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domenica 19 ottobre 2008

I paradossi di Samek Lodovici

Può sembrare a volte che la riflessione morale – i nostri ragionamenti su ciò che è giusto o sbagliato, e sui principi in base ai quali decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato – non sia altro che l’espressione di opinioni personali, senza alcuna possibilità di raggiungere verità condivise. Eppure dei punti comuni esistono: è vero che anch’essi possono essere (e di fatto sono stati spesso) sottoposti a critica, ma da lì si deve partire. Sono, in sostanza, i principi su cui si basa ogni società liberale, quelli che sono incarnati – con una certa approssimazione – nelle costituzioni e nelle norme dei paesi democratici, compreso – con notevole approssimazione – il nostro.
Eppure c’è chi sembra ignorare totalmente questi principi: non perché ne proponga altri alternativi (almeno, non esplicitamente), ma per una forma di radicale incomprensione che sfocia, inevitabilmente, nel paradosso. Vediamo per esempio cosa scrive Giacomo Samek Lodovici su Avvenire di dieci giorni fa («Non c’è un’autodeterminazione di Stato», 9 ottobre 2008, Inserto È Vita p. III):

obbligando i medici in nome dell’autodeterminazione del malato si calpesta quella dei primi
«La mia libertà finisce dove comincia la tua»: si penserebbe che tutti conoscano questa massima notissima (magari nella forma più pittoresca «La mia libertà finisce dove comincia il tuo naso»). Ognuno di noi possiede una sfera personale inviolabile, costituita dal nostro corpo, dalla nostra mente, dalle nostre proprietà (beh, queste possono fare parzialmente eccezione, almeno per gli agenti delle tasse...), in cui gli altri possono accedere solo col nostro permesso. Nessuno mi può mettere le mani addosso, se non col mio consenso, neppure il medico che vuole salvarmi la vita. Io, specularmente, non posso obbligare il medico a fare – a farmi – qualcosa che vada contro la sua scienza e la sua coscienza (a meno che egli non abbia un obbligo contrattuale che lo impegna in tal senso: il limite tanto spesso ignorato dell’obiezione di coscienza è proprio questo), ma è assolutamente chiara, qui, la differenza fra obbligare a fare e obbligare a non fare.
Certo, si può dire che il divieto di interferire nella sfera personale degli altri limita comunque la mia libertà: mi piacerebbe tanto prendere a schiaffi A. o dare un bacio a B., e non posso farlo, perché nessuno dei due lo vuole. Ma questa limitazione della mia libertà è, per così dire, qualitativamente diversa da quella che subirei se fosse A. a dare uno schiaffo a me, o C. a darmi un bacio non richiesto. Le due quantità non possono essere sommate, se non a prezzo di gravi paradossi: il fanatico salutista che mi rapisse per disavvezzarmi al fumo di sigaretta non solo potrebbe portare a giustificazione il mio bene ‘oggettivo’, ma potrebbe anche sostenere che il rispetto della mia libertà non costituisce in nessun modo un ostacolo, visto che se non gli fosse consentito di rapirmi sarebbe la sua libertà di vedermi libero dal vizio a venire frustrata.
Inoltre (eccetto casi rarissimi), quando apparentemente disponiamo solo di noi stessi, in realtà incidiamo anche sugli altri: per esempio, il suicida priva gli altri del contributo che egli solitamente (e, a volte, doverosamente) fornisce loro e provoca un dolore lacerante nelle persone che gli vogliono bene. E chi si suicida con l’assistenza e l’approvazione dei suoi cari incide negativamente su chi prova disapprovazione e dolore per tale suicidio assistito.
Cominciamo col notare che se suicidandoci priviamo gli altri dei contributi che dobbiamo loto fornire, è anche vero che allo stesso tempo gli altri vengono esentati dal contributo che devono per reciprocità fornire a noi: una risposta, questa, che risale al saggio On suicide di David Hume, pubblicato nel 1783 – ma capisco che non tutti possiamo mantenerci aggiornati, con la valanga di libri che si pubblicano. Quanto al dolore provocato nelle persone che ci vogliono bene, esso dovrebbe essere più che compensato dall’addolcimento del dolore che esse provavano (sperabilmente) a vederci nelle condizioni che ci hanno portato a un passo così estremo.
