giovedì 31 luglio 2008

La ripugnante unità del PD su Eluana Englaro

Il senso di estraneità e di disappunto mi strappa dal silenzio che avevo abbracciato riguardo ad Eluana Englaro (soprattutto perché il mio silenzio segue la esplicita manifestazione di come la penso, se a qualcuno potesse interessare). Ma soltanto per un commento fugace alle dichiarazioni del PD per bocca di alcuni dei suoi.

Oggi il Pd con una sofferta mediazione ha offerto una importante manifestazione di unità e di compattezza non partecipando al voto sul conflitto di attribuzione». Lo affermano i deputati del Pd Binetti, Bobba, Carra, Calgaro, Lusetti, Mosella, Ria, Sarubbi. E aggiungono: «Vogliamo che Eluana viva, riconoscendo anche alla sua esistenza attuale il diritto a vivere e riaffermando che nessuno può assumersi la tragica responsabilità di togliere la vita ad un’altra persona».
(Il Corriere della Sera, Eluana, sì della Camera al conflitto di attribuzione, 31 luglio 2008).

Mediazione: purtroppo il risultato di una mediazione, che significa una media più o meno aritmetica di addendi alcuni dei quali sono drammaticamente in negativo, offre un risultato inevitabilmente merdoso. Alcuni addendi andrebbero eliminati perché non rispettano le regole del gioco, non perché siamo cattivi. Quando ti dicono che puoi giocare a pallone se segui il regolamento e tu entri e prendi a calci il portiere della squadra avversaria ti cacciano. Solo gli esaltati continuano ad urlare arbitro cornuto. La mediazione sui diritti civili è pericolosa e fuori fuoco: sulla libertà personale non dovrebbe esserci alcuna media(zione) a patto che le mie decisioni non danneggino altri. E le questioni di fine vita sono esemplari: io decido per me e non venitemi a fare la paternale. Non è pertinente che Eluana non possa esprimersi (perché lo ha fatto quando poteva; perché oggi non può e non potrà in futuro; perché lo scenario è quello di un legittimo rifiuto di terapie, e le due condizioni necessarie - quella di irreversibilità dello stato vegetativo e la ricostruzione della sua volontà - sono state ben trattate dalla sentenza, ma dubito che i commentatori si siano disturbati a leggerla).
Unità: sarebbe importante approfondire il contenuto di una unità. Rischia di essere una contentezza pericolosa perché troppo formale. Sareste contenti di trovarvi in accordo con un gruppo di persone che picchia e sevizia un cane? Ciò che conta è cosa si sta facendo uniti, non essere uniti e basta. Il PD (o almeno i suoi portavoce) si accontentano di essere compatti su questa ennesima manifestazione di ipocrita e paternalistico buonismo (ad essere spaziosi di cuore nel definirlo).
Viva: Binetti dimentica di specificare come sia la vita di Eluana. Meramente biologica, priva della minima coscienza e percezione. Il “Vogliamo che viva” è di una volgarità rara. E lascia intendere che loro vogliono che viva, mentre quel farabutto del padre (e quelli che lo sostengono) se ne sbattono di Eluana, anzi la vogliono far crepare. Trovo queste parole ripugnanti - in senso tecnico. Inutile dire che a nessuno dei suddetti interessa cosa volesse Eluana.
Meglio riportare il parere di Vittorio Angiolini, avvocato della famiglia Englaro: “Per noi la situazione oggi è uguale a ieri, e identica a tre settimane fa: la Corte d’Appello di Milano, come poi confermato dalla Cassazione, ha autorizzato il signor Englaro a porre fine alle sofferenze della figlia, ed è quello che farà quando lo riterrà opportuno, né prima né dopo [...] La legge è chiara [...] per interrompere una sentenza esecutiva come quella della Corte d’Appello ci vuole una richiesta esplicita di sospensione alla stessa Corte, cosa che non è stata fatta. Ora la Camera presenterà il ricorso, la Corte Costituzionale deciderà in due battute sulla sua ammissibilità, e infine se davvero c’è stato conflitto. Nel frattempo, secondo qualcuno potrebbe sospendere l’atto impugnato, ma questo non è assolutamente mai successo”.

Rassicurazioni sul nucleare

I pochi che ancora non hanno capito, capiranno. Dopo tanti sacrifici, anni di lavoro e qualche vita umana, si è costruita questa modernissima centrale dove tutto è controllato e tutto è sicuro.
Claudio Scajola, Torrevaldaliga Nord (Civitavecchia), 31 luglio 2008.
Qualche vita umana (ovviamente non la sua o quella di qualche suo familiare o amico).

(Scajola è lo stesso che aveva dichiarato: la presenza di una scorta per il professor Marco Biagi avrebbe reso più difficile le cose per i terroristi.)

mercoledì 30 luglio 2008

Patriottismo


Il Giornale aggiunge una “o” che italianizza e rende più familiare il “poeta” (come nei sussidiari si leggeva Carlo Marx o Federico Hegel). Aggiungerei che non risulta che il nostro fosse mai morto.

venerdì 25 luglio 2008

Auguri, Louise!

Louise Brown compie trent’anni. Alcuni – che sostengono di amare la vita – pensano che sarebbe stato meglio che non fosse mai nata (e che sarebbe stato meglio che non fossero mai nati milioni di bambini come lei). Chissà se avrebbero il coraggio di dirglielo in faccia. Noi, invece, siamo contenti che ci sia, e le diciamo: auguri!

mercoledì 23 luglio 2008

Una storia di censura

Avete presente i PapaBanner, quei piccoli banner con la scritta «Sito scomunicato» o «Il Papa condanna questo blog» e dietro l’immagine di Ratzinger, presenti in moltissimi blog laici? Il Burbero Scontroso, che li aveva creati, racconta l’incredibile storia di intimidazione da parte di «esponenti della Curia» che ha portato alla scomparsa pressoché totale dei banner dalla rete. Una vicenda grottesca, che la dice lunga sullo stato della libertà di espressione in Italia (e sulla necessità assoluta di ricorrere a piattaforme blog straniere, non ricattabili come quelle locali).

martedì 22 luglio 2008

Avvenire e il ruolo della stampa

Il titolo lascia già presagire l’ennesima, gustosa storia di risvegli miracolosi: «Jesse, il risveglio più inaspettato», annuncia a pagina 12 Avvenire di oggi. I lettori cominciano a salivare, e subito Francesca Lozito serve loro un bell’osso:

Ha senso dire che non c’è più niente da fare? La storia di Jesse Ramirez sembrerebbe dimostrare proprio il contrario. La storia di un uomo, messicano, di 37 anni, che dopo mesi si è risvegliato dallo stato vegetativo in cui era caduto dopo l’incidente stradale e il coma. È accaduto proprio a ottobre dello scorso anno. Molti mesi prima Jesse Ramirez, dipendente postale e padre di tre figli, che vive in Arizona, era rimasto coinvolto, insieme alla moglie, in un terribile incidente stradale. I due si trovavano a bordo della loro jeep, quando l’uomo ha perso il controllo dell’auto, andando a sbattere violentemente in un negozio. La moglie Rebecca Chandler subisce lesioni meno gravi, ma per Jesse si capisce immediatamente che la situazione è più complicata: l’uomo entra subito in coma. Ha lesioni gravissime al cranio, al viso, costole rotte, polmoni danneggiati. Subisce numerosi interventi chirurgici.
Interrompiamo per un attimo la lettura e chiediamoci: quando è accaduto esattamente l’incidente? Se cerchiamo una data esatta nell’articolo non la troviamo; si parla prima di «mesi» di stato vegetativo, che subito dopo diventano «molti mesi», precedenti l’ottobre in cui – questa sembra l’unica cosa chiara – sarebbe avvenuto il miracoloso risveglio.
Avvenire, comunque, non ci racconta la storia di Ramirez solo per il prodigioso risveglio: subito dopo l’incidente la moglie di Ramirez era riuscita a far togliere il sondino che nutriva il marito, e solo il tempestivo intervento di un giudice era riuscito a impedire che l’uomo morisse. Fin qui la vicenda sembra un perfetto parallelo dei casi di Terri Schiavo e di Eluana Englaro, tranne che per l’epilogo molto più felice; e come tale ci viene presentata.
Ma giunge verso la fine una nota falsa. A detta dell’autrice dell’articolo «per la comunità scientifica americana la storia di Ramirez dimostra che esistono dei rari, ma possibili, episodi di ripresa dallo stato vegetativo». Ma episodi di ripresa dallo stato vegetativo si verificano ogni giorno; quelli che non si verificano sono le riprese da stati vegetativi molto lunghi (il record, assolutamente eccezionale, documentato in una pubblicazione scientifica è a quanto ne so di 30 mesi). Poco male, si dirà; la Lozito ha frainteso leggermente, e l’eccezionalità del caso risiederà in quei «molti mesi» di stato vegetativo. Come dubitare del suo giudizio, visto che riprende quello di due autentici esperti?
Afferma il dottor Steven Miles, del centro di bioetica dell’Università del Minnesota: «Quest’uomo si trovava in uno stato vegetativo persistente e non era senza speranza: possono esserci dei risvegli, seppur tardivi». È d’accordo il dottor Ausim Azizi, neurologo della Temple University School of Medicine: «Esistono delle evidenze mediche in questi casi. Anche se sono rare e sono legate alla natura del trauma subito».
E tuttavia, per chi conosce bene l’etica giornalistica di Avvenire, una verifica s’impone. E cominciano le sorprese...

