuale viene a mancare uno dei termini di paragone: qui, infatti, usare il preservativo non fa deviare l’atto sessuale da quello che per la Chiesa è il suo fine: quell’atto, per la Chiesa, è già deviato; l’alternativa al male maggiore (il contagio), quindi, non è un altro male, neppure minore. Il prostituto sta comunque commettendo un male (perché è omosessuale e perché si prostituisce), ma si tratta di un male che avrebbe commesso ugualmente anche senza profilattico; non è un male alternativo. I filosofi morali cattolici potrebbero forse avere ancora da ridire, ma il pensiero papale non va manifestamente contro la dottrina.

Tutto bene, dunque (almeno al netto del disastro mediatico)? C’è per la verità un punto ulteriore che dà da pensare. Più avanti nel libro-intervista il papa afferma:
Le prospettive della Humanae vitae restano valide, ma altra cosa è trovare strade umanamente percorribili. Credo che ci saranno sempre delle minoranze intimamente persuase della giustezza di quelle prospettive e che, vivendole, ne rimarranno pienamente appagate così da diventare per altri affascinante modello da seguire. Siamo peccatori. Ma non dovremmo assumere questo fatto come istanza contro la verità, quando cioè quella morale alta non viene vissuta. Dovremmo cercare di fare tutto il bene possibile, e sorreggerci e sopportarci a vicenda. Esprimere tutto questo anche dal punto di vista pastorale, teologico e concettuale nel contesto dell’attuale sessuologia e ricerca antropologica è un grande compito al quale bisogna dedicarsi di più e meglio.
Qui sembra, almeno all’inizio (e sempre che la traduzione italiana non sia di nuovo difettosa), che il papa stia dicendo che il rigorismo dell’enciclica montiniana non è accessibile a tutti nella Chiesa; ma poi il discorso si fa oscuro e – almeno per me – indipanabile; non sono sicuro di che cosa voglia dire. Un punto di cui forse si parlerà ancora – ma stavolta, c’è da scommetterlo, a porte ben chiuse...

Aggiornamento: un punto di vista analogo al mio (anche se proveniente da tutt’altra sponda) è presentato nel blog Messa in latinoIl Papa sui profilattici: parole di buon senso», 21 novembre):
Da notare che il testo dell’Osservatore parla di “una prostituta”. Per contro i dispacci di agenzia in inglese, e di conseguenza i commentatori stranieri, riportano allo stesso punto del discorso la locuzione “male prostitute”. La differenza non è di poco conto, poiché nel caso di un rapporto tra uomini l’utilizzo del profilattico non suscita il problema morale (ulteriore rispetto alla grave peccaminosità intrinseca della fornicazione, per giunta contro natura) dell’utilizzo di un sistema anticoncezionale, non essendovi in quel caso alcuna potenzialità procreativa. Non così, invece, nel meretricio secondo natura: in effetti il preservativo in questo caso ha una funzione, oltre che protettiva dal contagio, pure anticoncezionale, lo si voglia o meno.

domenica 21 novembre 2010

Prostituto o prostituta?

Sta destando un certo scalpore la pur timidissima apertura ai preservativi compiuta dal papa in un libro-intervista curato dal giornalista e scrittore Peter Seewald, Luce del mondo, che uscirà il 23 novembre in 18 lingue (in Italia sarà pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana).
Ecco il passo nella traduzione italiana, come riportato dall’Osservatore RomanoIl Papa, la Chiesa e i segni dei tempi», 21 novembre 2010; corsivo mio):

Concentrarsi solo sul profilattico vuol dire banalizzare la sessualità, e questa banalizzazione rappresenta proprio la pericolosa ragione per cui tante e tante persone nella sessualità non vedono più l’espressione del loro amore, ma soltanto una sorta di droga, che si somministrano da sé. Perciò anche la lotta contro la banalizzazione della sessualità è parte del grande sforzo affinché la sessualità venga valutata positivamente e possa esercitare il suo effetto positivo sull’essere umano nella sua totalità.
Vi possono essere singoli casi giustificati, ad esempio quando una prostituta utilizza un profilattico, e questo può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole. Tuttavia, questo non è il modo vero e proprio per vincere l’infezione dell’Hiv. È veramente necessaria una umanizzazione della sessualità.
Qui si apre però un giallo. Come nota lo Independent di oggi (David Randall e Genevieve Roberts, «Pope signals historic leap in fight against Aids: Condoms can be justified»), nelle versioni inglese, francese e tedesca del libro viene usata l’espressione «un prostituto», al maschile. Sul New York Times (Rachel Donadio e Laurie Goodstein, «In Rare Cases, Pope Justifies Use of Condoms», 20 novembre), che afferma esplicitamente di aver avuto accesso a una copia della traduzione inglese, il pensiero del papa viene riportato così:
there may be a basis in the case of some individuals, as perhaps when a male prostitute uses a condom, where this can be a first step in the direction of a moralization, a first assumption of responsibility.
Lo stesso in francese («Pour la première fois, le pape admet l’utilisation du préservatif», Le Monde, 20 novembre):
Il peut y avoir des cas individuels, comme quand un homme prostitué utilise un préservatif, où cela peut être un premier pas vers une moralisation, un début de responsabilité permettant de prendre à nouveau conscience que tout n’est pas permis et que l’on ne peut pas faire tout ce que l’on veut.
La concordanza fra le versioni inglese e francese, e soprattutto il vecchio principio filologico difficilior lectio probabilior, indicano che l’originale doveva avere la forma maschile e non femminile. Siccome intervistatore e intervistato sono entrambi tedeschi, bisognerebbe dunque cercare una fonte in questa lingua; ma qui purtroppo la cosa diventa un po’ oscura. La frase completa si trovava infatti solo sul sito Kreuz.netDer Papst läßt sich von den Kondom-Kriegern weichklopfen», 17 novembre); si trovava, perché l’articolo non sembra più disponibile, ed è reperibile al momento solo nella cache di Google. In ogni caso troviamo anche qui il maschile:
Es mag begründete Einzelfälle geben, etwa wenn ein Prostituierter ein Kondom verwendet, wo dies ein erster Schritt zu einer Moralisierung sein kann, ein erstes Stück Verantwortung, um wieder ein Bewußtsein dafür zu entwickeln, dass nicht alles gestattet ist und man nicht alles tun kann, was man will.
La data dell’articolo è il 17 novembre, e questo ci assicura che non si tratta di una retroversione da fonti in altre lingue, che come abbiamo visto risalgono praticamente tutte a ieri o oggi. Le altre fonti tedesche parlano invece di Prostituierte, al plurale, che è ambiguo (può significare «prostituti» o «prostitute»), ma al di fuori della citazione testuale.