Ma è con l’ultima osservazione che di nuovo Samek dimostra di non cogliere la distinzione fra le varie sfere personali. Di primo acchito si sarebbe portati a riconoscere che c’è qualcosa di vero in quanto dice: anche con azioni di portata assolutamente privata noi possiamo agire in qualche modo sugli altri, visto che non essendo invisibili è possibile – e in certi casi, come appunto nel suicidio, inevitabile – che qualcosa di quello che facciamo traspaia e influenzi la vita altrui. Ma di nuovo, ciò non può essere assolutamente confuso con l’azione diretta che tocca direttamente le altre persone. Se lo fosse, ci troveremmo alla mercé della disapprovazione della folla anche per quanto succede nella sfera personale, che non godrebbe più di quella intoccabilità che invece le dobbiamo accordare; la nostra stessa esistenza sarebbe in pericolo, se ci capitasse per qualsiasi motivo di costituire un gravissimo obbrobrio agli occhi dei più. Immagini Samek Lodovici cosa succederebbe se con la scusa che la transustanziazione ricorda loro disgustosamente un atto di cannibalismo, una futura maggioranza decidesse di mettere al bando la messa cattolica...
Dunque se io sono malato e rifiuto di iniziare delle terapie salvavita chiaramente proporzionate, come si devono comportare gli altri e lo Stato? Essi hanno il dovere di implorarmi a iniziarle. Ma se non riescono a convincermi?
Come si evince anche dalla più diffusa (non l’unica) interpretazione dell’articolo 32 della Costituzione, se essi riescono ad appurare (cosa spesso molto difficile) che io sono lucido e autonomo (il che avviene di rado), devono tollerare a malincuore che io rifiuti tali terapie, sebbene questo mio atto (un suicidio) sia malvagio: non devono impormele coercitivamente perché (questo è il punto) farebbero violenza sul mio corpo. Almeno così mi pare (ma ritengo importanti anche le ragioni di chi la pensa diversamente). Tollerare a malincuore un atto malvagio è, tuttavia, ben diverso da cooperare a compierlo, come invece fa chi – già solo sospendendo delle terapie salvavita – asseconda la volontà di morire di un uomo, uccidendolo come egli chiede o come ha chiesto redigendo il testamento biologico.
Qui il paradosso si fa stridente. Che differenza c’è mai fra rifiutarsi di iniziare una terapia salvavita e sospenderla? Se il primo atto costituisce una «violenza sul mio corpo», non lo è anche il secondo? Se lasciando accadere il primo si «asseconda la volontà di morire di un uomo», non si fa la stessa cosa tollerando il secondo? Si badi: non intraprendere e interrompere sono entrambi omissioni, e quindi non si può invocare una qualche distinzione fra eutanasia attiva e passiva. Proprio non si riesce a capire – e forse non ha capito neppure Samek, vista la profusione di espressioni dubitative con cui costella il paragrafo...
Inoltre il testamento biologico di chi non riesce più a comunicare e che ha scritto in passato che esige di non iniziare/sospendere delle terapie proporzionate non va assecondato, anche perché è un dato di fatto che, nella maggior parte dei casi, le persone che inizialmente chiedono l’eutanasia cambiano successivamente idea: l’esecuzione del testamento sarebbe proprio la trasgressione della loro volontà. Non siamo certi che abbiano cambiato idea, però è la cosa più probabile e, se siamo in dubbio sulla volontà attuale del soggetto, per il principio di precauzione dobbiamo somministrargli terapie proporzionate perché si deve optare per il bene del malato.
Siamo all’ultima confusione. Chi chiede l’eutanasia può cambiare idea (lasciamo da parte se ciò succeda «nella maggior parte dei casi») perché è cambiata la situazione in cui si trova, nella progressione della malattia e delle terapie. Ma nel caso del testamento biologico il paziente non può aver cambiato idea, perché per definizione non ha più la capacità di avere idee; non ha una volontà attuale perché per avere una volontà bisogna essere coscienti, e se si è coscienti allora non occorre esibire il proprio testamento biologico. La volontà del paziente privo di coscienza non può essere che l’ultima volontà che ha espresso quando ancora poteva, e questa è appunto – in ottima approssimazione – quella comunicata nelle direttive anticipate. E noi dobbiamo evitare di somministrargli terapie, perché si deve optare per quello che il malato sa essere il suo bene.