Il 28 giugno del 2007 Dan Childs scrive un pezzo per ABC News («Pulling the Plug: Ethicists Debate Ramirez Case»). Da esso apprendiamo che «Ramirez has regained consciousness and recovered to the extent that he can interact with visitors» («Ramirez ha recuperato la coscienza e si è rimesso al punto da riuscire a interagire con i visitatori»). Insomma, al 28 giugno Ramirez si è già risvegliato; non a ottobre, come pretende Avvenire. Ma lo shock deve ancora arrivare. Perché ABC News è stata meno timida del giornale dei vescovi, e riporta chiaramente la data dell’incidente. E la data è il 30 maggio. Non del 2005 o del 2006; il 30 maggio di quello stesso 2007. Meno di un mese prima del risveglio di Ramirez. Altro che «molti mesi»!
Ora, la definizione di stato vegetativo persistente è univoca: questa condizione si ha se il paziente è rimasto in stato vegetativo per un mese o più (cfr. S. Laureys, A.M. Owen e N.D. Schiff, «Brain function in coma, vegetative state, and related disorders», Lancet Neurology 3, 2004, pp. 537-46, a p. 538). Quindi Ramirez non si è mai trovato, per definizione, in stato vegetativo persistente; e da ABC News viene persino il dubbio che si sia mai trovato in stato vegetativo: Childs spiega infatti che «Ramirez […] suffered traumatic brain injury in a May 30 car accident, which put him in a coma. He had been in this minimally-conscious state […]», dove l’autore fa qualche confusione; se di coma si trattava, allora Ramirez potrebbe essersi semplicemente risvegliato direttamente da questo stato, che ha ben poco a che fare con lo stato vegetativo. La circostanza (e l’intera vicenda) è confermata da un articolo della North Country Gazette di un giorno prima («Jesse Ramirez Conscious, Moved To Rehab Facility»):
after nearly a month in a coma following an automobile accident, Jesse has regained consciousness and is being transferred to a rehabilitation facility. According to several of Jesse’s friends and his court appointed guardian, he is conscious, shaking his head and answering yes and no questions.
La fiducia del lettore in Francesca Lozito è a questo punto duramente scossa; e non abbiamo ancora finito. ABC News riporta per esteso l’opinione di un bioeticista del Centro di bioetica dell’Università del Minnesota: sì, è proprio il dottor Steven Miles, che dice – sorpresa! – delle cose leggermente diverse da quelle che gli attribuisce la Lozito (cucio assieme le citazioni sparse nel testo):
This guy was not hopeless and in a persistent vegetative state by any means. It has no impact on the bigger debate of life support. This is by no means a miracle of any kind: traumatic comas are notorious for late wake-ups. This case is about a hasty clinical decision which should have never been made. […] stopping the feeding tube this close in time to the injury is actually pretty unusual. This is about malpractice, not about a persistent vegetative state.
Traducendo:
Questa persona non era senza speranza e non si trovava affatto in uno stato vegetativo persistente. La cosa non ha nessuna conseguenza sul dibattito più ampio a proposito del supporto vitale. Questo non è affatto un miracolo, di nessun genere: i coma di origine traumatica sono ben noti per i risvegli tardivi. Questo caso consiste in una decisione clinica affrettata che non avrebbe mai dovuto essere presa. […] fermare il sondino per l’alimentazione così vicino nel tempo all’incidente è in effetti parecchio inusuale. Questa è negligenza professionale, non stato vegetativo persistente.
Dovrebbe essere chiaro cosa ha combinato la nostra Lozito: non solo non ha capito che l’inglese «by any means» rafforzava una negativa, ma ha anche ignorato tutto quello che il buon dottore diceva dopo la prima frase.
Conclude Steven Miles:
I think the role of the press is to emphasize that he was not hopelessly ill. This is about a guy heading to rehab after a car accident.
Cioè:
Penso che il ruolo della stampa debba essere quello di sottolineare che l’uomo non era un malato senza speranza. Questa è la storia di un tizio che entra in riabilitazione dopo un incidente d’auto.
Sì, questo sarebbe il ruolo della stampa. Ma il ruolo della propaganda è un altro.

Indecisione

Commento o non commento? Dubbio amletico. Il fatto è che te lo ritrovi in hp di repubblica.it. Non che voglia dire molto. Ma apri la pagina e ti ritrovi in alto a destra il titolo e la foto con quella faccia da marsupiale albino e glabro. E ci rimugini. Pensi ad un modo per definire la notte brava: strafottenza? Ubriachezza molesta? Scherzo finito male?
No. La fotografia di un gran pezzo di realtà italiana. Ecco.

ps.
Il taxi era una Marea, dunque Fiat, dunque suo.

Intervista a Pino Petruzzelli

Pino Petruzzelli dirige il Centro Teatro Ipotesi ed è autore di Non chiamarmi zingaro (2008, Milano, Chiarelettere, con la prefazione di Predrag Matvejević).

«Continuo a dividere la mia vita con la paura. Devo nascondermi sempre perché qualche rom ha rubato. Ma se ha sbagliato lui cosa c’entro io? È lui che deve pagare, non io. Se lui finisce in galera, perché ci dovrei finire pure io?»

(Doro, rom rumeno, vive con la moglie e i due figli in una cascina in periferia di Milano).
Perché c’è tanto astio verso i rom? Quanto gioca l’ignoranza nella diffusa ostilità e nella perpetuazione di luoghi comuni quali “abbandonano i figli” o “sono dediti al furto”?

Alla base del razzismo di oggi c’è l’ignoranza: il fatto di non conoscere altre culture e altri mondi. Colpisce che si voglia andare in Kenya, ma poi c’è la pretesa di mangiare gli spaghetti. C’è poca voglia di confrontarsi con gli altri.
Mi ha molto colpito quanto è accaduto ad Opera, un’area vicino a Milano destinata ad accogliere alcuni rom. Dopo un presidio durato 53 giorni e la furia aggressiva di una parte di cittadini furibondi, uno dei presidianti – dopo avere urlato di tutto ai rom – scrive in una lettera: “peccato è finito tutto, era bello, eravamo tutti insieme a parlare e a fare la carne alla griglia o a guardare la partita di calcio. Adesso dobbiamo tutti tornare alla routine”.
La solitudine fa paura: andiamo a comprare le scarpe e se ci dicono che le hanno comprate in tanti ci sentiamo rassicurati. Questa solitudine, attraverso l’ignoranza, porta a considerare il diverso (il debole) come il “nemico”. Si fa un presidio davanti a un campo nomade, e non sotto casa del potente di turno, che magari ha rubato davvero!

Perché l’ignoranza non stimola la curiosità ma quasi sempre paura e condanna? L’omologazione è di una noia mortale…

C’è sempre la paura dell’ignoto che travolge la curiosità. Una volta i cattivi venivano dal mare.
Se pensiamo al proverbio “moglie e buoi dei Paesi tuoi”… Che poi i più belli e intelligenti nascono dagli incroci. C’è molta paura della novità. Abbiamo paura di metterci in gioco. C’è una insicurezza di fondo: e temiamo che gli altri ci facciano del male. Leopardi consigliava di considerare l’altro sempre come un nemico, così si possono avere solo belle sorprese. Magari invece è il contrario.
È vero che ci possono essere cattive sorprese, ma scoprire realtà nuove è sempre affascinante.

Portando alle estreme conseguenze questo ragionamento bisognerebbe chiudersi in casa (che poi non è nemmeno vero: basta leggere le statistiche degli incidenti domestici).

Infatti è consigliabile uscire! È più sicuro in giro. Che cosa hai fatto? Hai visto “Il grande fratello”, sei stato chiuso in casa, ma che cosa hai fatto in tutta la tua vita? È come avere una grande casa e vivere sempre nella solita angusta stanza. Magari non si riesce a visitarla tutta, ma almeno qualche stanza, almeno il bagno.
È inquietante non avere voglia di uscire. Sono sfinito dal sentire invocare la “sicurezza”. Sembra di vivere in una specie di coprifuoco eterno. Se chiedi “ti è successo qualcosa?” la maggior parte ti risponderà di no, però c’è una sensazione di pericolo costante e la tentazione di chiudersi in casa. Che poi, stando in casa, non avresti conosciuto la tua fidanzata. Nemmeno l’amante.
È terribile avere paura dell’incontro con culture diverse. Quale cultura è rimasta cristallizzata e ferma?

Walter, uno dei protagonisti di “Non chiamarmi zingaro”, afferma: quando 20 anni fa pensavo che gli italiani andavano in chiesa la domenica perché cattolici; oggi ho capito che invece è per chiedere perdono del male che fanno durante la settimana. Giudizio durissimo, ma difficile da contestare.

È terribile pensare che un partito ti dice “no alle moschee perché dobbiamo difendere le nostre radici cristiane”. È una contraddizione profonda con quanto dici di sostenere – cioè le radici cristiane (oltre alla discutibilità delle “radici cristiane”). Gesù avrebbe mai accettato di prendere le impronte digitali di un bambino perché appartenente ad una certa etnia. Non sono questi i suoi valori. È una insopportabile contraddizione, come tante altre. Diciamo di voler vivere nella natura e poi viviamo tutti dentro a un condominio! Parliamo a lungo di tante cose, ma poi viviamo in un modo completamente diverso.

Il paradosso di un rom responsabile della sicurezza di una banca o insegnate è tale solo per quanti accettano il luogo comune senza riflettere. Questi esempi posso essere di aiuto a combattere il pregiudizio o rischiano di attirare il sospetto sui singoli?

Parlare con chi la pensa diversamente è fondamentale – io cerco di fare questo. Gli esempi positivi sono importanti. Suscitare la sorpresa: “non sapevo che anche i rom si laureassero!”. Sembra una banalità, ma in molti non lo sanno.
È importante dirlo. Per demolire il luogo comune che il rom è quello che ruba i bambini. Io non voglio parlare di chi delinque o di chi ruba (tra l’altro spesso lo fa per sopravvivere e non per costruirsi l’ennesima villa). Se ha violato la legge è giusto che paghi (ma in quanto reo e non rom).

Impossibile non commentare la schedatura dei bambini rom nei campi nomadi.

Prima di tutto dubito che serva a qualcosa. Spesso i problemi sono di sopravvivenza, non di evitamento della galera. È una schedatura su base etnica, che altro dire? Il 70% dei rom sono italiani a tutti gli effetti. È disarmante.
Colpisce, inoltre, che ci si soffermi sulla necessità di schedare i bambini rom: con tutti i problemi che ha l’Italia, dalla disoccupazione alla penosa situazione delle scuole. È avvilente.
Non possiamo pensare ad un ritorno del nazismo o del fascismo nel modo in cui si sono manifestati: dobbiamo fare ancora più attenzione, perché il ripetersi non sarà nella forma nota, ma in un’altra. Oggi si chiede in modo gentile di prendere le impronte e non con i fucili spianati. La forma è diversa (“per favore posso farti una foto segnaletica?”), ma il contenuto è lo stesso – e questa discriminazione gentile è ancora più pericolosa. Ripeto: la forma sarà diversa. Non so quale sarà, la mia fantasia non ci arriva; ma dobbiamo stare attenti. Ognuno di noi può fare qualcosa, non è vero che siamo impotenti.

(Persona e Danno, 22 luglio 2008)

lunedì 21 luglio 2008

Quanta ignoranza nei commenti su Eluana Englaro

Peccato che l’abitudine di commentare e giudicare sia spesso orfana di una condizione necessaria: sapere cosa si sta commentando e giudicando.
Le reazioni alla decisione dei giudici di Milano sono state caratterizzate da ambiguità terminologiche e concettuali, a cominciare dall’agitare il fantasma dell’eutanasia.
Eutanasia che ritroviamo nel titolo dell’ennesimo articolo approssimativo e ignorante (ELUANA/Il caso arriva all’Ue: la magistratura non può decidere per l’eutanasia, Sussidiario.net, 21 luglio 2008) e che annuncia una interrogazione scritta (quelle orali si facevano a scuola, viene da pensare) alla Commissione europea e al Consiglio. Mario Mauro non ci dice chi ha presentato l’interrogazione.
Ma ne illustra le ragioni e la suffraga con domande retoriche che si sarebbero sgonfiate (o che avrebbero almeno cambiato formulazione) se Mauro avesse letto almeno la sentenza – sono 62 pagine, certo, ma sarebbe bastata una lettura veloce.

