La sentenza n. 162/2014, con cui la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’art. 4, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, che vietava la cosiddetta fecondazione eterologa, è stata finalmente depositata e il suo testo reso noto. Esaminamo dunque insieme i punti fondamentali della sentenza.
Secondo la Corte, la scelta della coppia «di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, libertà che […] è riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., poiché concerne la sfera privata e familiare». Ancora, «la determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali, e ciò anche quando sia esercitata mediante la scelta di ricorrere a questo scopo alla tecnica di PMA di tipo eterologo, perché anch’essa attiene a questa sfera». La Corte ricorda insomma che esiste un vero e proprio diritto a diventare genitori, diritto che in prima istanza è negativo, e che in questo caso consiste dunque nella protezione dall’interferenza dello Stato e di chiunque altro nel libero accordo tra genitori e medici disposti a fornire loro i servizi della procreazione assistita. Ovviamente, come nota ripetutamente la Corte, questo diritto – come moltissimi altri – non è assoluto, ma va contemperato con la tutela di «altri interessi di rango costituzionale», nella ricerca di «un ragionevole bilanciamento tra gli stessi».
Il fatto che con la fecondazione artificiale di tipo eterologo i figli siano solo parzialmente (o anche per nulla) figli genetici della coppia, non muta sostanzialmente le cose, in quanto «il progetto di formazione di una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli, anche indipendentemente dal dato genetico, è favorevolmente considerato dall’ordinamento giuridico, in applicazione di principi costituzionali, come dimostra la regolamentazione dell’istituto dell’adozione». La sentenza prosegue, con una mossa argomentativa particolarmente felice: «La considerazione che quest’ultimo mira prevalentemente a garantire una famiglia ai minori […] rende, comunque, evidente che il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa». Provo a parafrasare: è vero che nell’adozione, a differenza che nella fecondazione eterologa, si vuole dare una famiglia al bambino e non un bambino alla famiglia; ma poiché appunto all’adottato si dà una famiglia, vuol dire che la famiglia prescinde dal legame genetico; se gli adottanti sono pur sempre genitori e l’adottato pur sempre figlio, ecco allora che il diritto alla filiazione può benissimo essere soddisfatto con un figlio geneticamente non proprio.
La Corte, nel seguito, afferma che la «disciplina in esame incide, inoltre, sul diritto alla salute, che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, va inteso “nel significato, proprio dell’art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica” […] e “la cui tutela deve essere di grado pari a quello della salute fisica” […]. Peraltro, questa nozione corrisponde a quella sancita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo la quale “Il possesso del migliore stato di sanità possibile costituisce un diritto fondamentale di ogni essere umano” (Atto di costituzione dell’OMS, firmato a New York il 22 luglio 1946) […] è, infatti, certo che l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme al proprio partner, mediante il ricorso alla PMA di tipo eterologo, possa incidere negativamente, in misura anche rilevante, sulla salute della coppia, nell’accezione che al relativo diritto deve essere data, secondo quanto sopra esposto». Questa è, in un certo senso, l’altra faccia dello stesso diritto alla filiazione di cui parlavamo sopra; diritto che, se insoddisfatto, conduce per la Corte a una perdita di salute psichica. Qui, forse, insito nel ragionamento della Corte, si potrebbe intravvedere il pericolo di una «medicalizzazione» dei diritti, per cui ogni diritto negato – all’istruzione, al lavoro, al giusto processo, etc. – si trasformerebbe in elemento stressante e quindi in problema potenzialmente sanitario (cosa che, naturalmente, di fatto spesso finisce per essere, ma non in via principale). Certamente la dimensione medica della questione è più che ovvia, ma solo per il fatto che, secondo la parte rimasta in piedi della legge, all’eterologa si potrà ricorrere solo in presenza del problema medico della sterilità e dell’infertilità, e perché la fecondazione eterologa, che a questo problema vuole ovviare, è una tecnica a carattere squisitamente medico. Poco male, comunque, perché anche partendo da questa seconda prospettiva le conclusioni non sarebbero differenti da quelle tratte dalla Corte: «In coerenza con questa nozione di diritto alla salute, deve essere, quindi, ribadito che, “per giurisprudenza costante, gli atti dispositivi del proprio corpo, quando rivolti alla tutela della salute, devono ritenersi leciti”»; «Un intervento sul merito delle scelte terapeutiche, in relazione alla loro appropriatezza, non può nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica del legislatore, ma deve tenere conto anche degli indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi a ciò deputati».