giovedì 15 novembre 2007

God Party

Ieri Giacomo Samek Lodovici si è superato (Lo conosciamo e ci conosce. Questa è la vera festa, 14 novembre 2007), ha raggiunto vette di tale commozione da rendere necessaria molta cautela per quanti si apprestano a leggerne le parole tracciate sulla carta. Non mettetevi a singhiozzare dalla emozione.
Si inizia con la corretta definizione del cristianesimo, che non si limita ad essere “solo un insieme di divieti, che impediscono all’uomo di cogliere le più intense soddisfazioni della vita”. Anzi, il cristianesimo è gioia e felicità, e lo ha ricordato anche quello vestito di bianco nella sua prima messa (Lodovici, in segno di rispetto, scrive “Messa”):

Benedetto XVI ha insistito: «Chi fa entrare Cristo [nella propria vita] non perde nulla, nulla, assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande». Il Papa lo aveva poi ribadito ai giovani della Gmg di Colonia: «La felicità che cercate, la felicità che avete il diritto di gustare, ha un nome, un volto: quello di Gesù di Nazareth […]. Solo lui dà pienezza di vita!».
Uno dei problemi di questa definizione di cristianesimo è che per chi ha già abboccato è superflua; per chi andrebbe convinto è assolutamente risibile. A meno che non la si prenda dal lato accidioso, e la si intenda come una descrizione della vita di chi prende i voti: mantenuto, rispettato nonostante tutto, con bambini a disposizione (volendo, si intende), con colf gratuite – che quando protestano vengono mandate via e così via. Ma qualcosa mi dice che Lodovici non stesse pensando a questo risvolto.
Benedetto XVI ha insistito varie volte su questo concetto. Per esempio in un discorso (che, pur essendo un gioiello, passato quasi inosservato) tenuto ai vescovi svizzeri il 9 novembre di un anno fa, in cui spiega che le norme morali vanno osservate e non le si può ignorare, ma il cristianesimo non è un moralismo bensì opera di grandezza. In questo discorso il Papa unifica i due temi complementari sviluppati nell’enciclica, che verte su Dio come Amore, e nella lectio di Ratisbona, che verte su Dio come Logos, cioè Ragione. Sulla scorta di Agostino, Benedetto XVI dice: «Dio è Logos e Dio è Amore – fino al punto di farsi totalmente piccolo, di assumere un corpo umano e alla fine di darsi come pane nelle nostre mani». Anche alla Gmg il Papa aveva parlato dell’«inconcepibile grandezza di un Dio che si è abbassato fino al punto di mostrarsi nella mangiatoia e darsi come cibo sull’altare». Ora – prosegue il Papa nel discorso ai vescovi che stiamo citando – «questi due aspetti del concetto cristiano di Dio dovremmo sempre tenere presenti e far presenti. Dio è Spiritus creator, è Logos, è Ragione. E per questo la nostra fede è una cosa che ha a che fare con la ragione, può essere trasmessa mediante la ragione e non deve nascondersi davanti alla ragione».
Chissà cosa intende Lodovici con moralismo. Chissà cosa intende dicendo che le norme morali non possono essere ignorate. Letteralmente non è affatto vero, ovviamente. E allora in che senso? Perché non dire che è preferibile rispettare le norme morali? Forse è solo questione di scelta stilistica del nostro, ma vorrei ricordargli che la mera esecuzione di norme è molto lontana dalle opere di grandezza.
Chissà come riesce a citare il discorso di Ratisbona senza vergognarsi. Poi ripete le insensatezze note del cattolicesimo: farsi uomo, essere divorato per secoli e secoli, le mai comprese parentele trinitarie e così via. E il tentativo di accaparrarsi la ragione che ultimamente è di gran moda; e Lodovici non si tira indietro. E introduce la stoccata finale.
Se si trascura questo aspetto di Dio, si cade negli errori del fideismo, che ignora il fecondo sostegno che la ragione può fornire alla fede, o nella guerra santa, che pretende di imporre la fede con la violenza. Ma – aggiunge il Papa – questa Ragione eterna ed incommensurabile, non soltanto una matematica dell’universo e ancora meno qualche prima causa che, dopo aver provocato il Big Bang, si è ritirata. Questa Ragione, invece, ha un cuore, tanto da poter rinunciare alla propria immensità e farsi carne e in ciò sta […] l’ultima e vera grandezza della nostra concezione di Dio. Infatti, noi Lo conosciamo ed Egli conosce noi. E possiamo conoscerLo sempre meglio, se rimaniamo in colloquio con Lui.
Capito? Avrà mai tenuto tra le mani un manualetto di scienze? Si sarà mai domandato qual è il senso delle affermazioni che fa con tanta disinvoltura? Che la ragione abbia un cuore è davvero notevole. Non so come materializzare la Ragione per darle un cuore, ma forse Lodovici non voleva dire “cuore” letteralmente. Se uno vi dice che colloquia con dio cosa fate, chiamate la neuro o vi inginocchiate ammirati?
Ratzinger-Benedetto XVI lo ha ribadito anche nel suo Gesù Nazareth (p. 67), dove spiega che Gesù non ha portato la pace nel mondo, né il benessere per tutti. Dunque, che cosa ha portato? La risposta è molto semplice: Dio. Ha portato Dio. […] Solo la nostra durezza di cuore ci fa ritenere che ciò sia poco. Il Papa aggiungeva ancora ai vescovi: Nietzsche addirittura ha detto: Solo se Dio non esiste possiamo far festa. Ma ciò un’assurdità: solo se Dio c’è ed Egli ci tocca, può esserci una vera festa.
Lodovici sente la necessità di ricordarci che Ratzinger e Benedetto XVI siano la stessa persona, come se qualcuno potesse dimenticarlo dal momento che è la star della tv, onnipresente sui telegiornali e sui giornali. Io rinuncio al tentativo di capire, perché quando uno mi dice che Dio ha creato tutto, etc. etc., e poi mi dice che Gesù ha creato Dio mi si confondono le idee. Buona festa, dunque, per quanti sono toccati da Dio (ma se ne accorgono? Come fa a toccarli Dio se è immateriale?).