Ma è tanto importante la differenza fra prostituto e prostituta? Direi proprio di sì: se il papa avesse parlato di prostituta, al femminile, ci troveremmo di fronte a una radicale innovazione nel magistero ecclesiastico, che finora ha sempre condannato il profilattico e gli altri mezzi anticoncezionali in quanto impediscono all’atto sessuale di raggiungere la sua «finalità intrinseca» (cioè la procreazione), senza mai porsi il problema del male minore. Sembra chiaro che ciò che si applica alle prostitute dovrebbe a maggior ragione applicarsi anche alle coppie sposate, e che dunque l’uso del profilattico sarebbe adesso considerato tollerabile per prevenire l’Aids: una vera e propria rivoluzione, per la Chiesa. Ma se, come sembra, il papa ha parlato di prostituti, al maschile (e riferendosi, beninteso, alla prostituzione omosessuale), ci troviamo in un caso in cui di procreazione non si può assolutamente parlare, e l’apertura papale diventa assai marginale.
Ci si può chiedere però quanto potrà capire l’opinione pubblica, anche cattolica, di queste finezze da vecchia casuistica; nei prossimi giorni sentiremo probabilmente discettare a lungo, e dottamente, di prostituti e prostitute (e forse all’Osservatore o alla Libreria Editrice Vaticana qualcuno riceverà una bella lavata di capo), ma alla fine il messaggio che rimarrà sarà che il papa ha dato il via libera ai preservativi per prevenire l’Aids. Ancora una volta il papa ragiona ad alta voce, senza rendersi conto che lo ascoltano tutti.

Aggiornamento: la discrepanza tra le versioni è stata notata e discussa anche da altri, naturalmente. In ordine di apparizione: Phastidio, Language Log, Paferrobyday, Figleaf’s Real Adult Sex.

Aggiornamento 2: a quanto pare avevo visto giusto. L’Ansa, poco fa (via Paolo Ferrandi):
Una svista. Chi ha potuto vedere in Vaticano il testo tedesco, peraltro l’unico approvato dal Pontefice, rileva che a questo è dovuta la discrepanza, nel passaggio sull’uso del condom, tra l’edizione italiana che parla del caso di «quando una prostituta utilizza un profilattico», mentre nell’originale tedesco Ratzinger fa riferimento al maschile «ein Prostituierter», cioè «un prostituto». Nessun «giallo» quindi, quanto piuttosto un’imprecisione nella versione italiana del libro, dovuta probabilmente alla fretta nei lavori di traduzione, e rimasta anche, a differenza di altre che sono state corrette, nell’anticipazione pubblicata dall’Osservatore Romano.

giovedì 18 novembre 2010

Il bambino dimezzato



Non è certo nella speranza di aprire un dialogo con Lucetta Scaraffia che ci si avventura nel commentare il suo pezzo odierno, Omofilia, omofobia posizioni e le disuguaglianze create in loro nome, Il Riformista, ma per cercare di bilanciare l’ingiustizia di quanto scrive, che si aggiunge a una preesistente ingiustizia giuridica.

“Sembra che ormai sia diventato tutto normale, normalissimo, e chi osa avanzare qualche dubbio è considerato un vecchio barbagianni un po’ rimbambito. Sto parlando della nascita di famiglie gay, di coppie gay che “procreano” un figlio e lo allevano nell’amore e nell’accordo, di coppie gay che si voglio sposare perché pieni di fiducia nel loro amore eterno mentre le coppie eterosessuali (questa è la parola d’obbligo, dire “normali” vuoi dire linciaggio assicurato!) sono sempre meno propense al matrimonio e alla riproduzione e vivono rapporti brevi e distratti”.

Si comincia così, con un elenco di ambiguità semantiche usate per alimentare la nebbia e l’incomprensione: normale, normalissimo? Quale significato vuole attribuire Scaraffia a “normale, normalissimo”? Forse sano, forse statisticamente rilevante, forse che si attiene a una norma - ma quale? Non si può esserne certi. Si potrebbe cominciare da qui: chiarire il significato delle parole scelte qualora non siano abbastanza intelligibili. Poi scivoliamo in una mossa retorica abbastanza trita: si ridicolizza l’avversario per dire “ma guarda che hai torto marcio”. A parte l’uso delle virgolette (“procreano”) che ammicca al lettore e che veicola l’avvertimento “ehi, questi non procreano davvero”, Scaraffia disegna il mondo che vuole criticare in modo talmente ingenuo e caricaturale che è difficile intravedere resti di verosimiglianza. A proposito di parole: meglio usare “riprodursi” invece che “procreano”, dal sapore creazionista, e meglio ricordarsi che la genitorialità non coincide con la riproduzione e con il legame genetico.
Le famiglie gay, prima di tutto, costituiscono un universo eterogeneo e complesso, non hanno i medesimi desideri e vivono - ovviamente - realtà diverse e irriducibili a un dominio compatto. Presentarle come stucchevoli e pretenziosi nuclei più finti delle famiglie che popolano le pubblicità sceme è un tentativo di screditarle e di ridicolizzare una sacrosanta richiesta: l’uguaglianza di diritti. Perché questa è l’unica differenza tra alcune famiglie e altre famiglie: non potersi sposare, non poter garantire ai figli la tutela giuridica che li proteggerebbe in caso di morte del genitore biologico o in caso di separazione, non poter risolvere con una legge tutti gli ostacoli burocratici e quotidiani che derivano dall’essere, il genitore non biologico, un estraneo. Abbandonato al buon cuore delle persone che incontra ma privo di diritti e doveri genitoriali. E così un bambino che ha due genitori, di cui solo uno biologico e riconosciuto, è un bambino dimezzato.
Anche le coppie eterosessuali, poi, vengono ridicolizzate e trasformate nel nemico retorico da contrapporre a quelle gay. Un giochino inutile e che dimentica, ancora una volta, il nodo centrale: la discriminazione.

