venerdì 31 luglio 2009

La beffa?

Questo è il comunicato stampa n. 120, 30 luglio 2009, dell’Agenzia Italiana per il Farmaco (il corsivo è mio):

Il Consiglio di Amministrazione dell’AIFA ha deliberato l’autorizzazione all’immissione in commercio del farmaco mifepristone (Mifegyne).
La decisione assunta conclude anche in Italia quell’iter registrativo di Mutuo Riconoscimento seguito dagli altri Paesi europei in cui il farmaco è già in commercio, interrompendone l’uso off-label.
Il Consiglio di Amministrazione ha ritenuto di dover precisare, a garanzia e a tutela della salute della donna, che l’utilizzo del farmaco è subordinato al rigoroso rispetto della legge per l’interruzione volontaria della gravidanza (L. 194/78). In particolare deve essere garantito il ricovero in una struttura sanitaria, così come previsto dall’art. 8 della Legge n.194, dal momento dell’assunzione del farmaco sino alla certezza dell’avvenuta interruzione della gravidanza escludendo la possibilità che si verifichino successivi effetti teratogeni. La stessa legge n.194 prevede inoltre una stretta sorveglianza da parte del personale sanitario cui è demandata la corretta informazione sul trattamento, sui farmaci da associare, sulle metodiche alternative disponibili e sui possibili rischi, nonché l’attento monitoraggio del percorso abortivo onde ridurre al minimo le reazioni avverse (emorragie, infezioni ed eventi fatali).
Ulteriori valutazioni sulla sicurezza del farmaco hanno indotto il CdA a limitare l’utilizzo del farmaco entro la settima settimana di gestazione anziché la nona come invece avviene in gran parte d’Europa. Tra la settima e la nona settimana, infatti, si registra il maggior numero di eventi avversi e il maggior ricorso all’integrazione con la metodica chirurgica.
Il Consiglio di Amministrazione si è avvalso anche dei pareri forniti dal Consiglio Superiore di Sanità e ha raccomandato ai medici la scrupolosa osservanza della legge.
La decisione assunta dal CdA rispecchia il compito di tutela della salute del cittadino che deve essere posto al di sopra e al di là delle convinzioni personali di ognuno pur essendo tutte meritevoli di rispetto.
È chiaro che se davvero le donne fossero costrette a restare in ospedale fino alla certezza dell’avvenuta interruzione della gravidanza (cioè fino all’espulsione dell’embrione), l’aborto farmacologico diventerebbe sostanzialmente impraticabile: l’espulsione dell’embrione, in questo tipo di intervento, è imprevedibile, e benché avvenga a volte poco dopo l’assunzione del primo dei due farmaci previsti dalla procedura (la RU-486) senza neanche aspettare il secondo (il misoprostol), è possibile anche che passino giorni o, in rari casi, persino settimane. Non c’è bisogno di spiegare che una degenza ospedaliera di durata non prevedibile è inaccettabile per la stragrande maggioranza delle donne; inoltre molti dei vantaggi rispetto all’aborto chirurgico – riduzione dei tempi di attesa, riduzione al minimo dei contatti con l’ambito ospedaliero (in Italia spesso ostile) e dell’impegno logistico delle stesse strutture sanitarie, riconduzione dell’esperienza abortiva nel contesto domestico e degli affetti familiari – sarebbero annullati.
La decisione positiva dell’Aifa è stata dunque una beffa? La risposta non è tanto semplice. Un ospedale non ha infatti il potere di trattenere le donne contro la loro volontà (farlo configurerebbe il reato di sequestro di persona); se una paziente vuole essere dimessa dopo poche ore dalla somministrazione della RU-486 bisognerà accontentarla. Detto questo, è possibile però che la decisione condizionata dell’Aifa possa essere usata domani, una volta constatata la sua inapplicabilità di fatto, come un grimaldello per tornare sui propri passi e ritirare l’autorizzazione concessa.

Due chiarimenti sul comunicato dell’Aifa. Gli «effetti teratogeni» di cui si parla sono le malformazioni che la RU-486 o il misoprostol possono causare al feto, nell’eventualità che dopo la loro somministrazione la gravidanza non si arresti e giunga al termine (può capitare in rarissimi casi). Ovviamente per evitare questa ed altre complicanze basta una visita di follow-up; è vero che alcune donne si sottraggono a questo passo (in genere perché l’interruzione di gravidanza è avvenuta senza problemi), ma un semplice screening delle pazienti da ammettere a questo tipo di aborto può limitare il problema, e la considerazione che anche le donne – checché ne pensino alcuni – sono esseri umani responsabili di sé e delle proprie azioni può servire a inquadrarlo correttamente.
Il richiamo infine all’art. 8 della legge n. 194/1978 è quanto di più pretestuoso si possa concepire. L’articolo in questione specifica quali professionisti siano abilitati a «praticare» l’interruzione di gravidanza e in quali strutture sanitarie possano farlo. Se i farmaci che causano l’aborto vengono somministrati da uno di questi professionisti in una di queste strutture ma l’espulsione dell’embrione avviene altrove, diremo dunque che l’aborto è stato «praticato» dalla donna stessa? E questo sarebbe un caso indistinguibile da quello in cui invece la pillola sia stata somministrata da Amalasunta la Mammana nel sottoscala della sua casa di abitazione di Vicolo dei Miracoli? «Praticare X» significa eseguire l’azione che causa X o fare esperienza dell’effetto X? Se una legge imponesse che la cura dei tumori con la radioterapia venga «praticata» solo da certi specialisti e presso certe strutture abilitate, il paziente dovrebbe per questo essere sempre trattenuto fino all’avvenuta remissione? La risposta sembra ovvia...