La sentenza della Corte d’appello civile di Milano rappresenta un pericoloso precedente volto ad orientare fatalmente il legislatore verso l’eutanasia.
La sentenza autorizza la sospensione di trattamenti sui quali è lecito e legittimo esprimere la propria volontà (e la richiesta di Beppino Englaro è di poter essere la voce di Eluana: se esiste un aspetto complesso e controverso è quello che riguarda la ricostruzione della volontà della ragazza, non la possibilità di sospendere i trattamenti che la tengono in vita).
Approfittando di un vuoto legislativo, si arroga il diritto di decidere su chi deve vivere e chi deve morire nel nostro Paese.
Niente del genere! Si cerca di stabilire che cosa avrebbe voluto Eluana e che cosa potrebbe essere nel suo migliore interesse, considerando il suo carattere e la sua personalità (di cui Mauro si disinteressa, e come i sostenitori ciechi della vita a qualunque condizione). Mai sentito parlare di libera volontà?
Cosa sappiamo noi di quello che una persona in queste condizioni sente, cosa sappiamo di cosa c’è dentro il cuore di queste persone?
Quale esperto potrebbe dichiarare, allo stato attuale, l’irreversibilità della condizione di stato vegetativo? E soprattutto, come si può considerare la dichiarazione di un momento come parametro per presumere la volontà di Eluana? La vita va difesa fino alla sua naturale conclusione e con essa va difeso altresì il principio dell’indisponibilità della vita stessa.
Se avesse letto la sentenza, appunto, avrebbe le risposte che cerca. Ma è più fascinoso porsi e porre domande (scorrette) ma intrise di mistero: cosa penserà? Cosa vorrà dirci?
Sono molti gli “esperti” che hanno dichiarato ciò che Mauro domanda come un bambino incredulo.
Riguardo alla non attualità della espressione della volontà viene da domandare: ciò che io ho dichiarato ieri su di me oggi non è più simile a me di quanto potrebbe dichiarare oggi per oggi un medico o qualcun altro che magari non mi conosce? Se esiste qualcosa che può chiamarsi personalità o identità, è legittimo inferire che abbia una influenza sulle nostre decisioni. Beppino, la curatrice speciale, le amiche di infanzia di Eluana hanno tratteggiato un carattere volitivo, libero, intollerante alle imposizioni. “Eluana ha più volte espresso l’idea che sarebbe stato meglio per lei morire subito piuttosto che restare costretta ad un’indefinita sopravvivenza meramente biologica”; oppure “non avrebbe sopportato di sopravvivere in condizioni tali da dover dipendere dall’altrui costante assistenza o tali da renderla un semplice oggetto sottoposto all’altrui volontà”. Le sue dichiarazione e la sua intera esistenza dimostrano che “sarebbe stato per lei inconcepibile che qualcun altro potesse disporre della sua vita contro la sua volontà e le sue scelte”.
Una delle motivazioni che si danno in favore dell’eutanasia e al suicidio assistito è che servano per alleviare le sofferenze delle persone, ma spesso queste nascondono una richiesta d’aiuto contro la solitudine, contro il fatto di sentirsi un peso per gli altri.
Sa Mauro qual è la condizione di Eluana? Ha idea di come siano le sue giornate? Sembra proprio di no. E colpisce che dichiarazioni simili venivano rilasciate come risposta a Piergiorgio Welby. “Se non fosse stato lasciato solo”. Che ipocrisia! E quale strafottenza: parlare senza rendersi conto che Welby e Eluana potrebbero costituire esempi di come assistere malati in modo impeccabile.
Hanno bisogno di assistenza, di essere ascoltati, dell’affetto e della vicinanza dei loro cari e di un’équipe assistenziale per tollerare la loro sofferenza con dignità.
Le istituzioni, da chi fa le leggi a chi controlla la loro applicazione, dovrebbero quindi occuparsi del problema alla base, di aiutare chi soffre con cure sempre migliori, personale qualificato e sostenere le famiglie degli assistiti.
Il finale è intriso di quel buonismo approssimativo tanto diffuso: se chiedi di essere lasciato in pace devi per forza essere trascurato e maltrattato. Non si prende in considerazione che si possa rifiutare un trattamento o un farmaco perché hai una idea diversa da quella che vede la vita – a volte ridotta a mera sopravvivenza – diventare un dovere e una condanna.

(Persona e Danno, 21 luglio 2008).

domenica 20 luglio 2008

Conformismo

Nemmeno ai suoi consigli? Agli insegnamenti di mamma chiesa? O quello è conformismo vedente?

La verginità realizza la sessualità

Vale la pena di leggere l’intervista ad Angelo Scola per intero (o forse no, tanto sembra un disco rotto e incantato sulla parte più noiosa). Una risposta è particolarmente interessante.

Non le manca mai il fatto di non essersi formato una famiglia?
«Ma la verginità, nel mio caso il celibato, è un altro modo di realizzare sino in fondo la propria affettività, compresa la propria sessualità.
Lo so lo so: a pensar male si fa peccato...

venerdì 18 luglio 2008

Il testamento biologico de Il Riformista


Non voglio entrare nel merito della proposta della Fondazione Veronesi, né sulle condizioni necessarie di una legge che non sia peggio della mancanza della legge (condizioni che oggi non esistono, e che probabilmente non esisteranno per molti anni), non voglio nemmeno ricostruire le intenzioni profonde de Il Riformista, in bilico come un funambolo ubriaco tra opposte fazioni.
Non voglio, infine, nemmeno soffermarmi sulle proposte recenti di presunte risoluzioni che travolgerebbero qualunque rimasuglio della nostra stropicciata libertà.
Sì, vabbeh, ma allora cosa voglio fare?
Rispondere al titolo. Ecco. Rispondere a quella domanda senza punto interrogativo. A CHE SERVE QUESTO MODULO.
A niente. E la mia risposta è gentile. Perché in testa ne avevo una lievemente diversa. Formalmente più brutale, ma prossima nei contenuti.

Anestesista obiettore: violata la legge?

Dal Corriere della Sera di ieri (Paola D’Amico, «Aborto, anestesista obiettore rifiuta di ridurre il dolore», 17 luglio 2008, p. 23):

Il medico anestesista di turno, dichiarandosi obiettore di coscienza, si rifiuta di alleviare il dolore a una giovane donna ucraina, che ha subito un aborto terapeutico per malformazioni del feto. È accaduto nei giorni scorsi all’ospedale milanese Niguarda. La donna viene ricoverata e l’8 luglio entra in sala parto. È quasi alla 22esima settimana della sua prima gravidanza. Le vengono somministrati i farmaci per indurre il travaglio abortivo. Lei urla per il dolore. Soffre molto, chiede aiuto. Ma l’anestesista si fa da parte: il feto è ancora vivo. «Non posso somministrare analgesia, sono obiettore», si giustifica.
Un aspetto importante della vicenda, che non ho visto ancora trattato da nessuna parte, è la possibile violazione della legge 194/1978, che all’art. 9 recita:
L’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento [corsivo mio].
La somministrazione di analgesici è una procedura «specificamente e necessariamente diretta a determinare l’interruzione della gravidanza»? Se i fatti sono quelli riportati, l’aborto è stato effettuato ricorrendo all’induzione del travaglio (probabilmente per mezzo della somministrazione di prostaglandine; non si tratta comunque di un’operazione chirurgica), e mi riesce impossibile capire come l’analgesia possa avere un ruolo causale nella prosecuzione del processo di espulsione del feto.
Forse l’anestesista ha pensato che l’analgesico potesse danneggiare direttamente il feto? Ma l’analgesia o l’anestesia sono interventi di routine durante un parto normale, e possono avere addirittura un effetto positivo indiretto sul feto, diminuendo lo stress del travaglio; non sono un esperto, ma non vedo bene perché nelle circostanze in esame le cose dovrebbero stare diversamente.
Si potrebbe forse sostenere che la legge impone «l’assistenza antecedente e conseguente all’intervento», non quella «contemporanea» all’intervento; ma questo sarebbe cavillare: dal testo si capisce chiaramente che l’assistenza obbligatoria è tutta quella non «specificamente e necessariamente diretta a determinare l’interruzione della gravidanza»; ogni possibile conflitto interpretativo cade se delimitiamo correttamente cosa si intende per «intervento».
Fatte salve le eventuali puntualizzazioni di un esperto di ostetricia, mi pare insomma che la violazione della legge ci sia tutta.

Impronte digitali

Si intenda: è per la sua sicurezza. Del felino, voglio dire.

Il caso di Eluana (lettera al Corriere della Sera)

Che sia necessario arrivare a una posizione condivisa in fatto di bioetica e diritti individuali, come afferma Eugenia Roccella nel suo intervento sul Corriere del 13 luglio, non è così scontato come sembra. In primo luogo perché ci sono questioni (i diritti civili, appunto) su cui non dovrebbe valere la regola della maggioranza come in una riunione di condominio: non accetteremmo che si reintroducesse la schiavitù, nemmeno se vi fosse una schiacciante maggioranza a votare per il sì. In secondo luogo: come si fa a discutere con quanti affermano che esistono valori non negoziabili? Come si fa a trattare con chi afferma che su alcune questioni non c’è nulla da discutere?
Su Eluana Engalro vorrei accogliere l’invito del padre Beppino: lasciare che torni una questione privata. Ma non posso non ricordare che la domanda centrale sulle questioni di fine vita è: siamo disposti a riconoscere alle persone la possibilità e la libertà di decidere della propria esistenza?
La mia risposta è sì, non solo è giusto ma doveroso. Non possiamo avere la certezza assoluta e attuale perché Eluana non può esprimere il suo parere (ma tanto venivano scritte analoghe parole quando Piergiorgio Welby chiedeva di essere lasciato morire in pace), ma abbiamo ragione di credere che Eluana non avrebbe desiderato sopravvivere in questo modo. Il volere di una persona che non può più esprimerlo può essere ricostruito dalla sua vita e dalle testimonianze di chi le voleva bene.
Per concludere: farebbe sorridere, se non fosse drammatico, che chi condanna la decisione dei giudici di Milano invochi il rispetto della morte “naturale”. Negli ultimi 16 anni la vita di Eluana è stata artificiale; senza l’intervento dell’artificio sarebbe morta poco dopo l’incidente. L’umanità che invoca Roccella è il rispetto dei desideri altrui, anche se diversi dai nostri, e non l’imposizione di una Verità che maschera la prepotenza e la presunzione.

Chiara Lalli
Docente di Logica e Filosofia della Scienza Università «Sapienza», Roma

(La versione lunga era questa; qui la copia pdf della lettera pubblicata.)

“Tenete i vostri figli alla larga da quell’inferno”

Inferno?