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mercoledì 17 novembre 2010

Nessuno aveva osato tanto

Giuseppe Noia è il presidente della Associazione italiana ginecologi e ostetrici cattolici. Ci sarebbe forse da interrogarsi sul senso di una associazione medica cattolica, ma lasciamo correre e concentriamoci sulle ultime dichiarazioni di Noia.
Verso i medici cattolici - dice Noia in occasione di un convegno al policlinico Gemelli di Roma - ci sarebbe “un pregiudizio culturale molte forte, che in passato ha anche penalizzato nel lavoro e nella carriera. [...] Si pensa che per via della religione e dell’etica non si possa fare una buona scienza, ma è invece proprio con l’etica che si può fare una buona scienza”. Dipende da quale etica si sceglie e dipende da quali rapporti si intende mantenere tra religione e scienza. E dipende anche molto dalla religione. Essere presidente di una associazione cattolica di ginecologi e ostetrici non è incoraggiante però: la religione è quella e se è presentata come vera e infallibile c’è poco spazio per altro. La prima domanda è: in quale modo si dovrebbe distinguere un ginecologo cattolico da uno che non vuole etichettarsi pubblicamente come cattolico? Dal punto di vista professionale non dovrebbero esserci distinzioni: rivolgendosi a un medico ci si aspetta di avere a che fare con un professionista che ha determinante competenze, una formazione specifica e alcuni doveri. Il profilo confessionale, politico, i suoi gusti alimentari e sentimentali non dovrebbero riguardarci, a meno che non diventiamo amici - ma questo esulerebbe dalla richiesta professionale.
Nemmeno dal punto di vista personale dovrebbe essere rilevante per la propria professione: se sono cattolico, ma anche ateo o buddista, il mio comportamento professionale non dovrebbe risentirne. In entrambi i casi stona quella appartenenza confessionale sbandierata e usata per distinguersi da associazioni che non vogliono dirsi cattoliche, magari perché non viene in mente a nessuno di fondare una associazione spaziale protestante.
Noia lamenta poi una discriminazione verso il personale cattolico e obiettore di coscienza. Non si sofferma però sui dettagli e non abbiamo modo quindi di valutare la verosimiglianza della sua denuncia. Tuttavia la sua proposta conclusiva ci trova entusiasti: “sarebbe opportuno riservare metà dei posti disponibili a personale obiettore, e l’altra metà a chi non lo è, in modo da garantire il servizio e tutelare al contempo le posizioni di tutti”.
La metà! Sarebbe un risultato insperato. Considerando che oggi negli ospedali la percentuale degli obiettori supera il 75%, con picchi dell’85, per arrivare addirittura a forme di obiezione di struttura - proprio come nel caso del policlinico Gemelli - avere la garanzia che la metà del personale medico non si sottrae nascondendosi dietro alla propria coscienza sarebbe grandioso.

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lunedì 15 novembre 2010

Curare il nemico? È un dovere

Berlino. Un chirurgo scopre in sala operatoria che il suo paziente ha un tatuaggio del Terzo Reich sull’avambraccio. Il chirurgo è ebreo e afferma che la sua coscienza non gli permette di eseguire l’intervento. Lascia la sala operatoria. Dice alla moglie del paziente “non opererò suo marito perché sono ebreo”. Il paziente è poi operato da un altro medico. Questa è la notizia riportata dall’Ansa e da altri quotidiani qualche giorno fa.

Il comportamento del medico è ammissibile? Senza dubbio è comprensibile. La nostra pancia ci porta a giustificare il medico, ma una analisi più a freddo ci obbliga a cambiare idea. È bene innanzitutto ricordare l’età dei due soggetti coinvolti: 46 anni per il medico, 36 per il paziente. È bene anche ricordare che un medico non può decidere chi operare e chi no in base a una valutazione morale del proprio paziente: anche agli assassini o agli aggressori è garantita l’assistenza medica.

In questo caso poi ci troveremmo più davanti a un reato d’opinione che a un vero e proprio reato: il tatuaggio non implica un comportamento criminale del paziente stesso. Può indicare una adesione a idee che ci suscitano orrore e ripugnanza, ma non è una dimostrazione di null’altro. Anzi, sappiamo bene che alcuni individui scelgono di tatuarsi o di uniformarsi a canoni di abbigliamento o di acconciatura senza essere nemmeno tanto consapevoli del significato di quei simboli.

In ogni modo l’aspetto più importante è che seppure scegliessi, nella totale consapevolezza, di rasarmi i capelli e di tatuarmi aquile e facce da Hitler non significherebbe che io sia colpevole di un qualche reato. Anche lo fossi alcuni diritti mi dovrebbero essere garantiti. Il medico si è trovato in una situazione sgradevole, ma la risposta non può essere quella di sottrarsi ai propri doveri.

Se giustificassimo la sua scelta di coscienza, configurabile come una obiezione di coscienza, fin dove potremmo spingerci? Dovremmo poi essere disposti a giustificare se un medico ceceno si rifiutasse di operare un russo investito da un camion? Oppure un tutsi potrebbe incrociare le braccia davanti a un paziente hutu? Non sembra che il paziente abbia corso dei rischi e che sia stato facile trovare un altro medico disposto a eseguire l’intervento chirurgico, ma se fossero stati tutti della stessa idea quale destino avrebbe avuto il paziente?

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giovedì 11 novembre 2010

Se parlare di eutanasia è reato

Francesco Ognibene non lo dice del tutto esplicitamente; ma sembra proprio che per lui («Pubblicità mortale», Avvenire, 10 novembre 2010, p. 1), lo spot a favore dell’eutanasia volontaria creato dall’associazione Exit International, bloccato dall’autorità per le Comunicazioni australiane e ora rilanciato in Italia dall’Associazione Luca Coscioni e dal Partito Radicale, si configuri in sostanza come un’apologia di reato:

Va peraltro ricordato agli smemorati che il Codice penale sanziona con chiarezza l’«omicidio del consenziente», la fattispecie sotto la quale ricadono eutanasia e suicidio assistito. Permettere che si pubblicizzi un reato attraverso i mezzi di comunicazione a noi pare inammissibile: ed è lecito attendersi che l’Autorità garante delle comunicazioni, alla quale i radicali si sono rivolti per chiedere il via libera allo spot della morte, faccia il proprio dovere senza esitazioni fermando questa inutile provocazione.
Fra «pubblicizzare un reato» e farne l’apologia la differenza è esigua o del tutto inesistente; ma Ognibene non ne trae l’ovvia conseguenza: il suo appello a fermare la «inutile provocazione» è rivolto non ai magistrati, che pure sarebbero deputati a intervenire per applicare l’art. 414 comma 3 del Codice Penale, ma più modestamente all’Autorità garante delle comunicazioni.
Ognibene forse vuole essere magnanimo; o forse sa bene che qui di apologia di reato – o di pubblicità di un reato – non c’è neppure l’ombra. L’attore dello spot non dice: «Ho fatto la mia scelta finale, e la metterò in pratica nonostante che la legge non lo consenta», ma dice invece: «Ho fatto la mia scelta finale. Ho solo bisogno che il governo mi ascolti». Non rappresenta o prospetta o adombra un reato, ma chiede una modifica della legge. E questo deve essere lecito in una democrazia liberale, come ci ricorda fra l’altro una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 40552/2009, corsivo mio):
l’elemento oggettivo dell’apologia di uno o più reati punibile ai sensi dell’art. 414, comma terzo c.p., non si identifica nella mera manifestazione del pensiero, diretta a criticare la legislazione o la giurisprudenza o a promuovere l’abolizione della norma incriminatrice o a dare un giudizio favorevole sul movente dell’autore della condotta illecita, ma consiste nella rievocazione pubblica di un episodio criminoso diretta e idonea a provocare la violazione delle norme penali […].
Pensare altrimenti implicherebbe l’impossibilità per la società civile di argomentare in favore della depenalizzazione di qualsiasi comportamento oggi illecito, in quanto ogni discussione in merito costituirebbe di per se stessa un’apologia di reato. In questo modo, per esempio, sarebbe stato perseguibile chiunque avesse preso la parola per eliminare la reclusione di un anno che il vecchio Codice Penale prevedeva per le adultere. Inutile dire che ciò costituirebbe una limitazione gravissima della libertà di parola; d’altronde, cosa pensi Francesco Ognibene del diritto di esprimersi è tradito dall’osservazione che i radicali, con la loro iniziativa, «scavalcano la rappresentanza politica»: di certe cose si deve poter parlare solo nei luoghi deputati...
Protervia di integralista, certo; ma anche spia di un’insicurezza: bruciano, bruciano molto, le cifre del sondaggio sugli italiani favorevoli all’eutanasia che appaiono in coda allo spot.

Aggiornamento 12/11/2010: Avvenire insiste con un’intervista ad A­driano Zanacchi (un esperto di pubblicità, a quanto si capisce), che abbandona ogni residua prudenza, affermando che «mai la pubblicità può incitare a violare le leggi» (Emanuela Vinai, «“Eutanasia, uno spot non può indurre a violare la legge”», 11 novembre, inserto È vita, p. 3). Ormai siamo in pratica alla diffamazione.

venerdì 5 novembre 2010

La realtà sbeffeggia il Foglio

È una lezione di prudente realismo quella che ieri pretendeva di darci un anonimo editorialista del FoglioOra di sesso a cinque anni», 4 novembre 2010, p. 1):

La bambina romena di dieci anni che martedì scorso ha partorito un figlio in Spagna – paese ormai orgogliosamente allineato a Gran Bretagna e Francia nella somministrazione scolastica di educazione sessuale fin dalla più tenera età, con modalità perfezionate durante l’attuale era zapateriana – dimostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che per quella via è illusorio pensare di contrastare il fenomeno delle mamme bambine. Un fenomeno da tempo vera emergenza sociale in Inghilterra, sulla buona strada per diventarlo in Francia e in preoccupante salita in Spagna, in barba ai volenterosi dispensatori di caramelle di sesso sicuro ai più piccini. […]
La realtà si diverte a sbeffeggiare i teorici dell’educazione sessuale obbligatoria e fa propendere semmai per un lampante rapporto di causa-effetto. Più se ne parla, prima se ne parla, prima si fa: Inghilterra docet.
Andiamo dunque a vedere questa realtà: il tasso di maternità delle minorenni nei vari paesi. La misura più oggettiva dovrà naturalmente considerare anche il tasso di abortività, per evitare di considerare positiva una situazione in cui le minorenni non fanno molti figli solo perché abortiscono spesso. Purtroppo i dati combinati più recenti a mia disposizione risalgono al 1996, ma non si tratta di un’era tanto remota da non essere significativa anche per l’oggi. Li troviamo in una pubblicazione dell’Unicef, A league table of teenage births in rich nations (Innocenti Report Card, 3, 2001), a p. 20. Qui ci attende qualche sorpresa: se il tasso combinato più basso (e quindi più lusinghiero) spetta al Giappone, che probabilmente deve ringraziare la tenuta dei suoi valori tradizionali, al secondo posto, a pochissima distanza dal Sol Levante, troviamo una nazione non particolarmente famosa per il suo conservatorismo: i Paesi Bassi, che nel 1996 vantavano un tasso di nascite da madri di età compresa fra 15 e 19 anni del 7,7 per mille, e un tasso di abortività del 3,9 per mille. Per confronto, in quello stesso anno gli stessi tassi erano in Italia rispettivamente del 6,6 e del 6,7.
A che cosa si deve questa performance? Il rapporto lo spiega alla pagina seguente (il corsivo è mio):
In generale, gli studi sull’esperienza olandese hanno concluso che le ragioni alla base del suo successo sono state la combinazione di una società relativamente inclusiva con atteggiamenti più aperti nei confronti del sesso e dell’educazione sessuale, compresa la contraccezione. Questo ha fatto sì che dei rapporti sessuali si parli a un’età precoce – prima che si sollevino le barriere dell’imbarazzo e prima che l’educazione sessuale possa essere interpretata come un segnale che è arrivato il momento di cominciare a fare sesso.
Cosa ci dice invece degli ultimi della classe, gli Usa e il Regno Unito (assieme a Nuova Zelanda e Ungheria), che avevano un tasso combinato di nascite e aborti fra le adolescenti rispettivamente dell’85,8 e del 50,9 per mille? P. 20: oltre a essere società poco inclusive,
il Regno Unito e gli Stati Uniti sono […] società che hanno sperimentato la trasformazione socio-sessuale, compresa la sessualizzazione dello spazio mediatico, ma senza promuovere cambiamenti corrispondenti per preparare i giovani ad affrontare le nuove pressioni. Le informazioni sulla contraccezione e i servizi contraccettivi possono anche essere formalmente disponibili, ma in un’atmosfera ‘chiusa’ di imbarazzo e segretezza. O, come dice un adolescente britannico, «a volte sembra che il sesso sia obbligatorio ma la contraccezione illegale».
Per avere un’idea di cosa è successo nei dieci anni successivi, diamo un’occhiata a questa classifica (del 2006) dei tassi di nascite da donne minori di vent’anni, tratta da Wikipedia (ma i dati provengono da fonti ufficiali); mancano i tassi degli aborti, ma si tratta comunque di un’utile approssimazione:

Ebbene, la situazione nei Paesi Bassi sembra essere ancora migliorata (5,2 contro 7,7 di dieci anni prima), a testimonianza della validità di un modello; rimane quasi invariata in Italia e nel Regno Unito. Un peggioramento abbastanza vistoso si registra in Spagna, che dal 7,5 passa al 12,1 per mille. Attenzione: la colpa non è di Zapatero (salito al potere nel marzo 2004), visto che il dato era già del 10,8 per mille nel 2003 e dell’11,5 nel 2005 (dati dal Demographic Yearbook delle Nazioni Unite). Sembra che i governanti spagnoli stiano prendendo coscienza di una situazione in costante peggioramento, e che stiano applicando la lezione dei paesi che hanno avuto successo in questo campo. Loro tengono conto della realtà; il Foglio, invece, preferisce credere alle favole.