Ok

(ANSA) - ROMA, 30 LUG, 23:19 - Via libera a maggioranza dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) alla pillola abortiva Ru 486. Il Consiglio di amministrazione dell’Aifa ha infatti approvato l’immissione in commercio del farmaco in Italia.
Qualcosa tuttavia mi dice che non finisce qui...

giovedì 30 luglio 2009

Orrore profondo

Comunicato stampa del 28 luglio 2009 di Amnesty International Italia:

In un rapporto diffuso il 27 luglio a Città del Messico, Amnesty International ha reso noto che il divieto assoluto di abortire, in vigore dal luglio 2008 in Nicaragua, mette in pericolo la vita delle donne e delle ragazze, negando loro trattamenti salvavita, impedendo agli operatori sanitari di fornire cure mediche efficaci e contribuendo all’aumento della mortalità materna in tutto il paese.
Secondo i dati ufficiali, quest’anno 33 donne e ragazze sono morte durante la gravidanza, rispetto alle 20 dello stesso periodo del 2008. Amnesty International ritiene che queste cifre siano inferiori alla realtà, poiché lo stesso governo ha riconosciuto che i numeri sulla mortalità materna sono sottostimati.
Il rapporto “Il divieto totale di abortire in Nicaragua: la salute e la vita delle donne minacciate, gli operatori sanitari criminalizzati” è il primo studio realizzato da Amnesty International sulle implicazioni, dal punto di vista dei diritti umani, del divieto di abortire nei casi in cui la salute o la vita di una donna o di una ragazza siano a rischio o quest’ultima sia stata vittima di stupro o incesto.
Il nuovo codice penale del Nicaragua prevede pene detentive per le donne e le ragazze che cercano di abortire e per gli operatori sanitari che forniscono servizi associati all’aborto.
Le nuove disposizioni di legge introducono sanzioni penali per medici e infermiere che forniscono cure a donne o a ragazze ammalate di cancro o malaria, che abbiano contratto il virus dell’Hiv/Aids o abbiano una crisi cardiaca, qualora tali cure risultino controindicate in gravidanza e possano causare danni o la morte dell’embrione o del feto.
Addirittura, la normativa punisce le donne e le ragazze che hanno perso un bambino, poiché in molti casi è impossibile distinguere tra un aborto spontaneo e un aborto procurato.
La nuova legge è in contrasto con le norme e i protocolli di Ostetricia del ministero della Salute del Nicaragua, che in casi particolari prevedono l’aborto terapeutico. Le autorità non hanno dato alcuna garanzia che gli operatori sanitari che rispetteranno queste norme non saranno puniti.
Il divieto di aborto terapeutico in Nicaragua rappresenta una disgrazia. È uno scandalo dei diritti umani che ridicolizza la scienza medica e trasforma la legge in un’arma contro la somministrazione di cure mediche alle donne e alle ragazze incinte” – ha dichiarato Kate Gilmore, vice Segretaria generale di Amnesty International, rientrata a Città del Messico da una visita in Nicaragua. “Il nuovo codice penale in vigore nel paese è una conseguenza, cinica e insensibile, della contrattazione politica delle elezioni del 2006. Il risultato è che oggi una legge punisce le donne e le ragazze che hanno bisogno di cure salvavita e i medici che le forniscono”.
La delegazione di Amnesty International che ha visitato il Nicaragua ha avuto colloqui con organizzazioni per i diritti umani, operatori sanitari, parlamentari e il ministro della Salute. Nonostante ripetute richieste, la Commissione parlamentare sulle donne, l’Istituto governativo sulle donne e lo stesso presidente Ortega hanno rifiutato il confronto.
I delegati hanno incontrato giovani ragazze che, dopo essere state sottoposte a violenza sessuale da parte di familiari stretti o amici, non avendo alternative sono state obbligate a portare a termine la gravidanza, dando alla luce molto spesso il loro fratello o la loro sorella. L’organizzazione per i diritti umani ha appreso con grande turbamento che c’è stata un’impennata dei suicidi da avvelenamento di ragazze incinte nel 2008.
Le ostetriche, i ginecologi e i medici di famiglia hanno detto ad Amnesty International che, in base al codice penale, non possono più fornire legalmente cure mediche a una donna o a una ragazza incinta in pericolo di vita, a causa del potenziale rischio per il feto. Una dottoressa ha dichiarato che prega ogni giorno di non ricevere una donna in gravidanza anencefalica (una condizione che significa che il feto non potrà sopravvivere), poiché in quel caso dovrà dirle che sarà obbligata a portare a termine la gravidanza, nonostante le conseguenze devastanti per la gestante dal punto di vista fisico e psicologico.
C’è solo un modo per descrivere quello che abbiamo visto in Nicaragua: orrore profondo” – ha dichiarato Gilmore. “Bambine costrette a portare in grembo bambine, donne incinte cui vengono negate cure essenziali per salvare le loro vite. Che alternativa offre il governo a una bambina di 10 anni rimasta incinta a seguito di uno stupro? O a una donna ammalata di cancro cui sono negate le cure mediche dato che è incinta, mentre lei ha altri bambini a casa che la stanno aspettando?”.
Ragazze rimaste incinte a causa di un incesto hanno avuto il coraggio di incontrarci, il presidente Ortega no” – ha concluso Gilmore.
Amnesty International sollecita le autorità del Nicaragua a:
  • ritirare immediatamente la legge che proibisce tutte le forme di aborto;
  • garantire servizi sicuri e accessibili di aborto per le vittime dello stupro e per tutte le donne la cui salute o la cui vita sarebbero a rischio se proseguissero la gravidanza;
  • proteggere la libertà di parola di coloro che si schierano contro la legge e offrono sostegno alle donne e alle ragazze colpite da questa normativa.
Amnesty International sollecita con la massima urgenza la Corte suprema del Nicaragua a pronunciarsi sulla legalità e costituzionalità della legge.
Il rapporto “Il divieto totale di abortire in Nicaragua: la salute e la vita delle donne minacciate, gli operatori sanitari criminalizzati” fa parte della campagna “Io pretendo dignità”, lanciata da Amnesty International il 28 maggio 2009.
La campagna intende denunciare e combattere le violazioni dei diritti umani che rendono le persone povere e le intrappolano nella povertà, mobilitando persone di ogni parte del mondo affinché chiedano ai governi, alle grandi aziende e ad altri soggetti di ascoltare la voce di chi vive in povertà e riconoscere e proteggere i loro diritti.
Del rapporto di Amnesty (disponibile in inglese, spagnolo e francese) esiste anche una sintesi di 7 pagine (sempre in inglese, spagnolo e francese).