Un punto importante è che, ponendo l’accento sull’aspetto sanitario, il diritto alla filiazione acquista ora anche la natura di diritto positivo, cioè implica un dovere di intervento attivo da parte di qualcuno – in questo caso, lo Stato e i medici, stante l’esistenza riconosciuta nel nostro paese di un diritto alla salute che viene declinato in gran parte proprio come diritto positivo a ricevere cure mediche. (Non meriterebbe di essere confutato lo sciocco sofisma che nega all’eterologa la qualità di terapia, in quanto incapace di curare la sterilità o l’infertilità; con questo ‘ragionamento’ non costituirebbe terapia neppure la dialisi o l’applicazione di un pacemaker.)
Per il resto la sentenza dimostra come il tanto paventato «vuoto normativo», che si sarebbe venuto a creare in seguito a una dichiarazione di illegittimità costituzionale, in realtà non esiste; le norme necessarie sono infatti in parte già contenute in ciò che resta della legge 40, in parte desumibili da altre norme «mediante gli ordinari strumenti interpretativi». Rimane fuori la questione del numero delle donazioni (che per ogni singolo donatore non può superare un limite ragionevole), per cui la Corte invoca «un aggiornamento delle Linee guida», cui si potrà provvedere senza problemi e speditamente. Sembra rimanere anche fuori la questione, assai più delicata, del diritto delle persone nate in seguito all’applicazione della fecondazione eterologa a conoscere i propri genitori genetici. Qui la Corte fa riferimento alle norme analoghe esistenti per i figli adottivi, ma non mi è chiaro se il ricorso agli «ordinari strumenti interpretativi» possa valere anche in questo caso. La norma in questione, ad ogni modo, è l’art. 28 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (e successive modifiche), «Diritto del minore ad una famiglia», che recita nei commi rilevanti:
4. Le informazioni concernenti l’identità dei genitori biologici possono essere fornite ai genitori adottivi, quali esercenti la responsabilità genitoriale, su autorizzazione del tribunale per i minorenni, solo se sussistono gravi e comprovati motivi. Il tribunale accerta che l’informazione sia preceduta e accompagnata da adeguata preparazione e assistenza del minore. Le informazioni possono essere fornite anche al responsabile di una struttura ospedaliera o di un presidio sanitario, ove ricorrano i presupposti della necessità e della urgenza e vi sia grave pericolo per la salute del minore.Se trasponessimo questa norma al caso dell’eterologa, l’esito sembrerebbe scontato: se il donatore non vuole essere nominato, la sua identità dovrà rimanere ignota anche al figlio biologico. Ho la sensazione che la Corte, in modo purtroppo un po’ ellittico, voglia suggerire proprio questa strada: si noti come il §. 12 della sentenza si chiuda con il ricordo dell’invito che la Corte stessa rivolgeva al legislatore «a cautelare in termini rigorosi il […] diritto all’anonimato» in occasione della recente sentenza n. 278 del 2013, che ha sì dichiarato incostituzionale proprio il comma 7 della legge 184/1983, ma solo «nella parte in cui non prevede […] la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata […] – su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione» (corsivo mio). Il diritto all’anonimato ha – come ricordava in quell’occasione la Corte – una precisa e fondamentale finalità: «quella di assicurare, da un lato, che il parto avvenisse nelle condizioni ottimali tanto per la madre che per il figlio, e, dall’altro lato, di “distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi”». Ovviamente nel caso della donazione di gameti non si correrebbero rischi paragonabili all’abbandono in luoghi malsani o addirittura dell’infanticidio; eppure l’analogia – a mio parere – in una certa misura tiene. È un fatto empirico ben accertato che là dove