(Una discussione sull’argomento, lunga e vivace ma nel complesso civile, si trova qui; devo più di uno spunto al blog Universi Paralleli.)

giovedì 4 novembre 2010

Ognuno ha l’imbarazzo che si merita



Francesco Belletti, responsabile del Forum delle famiglie, è imbarazzato da Silvio Berlusconi. Eugenia Roccella è imbarazzata da Francesco Belletti. Qualsiasi persona ragionante è imbarazzata da Eugenia Roccella. Arrampicandosi sugli specchi per l’ennesima volta il funambolico sottosegretario alla salute dichiara: “l’unica cosa che può imbarazzare chi sostiene la famiglia sono le prese di posizione e gli attivismi dei politici contro l’accoglienza della vita, a favore dei matrimoni omosessuali e delle adozioni da parte di coppie gay, per la fecondazione eterologa, le pillole abortive e l’introduzione dell’eutanasia, ovvero tutti i provvedimenti che indeboliscono la cultura della vita e la famiglia descritta dalla nostra Costituzione”.
Manca solo il terrorizzante omino Michelin di Ghostbusters per avere un elenco completo degli attentati alla cultura della vita. Peccato che Roccella non sia una promoter di Scientology perché farebbe una carriera fulminante, magari riuscirebbe addirittura a scalzare la memoria di Ron Hubbard. Nel frattempo a Eugenia Roccella si adatta perfettamente una delle regole principali di Scientology: “Le sue capacità sono illimitate, anche se non attualmente conosciute”. Si sa che ogni religione che si rispetti aspira alla eternità e che il presente aspira all’imperituro, perciò non disperiamo.

Giornalettismo.

mercoledì 3 novembre 2010

Silvio, gli omosessuali e i cavallucci marini

Il titolo dell’articolo può mettere i brividi, ma la lettura del pezzo con cui Melania Rizzoli, «medico e deputato Pdl», difende l’ultima uscita del capo del governo, regala invece alla fine qualche momento di sana allegria («Basta con le solite ipocrisie: tutti preferiamo figli etero», Il Giornale, 3 novembre 2010, p. 3). Qualche esempio a caso:

La frase del premier «meglio essere appassionati di belle ragazze che essere gay», che apparentemente può apparire discriminatoria, è invece per Berlusconi una cosa normale e naturale da dire. Anzi per lui è un inno alla vita. A modo suo certo, ma per uno come lui che ama la vita e la vive così tanto e non ne fa mistero, sarebbe inconcepibile preferire una esistenza sterile, senza lasciare il segno fisico di sé. Non è nella sua natura. Lo ha dimostrato in tutti i modi, lo dimostra ancora oggi e continuerà a farlo.
È forse un modo per avvertirci che il prossimo scandalo sarà sui figli segreti di Berlusconi?
Non sarebbe lui altrimenti. Ve lo immaginate un Silvio Berlusconi omosessuale, o che commenti i fatti di questi giorni con un «sarebbe stato meglio per me essere gay che appassionato di belle ragazze»? Sarebbe stato grottesco, finto […].
E invece così...
Anzi lui ripete spesso, perché ci crede davvero e questo dobbiamo riconoscerglielo, che il futuro è delle donne. E questa è un’assoluta verità. Per dimostrarlo basta osservare madre natura. Anche nel mondo animale esiste l’omosessualità, in percentuale molto più ridotta di quella umana, ma che sta diminuendo spontaneamente in maniera significativa. Ci sono infatti [corsivo mio, G.R.] diverse specie animali, come per esempio i cavallucci marini o le meduse, che oggi si riproducono già in assenza completa del maschio, considerato il sesso debole e perciò in estinzione, e lo stesso corpo femminile e il suo organo genitale al momento del concepimento si modifica e sostituisce di fatto il ruolo e l’organo maschile […].
E quando i maschi si saranno estinti e rimarranno solo le femmine ci sarà, uhm, la fine dell’omosessualità?
È ancora teoria, certo, ma non così teorica.
O un’ipotesi non tanto ipotetica...

(Grazie a Massimo Redaelli.)

Parto in casa

Un racconto da far venire la pelle d’oca.

martedì 2 novembre 2010

Terapie intensive aperte: operatori critici

Nell’inserto de Il Sole 24 Ore è stato pubblicato il testo dell’indagine sulle terapie intensive aperte svolta dalla Regione Toscana su proposta del gruppo di studio permanente della Commissione regionale di bioetica sull’Etica delle cure di fine vita.
Qui incollo le conclusioni:

Sicuramente l’apertura di reparti di questo tipo non costituisce un percorso facile, né velocemente attuabile, ma è necessario uno sforzo di tutti i soggetti coinvolti (amministrazioni, operatori sanitari, familiari) affinché questi luoghi, pur mantenendo le regole necessarie, aboliscano quelle barriere, temporali fisiche e relazionali, non giustificabili in base a una reale necessità, che separano il paziente dai propri cari, peggiorandone così qualità della vita. L’apertura, intesa in questo senso costituisce una strategia utile che reca beneficio al paziente ed alla sua famiglia consente di realizzare un approccio terapeutico realmente incentrato sull’assistito ed esprime “in modo più pieno il rispetto e l’attenzione da riservare alla persona che vive il faticoso tempo della malattia”.
Il testo è invece qui, pagine 5 e 6.

