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giovedì 23 novembre 2006

La preghiera è il giusto farmaco

Qualche giorno fa, a Milano, si è svolto un convegno sulla meditazione come medicina per rispondere a domande cruciali come: La fede può favorire la guarigione? Di fronte al dolore, all’impotenza del limite, la preghiera può rappresentare il giusto farmaco? (La preghiera, un farmaco, Avvenire, 17 novembre 2006.)

Fin qui la reazione è un sorriso bonario (mica si può sempre stare a criticare, no? Che facessero i convegni sulle questioni più assurde).
Però il sorriso (bonario e forzato) muta in disappunto e in desolazione leggendo le dichiarazioni di Massimo Cacciari.

Secondo Massimo Cacciari, «se il pensiero rende migliore l’uomo e in fondo lo guarisce, la preghiera non può essere vista in contrapposizione astratta al pensare: infatti, per molti filosofi pensiero e preghiera coincidono. Così è per Filone, per Plotino, per la patristica, la scolastica, per i mistici. Anche dal punto di vista formale non è possibile introdurre una separazione tra pensiero e preghiera, se non nel nesso teoretico». Prosegue Cacciari: «Quando Kant parlava di “abisso della ragione”, denunciava il limite entro il quale la filosofia non ha più risposte. Questo limite è la scoperta che la percezione dell’esistenza delle cose è essa stessa un limite alla conoscenza. È di fronte a questo “bonum” che l’analisi e la dialettica cedono ed emerge qualcos’“altro”. Questo “altro” ha la forza della preghiera o almeno è quello che comunemente chiamiamo “preghiera”».
Nutro l’ingenua e poco diffusa idea (in Italia) che la filosofia possa tornare utile per chiarire termini e concetti. E che sia autonoma rispetto alla religione e, soprattutto, che eserciti una critica razionale nei confronti del pensiero religioso.
Fatta questa premessa, (mi) chiedo: che cosa esattamente sarebbe la contrapposizione astratta? Forse una contrapposizione alla contrapposizione sostanziale? Magari è una imprecisione del giornalista.
Ma andiamo avanti: tutti i filosofi citati da Cacciari a dimostrazione dell’idillio tra pensiero e preghiera sono, come dire, vecchiotti. Non solo nati vissuti e morti prima di Darwin, ma anche prima di Copernico. Filosofi dell’era glaciale, insomma. Gente che non si è sporcata le mani con la scienza, per carità (ecco, anche io ho quasi pregato).
Quanto alla impossibilità di distinguere tra pensiero e preghiera, se non nel nesso teoretico (ma che sarà, poi, ’sto nesso teoretico?), l’affermazione è o inutile o assurda. Inutile se significa che pensiamo e preghiamo con lo stesso strumento e la distinzione è nell’oggetto. Assurda se l’identità formale strizza l’occhio ad altro (non si può non avere la tentazione di aggiungere alla lista le allucinazioni, i sogni, le visioni).
Quanto al qualcos’altro che avrebbe la forza della preghiera è davvero angosciante che non ci sia nessuna altra buona idea. Possibile che varcato il limite della conoscenza, sbattuto il muso contro l’assenza di risposte, ci si ritrovi con un rosario in mano?
Non basta aggiungere: o almeno è quello che comunemente chiamiamo “preghiera”. Non basta.

E, per usare le parole di Gianfranco Ravasi:
La preghiera, dunque, è di tutto l’uomo, di tutti gli uomini: filosofi e religiosi, sani e malati, credenti e non credenti, agnostici e atei convinti. Ravasi: «Anche la bestemmia, come conferma il libro di Giobbe, è una forma di preghiera. Esprime un’istanza metafisica, tipica della preghiera degli atei, nel limite e nella solitudine: è una forma di superamento del limite imposta dall’impotenza che l’uomo avverte per sé».
Andate in pace.