mercoledì 29 luglio 2009

Pillola abortiva: stop alle infezioni

È attesa per domani la decisione del consiglio di amministrazione dell’Agenzia italiana per il farmaco (Aifa), che dovrebbe dare il via libera all’ammissione della pillola abortiva, la RU-486, nel sistema sanitario italiano. Quella che dovrebbe essere una scelta dovuta appare ancora in forse, stante il fuoco di sbarramento del fronte integralista in queste ultime ore; si segnala fra l’altro una lettera che Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita, ha inviato al presidente dell’Aifa, in cui si pretende che «il numero delle donne decedute a seguito dell’assunzione della Ru486 sarebbe salito a 29» (Casini confonde – spero involontariamente – le morti dovute all’uso come abortivo della RU-486 con quelle dovute all’uso compassionevole, che a parte tutte le considerazioni del caso, non sono necessariamente donne).
Si può sperare che nella sua decisione il Cda dell’Aifa tenga conto delle prove scientifiche disponibili, e in particolare di un tassello importante che si è aggiunto il 9 luglio scorso.
In quella data è apparso sull’autorevole New England Journal of Medicine uno studio condotto dalla Planned Parenthood Federation of America, il principale fornitore di servizi per la salute riproduttiva negli Stati Uniti (M. Fjerstad et al., «Rates of Serious Infection after Changes in Regimens for Medical Abortion», NEJM 361, 2009, pp. 145-51). Come si sa, la fonte maggiore di preoccupazione riguardo alla pillola abortiva consiste in un numero relativamente elevato di infezioni anche gravi, che in 7 casi accertati hanno portato alla morte delle pazienti per shock settico da infezione di batteri della famiglia Clostridium (in altri due casi, di cui uno mal documentato, lo shock settico si è manifestato in concomitanza di aborti farmacologici tardivi eseguiti con misoprostolo – un farmaco che viene usato per agevolare l’espulsione del prodotto del concepimento – ma senza la pillola abortiva vera e propria). Misteriosamente, tutte queste morti si sono verificate in America del Nord (sei negli Usa e una in Canada), mentre in Europa, dove pure la pillola abortiva è usata da più tempo e più estensivamente che in America, non si è verificato neppure un decesso di questo tipo. Questa strana circostanza ha suggerito che il fattore causale decisivo consistesse nel modo di somministrazione del misoprostolo, che negli Stati Uniti viene per lo più usato per via vaginale, mentre in Europa è somministrato spesso per via orale; inoltre nel Regno Unito e in Svezia, in occasione dell’aborto farmacologico vengono molto spesso somministrati preventivamente antibiotici. Planned Parenthood ha pertanto organizzato lo studio di cui stiamo parlando, che ha coinvolto 227.823 donne ed è durato tre anni e mezzo. Durante una prima fase è stata monitorata attentamente la salute delle donne che effettuavano l’aborto farmacologico secondo la modalità pre-esistente; il tasso di infezioni gravi rilevate è stato dello 0,093%, e si è verificata anche una delle morti attribuite a Clostridium. Il decesso – l’unico avvenuto durante lo studio – ha portato alla fase 2: la somministrazione vaginale del misoprostolo è stata sostituita da quella buccale (da non confondersi con orale: la compressa viene tenuta in bocca fino all’assorbimento, non ingoiata); contemporaneamente le pazienti sono state suddivise in due gruppi: al primo gruppo è stata somministrata routinariamente una dose dell’antibiotico doxiciclina, mentre il secondo è stato sottoposto a un esame per la presenza di clamidia ed eventualmente di gonorrea, e trattato in caso di esame positivo. Nella terza fase la dose preventiva di doxiciclina è stata estesa a tutte le pazienti, mentre in una quarta fase è stata riportato a 63 giorni il termine massimo dall’inizio della gravidanza ammissibile per l’aborto con RU-486 (che è inefficace ad età gestazionali più avanzate), come nella prima fase, mentre nella seconda e nella terza fase era stato ridotto a 56 giorni. Ebbene, la riduzione del tasso delle infezioni serie fra la prima e l’ultima fase è stata di uno spettacolare 93%, portando il tasso assoluto allo 0,007%.
Lo studio di Planned Parenthood soffre di qualche limitazione metodologica (che peraltro sarebbe difficile superare); per esempio non è in grado di stabilire se l’assunzione per via buccale sia da sola effettivamente più sicura di quella vaginale (in uno dei decessi per shock settico l’assunzione era stata buccale, senza somministrazione preventiva di antibiotici; negli altri sei casi la somministrazione era stata per via vaginale). Lascia inoltre non analizzati i possibili vantaggi della modalità di somministrazione orale (identificati in uno studio fondamentale apparso nel 2008 sul Journal of Immunology: D.M. Aronoff et al., «Misoprostol Impairs Female Reproductive Tract Innate Immunity against Clostridium sordellii», 180, pp. 8222-30), che d’altra parte è leggermente meno efficace delle altre e provoca più effetti collaterali. Ma lo studio costituisce certamente un passo importante per chiarire le cause dei decessi per shock settico collegati all’aborto farmacologico e per individuare un protocollo d’impiego alternativo che riduca il rischio a livelli comparabili a quelli dell’aborto per aspirazione (annullare il rischio è purtroppo impossibile, come per ogni altra pratica medica), contribuendo a dissipare le perplessità che ancora circondano la pillola abortiva – anche se, va ripetuto, il problema delle morti per shock settico ha finora riguardato soltanto il Nord America, dove appunto esisteva un differenziale di mortalità rispetto all’aborto chirurgico. Se la profilassi preventiva a base di antibiotici non è priva di qualche possibile controindicazione, va detto però che, come rivela lo stesso studio, almeno per quel che riguarda gli Stati Uniti essa è impiegata da anni anche per gli aborti chirurgici.