Siamo tutti gay

Signor Berlusconi,
la sua infelice “battuta” (“Meglio essere appassionati di belle ragazze che gay”), che fa il paio con quella di Alessandra Mussolini di qualche anno fa (“Meglio fascista che frocio”), offende milioni di cittadini gay, lesbiche e transgender, insieme alle centinaia di migliaia di bambini che hanno genitori omosessuali e che sentono ancora una volta parole di disprezzo verso i loro affetti più grandi.
Inoltre ciò che spaccia per “passione” per le donne altro non è che disprezzo anche quello. Le sue parole e i suoi comportamenti da sempre relegano la donna a mero oggetto di desiderio, a semplice sex toy, senza un’identità propria e senza uno scopo altro nella vita che non sia quello di piacere ai maschi. La cultura che propina e propone dai suoi mezzi di informazione da trenta anni a questa parte ha purtroppo reso vane importanti lotte femministe, che avevano dato alla donna una dignità, da sempre a lei negata. Lei ha portato l’Italia indietro di secoli.
In molti non se ne sono accorti e continuano a votarla. Di buono c’è che tanti stanno invece finalmente aprendo gli occhi.

Luca Possenti, vicepresidente “Famiglie Arcobaleno” (Associazione Genitori Omosessuali) ma soprattutto gay orgoglioso e stanco di essere preso d’attacco senza motivo da politici e clero.
Questa lettera è una delle tante reazioni da parte delle associzioni alla “battuta” dell’innominabile.
È triste che vi sia la necessità e l’occasione (o meglio, le occasioni) per dover ribadire quanto dovrebbe essere ovvio e scontato.
È triste anche assistere alla pallida reazione politica, impigliata in un funambolismo nauseante e insensato.

venerdì 29 ottobre 2010

Divieto di saluto allusivo

Prostituta precaria!
“L’ordinanza - spiega [il sindaco di Genova] Marta Vincenzi - non ha contenuti moralistici e vuole mettere a disposizione della polizia urbana uno strumento più efficace che permetta ai vigili di non girarsi dall’altra parte e di intervenire”.
L’ordinanza cui fa riferimento Marta Vincenzi ha per oggetto il “divieto di esercizio della prostituzione in luoghi pubblici, aperti al pubblico o visibili al pubblico, con abbigliamento indecoroso e modalità che possono offendere la pubblica decenza ed il libero esercizio degli spazi” (ordinanza n. 31, 26 ottobre 2010).
Già questo basterebbe a far rizzare i capelli, non foss’altro per la difficoltà di intendersi sulla “pubblica decenza” e per l’ossimoro della protezione del “libero esercizio degli spazi” che compare dopo una serie di gravi violazioni delle libertà individuali.
L’offesa alla pubblica decenza, poi, riesuma un cadavere che tale dovrebbe rimanere: il reato senza vittime, tipico delle tradizioni istituzionali illiberali e moralistiche - nonostante il parere di Vincenzi.
Non serve nemmeno entrare nel merito delle questioni per rilevare l’assurdità dell’ordinanza dunque. E se vi fosse ancora qualche dubbio basta soffermarsi sull’articolo 1: “Nel territorio comunale è fatto divieto in luogo pubblico, aperto al pubblico o visibile al pubblico 1. di porre in essere comportamenti diretti in modo non equivoco ad offrire prestazioni sessuali, consistenti nell’assunzione di atteggiamenti di richiamo, di invito, di saluto allusivo, ovvero nel mantenere abbigliamento indecoroso o indecente in relazione al luogo, ovvero nel mostrare nudità”.
Basta cioè immaginarsi di essere colui investito di eseguire l’ordinanza per infilarsi in un cul de sac degno degli incubi burocratici più tetri.
Come riconoscere comportamenti volti inequivocabilmente ad offrire prestazioni sessuali? Come superare la barriera della privatezza delle nostre intenzioni? Come individuare un saluto equivoco da uno magari formulato per educazione oppure senza fini equivoci?
Per non parlare della difficoltà di barcamenarsi sul fronte abbigliamento: è vero che a Castellamare hanno deciso di vietare le minigonne e chi fa sesso in macchina finisce in galera (quindi l’ordinanza genovese è in buona compagnia!), ma almeno “minigonne” e “fare sesso in macchina” hanno la virtù di essere comprensibili, mentre “nudità” lascia il povero vigile in una incertezza irrisolvibile. Pretendere di stabilire quali siano gli abbigliamenti consoni a seconda dei luoghi è più difficile di quanto potrebbe sembrare.
Anche il “visibile al pubblico” delinea scenari grotteschi: dalle finestre di casa propria potrebbe essere visibile al pubblico una nostra nudità o un nostro comportamento equivoco.
I vigili d’ora in poi potranno anche non voltarsi dall’altra parte per merito di questa ordinanza, ma non c’è dubbio che si troveranno di fronte a difficoltà interpretative insuperabili, oltre che davanti a una ordinanza lesiva di alcuni diritti fondamentali, a cominciare dalla libertà di parola e di vestizione. La regolamentazione dello spazio pubblico è una questione seria e complessa. Questa ordinanza, invece, sarebbe un bel canovaccio per una commedia dell’arte tutta italiana.

Giornalettismo, 29 ottobre 2010.

domenica 24 ottobre 2010

I molteplici significati del velo

Sono riflessioni risalenti a qualche anno fa, quelle che Ida Dominijanni compie nel saggio «Corpo e laicità: il caso della legge sul velo» (in Le ragioni dei laici, a cura di Geminello Preterossi, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 172-74), ma particolarmente attuali:

È noto da accurate analisi svolte sul campo che la semantica del velo non è interpretabile in modo univoco, trattandosi di un segno che oggi viene riscritto all’incrocio fra ritorno e reinvenzione della tradizione, fra controllo patriarcale delle donne e movimenti di libertà femminile, fra rifugio nell’identità e rivendicazione della differenza islamica rispetto all’omologazione occidentalista globale. Questa polisemia cambia inoltre da contesto a contesto: l’uso del burka imposto dai talebani afgani non è paragonabile a quello ‘conformista’ del foulard in Iran, o in Algeria o in Turchia. In Francia, esso non è separabile dall’impatto degli immigrati di seconda e terza generazione con la cittadinanza e con l’immagine occidentale della donna: è «una provocazione» che segnala «lo scacco francese» nella promessa non mantenuta di uguaglianza, il rovesciamento in positivo di una identità imposta nella comunità d’origine e discriminata in quella d’adozione. Più precisamente, dell’uso del velo nelle periferie parigine sono stati individuati quattro significati diversi: c’è il velo tradizionale della madre o della nonna, c’è il velo imposto alle giovani dai genitori, c’è il velo rivendicato contro i genitori che si sono lasciati assimilare troppo ai costumi occidentali, c’è il velo negoziato con i genitori pur di potere uscire la sera con gli amici occidentali; e infine c’è il velo indossato come schermo di difesa da aggressioni e discriminazioni maschili, occidentali e islamiche: un uso controparadossale, e a suo modo ‘femminista’, del marchio dell’oppressione. Le società occidentali post-femministe, del resto, ne dovrebbero sapere qualcosa: com’è stato osservato, fu un classico «rovesciamento dello stigma» a caratterizzare l’uso di massa delle gonne a fiori nel femminismo degli anni Settanta, ovvero la risemantizzazione di un segno che nel senso comune evocava una femminilità tradizionale e passiva in un simbolo di femminilità rivendicata, autocosciente, sottratta al metro di misura dell’immaginario sessuale maschile e al diktat emancipazionista.
Con ciò non intendo, sia chiaro, ribaltare il discorso corrente sostenendo che il velo è sempre o prevalentemente segno di libertà femminile: il problema sta proprio nella polivalenza di significati e di temporalità che esso veicola, caso tipico di quella ‘sincronicità dell’asincronico’ che rompe nell’epoca globale il tempo lineare del progetto moderno. Non si tratta dunque tanto di compulsare la casistica dettagliata dei suoi usi, quanto di adottare una prospettiva che ne contempli anche un uso libero, e lo consenta. Il che comporta evidentemente la necessità di lasciare la decisione di portarlo o non portarlo, e con quale significato, alle dirette interessate, invece di affidarla a una legge che pretende di tutelarle paternalisticamente e di controllarle autoritativamente, come invece sceglie di fare il rapporto della Commissione Stasi. Il quale ne uniforma l’uso e il divieto, glissando sul fatto che, come pure scrive, «per quelle che lo portano il velo può rivestire diversi significati: può essere una scelta personale o, al contrario, un obbligo, particolarmente intollerabile per le più giovani» […].
Come appare chiaramente nel seguito del saggio, la riflessione dell’autrice si svolge all’interno del cosiddetto femminismo della differenza, di cui è bene diffidare, a causa delle sue possibili degenerazioni in senso comunitarista e oppressivo – anche se la Dominijanni ne rimane una delle (poche?) interpreti ragionevoli. A mio parere, comunque, un’applicazione appena coerente del paradigma liberale porterebbe, nel caso del velo, a risultati pressoché identici a questi.

sabato 23 ottobre 2010

L’ irrespirabile aria di famiglia di Olimpia Tarzia

Olimpia Tarzia è la promotrice del disegno di legge regionale del 26 maggio 2010 per la “riforma e la riqualificazione dei consultori familiari”. Ci sarebbe molto da dire su questo disegno di riforma. Ciò che colpisce iniziando a leggere, e che forse basterebbe a mettere in discussione l’intera proposta, è l’idea di famiglia intorno a cui verrebbe a ruotare l’attività dei consultori (è necessario ricordare che i consultori familiari sono stati istituiti nel 1975 con la legge 405, legge che ha l’unico difetto di non essere applicata e che non richiede alcuna riforma).
Si comincia così, con le istruzioni per l’uso del primo (e controverso) articolo: “L’articolo 1 sottolinea la posizione dell’ordinamento regionale rispetto alla Famiglia: la Regione riconosce la dimensione socialedella famiglia fondata sul matrimonio che si pone come primaria ed infungibile società naturale e come istituzione prioritariamente votata al servizio della vita. La famiglia, riconosciuta come realtà preesistente al diritto positivo, è da quest’ultimo valorizzata e tutelata nelle sue fondamentali dimensioni dell’unità e della fecondità”. E poi si specifica nell’articolo 1, primo comma: “1. La Regione riconosce il valore primario della famiglia, quale società naturale fondata sul matrimonio e quale istituzione finalizzata al servizio della vita, all’istruzione ed alla educazione dei figli, e tutela la sua unità, la fecondità, la maternità e l’infanzia”. Anche il terzo comma merita di essere riportato: “3. La Regione tutela la vita nascente ed il figlio concepito come membro della famiglia”.
La vera famiglia è quella fondata sul matrimonio secondo la Tarzia e i firmatari del suo disegno di legge. D’altra parte compare al singolare e con la “F”, come potremmo confonderla con le famiglie false e imperfette? L’uso del singolare denuncia un panorama angusto e miope: esistono innumerevoli tipologie di famiglie, non c’è nessuna Famiglia, unica o vera da usare come modello o da preferire alle altre. La definizione di famiglia può (e deve) accogliere le formazioni più diverse, senza imporre vincoli semantici pesanti e prestabiliti. Basterebbe guardarsi intorno.
Molte delle definizioni più comuni di famiglia rischiano di essere anguste: si pensi alla cosiddetta “famiglia tradizionale” intesa come costituita da madre, padre e figli, uniti da un legame genetico e matrimoniale. Forse non dovrebbe essere considerata come una famiglia quella formata da un solo genitore? Quelle ricomposte? Quelle formate da due donne o da due uomini, impossibilitati a sposarsi in Italia?E allora, quale potrebbe essere la condizione necessaria per rilevare la presenza di una famiglia? Il legame affettivo, la responsabilità, la condivisione. Nulla che si possa assicurare rispettando un modello formale e strutturale. Perché escludere tutte queste famiglie?
La Famiglia, intesa come blocco di cemento armato, esiste solo nelle pubblicità sceme o nei pensieri semplificanti e disinteressati alla realtà. Ignorare la realtà è rischioso e ingiusto: prenderemmo sul serio uno che è convinto che la Terra sia piatta? Discuteremmo con lui di natura umana o di inquinamento ambientale? Appare difficile discutere e accordarsi su come tutelare le famiglie partendo da premesse tanto diverse.

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giovedì 21 ottobre 2010

Consulta eterologa: gli strafalcioni di Roccella e Giovanardi

All’inizio dello scorso ottobre il divieto di fecondazione eterologa arriva alla Corte Costituzionale: è illegittimo vietare a qualcuno di ricorrere a un gamete maschile o femminile? Questa è la domanda cui la Corte dovrà rispondere. C’è un precedente molto importante: nell’aprile 2010 due coppie austriache si erano rivolte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo chiedendo di poter effettuare una eterologa. La Corte ha dichiarato illegittimo il divieto presente nella legge austriaca e ha condannato l’Austria a risarcire i danni.
La legge 40 sulle tecniche riproduttive ha già subito un duro colpo l’anno passato riguardo all’obbligo di impianto contemporaneo degli embrioni prodotti, perché secondo la Corte quest’obbligo sarebbe insensato e contrario al diritto alla salute.
Invece di farsi qualche domanda su una legge sbagliata e piena zeppa di divieti irragionevoli e di guardare cosa accade intorno a noi, i difensori della legge 40 hanno rispolverato i loro vecchi cavalli di battaglia: dal far west agli scenari apocalittici, passando per la volontà popolare.
Il sottosegretario alla salute Eugenia Roccella si distingue per fantasia: “È stato votato dal Parlamento e confermato con l’astensione al referendum, che riguardava proprio l’eterologa. L’astensione in un referendum è la risposta più chiara, è la conferma che gli italiani non volevano modifiche alla legge”.
È difficile pensare che Roccella sia tanto ignorante da non sapere che quando un referendum non raggiunge il quorum significa che è nullo, come se non si fosse mai svolto al punto che si potrebbe riproporre lo stesso quesito. Sapere le intenzioni altrui è già complicato quando si tratta di una persona che conosciamo, figuriamoci se sono milioni di sconosciuti! Magari Roccella ha la pretesa di interpretare l’astensione come se avesse la palla di vetro delle fattucchiere, ma dovrebbe comunque ricordare che giuridicamente la sua dote telepatica non ha peso.