PS
Se vi viene mal di testa, 4 avemaria dovrebbero fare al caso vostro.
Mal di pancia: 3 padrenostro e una preghierina a un morto di famiglia.
Non esitate a scriverci per avere risposte caso per caso. PrayerDrug® risponderà.

venerdì 31 marzo 2006

Inutili preghiere (di intercessione)

Mi ricordo che mia nonna diceva a proposito degli sprechi di soldi (o di quelli che percepiva come tali): ma ce l’hanno in più?
È quello che si è tentati di chiedere al dottor Herbet Benson, cardiologo e direttore del Mind/Body Medical Institute vicino a Boston, e responsabile di uno studio quantomeno singolare (Long-Awaited Medical Study Questions the Power of Prayer, New York Times, 31 marzo 2006).
Le preghiere di altri aiutano i malati di cuore? No, non è una ricerca sugli effetti dell’LSD, ma proprio sugli effetti delle orazioni sui pazienti che affrontano un intervento cardiaco.
La risposta è no. Nessun beneficio. Anzi, i pazienti che sono a conoscenza che qualcuno sta pregando per loro soffrono maggiormente di complicazioni postoperatorie rispetto a quelli cui nessuno dedica una prece, torturando un rosario tra le dita. Forse, suggeriscono i ricercatori (beh, certo, non è l’unica ipotesi esplicativa possibile), a causa delle aspettative che le preghiere alimentano, una specie di ansia da prestazione (“a kind of performance anxiety”). Un effetto placebo al contrario, più o meno.
Secondo quanto riportato dal New York Times, questo è lo studio scientificamente più rigoroso condotto finora. È iniziato oltre dieci anni fa, e ha coinvolto 1800 pazienti. E quanti soldi? Duemilioniquattrocentomila dollari, la maggior parte proveniente dalla John Templeton Foundation. (Il governo ha speso una cifra simile per la ricerca sulle preghiere dal 2000 ad oggi.) E, a proposito, ce l’aveva in più la John Templeton Foundation? E il governo?

Secondo i fautori della (sensatezza della) ricerca la preghiera è la risposta migliore alla malattia (e qui non si possono invocare i metodi automatizzati come giustificazione, purtroppo). Gli scettici la considerano uno spreco di soldi e un ammiccare a presupposti soprannaturali.
Quelli che pregano per i pazienti dal cuore debole hanno la libertà di farlo nel modo che preferiscono, con l’unica condizione di inserire la frase: “For a successful surgery with a quick, healthy recovery and no complications!!”.
Perché, in caso di omissione, non funzionerebbe la preghiera? In effetti, senza formula magica la zucca non si trasforma in lussuoso cocchio. A voi la scelta: scettici o creduloni (e magari anche beneficiari delle preghiere altrui…).

Benson ci tiene a precisare che la ricerca non può costituire l’ultima parola sugli effetti delle cosiddette preghiere di intercessione. Tuttavia ha stimolato fondamentali domande riguardo alla modalità e alla opportunità di dire ai pazienti che sono oggetto di preghiere (ma saranno davvero benevoli queste preghiere?).
Secondo gli esperti, l’ostacolo principale consiste nell’ignorare il numero di preghiere che ciascuna persona riceve, preghiere di amici, di familiari o di sconosciuti che pregano per gli ammalati e i moribondi (se non fosse lampante, un simile ragionamento ammette tra le premesse indubitabili l’efficacia delle preghiere, il cui numero, ovviamente, incide sul loro effetto: ma non era quello che si voleva ‘ricercare’?).

Bob Barth, direttore spirituale del Silent Unity, ha dichiarato: “A person of faith would say that this study is interesting, but we’ve been praying a long time and we’ve seen prayer work, we know it works, and the research on prayer and spirituality is just getting starter”.

Mr. Marek, che lavora in un centro medico simile alla Mayo Clinic a Rochester, ha confermato: “You hear tons of stories about the power of prayer, and I don’t doubt them”.
Anche Mr. Marek è cappellano? Non che serva come giustificazione di ragionamenti inconcludenti, ma psicologicamente sarebbe più comprensibile.

(Man Ray, La Priére, 1930)