sabato 29 marzo 2014

L’ultima (ordinanza sensata) sul caso Stamina




E non solo per le conclusioni. Prima di arrivare lì, infatti, il giudice Vincenzo Ciocchetti chiarisce le premesse in modo impeccabile e insolito. La ricostruzione non si limita al contesto normativo, ma comprende quello più ampio e generico caratterizzato da credenze erronee e dalla seduzione esercitata dai rimedi magici – è proprio in questo dominio che si radicano più fortemente le ragioni dell’incomprensione della vicenda Stamina e di tante altre simili. L’ordinanza si sofferma sull’equivoco delle cure palliative, sui ciarlatani della salute e sulle cure miracolose (paragrafi 4 e 5).

Il primo paragrafo è dedicato alla descrizione delle parti in causa. Il ricorrente è un bambino affetto dalla malattia di Canavan, una gravissima patologia neurologica ereditaria. La prognosi è infausta e non esiste alcuna terapia specifica.

Il padre chiede al tribunale di ordinare agli Spedali Civili di Brescia la somministrazione di cellule trattate con il cosiddetto metodo Stamina. Fonda la richiesta sull’articolo 1, comma 4, del decreto del ministro della salute del 5 dicembre 2006.

Gli Spedali non si costituiscono in giudizio ma mandano una nota in cui ricordano che la somministrazione dovrebbe seguire la verifica di criteri medici e scientifici, che al momento il “trattamento” non è sperimentato, che è privo di basi scientifiche e addirittura ignoto – se non al suo promotore (elemento che solleva ovviamente anche un conflitto di interesse).

L’ordinanza passa a ricostruire il quadro generale della normativa applicabile, composto da disposizioni comunitarie e nazionali. Si parte dalla direttiva 2001/83/CE sulla produzione, sulla distribuzione e sull’uso dei medicinali a tutela della salute pubblica. Nel 2006 l’Italia ha dato attuazione a questa direttiva. Ci sono altre direttive e alcuni regolamenti (indicati da pagina 3 a pagina 6), e c’è il decreto già nominato, quello del 5 dicembre 2006. Questo decreto, “Utilizzazione di medicinali per terapia genica e per terapia cellulare somatica al di fuori di sperimentazioni cliniche e norme transitorie per la produzione di detti medicinali”, avrà un ruolo importante nella vicenda Stamina (il testo del decreto del 2006 sarà modificato dal decreto ministeriale del 18 dicembre 2007 e del 24 dicembre 2008). Soprattutto l’articolo 1, comma 4, che è il caso di riportare per intero.

“Fermo restando il disposto di cui al comma 3, è consentito l’impiego dei medicinali di cui al comma 1 su singoli pazienti in mancanza di valida alternativa terapeutica, nei casi di urgenza ed emergenza che pongono il paziente in pericolo di vita o di grave danno alla salute nonché nei casi di grave patologia a rapida progressione, sotto la responsabilità del medico prescrittore e, per quanto concerne la qualità del medicinale, sotto la responsabilità del direttore del laboratorio di produzione ditali medicinali purché:

a) siano disponibili dati scientifici, che ne giustifichino l’uso, pubblicati su accreditate riviste internazionali;

b) sia stato acquisito il consenso informato del paziente;

c) sia stato acquisito il parere favorevole del Comitato etico di cui all’art. 6 [Comitato etico] del decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 211 [Attuazione della direttiva 2001/20/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 aprile 2001, relativa all’applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso clinico, il cui art. 6 concerne il Comitato etico] con specifica pronuncia sul rapporto favorevole fra i benefici ipotizzabili ed i rischi prevedibili del trattamento proposto, nelle particolari condizioni del paziente;

d) siano utilizzati, non a fini di lucro, prodotti preparati in laboratori in possesso dei requisiti di cui all’art. 2, anche nei casi di preparazioni standard e comunque nel rispetto dei requisiti di qualità farmaceutica approvavati dalle Autorità competenti, qualora il medicinale sia stato precedentemente utilizzato per sperimentazioni cliniche in Italia; se il medicinale non è stato sperimentato in Italia, dovrà essere assicurato il rispetto dei requisiti di qualità farmaceutica approvati dall’Istituto superiore di sanità, secondo modalità da stabilirsi con procedimento del Presidente del medesimo Istituto;

e) il trattamento sia eseguito in Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico o in struttura pubblica o ad essa equiparata” (sugli effetti di una corretta interpretazione di tali premesse si vedano le pagine 8 e 9 dell’ordinanza).

Il Documento di Trento, la consulenza etica al letto del malato, e le nuove vie della bioetica cattolica

Il 27 marzo è stato presentato a Roma il Documento di Trento sulla Consulenza etica in ambito sanitario. Ecco il commento di Maurizio Mori al riguardo, pubblicato ieri su Caratteti Liberi.

Negli anni ’80 del secolo scorso nel mondo occidentale è improvvisamente sbocciata la bioetica come riflessione su come affrontare i problemi morali sollevati dalla Rivoluzione biomedica. Nel decennio precedente era cambiata la nozione di “morte” coi trapianti, era stato legalizzato l’aborto e la fecondazione assistita stava aprendo un mondo nuovo in campo riproduttivo. Molto diversi sono stati gli atteggiamenti di fronte a tanto scompiglio: alcuni hanno accolto le nuove sfide con entusiasmo, altri con perplessità, e altri ancora con spavento misto a terrore. Quest’ultima reazione è stata prevalente nei vertici della chiesa cattolica romana, che peraltro era alla ricerca di una normalizzazione dopo lo scossone del Concilio Vaticano II, da alcuni ritenuto una primavera e da altri una buia tempesta. Giovanni Paolo II ha sottolineato la non-negoziabilità dei valori circa la vita umana per attuare una più ampia opera di Restaurazione dell’ordine ecclesiale e morale.