mercoledì 12 settembre 2007

Anniversari

Giacomo Samek Lodovici giustamente ci ricorda un anniversario cruciale (Nel discorso di Ratisbona lo spartiacque della ragione, Avvenire, 12 settembre 2007):

Il 12 settembre di anno fa Benedetto XVI pronunciava la sua lectio magistralis a Ratisbona. Non è qui possibile riassumere per intero questo discorso strepitoso (che ha sollevato polemiche pretestuose, non sempre in buona fede), perciò ci limiteremo a rimarcarne l’insegnamento più importante per l’uomo della strada. Ebbene, la lectio ha messo in luce l’aspetto di Dio come Ragione e va letta in sinergia (lo cominciò a sottolineare da subito Francesco Botturi su questo giornale) con l’enciclica Deus Caritas est, che si è soffermata su Dio come Amore.
Magari strepitoso va inteso nel significato letterale (qualcuno si è lamentato del tono troppo alto). Senza dubbio l’uomo della strada non finirà di essere grato per avere imparato che Dio è Ragione (o che la Ragione è Dio, se c’è equivalenza funziona pure così). Ma Dio è anche Amore (e però bisogna intendersi, perché c’è amore e amore).
Proprio sul retto amore Samek ci offre in conclusione qualche consiglio da posta del cuore:
sia evitare l’emotivismo, che è la riduzione dell’amore a sentimento (che è pur importante nella vita), visto come unico criterio dell’agire (cfr. il diffuso modo odierno di vivere le relazioni affettive non solo pre, ma anche matrimoniali), sia bandire le forme di falso amore (come l’eutanasia e l’aborto).
Tutto chiaro?