Un ultimo cenno alle morti non da shock settico (che lo studio qui presentato non tratta), verificatesi in concomitanza con un aborto eseguito con RU-486 entro la nona settimana di gestazione, cioè con modalità paragonabili a quelle che andranno in uso in Italia se l’Aifa darà il suo benestare. A oggi, i decessi accertati di questo tipo sono 6: due dovuti a cause già eliminate o facilmente evitabili (uno per infarto dovuto a un farmaco coadiuvante non più in uso, uno per gravidanza ectopica non diagnosticata); due la cui relazione causale con l’aborto è ignota o dubbia (uno per emorragia gastrica, uno per porpora trombotica trombocitopenica); due per emorragia uterina.
La RU-486 può non corrispondere all’idea di pillola-senza-problemi che alcuni si sono fatta: come tutti i farmaci può comportare effetti indesiderati anche importanti. Ma certo non merita – oggi meno che mai – l’odiosa etichetta di kill pill che alcuni vorrebbero imporle.

lunedì 27 luglio 2009

Magari suona strano ma i cinesi in Italia non sputano per terra



Per costruire un pregiudizio spesso basta ascoltare e respirare l’aria che tira. Per demolirlo serve uno sforzo. Non ciclopico si intende, ma abbastanza impegnativo da scoraggiare i pigri affezionati del “si dice”. Se al pregiudizio si somma una paura il risultato può essere infausto.
“Vengono qua per fregare noi italiani in senso economico e morale”. “Prato è inquinata di tubercolosi perché i cinesi sputano per terra”. I cinesi, untori moderni, offrono una buona palestra di luoghi comuni. “Non si integrano”; “hanno la mafia alle spalle”. Fanno forse paura anche perché sono molti: erano 2.000 nel 1980; oggi sono circa 150.000.
Raffaele Oriani e Riccardo Staglianò demoliscono questi luoghi comuni e ci invitano a pensare a quanto siano simili a quelli che pesavano sugli italiani migranti di qualche tempo fa, quando erano costretti a lasciare famiglia e Paese per sopravvivere – basterebbe rivedere “Pane e cioccolato” o “Nuovo mondo” di Emanuele Crialese.
Ci raccontano la vita quotidiana dei cinesi in Italia partendo da un pretesto: Miss China in Italy, un concorso di bellezza per ragazze cinesi nato nel 2004. Dopo “I cinesi non muoiono mai” (altro luogo comune che va di gran moda) arriva per Chiarelettere “Miss little China”. Al libro è allegato un documentario scritto insieme a Riccardo Cremona e a Vincenzo De Cecco, che ne sono anche i registi.
Voci, testimonianze, paure. I debiti da saldare, perché un biglietto di sola andata per l’Italia può costare fino a 20.000 euro. Una instancabile attività che può farli diventare imprenditori nel giro di cinque anni, come racconta una giovane cinese, ma che crea anche l’astio di chi, da italiano, si sente defraudato. E poi le diversità della seconda generazione: molti sono arrivati da adulti; ma sono ormai molti anche quelli nati qui, quelli che parlano il dialetto locale e che dicono di non voler lavorare tutto il giorno e tutti i giorni come i genitori.
Oriani e Staglianò ci raccontano e ci mostrano tutto questo: e se anche leggere è troppo faticoso, i 60 minuti del documentario sono sufficienti per demolire un sacco di stupide idee.

(DNews, 27 luglio 2009)

venerdì 24 luglio 2009

Clonazione senza ovociti grazie alle staminali pluripotenti indotte

La ricetta per la clonazione è semplice. Prelevate una normale cellula differenziata da un organismo adulto, ed estraetene il nucleo. Procuratevi poi un ovocita, togliete anche ad esso il nucleo e sostituitelo con il nucleo della cellula adulta. Applicate una leggera scossa elettrica o uno stimolo chimico ed aspettate: dopo un poco l’ovocita comincerà a dividersi, formando un embrione geneticamente identico all’organismo che aveva fornito la cellula adulta. Da questo embrione potrete estrarre dopo pochi giorni cellule staminali pluripotenti, gettando il resto; oppure, con un po’ più di pazienza, potrete ottenere dopo nove mesi un bebè gemello dell’individuo da cui avevate estratto la cellula adulta.
Questo almeno in teoria; in pratica, purtroppo, le cose sono molto più difficili. La clonazione funziona raramente, richiedendo decine e a volte centinaia o, per alcune specie, migliaia di tentativi, e gli embrioni risultanti – quando ci sono – sono quasi sempre poco vitali. A tutt’oggi non solo nessuno è riuscito a far nascere un clone di un essere umano (impresa peraltro illegale in quasi tutti i paesi del mondo), ma neppure a estrarre staminali da un embrione umano clonato (anche se ci si è andati abbastanza vicino). Con le staminali embrionali, fra l’altro, si potrebbero sostituire i tessuti danneggiati di una persona, curando così malattie come per esempio il morbo di Parkinson o la degenerazione maculare; e invece nulla.