In questo contesto generale, per controllare la nascente riflessione bioetica nel 1990 i cattolici italiani hanno sollecitato il governo Andreotti a creare il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB). Nei primi anni il vento del pluralismo ha imposto una posizione attendista, ma nel 1994, con l’avvento della 2a Repubblica, si è stretto un patto tra Berlusconi e il cardinal Ruini, cosicché per quasi due decenni il CNB è stato l’eco del Vaticano in Italia. L’esito più tangibile di questo patto è stata la Legge 40/2004 o legge Berlusconi-Ruini, che ha utilizzato il parere sull’embrione del CNB del 1996. Un altro parere del 2003 sul fine vita avrebbe dovuto sostenere l’approvazione del ddl Calabrò per completare il disegno: un’opera che avrebbe riportato l’Italia indietro di 30 anni sul consenso informato e sul rapporto medico-paziente. Quest’ultimo obiettivo non è stato raggiunto per svariate ragioni, ma resta che la cosiddetta “moratoria” sulle questioni bioetiche tiene l’Italia ferma al palo: mentre nel resto del mondo e dell’Europa i vari Stati riformano le norme per adeguarle alla nuova situazione storica, da noi tutto è congelato e bloccato.
Ma i processi sociali connessi alla Rivoluzione biomedica sollecitano esigenze che non si bloccano “a tavolino”, e i nuovi diritti bioetici gettano nello sconforto in molti cattolici. Così, dopo aver presieduto il Comitato Nazionale per la Bioetica per dieci anni e aver fortemente condizionata la riflessione italiana attraverso manovre istituzionali, Francesco D’Agostino è giunto a dichiarare il “fallimento della bioetica” (Avvenire, 14 febbraio 2014). Contrariamente alle (sue) attese, D’Agostino ha constatato che la bioetica non ha affatto portato a riaffermare “il principio ippocratico della difesa della vita”: quella che avrebbe dovuto essere la “etica della vita si è trasformata in un’etica del potere: il potere di chi vuole creare artificialmente e a suo piacimento la vita in provetta, di chi vuole artificialmente e a suo piacimento manipolarla, e di chi pretende” di sopprimerla”. Dichiarazioni di questo tipo segnalano la percezione che ormai non è più possibile tenere sotto controllo la bioetica italiana dai “piani alti”, cioè attraverso un controllo politico come quello realizzato negli ultimi due decenni col patto Berlusconi–Ruini. Ormai, pressioni interne supportate dalle aperture europee fatto pensare che in pochi anni anche la situazione italiana evolverà in modo significativo, e che come abbiamo avuto una legge permissiva per l’aborto e il caso Englaro, così non è da escludere che avremo altre novità.
È opportuno tenere presente questo sfondo che caratterizza il contesto attuale della bioetica perché esso offre forse una delle possibili chiavi di lettura per capire l’iniziativa lanciata a Roma il 27 marzo 2014 presso la Sala delle Colonne attuata dal Gruppo Nazionale di Etica Clinica e Consulenza Etica in ambito sanitario grazie alla collaborazione dell’onorevole Paola Binetti. In un’importante sede istituzionale della Camera dei Deputati si è presentato il Documento di Trento teso a sostenere la proposta di istituire un servizio di “consulenza di etica clinica” al letto del malato. Dopo aver ricordato i frequenti dilemmi etici presenti nella pratica clinica e le concrete difficoltà degli operatori sanitari nell’affrontarli, il Documento fa leva su alcune esperienze straniere (soprattutto americane) e sulla diffusa esterofila per sostenere che la consulenza etica svolta secondo “il modello del singolo consulente sia, per ragioni di praticabilità e sostenibilità, da preferirsi” a quello del consulente di gruppo. La conclusione è che le istituzioni sanitarie (ospedali, Asl, Rsa, ecc.) dovrebbero assumere un apposito professionista atto a svolgere il servizio di consulenza etica in maniera stabile e continuativa.
Continua.
Qui un pezzo uscito su l’Unità il 27 marzo 2014.

venerdì 28 marzo 2014

Autismo e vaccini: una firma contro i falsi allarmi

http://darryl-cunningham.blogspot.it/2010/05/facts-in-case-of-dr-andrew-wakefield.html

Bugie e allarmismi ingiustificati sulla presunta relazione tra autismo e vaccini continuano a riemergere, ultimo in ordine di tempo il caso di una denuncia al tribunale di Trani. Proprio questo ultimo evento ha spinto scienziati ed esperti di politiche sanitarie a scrivere una lettera alle cariche istituzionali responsabili della salute pubblica in Italia su cui è aperta la raccolta di firme.