Comunicato stampa del Gruppo di Studio di Bioetica e Cure Palliative della Società Italiana di Neurologia

Non tutti i neurologi condividono l’appello dei “25 luminari” al Procuratore Generale perché blocchi la sentenza che dopo 16 anni e 9 procedimenti giudiziari autorizza l’atto che rispetta la volontà di Eluana Englaro. La “Sospensione delle misure di sostegno vitale nello stato vegetativo permanente” è un tema sul quale il Gruppo di Studio di Bioetica e Cure Palliative della Società Italiana di Neurologia ha lavorato approfonditamente qualche anno fa.
Nel documento (Bonito, Primavera, Borghi, Mori e Defanti Neurol Sci, 2002, 23: 131-139) si considera “di eguale gravità sia la decisione di sospendere che quella di continuare la nutrizione artificiale”. In una nota di dissenso Borghi e Fera si erano dichiarati contrari all’ ipotesi di sospendere misure di sostegno vitale. Si sostiene il principio che “ogni forma di trattamento può essere rifiutato da un paziente capace per l’attualità o, per il futuro”, tramite una direttiva anticipata. In caso di incapacità, la decisione deve essere presa ricostruendo la volontà presunta con l’aiuto di testimoni.
Già nel 2002 il Gruppo di Studio aveva suggerito un percorso decisionale che, partendo dalla certezza della diagnosi, prevedeva la ricostruzione della volontà, dei desideri e dei valori della persona, raccomandava il coinvolgimento nella decisione dell’intera equipe curante, e il rispetto di un’eventuale obiezione di coscienza; era anche detto chiaramente che la sospensione della nutrizione e dell’ idratazione artificiale non sono un abbandono e anzi richiedono l’intensificazione delle cure e delle misure di assistenza. Non mancava nelle conclusioni un appello perché fosse garantito al più presto un adeguato sostegno alle migliaia di famiglie che assistono i loro cari in stato vegetativo.
Per la prima volta nel caso di Eluana Englaro la magistratura ha riconosciuto che meritano lo stesso rispetto sia la volontà di chi si presume che avrebbe accettato lo stato vegetativo che quella di chi ha manifestato la contrarietà a essere mantenuto in una vita vegetativa. Come neurologi leggendo la sentenza dei magistrati di Milano abbiamo apprezzato l’attenzione e la competenza con cui sono stati affrontati tutti gli aspetti del caso specifico ora ci auguriamo che la conclusione dell’esistenza di Eluana avvenga lontano dalla scena pubblica, al riparo dalle strumentalizzazioni, con cure adeguate, vicino alle persone care che si sono battute perché venisse riconosciuta legittimità alle sue volontà.

Virginio Bonito e Maddalena Gasparini
Coordinatori del Gruppo di Studio di Bioetica e Cure Palliative della Società Italiana di Neurologia

giovedì 17 luglio 2008

Due argomenti sul caso Englaro

Il giornale della Cei torna oggi in prima pagina sul caso Englaro, con un editoriale firmato da Giuseppe Dalla Torre («Il diritto di poter tornare indietro», Avvenire, 17 luglio 2008). Vi leggiamo fra l’altro:

Dato e non concesso che la povera Eluana abbia davvero, sedici o più anni fa, manifestato una volontà libera, consapevole, responsabile, di interrompere non le terapie, ma la stessa alimentazione ed idratazione, rimane un nodo irrisolto: tale volontà è ancora attuale? La giurisprudenza, in particolare la Cassazione, si è in passato e più volte pronunciata a difesa dello jus poenitendi, del diritto di pentirsi delle proprie scelte ideologiche, politiche o religiose, così come delle proprie scelte di vita. Un diritto, questo, considerato come fondamentale, in quanto espressione della fondamentale libertà propria di ogni essere umano. Ma come garantire, qui ed ora, ad Eluana il diritto di pentirsi delle (asserite) scelte di allora? Perché negare proprio a lei questo diritto fondamentale? E perché negarglielo proprio nel momento in cui massima è la sua condizione di debolezza e di dipendenza? Perché soprattutto negarglielo proprio sul terreno del diritto alla vita, il più fondamentale di ogni diritto, il presupposto degli altri diritti fondamentali, il cui esercizio può essere caratterizzato dalla irreversibilità?
Il continuo insistere su una pretesa mancanza di «attualità» della volontà di Eluana è uno degli aspetti più sconcertanti delle polemiche di questi giorni – e sì che di cose sconcertanti in proposito ne abbiamo lette e ascoltate ormai tantissime. Supponiamo che Eluana avesse espresso la sua volontà diciassette anni fa, come ha fatto, ma che l’incidente stradale che l’ha ridotta allo stato attuale fosse accaduto solo il mese scorso, invece che il 18 gennaio 1992; in questo caso avrebbe un senso affermare che in questi diciassette anni la ragazza avrebbe avuto esperienze e condotto riflessioni che, in teoria, avrebbero potuto determinare un cambiamento delle sue opinioni. Si potrebbe discutere su che peso dare a questa possibilità in assenza di ogni ulteriore manifestazione di volontà diversa da quella formulata in origine, ma in ogni caso ci sarebbe qualcosa da discutere. Nella realtà, però, in questi diciassette anni Eluana non ha potuto sperimentare nulla né riflettere su alcunché; la gravità delle lesioni riportate ci porta a concludere che da quel giorno disgraziato Eluana è stata sempre completamente priva di coscienza. In effetti, se per un impossibile miracolo la ragazza si risvegliasse oggi il contenuto della sua coscienza sarebbe praticamente identico a quello del giorno dell’incidente. Per Eluana non sarebbero passati sedici anni e neppure sedici mesi o sedici settimane: il tempo soggettivo trascorso sarebbe per lei pari quasi a zero. In questo senso è del tutto lecito affermare che, in realtà, la sua opinione di diciassette anni fa è ancora perfettamente attuale: non solo non avrebbe avuto la possibilità di formarsene una diversa, ma se si risvegliasse adesso si risveglierebbe con quelle stesse idee in mente. E quest’ultima rimane comunque un’impossibilità, così com’è impossibile che Eluana possa esercitare il suo «diritto a pentirsi» di qualsiasi cosa abbia fatto o detto.

L’articolo di Dalla Torre procede ancora:
In secondo luogo, si è fondato il diritto di autodeterminazione a lasciarsi morire sull’articolo 32 della Costituzione. Il riferimento è erroneo, perché questa disposizione riguarda il rifiuto di trattamenti sanitari, mentre nel nostro caso si è davanti al rifiuto dell’alimentazione ed idratazione, che propriamente terapie non sono. Ci si dovrebbe semmai riferire all’articolo 2 della Costituzione, che riconosce i diritti inviolabili della persona e, quindi, quella sua radicale libertà che può anche indurre alla scelta – pur eticamente riprovevole – del lasciarsi morire. Ma se si vuole richiamare l’articolo 2 della Costituzione, lo si deve fare per intero; e questo articolo, nella seconda parte, richiede a tutti i consociati l’adempimento dei doveri – che con forza sono qualificati come ‘inderogabili’ – di solidarietà.
Non è dato sapere con chi se la prenda Dalla Torre quando parla di riferimento erroneo, visto che la sentenza della Corte d’Appello non invoca solo l’art. 32 della Costituzione ma anche appunto l’art. 2 (assieme al 3 e al 13); è vero però che molti commentatori – purtroppo anche di parte laica – non sono stati capaci di uscire dalla disputa in parte nominalistica e comunque del tutto irrilevante sulla natura terapeutica o meno della nutrizione ed idratazione artificiali. Dalla Torre ha il merito – malgré soi, per così dire – di rimettere la questione nella giusta prospettiva: qui non si tratta soltanto del rifiuto delle cure mediche (anche se in realtà la nutrizione artificiale è palesemente un intervento terapeutico), ma più in generale del rifiuto di ogni azione altrui sul nostro corpo. L’articolo più pertinente della Costituzione è forse il 13, che memorabilmente statuisce che «La libertà personale è inviolabile»: sarebbe assurdo e illogico limitare ai soli trattamenti medici ciò che gli altri non possono fare al nostro corpo senza il nostro consenso.
Ma se da una parte Dalla Torre sembra riconoscere un diritto a lasciarsi morire, dall’altra subito lo nega invocando il «dovere» altrui alla solidarietà. È ovvio che dire che abbiamo il diritto di fare qualcosa ma che gli altri hanno il dovere di impedircelo è un beffardo gioco di parole. Esiste oggi in Italia il diritto – tragico diritto – a lasciarsi morire di fame? Sì, se anche il Codice di deontologia medica stabilisce all’art. 53 che «il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale» nei confronti della persona che rifiuta volontariamente di nutrirsi. Questo diritto vale anche per le persone prive di coscienza? Così è implicito nell’art. 3 della Costituzione («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge»). Se in questo ragionamento c’è qualcosa di sbagliato, per dimostrarlo serviranno argomenti più raffinati di quelli di Giuseppe Dalla Torre.

mercoledì 16 luglio 2008

Twins


Leo & Ryan.

Il tiggì su Eluana

Il servizio del TG2 delle 20.00 dedicato ad Eluana comincia con l’introduzione del conduttore “la ragazza è in coma”. Prosegue con l’unica testimonianza della suora che assiste Eluana. Suor Albina afferma che la ragazza reagisce e riconosce le voci. “La vita di Eluana è un mistero” dice. E poi chiede al padre di “lasciargliela”. Scorrono le foto e i corridoi e le strade di Lecco. Poi ricomincia suor Albina.
Segue un caso umano che non vede non parla e sembra non capire (pare sia in coma). La madre dice che è difficile ed è doloroso, ma che è il destino.
Almeno viene specificato che non è la stessa condizione in cui si trova Eluana. Una informazione può bastare.
Qual era la notizia annunciata? Ah: che il senato ha avviato una procedura per...

Il dubbio su Adriano Celentano

E se leggesse un testo di neurologia, anche divulgativo, un bignami, un riassuntino?
A meno che per lui serenità non significhi qualcosa di misterioso. Più misterioso ancora del “trionfale ingresso nella vita celeste”?
O forse la serenità, per lui, è assenza di reazione?
Il miracolo, in questo caso, sarebbe il silenzio. Il silenzio invece di questi sproloqui deliranti.

Eluana era così

Dal decreto della Corte d’Appello di Milano, Prima Sezione Civile, n. 88/2008, p. 39:

«Alla sera della domenica ho appreso che Filippo era morto in un sinistro stradale. Ho visto Eluana il lunedì mattina che era venuta a casa mia prima di andare a scuola per commentare la vicenda di Filippo. Era scossa. Ricordo in particolare una sua frase che mi aveva lasciata scossa: e cioè che era meglio che fosse morto piuttosto che rimanere immobile in un ospedale in balia di altri attaccato a un tubo – per cui era meglio morire. […] Io quel lunedì avevo cercato di dirle che per me la vita era importante, ma lei era ferma nella sua opinione. Eluana era così. Non c’era verso di farle cambiare idea – era molto determinata nelle sue convinzioni».

martedì 15 luglio 2008

Povero Zingarelli

Quando Francesco Rutelli parla di coraggio, verrebbe da tirargli in testa almeno le ultime edizioni...