l’anonimato è stato proibito ai donatori di gameti, le donazioni siano precipitosamente diminuite, e con esse le nascite. Si arriva così al paradosso che per garantire un diritto ai figli, quegli stessi figli non possano più nascere. È proprio questo che si dimentica sistematicamente quando si parla (o straparla) di eterologa: i ragazzi che lamentano – o che ci vengono detti lamentare – la mancata conoscenza del genitore biologico, come se qualcuno avesse loro sottratto questa vitale informazione, non sembrano rendersi conto che è stata proprio nella maggior parte dei casi questa assenza di informazione ad avere reso possibile la loro nascita; che non si dà il caso in cui avrebbero potuto contemporaneamente conoscere il nome del loro genitore biologico ed essere nati. Non so se è questo il ragionamento implicito compiuto dai giudici; ma potrebbe esserlo. Rimane poi il fatto che la rinuncia totale all’anonimato, e il conseguente calo drastico delle nascite, riprodurrebbero quel turismo procreativo che la Corte esplicitamente condanna, là dove denuncia l’ultimo «elemento di irrazionalità della censurata disciplina», che determina «un ingiustificato, diverso trattamento delle coppie affette dalla più grave patologia, in base alla capacità economica delle stesse, che assurge intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un diritto fondamentale, negato solo a quelle prive delle risorse finanziarie necessarie per potere fare ricorso a tale tecnica recandosi in altri Paesi».
5. L’adottato, raggiunta l’età di venticinque anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. Può farlo anche raggiunta la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. L’istanza deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza.
7. L’accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 [«La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata»].
È sulla questione dell’anonimato dei donatori che si giocherà l’ultima partita. Gli avversari dell’eterologa tenteranno con ogni mezzo di introdurre una disciplina draconiana, che in larga parte neutralizzi la decisione della Corte; già oggi su Avvenire Francesco Ognibene falsifica o fraintende gravemente su questo punto la lettera della sentenza («“Eterologa solo per gli sterili. E ora il legislatore sia saggio”», 11 giugno 2014, p. 11), arrivando a scrivere che «nessun anonimato è possibile per i donatori di gameti, alla cui identità i genitori e il figlio dell’eterologa avranno il diritto di accedere». Ognibene è seguito da Alberto Gambino, che in un’intervista (Viviana Daloiso, «“Il vuoto normativo resta. Donatori, niente anonimato”», ibidem) sostiene analogamente che «Rispetto al diritto del figlio nato da eterologa di conoscere le sue origini genetiche la Corte conferma il suo orientamento positivo, cristallizzando la responsabilità del donatore e il diritto del figlio a ricostruire la sua identità biologica. Il riferimento degli ermellini anzi è proprio alla normativa già vigente per i figli adottati. Nessun diritto all’anonimato, dunque». Gambino afferma anche che «Il vuoto normativo […] viene in parte ammesso dalla stessa Consulta e per garantire la piena operatività dei centri ora servirà che qualcuno lo colmi, o il ministro o il legislatore». In realtà, come scrivevo poco tempo fa, l’eterologa tornerà a essere del tutto lecita al momento della pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta Ufficiale; i centri non hanno bisogno d’altro per operare. Un eventuale, improvvido decreto del governo che cedendo alle pretese di qualche alleato vietasse loro di procedere, riprodurrebbe di fatto la normativa appena cassata e sarebbe pertanto manifestamente incostituzionale (a meno di prevedere una sospensiva con scadenza estremamente ravvicinata); il Presidente della Repubblica lo rispedirebbe certamente al mittente.