L’esistenza di un rapporto tra l’insorgenza dei disturbi dello spettro autistico e il vaccino trivalente contro morbillo, rosolia e parotite è stata smentita ripetutamente, a qualunque livello governativo, scientifico e internazionale. La ricerca che lo sosteneva, basa
ta su dati falsi e risultati manipolati, è stata ritirata, e il suo autore radiato dall’ordine dei medici. Nessuno degli oltre 20 studi condotti negli ultimi 13 anni ha trovato una relazione causale tra vaccino e autismo.
Eppure, bugie e allarmismi ingiustificati di tanto in tanto riemergono ancora, trovando purtroppo ancora spazio sui media, con pericolose conseguenze sulla salute pubblica, come dimostrano le recenti epidemie di morbillo nel Regno Unito e in alcune parti degli Stati Uniti.
Ultimo in ordine di tempo, almeno in Italia, è il caso dell’indagine contro ignoti aperta dal tribunale di Trani in seguito alla denuncia dei genitori di un bambino autistico, denuncia alla quale sembra aver dato supporto addirittura un’associazione di consumatori.
Questo ennesimo caso di disinformazione e allarmismo ha spinto un gruppo di medici, epidemiologi, scienziati ed esperti di politiche sanitarie a prendere carta e penna e scrivere una lettera aperta al ministro Lorenzin e alle principali cariche istituzionali responsabili della salute pubblica in Italia per chiedere “opportuni provvedimenti per informare correttamente la popolazione, evitare che siano sparse paure ingiustificate e pretestuose quando non palesemente false” e al tempo stesso offrire “un giusto sostegno alla pratica vaccinale, segno di progresso, civiltà e protezione della salute pubblica”. Se, come noi di “Le Scienze", siete convinti che la lotta alla disinformazione e all’allarmismo nel campo dei vaccini, e più in generale della salute pubblica, sia anzitutto un dovere civico, vi invitiamo ad aggiungere la vostra firma in calce alla lettera-appello e ad aiutarci a diffondere l’iniziativa

Le Scienze, 28 marzo 2014.

giovedì 27 marzo 2014

Vaccini. Isterismo ad libitum

È di domenica la notizia che la procura di Trani avrebbe aperto un’indagine conoscitiva per accertare la “possibile connessione” tra vaccino – quello contro morbillo, rosolia, parotite – e autismo (“Possibile connessione vaccino-autismo, la Procura di Trani apre un’inchiesta”, Adkronos, 23 marzo 2014).
“Gli accertamenti sono partiti dopo la denuncia dei genitori di due bambini ai quali è stata diagnosticata dai medici una sindrome autistica che, secondo le denunce, potrebbe essere stata causata proprio dai vaccini”. Fin d’ora ci sarebbe qualche motivo di preoccupazione, ma il peggio deve ancora venire.
“Lo scopo dell’inchiesta è capire se esiste una correlazione tra l’insorgere della sindrome e la vaccinazione. I bimbi interessati hanno circa tre anni. In Italia ci sono state diverse sentenze di condanna da parte di tribunali che hanno riconosciuto il nesso di causalità”. Che lo scopo di una inchiesta giudiziaria possa essere capire qualcosa che non le spetta e che, soprattutto, è stato già capito è inquietante. Che vi siano state alcune sentenze di condanna perché sarebbe stato riconosciuto il nesso di causalità è ancora più angoscioso.
La correlazione tra vaccini e autismo è un riflesso condizionato. Una bava sul lato del labbro quando qualcuno dice “vaccino”. Un residuo indelebile di un articolo di Andrew Wakefield pubblicato nel 1998 da Lancet, tenuto in vita grazie alla buona disposizione umana alla fobia e alla credulità. La paura permane, nonostante quell’articolo sia stato smentito, nonostante non vi sia alcuna evidenza del rischio, nonostante tutte le presunte dimostrazioni siano miseramente crollate.
Eppure è ancora possibile che siano messe su inchieste o indagini per accertare qualcosa di accertato. È frequente ascoltare genitori che si domandano se vaccinare i propri figli e non molto meno frequente intercettare proposte di riduzione delle vaccinazioni in nome di chissà quale effetto collaterale.
Potremmo usare un’analogia se siamo troppo profondamente condizionati dal nesso vaccino-autismo. Mettiamo che qualcuno scriva un articolo sul rischio che gli omogeneizzati all’albicocca causino il diabete. Giustamente i genitori smettono di far mangiare ai propri figli gli omogeneizzati a quel gusto, lo dicono agli altri genitori e giurano che mai più faranno correre un simile pericolo a nessun bambino al mondo.
Poi però quell’articolo viene smentito, e addirittura si scopre che l’autore si trova in una situazione di conflitto di interesse (ha un’azienda dove si producono omogeneizzati al gusto di albicocca ma che albicocca non sono, perciò sicuri). La smentita non è occasionale, ma sistematica e incontrovertibile – e questo è ovviamente il punto principale, ben più importante dei possibili interessi economici implicati.
La correlazione però continua a spaventare i genitori e, ancor peggio, lo studio sulla pericolosità continua a essere citato dai tribunali, da alcuni pediatri e da genitori angosciati e sicuri che quanto accaduto al figlio è colpa di quell’intruglio maledetto. Ci dev’essere un colpevole in questa storia! Sulla pericolosità dei vaccini l’isterismo non si placherà mai. O forse solo quando gli effetti saranno talmente spaventosi da indurre anche i fautori del peggior naturalismo a riconsiderare le sciocchezze spacciate per verità (tenute nascoste dagli interessi delle multinazionali).
In questa vicenda spaventa anche la confusione dei piani: il tribunale chiamato a rispondere a domande alle quali non può rispondere. In modo analogo al recente caso Stamina, la risposta dipenderà dall’interpretazione del giudice, in una visione della scienza pericolosamente simile a un dibattito sul colore delle tende da mettere nei terrazzini di un condominio. Rosso vale come blu, giusto? Sarà la maggioranza a decidere, e nel dibattito dovremo rispettare le regole della par condicio: prima parla quello a favore del rosso, poi quello a favore del blu, poi votiamo.
Fa davvero paura.