Parla per te

Scienza & Vita emette un altro comunicato su Eluana Englaro.

“No alla prima esecuzione capitale della storia Repubblicana italiana. No alla sentenza di morte pronunciata da alcuni giudici italiani contro Eluana Englaro”.
In queste ore si può consumare un terribile dramma che potrebbe restare come una macchia indelebile sulla coscienza di tutto un popolo, quello italiano, che in tante occasioni ha invece manifestato un amore senza confini per la vita umana in ogni sua fase, dal concepimento e fino alla morte naturale. Fermare la mano di chi si appresta a togliere la vita dando attuazione alla sentenza di un tribunale – peraltro sostenuta da alcuni settori minoritari dell’opinione pubblica e della medicina – è a questo punto un dovere insopprimibile per tutte le coscienze libere di questo Paese. E lo pretende il rispetto delle stesse leggi italiane che non ammettono l’eutanasia, tale essendo ciò che si sta per commettere.
Per questo ci rivolgiamo a tutta l’opinione pubblica, ai mondi della cultura e della scienza, del diritto e dell’economia, dell’informazione e del sociale perché con noi, e accanto a noi, sappiano pronunciare un grande “Sì” alla vita e un “No” insuperabile alla condanna a morte di Eluana.
Le affermazioni insensate sono quelle di sempre, ormai sono familiari (morte naturale, condanna a morte). Ma i toni si alzano, diventano più violenti e hanno la pretesa di essere condivisi.
Troppe volte abbiamo commentato quanto scritto da S&V e sarebbe noioso farlo per l’ennesima volta.
Però ci tengo a non essere inclusa in questa ipocrita indignazione (e dubito che tutto il popolo italiano la pensi in questo modo). Tuttavia sono sicura su quanto penso io: vorrà dire che sarò in uno di quei settori minoritari. Pazienza. Come si dice? Meglio soli che male accompagnati.

La cultura della morte

Giuseppe Marinello, deputato del PDL dichiara:

L’eutanasia di Eluana Englaro, ratificata con una sentenza inaccettabile è nel nostro paese un reato punito dalla legge. Le fughe in avanti e l’esaltazione della cultura di morte sono derive pericolose che non possono né essere tollerate né essere negoziate con i valori della vita umana. Il Parlamento ha il dovere di legiferare al più presto per evitare il ripetersi di tali aberrazioni giuridiche.
Nella prima parte si diceva in accordo con Bagnasco.

Se alleggerire i piatti è troppo impegnativo

La lettura del decalogo del Wellness Gourmet suscita varie emozioni: la prima è una reazione pavloviana di ipersalivazione, soprattutto se è passato del tempo dall’ultima volta che si è consumato un pasto come si deve.
La seconda è la considerazione che nutrirsi rischia di diventare un appuntamento molto impegnativo, cui dedicare l’intera giornata per controllare la genuinità degli alimenti, la portata calorica, la qualità, la cottura giusta. A meno che non si sia dotati di cuoco personale… Per non parlare dell’opportunità di conoscere la storia e la cultura dietro ad ogni cibo per meglio assaporare i nostri pasti: “Mangiare solo con la pancia è limitativo perché è limitata la quantità di cibo che possiamo assumere”.
Chissà quanti impallidiscono, consapevoli dello sconsiderato modo di alimentarsi “mordi e fuggi”, in piedi tra una riunione e una telefonata, oppure ricorrendo a quei terribili cibi precotti e quasi predigeriti di cui ignorano perfino la composizione.
Ci sono poi spunti interessanti di riflessione più generale. Il primo principio della filosofia del Wellness, “la salute”, suggerisce la differenza tra amore e dipendenza: “chi rinuncia alla salute per amore del cibo diventa schiavo del suo oggetto d’amore” – consiglio che potrebbe essere applicato anche ad altri oggetti d’amore. I principi dal 2 al 5, “la qualità dei cibi”, si esprimono su uno dei tormentoni del momento: la presunta identificazione tra ciò che è biologico e ciò che è sano, il cui sintomo è l’invasione del suffisso bio- a garanzia di qualità e salubrità (addirittura giudicano positiva l’innovazione tecnologica applicata agli alimenti e “miope e ingiustificato” il suo rifiuto). E le cui varianti sono tradizionalità e naturalità: come se il veleno dell’Amanita virosa non fosse del tutto naturale!

(DNews, 15 luglio 2007)

lunedì 14 luglio 2008

Si sveglia dopo 18 anni – o no?

Su Avvenire del 12 luglio Paolo Lambruschi intervista Giuliano Dolce, «80 anni, direttore scientifico della clinica Sant’Anna di Crotone, scienziato di fama internazionale, uno dei luminari italiani nella cura degli stati vegetativi» («L’agonia di Eluana sarà lunga e dolorosa», pp. 4-5). A un certo punto il professor Dolce fa una rivelazione ai lettori del quotidiano della Cei:

Eluana Englaro è in stato vegetativo da 16 anni. C’è un limite temporale oltre il quale non ci si risveglia?
«Non si può dirlo con cognizione scientifica. All’ultimo convegno mondiale sui danni cerebrali di Lisbona, in aprile, è stato citato il caso di un paziente statunitense che si è risvegliato dopo 18 anni».
Si tratterebbe naturalmente di un caso eccezionale e probabilmente unico; le conseguenze sul caso Englaro potrebbero essere forse meno scontate di quanto sembra implicare Dolce – che peso dare ad eventi che hanno probabilità quasi nulle di verificarsi? – ma certo andrebbero prese in seria considerazione.
È strano però, a pensarci bene, che la notizia non abbia avuto grande risonanza mediatica; ma questo può capitare. Mi sono messo dunque a cercare il convegno mondiale sui danni cerebrali di Lisbona. Trovarlo non è stato difficile: si tratta del Seventh World Congress on Brain Injury, organizzato dalla International Brain Injury Association. Ciò che invece si è rivelato veramente arduo da rintracciare è la comunicazione relativa al paziente risvegliatosi dopo 18 anni. Ho scaricato il programma (pdf) del convegno, e ho dato una scorsa al nutritissimo calendario degli interventi. Nessuna traccia del caso in questione; ma i papers presentati sono veramente tanti, e mi potrebbe essere sfuggito. Ho cercato allora nel testo un po’ di termini chiave: «recovery», «PVS», «vegetative», «18 years», svariate combinazioni con la radice «wake». Niente. L’unica cosa che assomiglia a quanto dice Dolce è una comunicazione letta l’11 aprile 2008 da Joseph Giacino, e intitolata «The Man Who Slept 19 Years: Lessons Learned from Terry Wallis». Sembrerebbe quello che stiamo cercando: il paziente – di cui si è parlato abbondantemente su tutti i media mondiali – è statunitense, e si è risvegliato dopo circa 18 anni; ma non da uno stato vegetativo persistente. Terry Wallis è stato per tutti questi anni in uno stato di minima coscienza (Minimally conscious state), una condizione ben diversa da quella di Eluana Englaro. Naturalmente non posso pensare neppure per un attimo che un «luminare» come il professor Dolce abbia mal compreso o addirittura intenzionalmente alterato i fatti; può darsi che Avvenire ne abbia riportato male il pensiero, oppure che ci troviamo di fronte a una coincidenza e che la comunicazione fosse un’altra, contenuta in un intervento il cui titolo non era abbastanza perspicuo – almeno non per me.
Il punto chiave, qui, è che chi dà queste notizie all’opinione pubblica (e chi le ospita) ha il dovere di renderle verificabili. Non ci vuole molto: è sufficiente aggiungere il nome di chi ha fatto la comunicazione al convegno. In gioco non c’è la mezz’ora che ho perso cercando di venire a capo della notizia, ma le speranze (o le illusioni) che così si inducono in chi ha un familiare in stato vegetativo. Teniamone conto.

Aggiornamento: in questi giorni viene richiamata spesso in rete da personaggi senza scrupoli anche la storia di Jan Grzebski, un polacco che si sarebbe risvegliato pure lui dopo 19 anni (passando direttamente dal comunismo alla Nato e alla Ue). Dalle descrizioni del caso, tutte abbastanza confuse (si parla sempre impropriamente di «coma»), si capisce comunque facilmente che questa persona non si trovava affatto in uno stato vegetativo persistente, ma probabilmente in qualche forma di sindrome locked-in.

domenica 13 luglio 2008

Cara Eugenia Roccella ti scrivo

(In risposta alla lettera di oggi e anche se, temo, non servirà a niente).

Se cominciassimo a dismettere alcune espressioni e a chiarire i termini e i concetti usati avremmo fatto qualche passo nella direzione giusta.
“Temi eticamente sensibili” è un pessimo ma comune modo, ormai, di riferirsi alle questioni di bioetica e ai diritti civili. I temi non sono sensibili: possono essere sensati, sciocchi, male argomentati (molto spesso) ma non provano alcuna sensazione. Sono le persone ad essere sensibili e a soffrire per lo scarso coraggio istituzionale e politico: si pensi al mancato riconoscimento per le famiglie non coronate dal matrimonio (molte famiglie, quelle omosessuali, non possono sposarsi e non possono trascrivere un matrimonio celebrato all’estero perché sarebbe “contrario all’ordine pubblico”! – secondo la circolare Amato) o alla interminabile discussione sulle direttive anticipate.
Attribuire il fallimento politico di un partito o di una parte politica alla temerarietà sui “nuovi diritti individuali” (così li chiama Eugenia Roccella) fa sorridere. Soprattutto se si alza lo sguardo dalla propria pancia e si osserva che cosa comporta la legislazione italiana: discriminazione. Discriminazione per i cittadini italiani in materia di salute (un solo esempio: la legge 40), libertà e famiglia. Si invoca l’Europa solo quando fa comodo, mai per sottolineare che l’Italia si distingue per l’arretratezza e l’indolente apatia.

Che sia necessario arrivare a una posizione condivisa non è così scontato come sembra: in primo luogo perché ci sono alcune questioni (i diritti civili, appunto) su cui non dovrebbe valere la regola della maggioranza come in una riunione di condominio: non accetteremmo che si reintroducesse la schiavitù, nemmeno se vi fosse una schiacciante maggioranza a votare per il sì. In secondo luogo: come si fa a discutere con quanti affermano che esistono valori non negoziabili? Come si fa a trattare con chi afferma che su alcune questioni non c’è nulla da discutere?