lunedì 13 agosto 2007

Samek Ludovici e la Bomba

Qualche giorno fa Giacomo Samek Ludovici commemorava a modo suo la ricorrenza del lancio della bomba atomica su Nagasaki («Diamo un orizzonte d’umanità alla straordinaria e tragica scienza», Avvenire, 8 agosto 2007):

Era il mattino del 9 agosto 1945 quando un bombardiere B-29 sganciò su Nagasaki una bomba nucleare, come quella già lanciata il 6 agosto su Hiroshima. Le due bombe ebbero effetti devastanti e produssero ovunque distruzione e morte: morirono, all’istante o in seguito, per le radiazioni, tra sofferenze atroci, circa 150.000-200.000 persone, in maggior parte civili inermi. La ricorrenza di quest’ignominiosa sconfitta dell’umanità dovrebbe fare riflettere in questi tempi in cui, per fare solo pochi esempi, in Italia è ripreso il dibattito sulla fecondazione artificiale, in Inghilterra il rapporto parlamentare per la revisione della legge circa le pratiche procreative chiede che si possano produrre embrioni umani per avere pezzi di ricambio, e in Spagna, Belgio, Svezia, Giappone, Australia, Israele, Corea, Singapore e nella stessa Inghilterra è stata già approvata la clonazione terapeutica. Se la storia è magistra vitae, l’indicazione ricavabile dalla distruzione delle due tristemente note città giapponesi è quella della necessità di una limitazione etica e legislativa della scienza. Invece, sono sempre più numerosi gli scientisti che reclamano l’immunità per la scienza e rifiutano che il suo esercizio sia disciplinato; tutt’al più, alcuni ritengono che, se una limitazione dev’esserci, non deve avvenire tramite leggi dello Stato, bensì solo mediante un’autoregolamentazione degli scienziati. Ma che tale autolimitazione sia tutt’altro che scontata lo dimostra appunto la vergognosa pagina scritta a Hiroshima e Nagasaki.
Samek Ludovici trasforma dunque Hiroshima e Nagasaki in due esperimenti scientifici. Il presidente Truman, il segretario alla difesa Henry L. Stimson, il generale Leslie Groves, la guerra stessa, impallidiscono e quasi scompaiono, lasciando sulla scena solo un gruppo di mad scientists, che decidono autonomamente di far scoppiare due bombe atomiche per «vedere l’effetto che fa», respingendo con sdegno ogni limitazione alla libertà di ricerca.
Nessuno nega, naturalmente, il ruolo decisivo degli scienziati nella costruzione delle bombe, e anzi anche nella decisione di avviare il Progetto Manhattan, a partire dalla lettera di Einstein e Szilárd a Roosevelt; ma come tutti sanno – tranne Samek Ludovici – questo coinvolgimento era stato determinato dal timore che la Germania nazista sviluppasse per prima armi atomiche (timore che si rivelerà poi infondato, ma soltanto a guerra finita); non a caso, molti degli scienziati impegnati erano ebrei esuli dall’Europa invasa dai tedeschi. La curiosità scientifica avrà anche avuto un ruolo, ma questo praticamente scompare di fronte alle esigenze militari e politiche dell’epoca: quella di Samek Ludovici è la visione allucinata di un moderno cacciatore di streghe.

Ancora più di questa falsificazione della storia, tuttavia, dà da pensare l’equivalenza morale che il nostro (come tanti dei suoi compari) instaura fra la morte atroce di centinaia di migliaia di persone innocenti e le moderne pratiche procreative. Il culto dell’embrione dà qui il suo frutto ultimo e più avvelenato: se, al fine di contrastare aborto e fecondazione in vitro, si fa della morte di ogni embrione un assassinio, allora il fatto che con la morte di una persona scompaiono anche le sue speranze, i suoi sogni, i suoi affetti, la sua coscienza, diventa necessariamente irrilevante, visto che l’embrione non possiede nulla di tutto ciò. La morte viene ridotta a puro fatto biologico, semplice interruzione del metabolismo, unico denominatore comune fra l’ovocita fecondato e lo scolaro morto a Hiroshima; e al medesimo modo viene ridotta a puro fatto biologico la stessa umanità. Il culto dell’embrione, con i suoi sacerdoti e i chierichetti alla Samek Ludovici, rappresenta oggi senza ombra di dubbio il massimo pericolo per l’umanesimo.

venerdì 6 luglio 2007

Samek Lodovici, ma che dici?