Il Mucchio.

mercoledì 26 marzo 2014

Mario vuole la mamma

Le opinioni degli integralisti possono essere talvolta esilaranti. In una conversazione che ho avuto di recente con alcuni di loro mi sono sentito dichiarare, nell’ordine: che il matrimonio tra eterosessuali – no, non è un refuso, confermo: tra eterosessuali – non è un diritto umano; che il volere della maggioranza non deve essere coartato da un giudice costituzionale; che l’impossibilità di derivare le norme dai fatti dimostrata da Hume è «sputtanata» ormai da secoli; che la logica matematica è una scienza empirica (!); che nel corso della discussione io avrei esplicitamente approvato qualsiasi potere legiferante, compreso quello del governo nordcoreano. È chiaro che un dibattito con interlocutori di tal fatta risulterà decisamente surreale e, alla fine, non molto produttivo; ma regalerà anche momenti di sana ilarità.
Chi però, incoraggiato dal titolo promettente, si aspettasse di trovare qualche comica bizzarria nel libro appena uscito di Mario Adinolfi, Voglio la mamma (Tricase, Youcanprint Self-Publishing, 2014, pp. 122, € 13,00) rimarrebbe deluso. Le fallacie logiche, le informazioni false e i non sequitur abbondano, è vero; ma è tutto già sentito, consunto dall’uso ripetuto. Nella discussione sul matrimonio per gli omosessuali, ad esempio, l’autore spara a raffica, in rapidissima successione, la vecchia fallacia etimologica («non c’è matrimonio senza “mater”»), la fallacia del piano inclinato («Se un bambino riceve amore uguale a quello di una madre e di un padre da due papà, perché non […] dal papà che ama tanto il proprio cane e vuole che la sua famiglia sia composta dal papà, dal cane e dal bambino ottenuto da una madre surrogata?»; il matrimonio con i cani non manca mai, in questo genere di argomento), la tradizionale fantasia paranoica di ogni integralista che si rispetti sulla proibizione incombente o già in atto di usare le parole mamma e papà («Vogliono cancellare persino la parola mamma […]. Chi è di sinistra non priverebbe mai un soggetto debole, debolissimo come un bambino del suo diritto a chiamare mamma [sic]»), l’inane conta dei numeri («[In] Olanda, si è passati rapidamente dai 2.500 matrimoni tra gay o lesbiche celebrati nel 2001 ai 1.100 del 2005»: si sa, le minoranze troppo ristrette non dovrebbero avere diritti, che spettano veramente solo a quelle più sostanziose, e meglio ancora alle maggioranze), la gag dei registri comunali delle coppie di fatto («dove sono stati istituiti sono clamorosamente vuoti: nessuno si è iscritto»: forse perché non conferiscono nessun vero diritto?). Vecchie barzellette, che non fanno più ridere.
C’è un tentativo di umorismo originale, ma il risultato è alquanto fiacco:

Se il vincolo matrimoniale non è più quello tra un uomo e una donna, il diritto alla successione riguarderà prima di tutto il coniuge. Ho un amico ricco e anziano, che fin dai banchi del liceo ha come migliore amico un suo compagno sostanzialmente nullafacente che vive di espedienti. Gli ha dato rifugio in casa, una casa enorme e vivono sotto lo stesso tetto. Da più di cinque anni ormai. Mi racconta sempre il mio amico ricco che spera da tanto tempo la [sic] legge sul matrimonio omosessuale perché vuole lasciare l’eredità e soprattutto la sua pingue pensione all’amico, non a quella megera della ex moglie e alla di lei (e di lui) prole, da lui qualificata come avida e ingrata. Anche qui c’è un lato glamour, anche se il mio amico non è per niente gay, anzi. Io vedo però diritti negati e anche un’opportunità: alla dipartita del mio amico anziano, andrò io a convivere nell’enorme casa con il suo amico, che è più anziano di me di vent’anni e morirà presumibilmente prima di me, lasciandomi avendomi omosessualmente sposato il diritto alla pingue pensione reversibile. E così via.
Si può sorridere di fronte alla buffa pretesa di Adinolfi di decidere lui chi sia degno o meno di ricevere la pensione dell’amico, o di fronte alle sue informazioni non proprio esattissime (tutti o quasi sanno che chi si risposa perde il diritto alla pensione di reversibilità); e possiamo immaginare a quali goffi paralogismi ricorrerebbe se qualcuno gli obiettasse che la badante che riesce a farsi sposare dall’anziano rintronato non invalida l’istituzione del matrimonio eterosessuale. Ma appunto, di sorrisi si tratta, tutt’al più, non della sana risata liberatrice che ci coglie leggendo un articolo di Tempi o un post della Nuova bussola quotidiana.
Stessa storia nel resto del volume: dubbie informazioni («la morte che diventa “dolce” se a darla è lo Stato in una squallida clinica di una periferia svizzera»; ma l’associazione svizzera Dignitas è privata, lo Stato si limita a non interferire), bizzarre inferenze sui desideri altrui («Ho già raccontato la vicenda di Elton John e del suo compagno, desiderosi di essere papà e mamma»), equivoci linguistici («[I] cosiddetti “diritti civili”, che già solo nella definizione fa sorridere, come se esistessero diritti che sono incivili»), tentativi diretti di umorismo («Gli uomini sono uomini, le donne sono donne, la via per accertare la propria condizione di genere è nella stragrande maggioranza dei casi estremamente breve e intuitiva»), non riescono a imprimere il colpo d’ala che risolleverebbe il volume; come non ci riescono nemmeno gli ipse dixit, tanto pretenziosi quanto vistosamente non argomentati:
nessuna razionalità può segnare un momento in cui quella storia a [sic!] inizio che non sia l’istante del concepimento quando l’amore trasforma un uomo e una donna in una carne sola che si fa vita [per Adinolfi il concepimento si verifica nel momento del coito?]. Solo in quell’istante può essere rintracciato l’inizio della storia di ciascuno di noi, inventarsi la quattordicesima settimana o il novantesimo giorno per segnare un macabro confine tra morte possibile e vita inevitabile è semplicemente senza senso. O si ha un diritto di abortire sempre o non lo si ha mai. Io credo non lo si abbia mai.
o le ricostruzioni grottescamente tendenziose della realtà:
La cultura dominante ci propone invece versioni scintillanti del percorso della transessualità, […] imponendo un modello per cui l’individuo può tranquillamente scegliere a quale genere sessuale appartenere, prescindendo dalla condizione naturale in cui è nato. Farsi donna se si è nati uomo o viceversa è quasi unanimemente considerato un percorso positivo [nella bibliografia Adinolfi cita un libro sul disturbo dell’identità di genere, evidentemente senza averlo letto].
Tra i pochi momenti comici memorabili metterei soltanto un bellissimo malapropismo («Queste povere persone [i transessuali] sono costrette a comportamenti denigranti», corsivo mio), e alcune plateali contraddizioni: si confronti «nulla di quel che è contenuto qui ha a che fare con una dimensione religiosa» con
Perché devastare un istituto millenario come il matrimonio tra un uomo e una donna, desacralizzarlo negandone la radice di senso, per farlo utilizzare ad un pugno di gay per mere ragioni di bandiera ideologica? [corsivo mio]
o meglio ancora con
A Roma lo scandalo passato alle cronache con il titolo orrendo delle “baby squillo dei Parioli” […] avrebbe dovuto sconvolgere il tessuto sociale di una città che è anche, non lo dimentichiamo, il centro religioso più importante del mondo occidentale.
E si confronti anche
sono state costruite vere e proprie “fabbriche di bambini” con centinaia di donne trasformate in incubatrici viventi e umiliate a suon di dollari, euro e sterline nella loro dimensione più intimamente femminile, quella della maternità […] Le donne vengono cercate nei bassifondi della povertà estrema, pagate con il 10% dell’importo che viene lasciato dagli occidentali alla clinica, costrette [in che modo?] a portare avanti anche otto o nove gravidanze nell’arco di dieci anni.
con
c’è da capire se c’è più libertà e potenziale progresso in una giovane madre che si smezza [sic] dalla mattina alla sera la propria famiglia e la crescita dei propri figli, riuscendo a non perdere la mitezza del suo essere femminile o se dobbiamo preferire quella femmina androgina capace di vendersi i figli per bisogno.
Il problema del volume, in ogni caso, va ben al di là del fatto di fare poco ridere. Consideriamo affermazioni come queste:
Ma una mamma nell’intimo non può non sentire la voce della vita che ha in grembo, che le grida silenziosa: “Voglio te”. Voglio la mamma. Non la donna. Una donna può chiedere di avere il diritto di abortire. Una mamma non può neanche immaginarlo. […] Ma una donna abortisce, una mamma no.
Il politicamente corretto vuole che si usi l’espressione “le famiglie”, per far capire che l’istituzione familiare classica è ormai in disuso e che tutto è famiglia, anche una zitella con gatto.
Già qui, in questo ergersi a giudice degli altri, a dividere in umani e meno umani, in fattrici degne e nubili indegne, da ridere non c’è proprio più nulla. Come non c’è qui:
nelle graduatorie per gli asili nido i figli di genitori single scavalcano i figli di famiglia numerosa
in cui è implicito che ai più deboli, in quanto «irregolari», vadano negati diritti di cui hanno più bisogno degli altri (o Adinolfi crede magari che le famiglie con un solo genitore siano in media più ricche di quelle «normali»?). Ma c’è molto, molto di peggio:
[È] una delle più grandi vergogne della contemporaneità raccontata invece come un decisivo elemento di progresso: l’affitto dell’utero di donne bisognose di denaro per portare a compimento gravidanze che la natura rende impraticabili, strappando poi il bambino pochi minuti dopo il parto e dopo un primo contatto tranquillizzante con il corpo della madre, per consegnarlo di solito ad una coppia di omosessuali benestanti che giocheranno a fare i genitori. Finché ne avranno voglia.
Limitiamoci solo all’ultima frase: da quale abisso di odio – odio feroce, bestiale, spietato – può sgorgare una simile zaffata di pregiudizio, immotivato e indiscriminato? Adinolfi ci assicura, alla fine del libro, che in ciò che precede «Non c’è astio, non c’è faccia feroce»; excusatio non petita se mai ve ne fu una.
Ma il vertice (o il fondo), incredibilmente, non è ancora stato toccato.
In Olanda e tra poco anche in Belgio i bambini malformati che soffrano “livelli insopportabili di dolore” possono essere legalmente soppressi per decisioni assunte in ossequio alla nuova ideologia liberatoria di questo tempo: l’eutanasia infantile. Un avamposto di progresso, secondo molti. Io vedo molte mamme sobbarcarsi sacrifici immensi per proteggere bambini che soffrono molto, per proteggere il loro diritto alla vita, alla lezione immensa che quel dolore lascia in chiunque si avvicini, quando basta poi un accenno di sorriso di quel bambini per rischiarare la giornata più di cento raggi di sole.
Per questo gran figlio di mamma, insomma, il dolore tremendo e immedicabile dei bambini serve: serve a comunicare una lezione edificante, serve – se accompagnato da «un accenno di sorriso» – a rischiarare la giornata a chi gli sta attorno. Serve, e quindi si giustifica. Per Adinolfi, bontà sua, «le terapie del dolore fanno passi da gigante di anno in anno. Investiamo su quelle»; ma nell’attesa (che potrebbe rivelarsi molto lunga), sfruttiamo pure quell’utile dolore. E se qualcuno protesta in nome di quei bambini torturati, accusiamolo pure di essere «disturbato dalla loro esistenza».