14 commenti:
A questo punto peccheremmo di immodestia nel ricordare che gli argomenti utilizzati dalla Consulta sono sostanzialmente gli stessi che citavamo nelle polemiche referendarie? Quando argomentavamo che questa legge sempliemente faceva a pugni col dettato costituzionale e non sarebbe mai passata al vaglio della Corte? Che chi l'aveva scritta oltre che un settario baciapile era pure un minus habens giuridicamente parlando?
Comunque adesso, se non altro, sappiamo chi era dalla parte della ragione e chi dalla parte del torto. E non sarebbe neanche male se ora le coppie costrette al turismo procreativo in questi dieci anni facessero causa per danni allo Stato.
Grazie per l'ottima ricostruzione. Sulla caduta dell'anonimato della donazione di gameti i commenti che citi sono senz'altro frutto di malafede o, peggio, di pessima capacità di lettura della sentenza. La Corte usa l'esempio dell'adozione e della richiesta della madre di non essere nominata solo per dimostrare come il temperamento fra diritto a conoscere le proprie origini e anonimato non abbia mai portato a vietare le pratiche che consentono una genitorialità non genetica. Il divieto assoluto di fecondazione eterologa, basato sull'argomento della tutela del diritto all'identità genetica, è quindi irragionevole e sproporzionato. Quando poi però la Corte ricostruisce la disciplina vigente, che consente di ritenere che non sussista alcun vuoto normativo in materia di donazione di gameti, fa chiaro ed esplicito riferimento alle norme vigenti sulla donazione di tessuti e cellule umani, che prevedono: gratuità e volontarietà della donazione, consenso e, testuali parole, "anonimato del donatore"(d.lgs. 191/2007). A ordinamento vigente, quindi, la donazione di gameti è sicuramente anonima e, per la Corte, questo non è assolutamente un ostacolo alla sua legittima pratica in Italia.
Secondo me la Corte, là dove parla dell'adozione, ha in mente qualcosa di più di un mero esempio, e sta cercando di proporre un modello. Qui però siamo nel campo dell'interpretazione (a meno che tu non sia uno dei giudici costituzionali... :-)
Sulla donazione dei gameti hai certamente ragione; però credo che qui si stia parlando di un anonimato di default - ovviamente nessuno vuole che i nomi dei donatori finiscano in elenchi pubblicamente accessibili. A partire da questo si pone poi la questione separata dell'accesso all'identità.
Vero, qui siamo nel campo dell'interpretazione e no non sono un giudice costituzionale.
Però se volessimo ritenere che la Corte suggerisce un modello, mi parrebbe molto più coerente quello relativo alla mancata menzione della madre nell'atto di nascita. Un anonimato garantito, ma rimuovibile con il consenso della persona interessata. Un pò come accade in GB per le donazioni effettuate prima dell'introduzione del diritto del nato a conoscere l'identità del donatore una volta raggiunta la maggiore età.
A proposito del diritto del nato a conoscere la sua provenienza, tuttavia, non si può non notare come, rispetto ai casi dell’adozione e della scelta materna di non essere menzionata nell’atto di nascita, l’ipotesi della fecondazione eterologa presenti delle peculiarità rilevanti. I donatori di gameti, infatti, non possono essere configurati come “genitori”, sia pure solo biologici. Nel momento in cui ci si separa, donandolo, da un proprio gamete non c’è alcun “figlio”. Il gamete ha la possibilità di dare effettivamente luogo ad un embrione vitale soltanto se unito ad un altro gamete e l’embrione ha la possibilità di svilupparsi soltanto una volta impiantato in un utero femminile. Dal gamete al figlio, quindi, il percorso è lungo e coinvolge altri individui. Su quali di questi possano essere alla fine chiamati “genitori” l’ordinamento, attraverso l’articolo 231 del codice civile, ma anche attraverso la legge 40, parla chiaro: si tratta dell’uomo e della donna che formano la coppia nell’ambito della quale il figlio nasce. Ciò naturalmente non fa venire meno il diritto a conoscere la propria identità genetica, ma certamente consente di tutelarlo in forme diverse da quelle previste nei casi in cui si sia separati dai propri genitori naturali. Ad essere oggetto di conoscibilità ad esempio possono essere, così come accade in Spagna, informazioni generali sui donatori senza che ne sia rivelata l’identità, salva l’ipotesi del pericolo certo per la vita e la salute del bambino nato.