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Negli Usa la madre non ha più diritti

Livorno, bebè a coppia gay Affittato l’utero Negli Usa la madre non ha più diritti è il titolo completo su Il Giornale di ieri. Il pezzo poi è meno bizzarro del titolo, ma come spesso accade manca di qualsiasi giustificazione e approfondimento. Il passaggio dimostrativo sarebbe il seguente:

Il concepimento del bebè La donna, già madre di tre figli, ha prestato il suo utero, mentre il seme di Valter, padre di David per la legge italiana. In sala parto Valter e Mario sono entrati insieme e entrambi hanno tagliato il cordone ombelicale. Da quel momento la madre non ha avuto più nessun diritto sul piccolo. Le hanno consentito di tenerlo in braccio subito dopo il parto ma non di “attaccarlo al seno”: ad allattarlo con il biberon sono i due uomini, alle prese con pannolini e sveglie notturne.
Qualcuno ha chiesto a Valter e a Mario? O, addirittura, alla donna? Dove hanno scoperto che la madre non ha più alcun diritto? Per quanto a qualcuno (diciamo pure quasi a nessuno) la surrogacy non piace, affermare che la madre negli Stati Uniti non abbia più diritti è ridicolo. E si dovrebbe anche costruire argomenti razionali invece cha attaccarsi ai soliti “non mi piace è contro natura”. Noi di surrogacy ne abbiamo scritto più volte, e io non ne posso più di ripetere al muro le stesse cose.

martedì 19 ottobre 2010

Neanche nella Spagna franchista

Mario Pirani, «Lapidazione psicologica in chiave clericale», La Repubblica, 18 ottobre 2010, p. 26:

Questa Italia triturata da un federalismo improvvisato sta producendo, tra gli altri fenomeni negativi, l’esplodere di eventi locali destinati a ripercuotersi su scala nazionale, senza alcuna considerazione della coerenza costituzionale e delle contraddizioni e controversie, per effetto riflesso, cui possono dar luogo. È stato il caso, tanto per fare un esempio, della scuola di Adro ricoperta di simboli leghisti. Decisioni improvvide che, se non rintuzzate sul nascere, si presterebbero a una moltiplicazione dirompente. Ancor più grave dei fatti succitati è la legge presentata al Consiglio regionale del Lazio da Olimpia Tarzia (Pdl) presidente del Movimento per la vita, legge che si propone di stravolgere i consultori familiari, quando non di privatizzarli, affidandoli in gran parte ad organizzazioni religiose (naturalmente finanziate dalla Regione) e sottraendoli alle Asl cui oggi fanno capo. Ricordo in proposito che i consultori vennero introdotti per legge nel 1975 da un governo di centrosinistra, presieduto da Aldo Moro, al culmine della stagione delle riforme (diritto di famiglia, aborto, divorzio, sanità). La loro caratteristica è consistita nel fornire in primo luogo alle donne un unico servizio socio-sanitario ad accesso libero e gratuito per la assistenza nella preparazione alla maternità, alla tutela della salute della donna in fase di concepimento, alla informazione, promozione e assistenza sul tema della gravidanza, della sterilità, dei metodi d’intervento e di aiuto nelle procedure per l’adozione e l’affidamento, ecc. È falso, quindi, quanto sostiene oggi la maggioranza di destra che si occupino solo di aborto (dai dati dell’Asp del Lazio risulta che nel 2009 5500 donne si sono rivolte ai consultori per consulenze pre-concepimento e 10790 hanno partecipato ai corsi pre-parto).
La legge controriformista mira invece ad imporre all’universo mondo i dettami del fondamentalismo ecclesiastico. La libera decisione della singola donna è cancellata e al centro della nuova legge campeggia «la dimensione sociale della famiglia fondata sul matrimonio». Donne singole e coppie di fatto sarebbero quindi fuori dal nuovo ordinamento regionale. I consultori, in buona parte non più organi pubblici, dipenderebbero dalle associazioni familiari e dalle organizzazioni senza scopo di lucro che «promuovono la stabilità familiare e la cultura familiare». Una torsione ideologica anticostituzionale che non solo privatizza il servizio ma esclude qualsiasi apporto del volontariato laico. Non manca, inoltre, la legittimazione del «figlio concepito quale membro della famiglia», una definizione dell’embrione che oltrepassa quella dei vescovi.
Si impone anche la presenza negli organi di direzione di un esperto di bio-etica e di un «mediatore familiare» (figure professionali mai istituite e, peraltro, «inappropriate» come recita una nota in proposito del Servizio legislativo del Consiglio regionale che, inoltre, avverte come molte norme della legge prestino il fianco «a possibili censure di costituzionalità».) Basti ricordare l’introduzione di un incentivo di 500 euro per i primi 5 anni di vita del nascituro promessi alle donne a basso reddito che rinuncino alla decisione di abortire, una voce che graverebbe per 100 milioni di euro annui senza copertura, destinati a crescere perché di fronte a una simile offerta ogni donna gravida fingerebbe di voler abortire. Moralmente la cosa peggiore è, però, il doppio percorso, una «lapidazione psicologica della donna», come ha scritto Giulia Rodano (Idv) attraverso la quale in violazione della legge 194 si vuole imporre ad opera dei bioetici dei neo-consultori un trattamento persecutorio per dissuaderla dall’abortire, accompagnato dall’obbligo se non accondiscendesse alla «difesa della famiglia», a firmare una specie di «consenso informato» con la confessione del rifiuto all’aiuto prestato dal consultorio.
Credo che neanche nella Spagna cattofranchista si fosse giunti a questo punto.

venerdì 15 ottobre 2010