Il cerone del pagliaccio è colato via, rivelando un’espressione torva. No, non c’è davvero proprio più nulla da ridere.

mercoledì 19 marzo 2014

Fine vita e testamento biologico, la situazione oggi in Italia

2006: “Raccolgo il suo messaggio di tragica sofferenza con sincera comprensione e solidarietà. Esso può rappresentare un’occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi, di particolare complessità sul piano etico, che richiedono un confronto sensibile e approfondito, qualunque possa essere in definitiva la conclusione approvata dai più”.

2014: “Ritengo che il Parlamento non dovrebbe ignorare il problema delle scelte di fine vita ed eludere ‘un sereno e approfondito confronto di idee’ su questa materia. 
Richiamerò su tale esigenza, anche attraverso la diffusione di questa mia lettera, l’attenzione del Parlamento”.


A scrivere è sempre Giorgio Napolitano. Nel 2006 rispondendo alla lettera di Piergiorgio Welby, ieri alla richiesta dell’Associazione Luca Coscioni. In questi 8 anni il confronto non è stato sereno, né approfondito (sensibile è uno strano aggettivo per un confronto, ma prendendolo alla larga possiamo dire che no, non è stato nemmeno sensibile, soprattutto alla razionalità del confronto stesso).

Prima di “confrontarci” dobbiamo ricordare qual è il panorama normativo delineato dalla Costituzione e dalle leggi già esistenti. I cardini sono costituiti dalla nostra autonomia e dalla possibilità di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario. Il paternalismo medico (“ti obbligo per il tuo bene”) è stato sostituito – seppure non ancora del tutto e non ancora perfettamente – dall’autodeterminazione (“ti dico qual è il tuo quadro clinico e i possibili scenari, tu decidi cosa fare”). E non potrebbe essere altrimenti: chi altri dovrebbe decidere della mia esistenza?

Il nostro consenso è necessario e nessun medico può decidere al posto nostro. Ci sono alcune eccezioni, giustificabili nel caso di assenza o significativa riduzione della capacità di intendere e di volere oppure di pericolosità verso gli altri. Sono i casi previsti dal trattamento sanitario obbligatorio (TSO): non essere in grado di decidere o essere affetti da una malattia infettiva. Anche i casi di urgenza costituiscono un’eccezione: se arrivo incosciente al pronto soccorso, i medici mi soccorrono.

Eliminate le situazioni eccezionali, se sono cosciente e non costituisco un pericolo per gli altri, posso decidere se e come curarmi senza che vi sia la possibilità di impedirmelo.

Per illustrare il punto spesso si fa l’esempio del Testimone di Geova che ha più di 18 anni e che rifiuta le trasfusioni: molti di noi possono considerare questo rifiuto come dissennato ma il nostro parere – per fortuna – non è sufficiente per imporre a un adulto qualcosa che secondo noi è giusto (che poi non esiste, sarà al più giusto per noi). È una pessima abitudine trasformare il legittimo “io farei così” in “tutti devono fare così”.

Ci sono molti altri esempi: come quello della donna che non ha voluto farsi amputare pur sapendo che sarebbe morta. Lo stesso Welby non ha chiesto altro che interrompere un macchinario che lo teneva in vita. Un macchinario al cui uso liberamente aveva acconsentito e al quale, altrettanto liberamente, avrebbe dovuto poter rinunciare. Così come possiamo decidere di cominciare una chemioterapia e decidere di smettere – anche se non facendola moriremo con un’altissima probabilità.

venerdì 14 marzo 2014

Un evento pericoloso

Dal blog di Marco Piazza («Sindrome di Rett: gli animalisti bloccano la raccolta fondi», Su Piazza, 13 marzo 2014):

Una partita di serie A, un evento collaterale annullato per motivi di ordine pubblico. Roma-Lazio? Milan-Inter? No, Unendo Yamamay Busto Arsizio contro Robur Tiboni di Urbino, campionato di serie A di pallavolo femminile, in programma questo sabato a Busto Arsizio. E l’evento “pericoloso”, a margine del match di volley, era nientemeno che una lotteria benefica per l’associazione proRETT. I soldi raccolti sarebbero serviti alla ricerca scientifica su questa malattia genetica, che provoca un grave ritardo mentale e colpisce prevalentemente le bambine. Il motivo dell’annullamento? L’intervento degli animalisti, che hanno boicottato la raccolta fondi perché contrari alla sperimentazione animale praticata dagli scienziati che studiano la Rett (e dalla quasi totalità dei ricercatori in ambito biomedico). Prima con un comunicato della Lav (lega antivivisezione) locale, poi con un bombardamento di email alla società di volley, al suo sponsor e a chi gestisce il palazzetto dello sport, con tanto di foto di animali sventrati. A quel punto gli organizzatori devono essersi ricordati dei recenti blitz nei laboratori nelle università milanesi, o delle minacce di morte inviate via facebook a Caterina Simonsen, la ragazza malata che era intervenuta per difendere la ricerca, e per evitare guai simili hanno deciso, con rammarico, di annullare la lotteria.
Ogni commento sarebbe superfluo. Personalmente ho deciso, seguendo l’esempio di un’amica, di fare immediatamente una donazione all’associazione proRETT; a loro andrà anche la mia scelta del 5 per mille.