Su Eluana Englaro vorrei accogliere l’invito del padre Beppino: lasciare che torni una questione privata, dopo una battaglia dolorosa, lunga ed estenuante per affermare la volontà della ragazza.
Ma non posso non ricordare che la domanda centrale sulle questioni di fine vita è: siamo disposti a riconoscere alle persone la possibilità e la libertà di decidere della propria esistenza?
Questa è la domanda cui bisogna rispondere. La mia risposta è sì, non solo è giusto ma doveroso.
Non possiamo avere la certezza assoluta e attuale perché Eluana non può esprimere il suo parere (ma tanto venivano scritte analoghe parole quando Piergiorgio Welby chiedeva di essere lasciato morire in pace), ma abbiamo ragione di credere che Eluana non avrebbe desiderato sopravvivere in questo modo. Il volere di una persona che non può più esprimerlo può essere ricostruito dalla sua vita e dalle testimonianze di chi le voleva bene.
Per concludere: farebbe sorridere, se non fosse drammatico, che molti di quelli che condannano la decisione dei giudici di Milano fino a ieri si sgolavano per il rispetto della morte “naturale”. Negli ultimi 16 anni la vita di Eluana è stata artificiale; senza l’intervento dell’artificio sarebbe morta poco dopo l’incidente. L’umanità che invoca Roccella è il rispetto dei desideri altrui, anche o soprattutto se diversi dai nostri, e non l’imposizione di una Verità che maschera la prepotenza e la presunzione.

Cosa non è il caso di Eluana Englaro

Non è un caso di eutanasia. La parola «eutanasia» è usata quasi sempre per indicare la cosiddetta eutanasia attiva, cioè un’azione (che in genere consiste nella somministrazione di un farmaco adatto) volta a causare la morte il più possibile indolore di un’altra persona. Nel caso di Eluana Englaro, invece, quello che è stato chiesto e che la corte ha concesso è il permesso di sospendere un’azione, in particolare la somministrazione di nutrimento per mezzo di un sondino; un permesso dunque non di fare ma di smettere di fare.
Si può obiettare che in realtà non c’è alcuna differenza: che si tratti di un’azione o di un’omissione, in ogni caso si sta provocando la morte di un essere umano. E indubbiamente dal punto di vista morale è così – anzi in questo caso la somministrazione attiva di un farmaco potrebbe apparire addirittura più accettabile ed umana della sospensione del nutrimento. Ma dal punto di vista giuridico le cose cambiano: tra fare ed omettere c’è una grande differenza. Supponiamo che io mi rechi in un paese africano e ne irrori le coltivazioni con diserbanti, e faccia saltare in aria i magazzini di generi alimentari e le vie di comunicazione. Della carestia e delle morti per fame che ne seguiranno sarò penalmente responsabile (e sarò fortunato se me la caverò con un ergastolo). Ma se la carestia è già in corso e io, pur avendone i mezzi, non invio un contributo in denaro capace di limitare i danni a quelle popolazioni, e causo con questa omissione delle morti che altrimenti non ci sarebbero state, sarò moralmente responsabile – forse addirittura quanto nell’altro caso; ma è difficile immaginare che io possa essere anche responsabile penalmente.
Parlando in generale, la legge non ci obbliga ad agire a beneficio di altre persone, neanche quando in gioco c’è la loro vita. Ci sono delle eccezioni, naturalmente, che riguardano per esempio i tutori della legge, o i genitori di un minore (che implicitamente, riconoscendolo alla nascita, assumono l’obbligo di averne cura), o tutti noi nel caso che l’azione che ci viene richiesta non sia onerosa (è il caso che riguarda l’omissione di soccorso). Ma il principio generale non cambia; e sicuramente non si può aggiungere alle eccezioni quella di obbligare qualcuno a ‘beneficiare’ persone, come Eluana, che hanno espresso la chiara volontà di non ricevere quel tipo di benefici.
Viceversa, la legge in generale ci obbliga a non causare intenzionalmente con una nostra azione la morte di altre persone. Anche qui ci sono eccezioni: legittima difesa e stato di guerra sono quelle che vengono subito alla mente. Nell’ordinamento giuridico italiano non c’è fra le eccezioni l’omicidio del consenziente, neppure nella forma particolare dell’eutanasia volontaria. Ci sono molte ed ottime ragioni per ritenere che l’eutanasia dovrebbe venire ammessa fra quelle eccezioni; ma al momento non lo è, e praticarla legalmente sarebbe impossibile.

Non è un caso di accanimento terapeutico. Il concetto di accanimento terapeutico, come ci ricorda Anna Meldolesi in un intervento di questi giorni, è praticamente un’esclusiva del dibattito bioetico italiano, mentre altrove è ignoto. Comunemente viene inteso come l’applicazione a malati terminali di trattamenti medici pesanti e incapaci di apportare benefici di nessun tipo ai pazienti; in pratica, condannando l’accanimento terapeutico si condannano le cure inutili – cosa che dovrebbe essere scontata, e che non è molto utile ribadire. Nel caso di Eluana Englaro non siamo ovviamente di fronte a questa accezione di accanimento terapeutico: la paziente non è terminale, e la nutrizione artificiale è essenziale per tenerla in vita. La cosa tuttavia è irrilevante: per il principio del consenso informato tutti i trattamenti medici, anche quelli indispensabili a tenere in vita una persona, anche quelli sopportabilissimi e niente affatto pesanti, possono essere praticati soltanto se chi li subisce li ha accettati. È questo che è in gioco nel caso Englaro e in tutti i casi analoghi (anche se la sentenza della Cassazione, sulla quale si fonda quella di questi giorni della Corte d’Appello, su questo punto non è completamente coerente). E si può anche andare oltre: il dibattito interminabile sulla natura dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali – si tratta di trattamenti medici o no? – è del tutto inutile (anche se effettivamente essi sono trattamenti medici). Il principio generalissimo che vale è questo: nessuno può mettere le mani sul mio corpo contro la mia volontà, per nessun motivo. Il corpo è la mia proprietà più intima e inalienabile, di cui io solo posso decidere.

Non è un caso di discriminazione. Contrariamente a quanto alcuni insinuano, nel caso di Eluana Englaro non è stato stabilito che la vita di ogni paziente in Stato Vegetativo Persistente è priva di valore. Quello che in realtà è stato provato è che vivere in queste condizioni era privo di valore per Eluana. Molti di noi sono portati a commentare, a proposito di casi come questo, «è vero, una vita come quella non è degna di essere vissuta». Ma questa affermazione può avere un senso solo in quanto costituisce in realtà una forma abbreviata del giudizio «una vita come quella non la riterrei degna neppure per me di essere vissuta». Non si tratta soltanto di concedere a chi riduce la vita umana al brutale dato biologico di vivere e morire in accordo con le proprie credenze; anche chi non la pensa come costoro può ritrovarsi a preferire di non essere lasciato morire. Per esempio, uno può ritenere che la sua vita personale si arresti con la perdita definitiva della coscienza, e che tutto ciò che accade in seguito al suo corpo non lo riguardi più; e di conseguenza può disporre che il sostegno vitale non venga interrotto se ciò può risultare di beneficio ai suoi familiari, che magari trarrebbero conforto da quel simulacro di presenza continua del loro caro. Ogni vita è degna di essere vissuta, se è degna per chi la vive.

venerdì 11 luglio 2008

Sempre il solito

Sul testamento biologico:

L’autodeterminazione della persona non può prevedere i due fatti naturali dela [sic] vita e della morte
Su Eluana Englaro:
Chi può dire che Eluana la pensasse proprio così,chi può dire che dopo questi 6000 giorni di vita la pensa ancora così?
Sullo Stato Vegetativo Persistente:
Il coma è una forma di vita, più pacifica e affannata di altre
Non c’è bisogno, penso, di rivelare il nome dell’autore di questi profondi pensieri...

giovedì 10 luglio 2008

I vantaggi di una appartenenza religiosa

Cassazione: marijuana, per i rastafariani è strumento di meditazione, vanno capiti, Il Corriere della Sera, 10 luglio 2008.

La Cassazione, con una sentenza degna di nota, ha dichiarato che i fedeli di tale credo, se trovati in possesso di «erba» devono incontrare la comprensione e la tolleranza dei giudici, «nella credenza che l’erba sacra sia cresciuta sulla tomba di re Salomone». La Consulta ha accolto così il ricorso di un uomo contro la condanna a 1 anno e 4 mesi di reclusione e 4 mila euro di multa per illecita detenzione a fine di spaccio inflittagli dalla Corte di appello di Perugia nel 2004. I carabinieri lo avevano trovato con circa un etto di marijuana. In Cassazione l’uomo ha detto di essere un rastafariano e di fumare erba in base ai precetti della sua religione, che ne consentono l’uso fino a 10 grammi al giorno.
Se sei ateo o indeciso o miscredente finisci in galera, o ti succede di molto peggio (come ad Aldo Bianzino).
Intendiamoci: io sono a favore della legalizzazione ma preferirei che valesse per tutti e senza tirare in ballo la fede o la religione. Né ipocrite o paternalistiche motivazioni per mantenere l’illegalità.

Senza pudore

Sebbene sia difficile scegliere la dichiarazione peggiore della giornata, quella di Renato Farina le si avvicina (e con lei chi ha deciso di riportare il suo illustre parere):

Renato Farina, deputato e giornalista, chiede l’intervento di Napolitano contro una «crudele condanna a morte».
Notevole, ma non per niente è il nostro eroe, anche il commento di Luca Volontè, secondo il quale sarebbe una
ingerenza su temi, come la vita e la morte di una persona.