Grazie comunque oer questa occasione di discussione.
Alessandra
Alessandra:
"Però se volessimo ritenere che la Corte suggerisce un modello, mi parrebbe molto più coerente quello relativo alla mancata menzione della madre nell'atto di nascita".
Mi pare che sia proprio questo che ha fatto la Corte (nella mia interpretazione, almeno). La mancata menzione rende il figlio adottabile, in generale.
Per il resto sono d'accordo con le tue osservazioni.
Sul discorso dell'anonimato/conoscibilità del donatore:
C'è un preciso momento in cui la Corte afferma che tutti i diritti imputabili alla coppia e concernenti in sintesi il diritto alla genitorialità ovvero a formare una famiglia con figli non sono di per sé validi a censurare il divieto di eterologa senza prima "accertare se l'assolutezza che lo connota sia l'unico mezzo per garantire la tutela di altri valori costituzionali coinvolti dalla tecnica in esame".
La Corte afferma più oltre che "l'unico interesse che si contrappone ai predetti beni costituzionali è, dunque, quello della persona nata da PMA", citando i rilievi dell'Avvocatura per cui quest'ultimo, senza l'assolutezza del divieto, "sarebbe leso a causa sia del rischio psicologico correlato ad una genitorialità non naturale, sia della violazione del diritto a conoscere la propria identità genetica".
In merito al "diritto all'identità genetica" (sui rischi psicologici non ci sono accenni), e, in linea con le premesse, quanto alla via per tutelarlo quel che basta a rendere incostituzionale l'assolutezza del divieto di eterologa, la Corte cita appunto la disciplina riguardante i casi di adozione.
Non ne deriverebbe un obbligo del legislatore nel prevedere forme di conoscibilità - e dunque un divieto di anonimato assoluto - stante il rischio di rendere del tutto sfumato il "ragionevole punto di equilibrio delle contrapposte esigenze" che "la PMA coinvolge"?
Che fine fa, in definitiva, questo fantomatico bilanciamento che la Corte pure spesso richiama?
Fil: secondo me, infatti, la Corte nel proporre come modello il caso dell'adozione addita al legislatore proprio un esempio ragionevolmente felice di equilibrio di interessi.
Tieni presente che il diritto a conoscere la propria identità genetica ha anche valore per la protezione della salute fisica della persona concepita con l'eterologa (nel caso di patologie ereditarie), e con un'interpretazione un poco generosa - ma che mi sembra possibile - dell'art. 28 della 184 (a cui peraltro non è detto che si debba rimanere pedissequamente attaccati) si potrebbe sostenere che il rilascio di questo tipo di informazione possa, se espresso in forma adeguatamente anonimizzata, non contrastare con il diritto alla non menzione.
Per il resto, direi anch'io che l'anonimato non debba essere assoluto, e che si debba lasciare alla volontà del donatore - verificata poi nel tempo, secondo la sentenza n. 278 - se comunicare o meno il proprio nome. Naturalmente nella maggior parte dei casi il consenso non ci sarà; a me pare che con il ragionamento che facevo nel post (non originale, del resto) si possa superare ogni argomento contrario. Senza anonimato non c'è un figlio che sa il nome del ‘genitore’ biologico: non c'è al contrario nessun figlio. Forse è un ragionamento troppo filosofico e troppo poco giuridico per stare in una sentenza della Corte.