Uno dei problemi maggiori della clonazione umana consiste nell’approvvigionamento di ovociti. Visto che la tecnica è così inefficiente, ne sono richiesti centinaia; ma estrarli da una donna comporta una procedura dolorosa e non esente da rischi. Il risultato è una scarsità cronica di ovociti, che – assieme alle resistenze di integralisti e fondamentalisti – ha fortemente frenato questo campo di studi.
È proprio il problema degli ovociti ad aver portato a sviluppare una radicale alternativa alla clonazione. Si tratta delle cosiddette cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC), sviluppate principalmente grazie agli studi di Shinya Yamanaka e James Thomson. La ricetta inizia di nuovo con una normale cellula adulta, ma poi prosegue in maniera molto differente. Si introducono nella cellula dei retrovirus che portano con sé alcuni geni, la cui azione, una volta inseriti nel genoma nucleare, causa un de-differenziamento della cellula, che da specializzata che era ritorna simile a una staminale pluripotente embrionale, capace quindi di trasformarsi nella cellula di qualsiasi tessuto (sono adesso disponibili metodi che producono lo stesso effetto senza far uso di virus). Non c’è bisogno di ovociti, e non c’è neppure bisogno di passare per un embrione completo; il metodo è semplice, diretto, e fa anche la gioia dei seguaci del culto dell’embrione, che di conseguenza si astengono dal mettere i bastoni fra le ruote ai ricercatori.
E la clonazione riproduttiva? Se si prende una di queste cellule iPS e la si lascia moltiplicare non si potrebbe ottenere un embrione completo identico geneticamente al donatore della cellula? La risposta è no: le iPSC sono pluripotenti, possono cioè formare tutti i tessuti dell’embrione propriamente detto, quello che si trasformerà nel feto (in termini più tecnici, i tessuti dei tre foglietti embrionali: endoderma, mesoderma ed ectoderma); ma non sono totipotenti: non possono cioè formare anche il trofoblasto, lo strato che trasmette i nutrienti all’embrione propriamente detto e che si trasformerà in una parte della placenta. Da sole delle iPSC non potrebbero mai impiantarsi nell’utero.
Eppure, proprio ieri sono stati pubblicati su Nature e Stem Cell Stem due lavori di ricercatori cinesi che documentano la produzione di copie genetiche di topi per mezzo delle iPSC, senza ovociti; cloni a tutti gli effetti, anche se i ricercatori non li chiamano così (Xiao-yang Zhao et al., «iPS cells produce viable mice through tetraploid complementation», Nature, advance online publication, 23 luglio 2009; Lan Kang et al., «iPS Cells Can Support Full-Term Development of Tetraploid Blastocyst-Complemented Embryos», Cell Stem Cell, immediate early publication, 23 luglio). Come ci sono riusciti?
Tutto parte dal desiderio di dimostrare che le iPSC sono effettivamente pluripotenti. Trasformare queste cellule in ogni possibile tessuto del corpo richiederebbe molto tempo ed energia, e in qualche caso non è neppure noto come riuscire a indurre le cellule in coltura a mutarsi in un dato tessuto; fortunatamente esiste però un metodo molto più diretto. Prendiamo una blastocisti, cioè un embrione di 5 giorni: essa consiste di un involucro sferico, che andrà a formare il trofoblasto, a cui è attaccata internamente una massa di staminali, l’embrioblasto, da cui si formerà il feto. Se sostituiamo l’embrioblasto con le iPSC, avremo modo di provarne la pluripotenza: basterà controllare che dalla blastocisti risultante si produca un feto vitale.
C’è però una complicazione. Nella pratica risulta molto difficile separare il trofoblasto dall’embrioblasto; alcune cellule del secondo rimangono, e alla fine quello che si ottiene è una chimera: un organismo in cui alcune cellule deriveranno dalla blastocisti iniziale e altre saranno geneticamente identiche alle staminali che vi avevamo introdotto. Ma ci soccorre qui la tecnica della cosiddetta complementazione tetraploide. La ricetta stavolta è questa: si prende un embrione formato da due sole cellule, e con una scossa elettrica le si induce a fondersi di nuovo in una cellula unica. Questa, però, a differenza dello zigote originario, avrà un doppio corredo cromosomico – o meglio quadruplo, visto che le cellule normali hanno già ciascuna due copie di ogni cromosoma. La cellula risultante riprende a dividersi e a svilupparsi, fino a formare una blastocisti; a questo punto si sostituisce l’embrioblasto con le iPSC. Le cellule con quattro copie di ciascun cromosoma, però, sono in grado solo di formare la placenta, mentre non riescono a dare origine a tessuti fetali vitali; il risultato è che alla fine il feto risulterà composto esclusivamente dalle discendenti delle iPSC – e quindi geneticamente identico all’organismo dal quale queste ultime derivano.
È proprio questo che le due équipe hanno ottenuto, dimostrando così in modo che sembra conclusivo la pluripotenza delle iPSC. Particolarmente significativi i risultati pubblicati su Nature: la migliore delle linee cellulari ha prodotto 22 nati vivi da 624 blastocisti, con un’efficienza del 3,5% (altri 5 nati si sono avuti con altre linee cellulari, portando l’efficienza totale al 3,2% per cellule derivate al 14º giorno di coltura). Il grande progresso rispetto alla clonazione classica consiste nell’aver saltato il passaggio dal trasferimento del nucleo nell’ovocita alla formazione della blastocisti, che contribuisce ad abbassare l’efficienza totale. Facciamo un paragone con l’esperimento che ha portato alla clonazione del primo topo, Cumulina, nel 1997 (cfr. Wakayama et al., Nature 394, 1998, 369-74): con la tecnica migliore si sono ottenute in quell’occasione 23 nascite vive su 1240 embrioni trasferiti in utero, con un’efficienza dell’1,85%; ma gli ovociti utilizzati erano stati 2207, il che fa quasi dimezzare la produttività complessiva.
Quanto alla salute degli animali prodotti – uno dei punti deboli della clonazione classica – la situazione negli esperimenti odierni è un po’ mista (cfr. David Cyranoski, «Mice made from induced stem cells», NatureNews, 23 luglio): la mortalità dei topi è risultata alta, e si sono verificate alcune anomalie anatomiche. Ma 12 dei nati vivi si sono accoppiati e riprodotti, dando vita a centinaia di topi di seconda generazione, e a 100 di terza. A prima vista nessun topo sembra aver sviluppato tumori.

Prima di pensare a possibili applicazioni di questa tecnica, bisogna considerare due fatti: il primo è che ciò che funziona con i topi non è detto che funzioni con altri mammiferi; il secondo è che in questi esperimenti le iPSC sono state derivate sì da cellule differenziate (fibroblasti, cioè cellule della pelle), ma gli organismi da cui queste sono state tratte erano dei feti, non topi adulti.
Ciò detto, se la tecnica si confermerà essere un giorno semplice ed efficiente, la prima applicazione pratica sarà quasi certamente la clonazione di animali in via di estinzione. Ma anche la clonazione di un certo mammifero niente affatto raro sarà una prospettiva che certamente attirerà molti... Si avvererà così per intero la profetica messa in guardia di Robert Lanza, il biotecnologo che poco più di un anno fa aveva preannunciato la tecnica oggi realizzata. In quell’occasione la stampa integralista, imbarazzata dalle applicazioni «immorali» di una tecnica su cui ha investito moltissimo in termini propagandistici, si era rifugiata in una strampalata negazione delle possibilità profetizzate da Lanza; vedremo nei prossimi giorni cosa si inventeranno stavolta, con i primi risultati non più teorici davanti agli occhi.