Eluana adesso può morire in pace


“Eluana è morta il 18 gennaio 1992” afferma da tempo il papà Beppino. In seguito a un grave incidente automobilistico Eluana si trova da allora in uno stato vegetativo persistente. La decisione dei giudici della Corte d’Appello civile di Milano di ieri autorizza a interrompere la nutrizione e l’idratazione artificiali che la tengono in vita. Una vita meramente organica: Eluana non reagisce agli stimoli ambientali. La sua condizione è irreversibile. Il danno cerebrale è tale da permettere di inferire l’assenza di coscienza e di percezione: la sua condizione è simile a quella di chi si trova in una profonda narcosi da cui non è possibile tornare indietro.
La decisione della Corte è l’ennesima di una lunga e complessa battaglia legale intrapresa dal padre per garantire il rispetto della volontà della ragazza: poco prima del suo incidente un amico aveva subito lo stesso drammatico destino di Eluana. “Non vorrei mai essere mantenuta in vita se dovessi trovarmi in condizioni simili”, aveva detto Eluana.
Chi è in grado di esprimere un consenso non può essere obbligato a subire alcun trattamento sanitario, anche se il rifiuto significa una morte probabile o certa. Eluana non è più in grado, da quel 18 gennaio, di manifestare la propria volontà. Ma lo aveva fatto prima di scivolare in questo limbo creato dall’avanzamento tecnologico. Eluana sarebbe morta da tempo senza gli artifici della medicina, che hanno il potere di salvare molte vite, ma qualche volta creano situazioni drammatiche e insopportabili. Buffo che quanti si sgolano ad invocare la morte “naturale” per opporsi alla libertà di scelta delle persone si affrettino ora a rimangiarsi tutto. In questo caso ad essere naturale sarebbe proprio la morte di Eluana, e non la sua sopravvivenza. Ma la questione principale non è poi nemmeno l’ambiguo e trito richiamo alla natura, ma la volontà personale e il suo doveroso rispetto.
Il cuore di tutte le discussioni di fine vita è se esiste davvero la libertà di scelta in ambito sanitario.
I giudici di Milano hanno ricostruito il volere della ragazza e hanno deciso di rispettarlo, dopo avere verificato l’assenza di qualunque speranza di un cambiamento delle sue condizioni. Hanno fatto anche qualcosa in più, acconsentendo a spostarla in un hospice o in un altro luogo di ricovero in cui Eluana potrà essere assistita in modo adeguato. La vita di Eluana non terminerà infatti con la sospensione dei trattamenti: durante tale periodo è opportuno somministrarle qualsiasi provvedimento (come inumidire le mucose, cambiare la posizione del corpo e lavarla) per garantire un dignitoso accompagnamento alla morte. I giudici infine raccomandano la possibilità della presenza e dell’assistenza da parte dei suoi familiari.
Benché la Cassazione possa fare ricorso, la decisione dei giudici di Milano permetterebbe a Beppino di rimuovere fin da oggi il sondino nasogastrico. E rappresenta un segno importante per il rispetto di quel “purosangue della libertà” – come Beppino ricorda la figlia – e per quanti hanno a cuore la possibilità di scegliere della propria esistenza.

(DNews, 10 luglio 2008)

mercoledì 9 luglio 2008

Scienza e Vita ha le idee piuttosto confuse (o fa il gioco delle tre carte)

E sembra essere un eufemismo.
Come prevedibile la decisione dei giudici di Milano ha scatenato reazioni di ogni tipo. Finora la più interessante è quella contenuta in un comunicato di Scienza e Vita (già dal titolo: La società dei sani ha condannato Eluana).
Ci sarebbe molto da commentare, ma riporto un passaggio che rasenta la genialità. Secondo S&V la decisione si basa su motivazioni errate, e la più errata è

l’idea che una persona in stato vegetativo sia soltanto una vita biologica, dimenticando che fino a quando c’è vita biologica, quella è sempre e comunque una vita personale, espressione di una dignità che interpella in modo forte le coscienze e la responsabilità di tutti.
Sarebbe interessante chiedere loro cosa ne pensano del prelievo di organi. Prima di svelare il pericolo in agguato.

Eluana Englaro

Stop alla nutrizione artificiale: finalmente è rispettata la sua volontà.
In attesa dei dettagli.

8 luglio 2008

Dalla galleria immagini de Il Corriere della Sera. Qualche altra foto qui.

martedì 8 luglio 2008

Altri cibridi

La Human Fertilisation and Embryology Authority (HFEA), l’ente britannico che si occupa della procreazione medicalmente assistita e della ricerca sugli embrioni umani, ha assegnato una nuova licenza per la creazione di cibridi, ossia di embrioni derivati da un ovocita animale il cui nucleo è stato sostituito con quello di una cellula somatica umana. La licenza, della durata di 12 mesi, è andata al Clinical Sciences Research Institute dell’Università di Warwick, che userà ovociti di maiale e cellule di individui affetti da cardiomiopatia per ottenere cellule staminali e studiare su di esse i meccanismi genetici della malattia. Si tratta della terza licenza assegnata dalla HFEA: le prime due erano state ottenute dal Kings College di Londra e dall’Università di Newcastle. Questa volta ci dovrebbe essere una novità scientifica: il gruppo di Warwick prevede di usare sostanze chimiche per eliminare ogni traccia dei mitocondri suini dalle cellule staminali, sostituendoli con mitocondri umani, in modo da ottenere cellule il cui corredo genetico sia al 100% umano. In questo modo, oltre ad eliminare alcuni degli argomenti ‘etici’ spesso avanzati contro questo tipo di ricerche, si potrebbero in prospettiva aprire nuove possibilità per l’uso terapeutico dei cibridi.

(Fonte: Rebecca Robey, «‘Egg sharing’ and ‘hybrid embryos’ offer hope for stem cell research», BioNews, 7 luglio 2008.)

lunedì 7 luglio 2008

Boicotta anche tu McDonald!

Boicottare McDonald: e subito uno pensa perché si vuole sostenere la vita vegetariana, o per combattere la sofferenza degli animali o le condizioni di allevamento. Perché magari pensi che trattano male i lavoratori oppure che non rispettino le regole di sicurezza.
Niente di tutto questo.
L’American Family Association (AFA) propone di boicottare il colosso dei panini perché non discrimina gli omosessuali. Già.
Lo scrivono chiaramente nelle motivazioni del boicottaggio:

It is about McDonald’s, as a corporation, refusing to remain neutral in the culture wars. McDonald’s has chosen not to remain neutral but to give the full weight of their corporation to promoting the homosexual agenda, including homosexual marriage.
Addirittura a favore del matrimonio gay! Che vergogna.
McDonald è anche colpevole di aver sponsorizzato il Gay Pride di San Francisco (1997).
La tollerante e cristiana associazione AFA ha una spiccata tendenza verso il boicottaggio (soprattutto verso quanti si avvicinano alla comunità LGBT).

Bill Whitman, portavoce americano ha commentato (Gay-Marriage Opponents to Boycott McDonalds, Whashington Post, july 4, 2008):
Hatred has no place in our culture. That includes McDonald’s, and we stand by and support our people to live and work in a society free of discrimination and harassment.

Doggy dearest

Joan Crawford divide il pasto con il suo bassotto (Bettmann/CORBIS, 1939).

domenica 6 luglio 2008

Settant’anni fa, un altro «censimento»

Gad Lerner, «Quel censimento etnico di settanta anni fa» (La Repubblica, 5 luglio 2008, p. 1):

Cominciò con un inaspettato censimento etnico, nel mezzo dell’estate di settant’anni fa, la vergognosa storia delle leggi razziali italiane. Alle prefetture fu diramata una circolare, in data 11 agosto 1938, disponendo una «esatta rilevazione degli ebrei residenti nelle provincie del regno», da compiersi «con celerità, precisione e massimo riserbo». La schedatura fu completata in una decina di giorni. […] Naturalmente, di fronte alle proteste dei malcapitati cittadini fatti oggetto di quella schedatura etnica fu risposto che essa non aveva carattere persecutorio, anzi, sarebbe servita a proteggerli. […] Quando i figli degli italiani poveri venivano venduti per fare i mendicanti nelle strade di Londra, l’esule Giuseppe Mazzini si dedicò alla loro istruzione, non a raccogliere le loro impronte digitali. L’ipocrisia di schedarli “per il loro bene” serve solo a rivendicare come prassi sistematica, e non eccezionale, la revoca della patria potestà. Dopo le impronte, è la prossima tappa simbolica della “linea dura”. Siccome i rom non sono come noi, l’unico modo di salvare i loro figli è portarglieli via: così si ragiona nel paese che liquida l’“integrazione” come utopia buonista.
Da leggere tutto.

venerdì 4 luglio 2008

Aiutiamo le autorità

(Grazie a Ghostwriters On Demand.)

Fiocco rosa

Thomas Beatie ha dato alla luce una bambina presso il St. Charles Medical Center di Bent, Oregon (Abc News, july 3, 2008). La bimba sta bene.

giovedì 3 luglio 2008

La vita e la morte passando per la natura

Tutela della vita dal concepimento alla morte: dichiarazione del Sottosegretario Roccella (del 29 giugno passato):

“Le sollecitazioni dell’associazione “Scienza e Vita” sulle priorità di una politica che tuteli la vita dal concepimento alla morte naturale, sono in linea con gli indirizzi programmatici del Governo. L’impegno dell’esecutivo è quello indicato dallo stesso primo ministro nel discorso d’insediamento alla Camera dei deputati: varare un grande piano nazionale per la vita. Su molti dei punti critici individuati da “Scienza e Vita” abbiamo trovato una situazione già fortemente compromessa dal precedente Governo: è ormai impossibile, per esempio, riattivare la minoranza europea di blocco che impediva il finanziamento alla ricerca sugli embrioni, dopo che nel 2006 il ministro Mussi ha ritirato la firma dell’Italia. Sugli altri temi, come le linee guida per la legge sulla procreazione assistita e le politiche di prevenzione dell’aborto, siamo già al lavoro. In entrambi i casi, si tratta di interpretare e applicare la legge con coerenza e rispetto.
Accogliamo pienamente anche l’invito a promuovere la ricerca sulle cellule staminali adulte, che ha già dato buoni frutti e in cui il nostro Paese è all’avanguardia, e la raccomandazione a maggiore cautela e informazione sui test genetici, affinché il loro uso non apra le porte a forme “morbide” di eugenetica. Le tematiche proposte da “Scienza e Vita” sono al centro della nostra attenzione, e siamo certi che con l’associazione il dialogo sarà continuo e proficuo.”
Non è solo il richiamo ad una associazione clericale; e non è nemmeno la assoluta insensatezza di espressioni quali “morte naturale” o “per la vita” (dubito che Eugenia Roccella intenda proteggere i lombrichi o le formiche che impietosamente schiaccia durante le sue passeggiate). E nemmeno la nostalgia per la ridicola minoranza di blocco contro il finanziamento alla ricerca sulle staminali embrionali (tanto per ricordare: i cosiddetti embrioni sovrannumerari creati prima della legge 40 sono destinati alla loro naturale estinzione). Né, ancora, l’ostinazione nel dividere la ricerca in cassetti (staminali adulte sì, staminali embrionali no) o il richiamo alla eugenetica che va tanto di moda (il richiamo, intendo).
Ma la mediocrità insopportabile di queste dichiarazioni.

Obiezione di coscienza

Secondo l’edizione napoletana (riporta Aduc di oggi) de la Repubblica la Regione Campania avrebbe pronta una delibera per affrontare la elevata percentuale di obiettori di coscienza: l’83% di ginecologi dichiara che l’aborto è contrario alla propria coscienza.

Sono convinta che l’unica soluzione sarebbe quella di abolire la possibilità di sottrarsi (per i medici ginecologi pubblici) ad un dovere che deriva da varie libere scelte: fare il medico, fare il ginecologo, fare il ginecologo in un servizio pubblico.
Nel numero di giugno di Sapere ho scritto un pezzo al proposito in cui argomento meno sinteticamente la suddetta posizione (oltre a criticare lo stesso uso dell’espressione obiezione di coscienza in questo caso, perché terminologicamente improprio e concettualmente ambiguo).