martedì 11 marzo 2014

Violare la legge

Stefano Magni, «Eppur non si muove: l’immutabile diritto naturale» (La Nuova Bussola Quotidiana, 11 marzo 2014), a proposito di un recente dibattito sul diritto naturale (il corsivo è mio):

l’unico relatore della serata convinto che il diritto sia naturale e sia immutabile era il nostro Marco Respinti. «Dio crea l’uomo dotandolo di una determinata natura ed è da quella natura che derivano delle regole precise quanto delle leggi fisiche. Se io violo una legge fisica, ad esempio butto a terra il mio computer, questo si rompe. Non è per cattiveria che si spacca, è una legge fisica, è un dato di natura».
Per Respinti, quindi (se quanto ha detto è stato riportato correttamente), buttare a terra qualcosa significa violare una legge fisica. Non sorprende, con apologeti di questo calibro, che l’etica della legge naturale sopravviva ormai – e pure a stento – soltanto tra i cattolici.

domenica 9 marzo 2014

L’obiezione di coscienza non può impedire la corretta applicazione della legge 194

Oggi, a seguito di un reclamo collettivo dell’associazione non governativa International Planned Parenthood Federation European Network (IPPF E N che dagli anni 50 si batte in 172 paesi per potenziare l’accesso ai programmi di salute delle fasce più vulnerabili) assistita dall’Avv. Prof. Marilisa D’Amico, Ordinario di Diritto costituzionale, Università degli Studi di Milano, e dall’Avv. Benedetta Liberali, il Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d'Europa ha ufficialmente riconosciuto che l'Italia viola i diritti delle donne che - alle condizioni prescritte dalla legge 194/1978 - intendono interrompere la gravidanza, a causa dell'elevato e crescente numero di medici obiettori di coscienza. Il ricorso è stato presentato contro l’Italia al fine di accertare lo stato di disapplicazione della legge 194/1978 e il Comitato Europeo ha accolto tutti i profili di violazione prospettati. La legge 194/1978 prevede che, indipendentemente dalla dichiarazione di obiezione di coscienza dei medici, ogni singolo ospedale debba poter garantire sempre il diritto all’interruzione di gravidanza delle donne. Oggi purtroppo, a causa dell’elevato numero, sempre crescente come dimostrano i dati forniti da IPPF EN nell’ambito del giudizio davanti al Comitato Europeo (documentazione reperibile in www.coe.int/socialcharter), di medici obiettori, alcune strutture si trovano a non avere all’interno del proprio organico medici che possono garantire l’effettiva e corretta applicazione della legge. Questo riconoscimento di violazione può essere riconosciuto come una vittoria per le donne, e per l’Italia, e mira a garantire la piena applicazione di una legge dello Stato, la 194, che la Corte costituzionale ha definito irrinunciabile. “La vittoria di oggi è un successo importante perché l’obiezione di coscienza non è un problema solo in Italia ma in molti altri paesi europei. IPPF, che da più di 60 anni lotta nel mondo per garantire a tutte le donne i loro diritti e l’accesso alla salute sessuale e riproduttiva, vuol fare emergere la mancanza di misure adeguate da parte dello Stato italiano a garantire il diritto fondamentale alla salute e all’autodeterminazione delle donne. Siamo molto felici che il Comitato Europeo abbia stabilito che l’Italia debba risolvere una volta per tutte questo problema” - così dichiara Vicky Claeys, Regional Director di IPPF EN.
Qui i dettagli e qui il testo completo del reclamo.

sabato 8 marzo 2014

Aborto: l’obiezione di coscienza e il diritto negato


L’obiezione di coscienza ha avuto negli anni un profondo slittamento semantico: da scelta individuale e libertaria di chi rifiutava la leva militare, è diventata un’imposizione della propria visione morale prossima all’omissione di servizio pubblico, come nel caso dei medici obiettori che si rifiutano di praticare le interruzioni di gravidanza. I numeri ufficiali riportano un aumento costante del fenomeno, ma quelli reali sono ancora più allarmanti.

Chi sono gli obiettori di coscienza?