giovedì 23 luglio 2009

Germania: bambini di coppie gay crescono bene come gli altri

(AGI) Berlino, 23 lug. - I bambini cresciuti dalle coppie gay, le cosiddette “Regenbogenfamilien”, le famiglie arcobaleno, non risentono di nessuna menomazione psicologica rispetto a quelli delle famiglie eterosessuali.
Lo dimostra uno studio condotto dall’Istituto per la Ricerca familiare dell’Università di Bamberga, secondo il quale a essere decisivo per uno sviluppo armonico della personalità non è il tipo di famiglia in cui i bambini vivono, etero o omosessuale che sia, ma il rapporto esistente tra genitori e figli. Lo studio ha mette anche in evidenza che un’ampia maggioranza di coppie gay (63%) considera che i propri bambini non subiscono alcuna discriminazione sul piano sociale. Se un fenomeno del genere si manifesta, rimane tuttavia circoscritto a qualche sfottò. Secondo alcune stime, in Germania sono oltre 16mila i bambini che vivono con coppie omosessuali, unioni lesbiche nella grande maggioranza dei casi, con una delle partner che ha avuto un figlio da una precedente unione eterosessuale. Lo studio sottolinea che è anche in forte crescita il fenomeno delle lesbiche che generano un figlio facendo ricorso all’inseminazione artificiale ottenuta con lo sperma di un amico gay. Prendendo spunto dallo studio dell’Università di Bamberga, il ministro della Giustizia Brigitte Zypries (Spd) ha chiesto che la Germania adotti l’accordo europeo sulle adozioni da parte di coppie gay, già sottoscritto da 11 Paesi su 47, poiché dallo studio emerge che i bambini cresciuti al loro interno mostrano “uno sviluppo positivo della personalità e delle prestazioni scolastiche”, non difforme da quello dei figli delle coppie eterosessuali.
Polemizzando con il partito cristiano-democratico di Angela Merkel, la signora Zypries si è tuttavia mostrata scettica sulla possibilità che l’adozione di bambini da parte delle coppie gay venga adottata, poiché “il partner di governo non è d’accordo”.

lunedì 20 luglio 2009

«No, non ha toccato!»: la Luna e l’opera buffa

Se a uno qualsiasi dei molti milioni di esseri umani che in tutto il mondo hanno assistito 40 anni fa in diretta televisiva all’impresa dell’Apollo 11 si chiede che cosa ricorda del momento preciso in cui il modulo lunare Eagle ha toccato il suolo, la probabile risposta sarà la frase pronunciata qualche istante dopo da Neil Armstrong: «Houston, qui base Tranquillità. L’Aquila è atterrata». Parole secche ed emozionanti, allora come oggi. Ma se si fa la stessa domanda a un italiano, la risposta sarà diversa: nessuno allora udì l’annuncio di Armstrong, sovrastato dal battibecco scoppiato fra i due cronisti Tito Stagno e Ruggero Orlando a proposito del momento esatto dell’allunaggio.
Riguardiamo il video (che purtroppo ha un taglio maldestro appena prima del momento decisivo): a 2:02 minuti dall’inizio si vede Tito Stagno volgersi all’indietro, come per cercare conferma da qualcuno fuori campo, girarsi di nuovo in avanti, fare un gesto brusco con l’indice, stringere i pugni come per raccogliere le forze, e infine annunciare: «Ha toccato! Ha toccato il suolo lunare». Scoppiano gli applausi in studio, ma dopo pochi secondi la voce di Ruggero Orlando, da Houston (dov’era il centro di controllo della missione), interloquisce: «No, non ha toccato!». Apparentemente nessuno se ne cura: gli applausi continuano, e Tito Stagno ripete l’annuncio in forma distesa – e con qualche inevitabile concessione alla retorica: «Per la prima volta un veicolo pilotato dall’uomo ha toccato un altro corpo celeste. Questo è frutto dell’intelligenza, del lavoro, della preparazione scientifica; è frutto della fede dell’uomo». A questo punto Stagno passa la parola al collega: «A voi Houston». «Qui ci pare che manchino ancora dieci metri», risponde Orlando. L’effetto comico non potrebbe essere maggiore: le parole alate di Stagno rovinano al suolo proprio mentre il Lem torna per aria; e il pubblico in studio scoppia in una fragorosa risata. I due cominciano a battibeccare, e alle 3:08 Orlando si appropria dell’annuncio fatidico: «Eccolo, eccolo, ha toccato in questo momento». Poi prevale la professionalità e torna la calma; ma intanto l’annuncio di Armstrong si è perduto (può essere udito in sottofondo mentre Stagno sta rivendicando che «era effettivamente atterrato quando io l’ho detto»).

Nel corso degli anni i due protagonisti sono tornati più volte sulla questione, talvolta accusandosi a vicenda di aver voluto rubare lo storico annuncio. Tito Stagno è apparso come il più deciso nel rivendicare le proprie ragioni; Orlando non c’è più da quindici anni. Immagino che da qualche parte ci sia qualche indagine dedicata alla vicenda, ma le mie ricerche bibliografiche (molto brevi, lo ammetto) non hanno portato a nulla, anche se qualcuno qua e là dimostra da qualche accenno di aver capito come sono andate le cose. Non pretendo comunque di essere il primo a stabilire chi ha ragione – anche perché in realtà ricostruire cos’è successo è molto facile. Devo ammettere anche di essere stato un poco riluttante ad affrontare la questione, per il rischio di mancare di rispetto a due personaggi che mi sono entrambi cari nel ricordo (avevo sei anni all’epoca, e ho vissuto quelle imprese attraverso i loro resoconti). Ma insomma, prima la verità, no?