Su Avvenire di ieri Giacomo Samek Lodovici ci delizia con due bellissimi non sequitur sulla legge 40 («Queste regole tutelano l’uomo», 5 luglio 2007, p. 3):

Vietando infine la diagnosi preimpianto, che a volte produce malformazioni, diminuisce il rischio di aborti causato da questo motivo.
Ma la diagnosi preimpianto (che comunque – è notizia recentenon produce più malformazioni della normale fecondazione in vitro) serve proprio a rivelare la presenza di anomalie genetiche. Anche avendo a che fare con un gene recessivo, come nella fibrosi cistica, significa che in un caso su quattro si dovrà poi ricorrere all’aborto terapeutico. Il rischio di aborto aumenta, non diminuisce.
la legge 40 vietando l’eterologa tutela anche chi è già nato e dunque è da tutti considerato un uomo. Infatti l’eterologa sceglie di rendere un uomo orfano dalla nascita del padre o della madre biologici.
Nell’universo abitato da Giacomo Samek Lodovici, vietando l’eterologa il bambino che sarebbe nato ‘orfano’ si trasforma magicamente in un bambino, «già nato», dotato dei due regolamentari genitori biologici. Nell’universo abitato dal resto del genere umano, invece, vietando l’eterologa non c’è più nessun bambino, dato che evidentemente almeno uno dei potenziali genitori è affetto da una forma di sterilità non curabile.
Adesso capisco perché la rubrica di Samek Lodovici su Avvenire si chiama «Contromano»...

domenica 29 aprile 2007

Il prete felice

La convinzione che i preti sono infelici e frustrati sarebbe, secondo il nostro Giacomo Samek Lodovici, molto diffusa (e commenta, “temiamo”). Ma niente paura, perché oggi (Fare il prete la professione più felice, Avvenire, 29 aprile 2007),

Giornata delle vocazioni, possiamo riferire di uno studio che smentisce completamente questa visione. Infatti, da una ricerca del General Social Survey dell’Università di Chicago, risulta che i membri del clero sono la categoria “professionale” più felice e gratificata negli Stati Uniti. Il dato si riferisce al periodo 1972-2006 ed è stato ricavato su un campione di più di 50.000 americani. I ricercatori si aspettavano che le professioni più gratificanti fossero quelle più prestigiose e remunerate. Invece, a dispetto del disprezzo con cui sono spesso visti e del loro modesto salario, i più soddisfatti del loro lavoro sono risultati proprio preti e pastori.
Facciamoci due conti: non rischiano il licenziamento, non rischiano proprio niente direi (follia a parte, ma questo è un rischio equamente distribuito, e poi andrebbe affrontato all’origine, all’epifania della vocazione), non vanno in cassa integrazione, se peccano sono perdonati (e siccome per molti vale l’equivalenza peccato=reato la cuccagna si allarga!), godono di una rispettabilità e di una affidabilità che per molti è gravoso conquistare (sì, magari un po’ di smalto è venuto via per quelle malelingue che raccontato di abusi e violenze su bambini e su altre persone in nome di Gesù, ma si sa che le malelingue vanno tenute a bada e che farebbero di tutto per rovinare il prossimo), hanno un potere assolutorio (vero o presunto) che riempie di presunzione e di crassa soddisfazione, coltivano la filastrocca che gli sbagli sono sempre rimediabili e perdonabili, un paio di preghiere e l’anima torna candida, al contrario della fedina penale dei civili. La descrizione della felicità (professionale)!
Vi risparmio l’apologia su dovere-amore del Lodovici.

martedì 27 marzo 2007

Se lo dice lui...