Mi iscrivo al partito di coloro i quali ritengono che la sentenza dica tutto quel che ha da dire. A livello di superficie, un punto di ragionevole equilibrio è automaticamente realizzato dalla bocciatura dei commi di legge censurati. La mia personale lettura è che questa censura abbia automaticamente eliminato un bilanciamento che era irragionevole, lasciandone per converso e tautologicamente in piedi uno ragionevole: si voleva tutelare maggiormente di come non lo si fosse già fatto un diritto del nato, e per farlo si è negato un diritto forse più fondamentale in modo irrazionalmente draconiano. Il ritorno allo status quo, con il compendio della parte rilevante e ancora valida della legge 40, è per la Corte un punto di equilibrio ragionevole, nel senso che esso tiene comunque anche conto, almeno parzialmente, del citato diritto del nato.
Ora, nessuno nega che possa esistere un punto di equilibrio ancora più valido che tuteli anche maggiormente il diritto del nato, ed è questo a mio avviso che la Corte sottolinea, come a voler dire: se l'intento legittimo del legislatore era rafforzare quel diritto, allora esso si adoperi per trovare un altro punto di equilibrio diverso da quello che questa sentenza prospetta, ma senza pretendere né che non esista alcuna tutela per il nato altrimenti, né che questa operazione possa di nuovo portare ad un risultato irragionevole per la coppia.
Quindi, in questo senso, l'invito implicito al legislatore non è quello di operare con urgenza perché manchi del tutto o in parte un ragionevole punto di equilibrio, ma di operare con libera discrezione ad essere, se lo ritiene, coerente con le motivazioni del 2004. Cosa che, detto a latere, secondo me non accadrà nei termini suggeriti proprio perché non è mai stato quello l'intento profondo del legislatore.
Infine, mi sia consentito speculare sul fatto che la Corte abbia preso atto che la classe politica italiana non ha un briciolo della serietà della pur per molti versi irresponsabile classe politica di trent'anni fa, che avrebbe preso carta e penna e seguito i rilievi di costituzionalità nello scrivere una nuova norma, senza fiatare e con rispetto dei ruoli. Quella di oggi semplicemente non agisce, o addirittura reitera l'errore di principio, di fronte ad appelli a correggere o riempire vuoti (appelli che vengano dai tribunali, italiani e non, o dall'Europa stessa). La Corte, forse, ha cominciato ad agire di conseguenza, mettendo nero su bianco che le sue sentenze non possono essere alibi o terreno di caccia.
P.S.: mi incuriosisce la naturalezza con cui la Corte sembri "condividere" le norme "anti eugenetica", e mi chiedo se considererebbe mai che il divieto assoluto per le coppie non sterili non cozzi col diritto alla salute loro e prima di tutto del nascituro.
Paolo: sul tuo post-scriptum, forse è solo un'impressione (che peraltro a tratti ho avuto anch'io), e la Corte sta semplicemente dicendo che le altre norme non sono state impugnate, e quindi non possono essere oggetto di giudizio.
Sul resto sono sostanzialmente d'accordo.
Sì, forse sono stato pessimista, ma l'estensore pure un po' sbrigativo. Una chiave di lettura ottimista di quanto scritto potrebbe essere: siccome la legge nientemeno vieta a chiunque non sia fertile di accedere a qualunque tecnica, e quindi esclude fini eugenetici, giocoforza qui si sta parlando solo ed esclusivamente di salute.
Ma sarebbe stato davvero altrimenti, in un caso diverso? No, se appunto in un'ipotetica legge si dicesse che, fertile o meno, la coppia può accedere alla tecnica per motivi di ordine medico (e qui rientra in gioco la competenza del medico). I giudici sembrano quasi voler trovare una garanzia a sostegno della propria tesi, ma che non era realmente dovuta.