Per la nostra piccola indagine ci bastano due documenti: una registrazione senza interruzioni della telecronaca di Stagno e Orlando, che troviamo nell’archivio Rai Teche (la qualità video è peggio che infima, ma a noi basta l’audio; purtroppo il formato è l’orrido Real Video); la trascrizione commentata delle comunicazioni fra il modulo lunare (Lem) e il centro di controllo di Houston.
Per sincronizzare le due fonti consideriamo la prima parola in inglese chiaramente percepibile della registrazione Rai, che è un numero, «seventy», e che quasi certamente è l’ultima parte della parola «270» che troviamo pronunciata da Aldrin alle ore 102:43:52 (dall’inizio della missione) nella trascrizione. Da lì in poi è relativamente facile seguire i due documenti in parallelo (è da tener conto che la maggior parte di ciò che diceva Armstrong non si sentiva nell’audio in studio).
Ebbene, le parole «Ha toccato!» arrivano 48 secondi dopo il «seventy», subito dopo il momento segnato come 102:44:40 sulla trascrizione. In quell’istante il Lem, come mostrano le indicazioni di Aldrin, si trova però ancora fra 120 e 100 piedi (37-30 metri) di altezza dal suolo. Quando Orlando annuncia «Qui ci pare che manchino ancora dieci metri», il tempo è 102:45:25, e il modulo lunare si trovava in effetti a 10 metri pochissimi secondi prima. Quando Orlando riannuncia l’allunaggio gli astronauti hanno appena spento i motori, a 102:45:44 (Orlando si è probabilmente basato sulla relativa comunicazione).
Ma quando è avvenuto l’atterraggio vero e proprio? L’istante non è noto, ma dai commenti dei due astronauti aggiunti alla trascrizione è chiaro che si è verificato subito prima dello spegnimento dei motori. Le zampe del Lem erano però dotate di sonde metalliche sporgenti all’ingiù, che toccavano il suolo prima dell’atterraggio vero e proprio. Su questa circostanza ci si è basati spesso per giustificare la discrepanza fra l’annuncio di Stagno e quello di Orlando (lo fa anche quest’ultimo in trasmissione); ma a torto. Il contatto del suolo con almeno una delle sonde avviene infatti a 102:45:40, quando Aldrin dice: «Contact light», solo 4 secondi prima dello spegnimento dei motori; l’atterraggio vero e proprio deve essersi verificato in questo brevissimo lasso di tempo, mentre l’annuncio di Stagno era venuto circa un minuto prima, e a un’altezza di gran lunga troppo grande perché le sonde anche solo sfiorassero il suolo. La conclusione, insomma, è che aveva ragione Ruggero Orlando, su tutta la linea.

Com’è stato possibile l’errore macroscopico di Stagno? Si può individuare almeno una concausa: appena prima dell’annuncio errato, il cronista dice infatti che il Lem si trova a «cinque piedi e mezzo» (meno di due metri) dal suolo. Ma dalla trascrizione (102:44:26) si capisce che il mezzo si trova ancora a 200 piedi, e che l’indicazione riguarda in realtà la velocità verticale (al secondo) rispetto al suolo. Stagno si stava quindi raffigurando il Lem molto più vicino alla Luna di quanto fosse nella realtà. Per il resto, il giornalista ha sostenuto più volte di aver sentito dei non meglio identificati «tecnici della Nasa» annunciare che il Lem aveva «reached land», toccato terra; ma nella trascrizione non compaiono mai queste parole, e neppure qualcosa che suoni vagamente allo stesso modo. Di certo Stagno non s’è inventato di proposito un allunaggio anticipato – sarebbe stato un atto folle; forse aveva un canale audio in cuffia che non si sentiva in studio, e avrà equivocato quello che vi si diceva.
L’emozione gioca brutti scherzi, come si accorgerà poco dopo lo stesso Neil Armstrong, quando compiuto il primo passo sulla superficie pronuncerà la frase storica accuratamente preparata – e la sbaglierà clamorosamente: «That’s one small step for man, one giant leap for mankind», «Un piccolo passo per l’Uomo, un balzo da gigante per l’Umanità» (avrebbe dovuto essere «That’s one small step for a man, one giant leap for mankind», «Un piccolo passo per un uomo, un balzo da gigante per l’Umanità»); ancora glielo rinfacciano – piuttosto ingenerosamente, va detto.
Siamo umani, siamo fallibili; e la sorte ha la pessima abitudine, mannaggia!, di ricordarcelo nei momenti meno opportuni.

Aggiornamento 28/7: Paolo Attivissimo propone su Complotti lunari una minuziosa comparazione fra ciò che veniva detto in studio in Italia e le comunicazioni degli astronauti, dalla quale si conferma l’anticipo di Tito Stagno. Paolo promette anche di illustrare prossimamente un’ipotesi inedita sul fattore scatenante dell'annuncio erroneo.

Aggiornamento 8/8: un’utile sinossi (copia) di Luca Cassioli mette ora a confronto i dialoghi fra gli astronauti e il centro di controllo a terra da un lato, e il commento di Tito Stagno in studio dall’altro.

sabato 18 luglio 2009

Obama sceglie male

P.Z. Myers ci spiega per quali ragioni Francis Collins – lo scienziato credente scelto da Barack Obama come nuovo direttore dei National Institutes of Health – non sia la persona adatta a ricoprire quel ruolo («Collins gets panned almost everywhere», Pharyngula, 11 luglio 2009):

He doesn’t understand evolution. He has said that he thinks humans are no longer evolving, that junk DNA is functional, and he can’t understand how altruism could have evolved. […]
His website, Biologos, is an embarrassment of poor reasoning and silly christian apologetics. It’s awful. His logic is a joke, and all it really shows is that Collins is a man blinded by faith to the absurdities of his convictions. That he even asks “At what point in the evolutionary process did humans attain the ‘Image of God’?”, or “Was there death before the Fall?”, among many other similar absurdities, is a revelation. These are questions that don’t even have any meaning outside the scope of a specific, very narrow religious view.
La conclusione è amara:
I had higher hopes for Obama, but at this point, I can only despair of the kind of president who would consult the Pope on bioethics. I’m beginning to feel he will not hesitate to sacrifice reason on the altar of religious conformity.
Da leggere tutto.

venerdì 17 luglio 2009

Ma Della Vedova da che parte sta?