Giacomo Samek Lodovici, Il cristianesimo come ossigeno per l’Europa (anche) laica, Avvenire, 27 marzo 2007:

La nostra civiltà scaturisce da diverse sorgenti, ma l’eredità più importante è quella cristiana, come si evince dal seguente inventario di otto lasciti.

1) La dignità umana: il cristianesimo per primo ha conferito una dignità inviolabile ad ogni uomo, donna (che perciò è uguale all’uomo), bambino, quale che sia la sua cultura, ceto, religione, etnia, ecc.
2) La libertà individuale di ogni essere umano: nessuno uomo può essere ridotto in schiavitù ed è libero addirittura di fronte a Dio, libero di amarLo o vilipenderLo.
3) La premura verso tutti i malati: non è un caso che l’ospedale (come luogo dove vengono curati tutti i malati, nessuno escluso) sia stato gestito dalla Chiesa fino al XVIII secolo.
4) La solidarietà verso tutti i poveri, e non solo verso quelli del proprio gruppo, religione, ecc..
5) La sollecitudine verso tutte le vittime (cioè verso tutti coloro che versano in condizioni di oppressione, di ignoranza, di ingiustizia) e quindi il senso di colpa per gli eventuali crimini verso altre culture.
6) La dignità di ogni lavoro (mentre presso i Greci e i Romani solo l’attività intellettuale era veramente stimata): non è un caso che la scienza e la tecnologia si siano inizialmente sviluppate al massimo grado proprio in Europa.
7) La sensibilità ecologica, quale contrappeso ad un uso spregiudicato della tecnologia, perché per il cristianesimo l’uomo è sì l’essere più nobile, ma deve amministrare il mondo e rispettarlo perché non appartiene a lui bensì a Dio.
8) La separazione tra religione e politica («date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»): per il cristianesimo le leggi religiose non devono coincidere (come invece avviene nelle teocrazie) con le leggi dello Stato (devono coincidere solo quelle – per esempio la legge “non uccidere” – che sono contenute anche nella legge morale naturale e solo se vietano lesioni dirette e gravi del bene comune), e lo Stato non è la fonte della verità, del bene e della salvezza (come affermano i totalitarismi).

domenica 4 febbraio 2007

Pacs: automobili progettate per non durare

Nella sezione Famiglia di Avvenire trovo l’ennesima invettiva sui Pacs, sebbene si chiami “obiezione” (L’obiezione. Lo Stato protegga i legami stabili, 26 gennaio 2007, di Giacomo Samek Lodovici).
Ogni parola è incantevole, ma il passaggio che mi seduce è:

Il matrimonio è una forma di relazione che ha un valore pubblico e il diritto riconosce che l’unione familiare ha un significato sociale, in quanto, anche se i coniugi si amassero poco, assicura la continuazione di una società e la migliore protezione dei figli.
Cercando qua e là “Giacomo Samek Lodovici” mi imbatto in un articolo meritorio di attenzione, pubblicato dal nostro con il titolo No ai Pacs, in nome della laicità, su Il Timone in data 11 dicembre 2006.
Poi non dite che non ci aveva messo in guardia.
L’articolo inizia con un “Dunque, (virgola)” che mi fa venire in mente tutte le buone regole di scrittura che i tanti insegnanti hanno provato a inculcarci nel corso degli anni – evidentemente senza successo.
Ma il fallimento pedagogico si dimentica presto.
Samek Lodovici (posso chiamarti “Giacomo” che è più facile?) inizia dalla fine. Rovinerebbe un romanzo giallo anticipando il finale; ma qui si scrive di questioni serie e non di maggiordomi assassini. Perciò Giacomo ti avverte subito che quanto deve dimostrare è il rifiuto di
una qualsiasi equiparazione tra il matrimonio e queste forme di unione. Non è una questione di fede, basta essere “laici” per sostenerlo.
Infatti, lo Stato deve incentivare quelle forme di vita che contribuiscono al bene comune ed il maggior contributo consiste nella procreazione e nell’educazione dei figli, che assicurano la sopravvivenza di una società. Ora, il contesto più propizio per la nascita, la crescita e l’educazione di un uomo è una relazione interpersonale stabile.
Oh, oh. Quante sicurezze apodittiche! Quante verità indiscutibili!
Giacomo poi si affida agli studi per dimostrare che i non sposati sono fedifraghi e infedeli. Trascuro per ora gli studi citati da Giacomo e tutti gli altri studi che non ha citato perché sono attratta da un altro argomento: le unioni omosessuali.
Venendo alle unioni omosessuali, esse non possono contribuire alla continuazione della società mediante la procreazione. Possono farlo adottando dei bambini? Ciò vorrebbe dire quanto meno, privare volutamente dei bambini della figura paterna/materna. I dati finora a disposizione indicano che i bambini affidati a queste coppie hanno una propensione molto più alta a soffrire di disturbi psicologici, ad avere poca autostima, alla tossicodipendenza e ad autolesionarsi, almeno per i seguenti tre motivi. Primo: l’assenza della figura materna/paterna. Secondo: la fragilità dei rapporti omosessuali, molto più brevi dei matrimoni, con o senza figli. D. McWirther e A. Mattison, due ricercatori gay, hanno esaminato 156 coppie omosessuali: solo 7 di queste avevano avuto una relazione esclusiva, ma nessuna era durata più di 5 anni. Inoltre, un’indagine su 150 omosessuali ha mostrato che il 65% già a 40 anni aveva avuto più di 100 partner. Terzo: da altre ricerche si vede che gli omosessuali hanno una probabilità superiore di soffrire di problemi psicologici.
Esilarante la postilla, buttata lì con noncuranza da Giacomo, ai due ricercatori (sono gay, non potete sospettarli di inquinare i risultati). Ma soprattutto le inferenze di Giacomo dai dati presenti in The Male Couple (pubblicato nel 1984 e relativi a coppie di San Diego): non sei un buon genitore se hai molti rapporti omosessuali e se non hai un rapporto esclusivo; non sei un buon genitore se hai la sfiga di essere da solo (perché sei vedovo o perché sei stato mollato); non sei un buon genitore se hai un rapporto fragile; non sei un buon genitore se soffri di disturbi psicologici.
Risultato: sono proprio pochi i buoni genitori (ovvero quelli che non hanno nessuna delle quattro piaghe suddette).
Non so a quali studi si riferisce Giacomo per affermare che “i bambini affidati a queste coppie hanno una propensione molto più alta a soffrire di disturbi psicologici, ad avere poca autostima, alla tossicodipendenza e ad autolesionarsi”. Ma esistono studi che affermano il contrario di quanto Giacomo dice. Per fare solo un esempio, (How) Does the Sexual Orientation of Parents Matter?, 2001, Judith Stacey e Timothy J. Biblarz, “American Sociological Review”, 2001, Vol. 66, pp. 59-183.
Ma è necessario leggere con attenzione studi e numeri. Altrimenti si inciampa in qualche inferenza affrettata...
Giacomo chiude con una metafora strabiliante e un monito terrorizzante. In mezzo una ulteriore dimostrazione della fallacia dei Pacs addirittura proveniente dalla Antropologia Culturale. Però.
I matrimoni sono come automobili progettate per funzionare per tutta la vita e possono rompersi, ma gli altri tipi di unione sono come automobili progettate per funzionare solo per un certo periodo, dopo il quale si rompono quasi sempre: il vincolo giuridico matrimoniale ed il diverso atteggiamento dei coniugi rafforzano l’impegno.
Ancora, l’antropologia culturale mostra che la ritualizzazione (per esempio la cerimonia nuziale) di un impegno accresce la capacità di rispettarlo.
Infine, i coniugi assumono i doveri di coabitazione, di curarsi reciprocamente, di contribuire ai bisogni della famiglia, di versare gli alimenti in caso di separazione o divorzio, ecc. Se il governo attribuirà ai conviventi i diritti dei coniugi, ma non gli stessi doveri, i coniugi saranno discriminati.