Cosa c'entrino gli scopi eugenetici non è comunque chiaro: se si intende la totale libertà di scegliere il donatore o le di lui/lei caratteristiche, a prescindere da qualunque considerazione di tipo medico, allora queste esclusioni sono altra materia e già normata. Se si intende in senso molto più vago e ampio il semplice uso della tecnica per fini diversi da quello medico, allora non è la sterilità della coppia che ponga alcuna garanzia logicamente tight: una coppia formata da due biondi con occhi azzurri potrebbe aver scelto di non aver figli perché non ne vorrebbe per alcun motivo biondi e con occhi chiari, poi però si scopre o diventa sterile e cambia idea per tentare la fortuna. Quindi la finalità terapeutica non entra mai in gioco, anche se la coppia è effettivamente infertile. Caso limite, lo so, ma la infertilità è un mero prerequisito, non una garanzia assoluta dello scopo del ricorso alla tecnica procreativa. Essa è tale, una terapia, solo ed esclusivamente per effetto del rapporto con il medico e delle sue valutazioni tecniche, di merito e motivazionali, ed il caso di infertilità è solo un solido hint che di tale situazione si stia parlando.
Ripensando all'argomento "troppo filosofico", in effetti forse lo è e non hanno sbagliato del tutto i giudici a scartarlo. Al più può costituire considerazione generica, ma non va oltre un valido (ed empirico, come da te definito) argomento di ordine razionale, filosofico, etico e morale.
Dal punto di vista giuridico, per converso, la Corte si interessa di soggetti giuridici: quindi la questione di evitare che una mamma rischi di fare male a sé e al feto oppure all'infante riguarda la difesa di due soggetti giuridici. Rispetto invece al discorso di coppie totalmente infertili e della loro possibilità di accedere alla fecondazione eterologa, ci si può ritenere soddisfatti che da un punto di vista giuridico si sia dichiarato incoercibile il diritto alla filiazione "a meno che". In questo ambito, i soggetti giuridici sono i genitori ed il nato, e solo questi vanno "bilanciati", quindi la Corte deve interessarsi della coppia e dell'altro soggetto giuridico, che dobbiamo considerare inevitabilmente come persona (con tutte le sue aspirazioni) solo dopo la sua nascita (del resto, non è dato sapere se un tale possa preferire non essere nato all'essere nato con l'impossibilità di conoscere i due genitori biologici). In altre parole, alla Corte non deve interessare sapere se il soggetto giuridico "figlio" avrebbe o meno preferito che accadesse questo o quest'altro prima che nascesse, ma deve occuparsi solo di quello che è nella sua facoltà di decidere una volta che è venuto al mondo: la sua aspirazione a conoscere un genitore biologico, che va sì valutata soppesandola alla volontà di quest'ultimo, va considerata per quello che è hic et nunc e non consta giuridicamente se questa aspirazione sia razionale o meno, coerente o meno.
In conclusione, il motivo di fondo per cui può essere in linea di principio accettata la volontà del donatore di rimanere anonimo - azzardo - è perché essendo il diritto dei genitori che ricorrono alla fecondazione eterologa non coercibile, allora l'anonimato (parziale o totale, opzionale, rinunciabile o meno) contribuisce a rendere praticabile l'accesso a quel diritto. In seconda battuta, permette al donatore di esercitare in questo senso azione "positiva", come un vero e proprio donatore di bene materiale che volesse mantenere l'anonimato sulle proprie opere di bene come condizione necessaria perché si adoperi per il prossimo. Si tratta, comunque, in ultima analisi, di proteggere il diritto degli aspiranti genitori.
L'anonimato non tanto "impedisce un esito negativo all'origine", quanto "incentiva all'origine azione positiva", che è solo l'altro lato della medaglia.
Paolo:
«In altre parole, alla Corte non deve interessare sapere se il soggetto giuridico "figlio" avrebbe o meno preferito che accadesse questo o quest'altro prima che nascesse, ma deve occuparsi solo di quello che è nella sua facoltà di decidere una volta che è venuto al mondo: la sua aspirazione a conoscere un genitore biologico, che va sì valutata soppesandola alla volontà di quest'ultimo, va considerata per quello che è hic et nunc e non consta giuridicamente se questa aspirazione sia razionale o meno, coerente o meno».