Non volersi macchiare del peccato di abortire o di complicità in un aborto è una ragione sufficiente per venir meno ai doveri che derivano da una professione liberamente scelta? E, soprattutto, nel caso di servizi di pubblica utilità dovremmo prevedere l’obiezione di coscienza?
Se un Testimone di Geova diventa medico, come dovremmo comportarci? Lui, secondo la propria coscienza, non effettuerebbe trasfusioni. E se lavorasse in un pronto soccorso? Chi sarebbe disposto ad assumerlo e a garantirgli il rispetto della sua coscienza?
[...]
Sono molti ad avere invocato la violazione della libertà qualora si elimini la possibilità di obiettare dalla 194 o nel caso dei farmacisti che rifiutassero di vendere il Norlevo.
Esiste una legge che autorizza l’interruzione di gravidanza; esiste una categoria di medici (i ginecologi) che possono praticarla. Prevedere la possibilità di “obiettare” può essere comprensibile e giusto per un breve periodo (nei primi anni di entrata in vigore della legge, quando la scelta di fare il ginecologo non comprendeva le interruzioni di gravidanza). Trascorso un certo tempo, la scelta di fare il ginecologo non può ignorare l’esistenza della 194. Il ginecologo che obietta rischia di somigliare al chirurgo che non vuole (per coscienza) fare determinati interventi chirurgici. Mettiamo che non voglia mai e in nessun caso asportare l’appendice, perché ritiene che sia inviolabile e sacra. Gli fareste fare il chirurgo? Potrebbe scegliere tra molte specializzazioni mediche (a patto di rispettarne i doveri derivanti). Non sembra ammissibile pretendere di fare il chirurgo a condizione di rifiutarsi, e di essere protetto in questo suo rifiuto, di togliere una appendice.
Se l’analogia appare assurda, basta citare qualche recente caso di cronaca per conferirle verosimiglianza.
Nel marzo 2008 (Fecondazione, obiettori tra i medici di base, Il Corriere della Sera, 15 marzo 2008) alcuni medici di base rifiutano di prescrivere dei farmaci necessari alla riproduzione artificiale o le analisi richieste dai centri prima di cominciare i cicli.
A Chiari (Brescia) una giovane donna va dal medico di famiglia per farsi prescrivere i farmaci necessari per avviare un ciclo di riproduzione in vitro. Ha la prescrizione specialistica, ma il medico di base, la dottoressa Pasini, le risponde: “va contro la mia morale. Io ho firmato e depositato l’obiezione di coscienza”.
Una sola aggiunta: invocare l’obiezione di coscienza sulla vendita di alcuni farmaci (si pensi soprattutto alla pillola del giorno dopo) è un vero e proprio sabotaggio, in quanto è un richiamo a non rispettare precisi doveri dei farmacisti in quanto funzionari pubblici. Infatti il regolamento per il servizio farmaceutico (D.R. del 30 settembre 1938 n. 1706) non lascia margini interpretativi.
I farmacisti non possono rifiutarsi di vendere le specialità medicinali di cui siano provvisti e di spedire ricette firmate da un medico per medicinali esistenti nella farmacia. I farmacisti richiesti di specialità medicinali nazionali, di cui non siano provvisti, sono tenuti a procurarle nel più breve tempo possibile, purché il richiedente anticipi l’ammontare delle spese di porto.

mercoledì 2 luglio 2008

Presto, un appiglio legale!

L’Ordinanza del presidente del consiglio dei ministri n. 3676 del 30 maggio 2008, con cui il governo ha avviato la schedatura dei nomadi del comune di Roma (le ordinanze gemelle 3677 e 3678 riguardano Milano e Napoli), è abbastanza asciutta nel punto cruciale, cioè all’art. 1 c. 2:

Il Commissario delegato, nell’ambito territoriale di competenza, […] provvede all’espletamento delle seguenti iniziative:
[…]
c) identificazione e censimento delle persone, anche minori di età, e dei nuclei familiari presenti nei luoghi di cui al punto b), attraverso rilievi segnaletici.
L’ordinanza è anche, in questo punto, palesemente incostituzionale, contravvenendo al principio della pari dignità sociale e dell’uguaglianza davanti alla legge, in quanto assoggetta dei cittadini a un trattamento (già di per sé abbastanza invasivo e portatore di stigma) per nessun altro motivo che la loro appartenenza a una comunità etnica: si noti come nel linguaggio dell’ordinanza non si accenni minimamente a comportamenti soggettivi come premessa necessaria alla schedatura.
La circostanza dev’essere nota persino ai responsabili politici e a chi ne esegue o appoggia l’operato, perché da giorni costoro si affannano ad illustrare possibili predecenti legali che richiamino e giustifichino in qualche modo quest’obbrobrio. Sforzo probabilmente superfluo, viste certe recenti sentenze aberranti in materia di discriminazione razziale, e visto l’apparente disinteresse dell’Unione Europea, che ha rimandato ogni presa di posizione ufficiale all’adozione di provvedimenti concreti da parte del Governo italiano, ignorando (o fingendo di ignorare) che i provvedimenti sono stati adottati un mese fa e che la schedatura è già adesso in corso; ma vale la pena comunque di esaminare alcuni di questi tentativi.

Come abbiamo visto qualche giorno fa, per il pubblico ministero del Tribunale dei minori di Milano, Ciro Cascone, prendere le impronte agli «zingarelli» sarebbe giustificato dal codice di procedura penale. Peccato che, come del resto appare chiaro dalle parole dello stesso Cascone, il codice (all’art. 349) preveda questa misura solo per il minore (e più in generale per ogni persona) che abbia commesso un reato o sul quale si indaghi:
1. La polizia giudiziaria procede alla identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini e delle persone in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti.
2. Alla identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini può procedersi anche eseguendo, ove occorra, rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici nonché altri accertamenti.
Il prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi, commissario straordinario per l’emergenza rom, si produce in un tentativo più originale («Rom: prefetto milano, misure già previste da legge 1941», Agi News On, 27 giugno 2008):
le norme in vigore, oggi già consentono il foto segnalamento. Esistono da 40 anni: chi non riesce a dimostrare la propria identità può essere foto segnalato. Lo prevede la normativa italiana e anche quella europea. C’è una legge del ’41, il “Testo unico della legge di pubblica sicurezza”. Parliamo di cose che esistono da anni. È tutto perfettamente legale.
Il richiamo a una legge del periodo fascista potrebbe forse essere considerato un po’ infelice, vista la situazione a cui si vorrebbe applicarla, ma si tratta in fondo di norme perfettamente valide e legittime. Sorvoliamo anche sul fatto che la legge in questione è del 1931 e non del 1941: un lapsus può capitare anche a un prefetto. Il vero problema viene fuori se andiamo a vedere l’articolo pertinente (il n. 4) della legge:
L’autorità di pubblica sicurezza ha facoltà di ordinare che le persone pericolose o sospette e coloro che non siano in grado o si rifiutano di provare la loro identità siano sottoposti a rilievi segnaletici.
Notiamo prima di tutto che, in generale, si danno qui condizioni da soddisfare prima di procedere ai rilievi segnaletici (su adulti o bambini), condizioni del tutto ignorate dalla lettera dell’ordinanza, che riesce dunque nel difficile compito di essere più illiberale di una legge fascista: chi entra in un campo nomadi dovrebbe procedere ai rilievi segnaletici anche di persone con documenti perfettamente in regola! È sperabile che nell’applicazione pratica le cose vadano diversamente, ma già questa circostanza dà la misura del valore di questa mostruosità giuridica e di chi l’ha scritta.
Per quanto riguarda in particolare i bambini, le cose diventano poi vagamente surreali. In base alla legge chi non è in grado di provare la propria identità può essere sottoposto a rilievi segnaletici; nella prassi la propria identità si prova con un documento di riconoscimento valido – nella maggior parte dei casi, con la carta d’identità. Ma la carta d’identità può essere rilasciata solo a partire dai 15 anni di età: lo stabilisce lo stesso Testo unico della legge di pubblica sicurezza, un articolo più su (il n. 3). Questo però non sembra doversi interpretare come un’autorizzazione data alla polizia di prendere le impronte digitali di qualsiasi minore di anni 15 incontrato da solo per la strada! Non si capisce pertanto da dove tragga il prefetto la sua convinzione che il Testo unico autorizzi la raccolta indiscriminata delle impronte dei minori rom.
Forse in base a considerazioni analoghe a queste, sembra che a Napoli ci si stia limitando a prendere le impronte solo ai maggiori di anni 14 (ma perché 14 e non 15 non mi è chiaro), mentre il presidente dell’Opera Nazionale Nomadi, Massimo Converso, chiede che la rilevazione ai minori di anni 14 venga spostata al 2009, visto che a quella data dovrebbe diventare obbligatorio per tutti i cittadini italiani l’inserimento dei dati biometrici – compresa l’impronta digitale – nella nuova Carta d’Identità Elettronica, o CIE (Guido Ruotolo, «Maroni: basta con le ipocrisie sui rom», La Stampa, 30 giugno, p. 12). Confesso che mi sfugge però la logica dell’argomento: a quanto ne so anche la CIE (prevista dall’art. 7-vicies ter c. 2 della legge 31 marzo 2005 n. 43) sarà rilasciata solo ai maggiori di anni 15, e non si vede dunque come possa rendere più digeribile la rilevazione delle impronte ad alcuni minori di anni 14. Fatto ancor più rilevante, le impronte raccolte per la CIE non andranno in nessun archivio esterno: saranno contenute unicamente nella carta stessa (A. Che., «Carte d’identità elettroniche con decreto finale», Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2007, p. 32). Temo proprio che le impronte raccolte nei campi nomadi non saranno conservate unicamente in qualche documento da consegnare agli stessi Rom...
Infine il capintesta in persona, l’autore di questa civilissima iniziativa, il Ministro dell’Interno, ha ravvisato una sua personale pezza d’appoggio legale. Si tratterebbe del Regolamento del Consiglio dell’Unione Europea n. 380/2008, che va a modificare il precedente n. 1030/2002, e che imporrebbe all’art. 4-ter la raccolta delle impronte digitali anche ai bambini maggiori di 6 anni. Ce lo chiede l’Europa: di cosa vi lamentate, dunque? Senonché, come hanno fatto notare molti commentatori, il Regolamento in questione riguarda unicamente i cittadini extracomunitari, e non può essere invocato per quelli che sono, invece, in maggioranza, cittadini italiani o comunque comunitari. Ma anche riguardo ai Rom extracomunitari, il Regolamento stabilisce nella premessa, c. 7:
Il presente regolamento ha il solo obiettivo di stabilire gli elementi di sicurezza e gli identificatori biometrici che gli Stati membri devono utilizzare in un modello uniforme per i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di paesi terzi.
Forse il Ministro Maroni vuole dotare tutti i Rom extracomunitari di permesso di soggiorno? Perché solo a questo scopo potrebbe invocare il regolamento in questione...