Oggi la risposta più frequente sarebbe: i ginecologi che non vogliono eseguire interruzioni di gravidanza (Ivg) per ragioni «di coscienza». Alcuni anni fa sarebbe stata diversa: l’incarnazione più genuina dell’obiettore di coscienza era il ragazzo che riceveva la cartolina precetto e rifiutava di fare il servizio di leva obbligatorio, finendo in carcere. A lungo questa scelta è stata oggetto di riprovazione morale, condannata dai tribunali e dalle gerarchie cattoliche in nome di una «difesa della patria» che non poteva che passare per le armi. Ci sono stati molti casi di persone processate e mandate in carcere per aver strappato la cartolina, e persone accusate di apologie di reato per aver difeso pubblicamente quella scelta (tra i casi più noti quelli di Pietro Pinna, Aldo Capitini, padre Ernesto Balducci, Giuseppe Gozzini, don Lorenzo Milani).
Che cosa è successo all’obiezione di coscienza?
Nel corso di alcuni anni c’è stato un profondo slittamento semantico che ha trasformato una scelta individuale e libertaria in un’imposizione della propria visione morale, a volte moralista e ipocrita, prossima all’omissione di servizio, e che ha spinto una pratica sanitaria in un terreno di scontro di coscienze.
Come possiamo chiamare nello stesso modo il ginecologo che non vuole eseguire aborti e chi rifiutava l’obbligo di leva armata?
Le differenze sono enormi e impediscono paragoni affrettati: la cartolina ti arrivava senza che tu avessi compiuto alcuna scelta, il prezzo da pagare era altissimo (condanna sociale, processi, galera). La tua scelta non ricadeva sulle spalle di nessun altro, non entrava in conflitto con i diritti di un altro individuo ma con un obbligo generale e astratto.
Il ginecologo obiettore ha deciso liberamente di fare il ginecologo e di esercitare la sua professione nel pubblico. Essere obiettore non è una scelta che comporta una qualche conseguenza, ma è anzi una scelta comoda. Si lavora anche di meno. La 194 non prevede nemmeno alcun servizio alternativo, com’era stato per l’obbligo di leva quando negli anni Settanta era stata riconosciuta la possibilità del servizio alternativo alla leva armata. La garanzia del servizio di Ivg sarebbe un obbliuno dei doveri professionali di chi ha scelto di lavorare nell’ambito della riproduzione umana – conseguente a una libera scelta professionale, e nulla ha a che fare con l’obbligo di leva.
Per alcuni, è anche una scelta ipocrita: molti obiettori continuano a suggerire e a eseguire diagnosi prenatali, tirandosi però poi indietro se la decisione della donna è di interrompere la gravidanza. Spesso senza nemmeno indicare loro un medico non obiettore – 7 come la legge impone e come la coscienza medica e personale dovrebbe suggerire – ma dicendo: «Sono obiettore, non posso intervenire». È bene sapere che le donne che chiedono o accettano di eseguire indagini prenatali sono in genere donne che vogliono poter scegliere. Quelle che invece sono convinte che non interromperebbero mai una gravidanza, anche in presenza di patologie fetali importanti, non vogliono sapere. Non vogliono eseguire diagnosi prenatali, non solo perché presentano un rischio di aborto, ma soprattutto perché quell’informazione non ha senso, e non la vogliono. «Sapremo al parto», dicono.
Se è indubitabile che l’obiezione di coscienza sia un diritto, è altrettanto indubitabile che la suddetta affermazione abbia un significato ambiguo, strettamente vincolato al contesto. Cosa intendiamo per obiezione di coscienza? Quella contra legem del militare, o quella intra legem del ginecologo? Quella che rivendicava una scelta individuale, o quella addomesticata e risucchiata dalla legge? E perché è stata usata la stessa espressione, perché non chiamare opzione o facoltà l’esonero concesso dalla 194, visto che non si oppone ad alcun obbligo, ma è anzi regolata dalla norma stessa?
Inoltre dobbiamo ricordare che nessun diritto è assoluto, ma dipende dagli altri diritti con cui può entrare in conflitto – in questo caso la garanzia del servizio di Ivg – e con i doveri professionali. La 194, pur prevedendo la possibilità di ricorrere all’obiezione, traccia confini abbastanza chiari e stabilisce la gerarchia da seguire: prima la richiesta della donna, poi la coscienza dell’operatore sanitario. Tuttavia, questi confini sono violati sempre più spesso e con un’inspiegabile strapotenza.
C’è infine un’altra conseguenza: isolare l’Ivg, allontanarla dal dominio della salute riproduttiva. Renderla un’eccezione, una questione più morale che medica, una questione di coscienza – come se solo i ginecologi ne avessero una.

[...]

Che fare?

Per arginare gli effetti attuali si potrebbe cominciare applicando l’articolo 9. La questione della legittimità dell’obiezione di coscienza oggi, a tanti anni di distanza dalla legge, impone invece una risposta diversa. Perché mantenere il privilegio di non eseguire un’interruzione di gravidanza per chi ha scelto liberamente di esercitare una certa professione? Come risolvere quella contraddi- zione interna della 194 che stabilisce un servizio e, allo stesso tempo, la possibilità di sottrarvisi? La soluzione meno contraddittoria sembra essere la fine della possibilità di ottenere l’esonero da alcune pratiche, cioè la fine della possibilità di invocare l’obiezione di coscienza per l’interruzione volontaria di gravidanza. Non solo hai scelto una professione medica, ma hai scelto di lavorare in una struttura pubblica: anche la garanzia dell’Ivg rientra nei tuoi compiti professionali (non è certo solo la professione medica a scontrarsi con questioni «di coscienza»: si pensi agli avvocati, ai giudici o a molti altri mestieri. Se non vuoi correre il rischio di difendere uno stupratore, eviti di fare l’avvocato d’ufficio). Non significa che sarebbe una strada facilmente percorribile, soprattutto se la discussione rimane impantanata in un conflitto di coscienze e non si sposta su quella dei doveri professionali e dei mezzi necessari per garantire alcuni servizi pubblici. Sarebbe però l’unico modo per evitare che la legittima richiesta della donna rischi di rimanere schiacciata dalla visione personale e paternalistica del medico.

Micromega, 9/2013 (pdf).

venerdì 7 marzo 2014

La Spagna e l’aborto


L'organizzazione chiede il ritiro della normativa che "allontana la Spagna dai paesi del contesto europeo, per situarla al livello di Lutuania, Macedonia e Turchia", per quando riguarda la difesa dei diritti umani. (ANSAmed).

mercoledì 5 marzo 2014