Nel mio argomento non c'è nessun riferimento a una scelta prima della nascita; la pretesa dei figli di conoscere il genitore biologico (per come ci viene riportata) non è irrazionale perché si concepiscono come già esistenti in un momento precedente al loro concepimento, ma perché non tengono conto del fatto di palmare evidenza che il donatore non ci sarebbe stato senza la possibilità di anonimato, e loro quindi non sarebbero esistiti. La loro lamentela sarebbe razionale se dicessero che la loro vita è intollerabile a causa del mancato rapporto con il genitore biologico, e che quindi sarebbe stato meglio che non fossero mai nati (come potrebbe dire un disabile gravissimo: come sai alcuni hanno fatto causa ai genitori). Ma non è questo che dicono - almeno, io non ho mai sentito fare un ragionamento simile. Abbiamo - mi sembra - solo degli adolescenti che risolvono il conflitto con i genitori proprio della loro età proiettando il loro desiderio di un genitore ideale sul fantasma del genitore biologico. Ma la lamentela non è solo irrazionale; è anche di poco conto - questa gente (sempreché esista veramente) non si sta suicidando in massa. La Corte ha fatto (o avrebbe fatto) bene a non tenerne conto.
«In conclusione, il motivo di fondo per cui può essere in linea di principio accettata la volontà del donatore di rimanere anonimo - azzardo - è perché essendo il diritto dei genitori che ricorrono alla fecondazione eterologa non coercibile, allora l'anonimato (parziale o totale, opzionale, rinunciabile o meno) contribuisce a rendere praticabile l'accesso a quel diritto».
Certo, dato che l'anonimato consente al donatore di evitare impegni futuri onerosi nei confronti dei figli biologici.
«[L]a pretesa dei figli di conoscere il genitore biologico (per come ci viene riportata) non è irrazionale perché si concepiscono come già esistenti in un momento precedente al loro concepimento, ma perché non tengono conto del fatto di palmare evidenza che il donatore non ci sarebbe stato senza la possibilità di anonimato, e loro quindi non sarebbero esistiti».
Non intendevo cosa diversa. Ma tutto ciò ha implicazione giuridica? Era questo che mettevo in dubbio. Condivido tutte le tue considerazioni, ma renderle giuridicamente pregnanti, se non erro, equivale a dire che il diritto all'anonimato del donatore è anche a tutela giuridica del figlio, anche se per via indiretta. Nel caso della rinuncia di maternità, questo argomento mi pare valido perché a tutela del soggetto giuridico stesso; in quest'altro caso non so, perché il soggetto giuridico non è ancora esistente. In un certo senso, sto prospettando che è per dare valenza giuridica a questa argomentazione logicamente valida che serve concepire i figli "come già esistenti in un momento precedente al loro concepimento". Nel caso di rinuncia di maternità, l'eventualità poco empirica che il figlio rimpianga di essere nato per il solo fatto di non poter conoscere la madre è superata dal fatto che il soggetto giuridico è stato difeso da un danno irreparabile, in quel momento in cui è stato tutelato dal codice, tramite l'adozione, presumendo che questo fosse il miglior corso di azione tra tutti i possibili. Nel caso di eterologa, non essendoci il soggetto giuridico di prima, neanche in potenza, si è valutato il diritto della coppia, non essendoci un "è meglio anche per il figlio" da poter soppesare.
Comunque, no, non sapevo di queste cause di figli ai genitori, cercherò i riferimenti.
Paolo: io rovescerei la prospettiva. Qui non si tratta di cercare quale beneficio apporti l'anonimato del donatore al figlio futuro, ma piuttosto di cercare quale danno (come nella pretesa degli integralisti). Ma questo danno non c'è. Tutto qui.
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