Benedetto Della Vedova, com’è noto, è uno dei pochi liberali autentici nella maggioranza di governo. Uno che dice costantemente la cosa giusta in materia di diritti civili; uno che ti chiedi cosa stia facendo esattamente con quelli lì – il missionario in partibus fidelium? – anche se, d’altronde, casomai cambiasse schieramento, finiresti inevitabilmente per chiederti cosa stia facendo mai con questi qui.
È dunque con non poca sorpresa che ho letto il suo articolo di due giorni fa («Biotestamento, se tentassimo un “disarmo”?», 15 luglio 2009, p. 16) comparso sul Secolo d’Italia – non certo per la sede in cui è stato pubblicato, riguardo alla quale rimando al pensiero implicito in un post di Luca Sofri dello stesso giorno; ma proprio per i concetti che vi presenta.
Il tema è il testamento biologico: dopo una serie di considerazioni molto condivisibili sulle probabili conseguenze negative (anche per il governo) di un’approvazione del ddl Calabrò nel testo licenziato dal Senato, Della Vedova propone un «disarmo bilaterale». Non un compromesso, impossibile fra posizioni antitetiche, ma la rinuncia a una legge onnicomprensiva:

Per questo riterrei saggio che entrambi i sostenitori delle posizioni più nette ma speculari facessero un passo indietro e che il tentativo di avere norme dettagliatamente prescrittive – dell’uno o dell’altro segno – lasci il passo a una “soft law” i cui punti cardine siano due: no all’eutanasia attiva e no all’accanimento terapeutico. Per il resto, è più che sufficiente un rinvio ai principi costituzionali, alla deontologia medica e alla responsabilità di parenti e fiduciari di pazienti non coscienti, il riconoscimento dell’obiezione di coscienza e la possibilità dei medici di fare opposizione al giudice nei casi controversi.
Ma questa proposta comporta davvero un disarmo bilaterale? O non è, piuttosto, un invito al disarmo unilaterale? Vediamo.
Per quanto riguarda il «no all’eutanasia attiva», si tratta di un tema del tutto estraneo al dibattito sulle direttive di fine vita (almeno per come questo si è svolto in Italia), e la cui previsione comunque risulterebbe ampiamente superflua, dato che ogni intervento attivo cade già sotto le sanzioni degli artt. 579 e 580 del Codice penale (omicidio del consenziente e aiuto al suicidio). Sul no all’accanimento terapeutico, purtroppo Della Vedova non ci spiega cosa intende con questa espressione, che com’è noto indica cose molto diverse nel vocabolario integralista e in quello comune, dove sta rispettivamente per un trattamento sanitario futile imposto a un malato terminale, e per un trattamento sanitario che il paziente (anche non moribondo) ritiene troppo gravoso e si rifiuta di subire. Scegliere fra queste due definizioni implicherebbe il riaccendersi del conflitto che Della Vedova vorrebbe sedare; non scegliere implicherebbe una confusione foriera di mille futuri conflitti interpretativi, che finirebbero regolarmente davanti ai magistrati – come del resto è avvenuto in occasione di tutti i casi «celebri» in materia.
Andando avanti, c’è poi da chiedersi quale sia il senso del rinvio «ai principi costituzionali» e «alla deontologia medica» invocato dal deputato del PdL. Sia la Costituzione della Repubblica sia il Codice di deontologia medica sono testi attualmente in vigore, e l’uso invalso negli ultimi tempi di richiamare i superiori principi nei preamboli delle leggi non ha mai avuto altro effetto che di appesantire i testi normativi. Se si pensa poi che anche il testo Calabrò ha il suo bravo richiamo agli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione – gli stessi di cui fa strame – le considerazioni sui «rinvii» si fanno più ciniche... Quanto al terzo rinvio, quello «alla responsabilità di parenti e fiduciari di pazienti non coscienti», torniamo nuovamente nell’indeterminato: cosa significano queste parole? Della Vedova non è un ingenuo, e sa benissimo che è su questo punto – sul ruolo dei parenti di una paziente non cosciente – che si è giocato in buona parte uno degli scontri politici e morali più violenti degli ultimi anni: davvero pensa di poter favorire una tregua fra gli schieramenti con l’ambiguità su questo punto?

Fin qui la proposta di Della Vedova ha mostrato un senso abbastanza chiaro: il deputato sa che, anche se alla Camera le forze laiche sono più consistenti che al Senato (e sembrano godere della benevolenza di chi siede sullo scranno più alto), la battaglia sulle direttive anticipate si preannuncia difficilissima. Da qui la proposta di una legge che lascerebbe le cose come stanno, dando l’impressione che «si sia fatto qualcosa», tanto per salvare la faccia del governo di fronte a una certa potente lobby. Si può comprendere lo spirito dell’iniziativa, anche se personalmente preferirei di gran lunga nessuna legge a una norma tanto vacua. Ma purtroppo Della Vedova non ha fatto punto qui.

L’obiezione di coscienza ha un senso preciso e univoco: se qualcuno mi vuole obbligare a fare qualcosa che va contro le mie convinzioni più profonde, è mio diritto ricorrere a questa esenzione; il caso tipico – e per la verità anche l’unico che viene in mente – è quello dell’obiezione alla leva militare obbligatoria. L’obiezione estesa a casi come quello dell’interruzione di gravidanza o della fecondazione artificiale ha già molto meno senso: qui l’obbligo non derivante da un contratto si pone solo per coloro che la legge ha colto già impegnati nell’attività di ginecologo, non per gli altri, che non dovrebbero poter pretendere nulla, visto che sono liberissimi di dedicarsi a un’altra attività; altrimenti dovremmo consentire ai capricci di chi, per esempio, voglia fare l’ispettore di polizia pur essendo un pacifista contrario alle armi da fuoco...
Ma almeno stiamo parlando ancora di rifiuto di compiere determinate azioni; nel caso del testamento biologico la situazione è esattamente opposta. Con le direttive anticipate non sto infatti chiedendo al medico di fare qualcosa, di praticarmi un trattamento sanitario – aborto, fecondazione in vitro, etc.; gli sto invece chiedendo di astenersi dal compiere un’azione. Distinzione fondamentale dal punto di vista giuridico (anche se talvolta non da quello morale). Distinzione che può talvolta apparire sottile, anche troppo; ma le sottigliezze, nel diritto, sono ciò che può fare la differenza fra andarsene liberi e andarsene in galera. E non facciamoci ingannare dalle descrizioni tendenziose: quante volte abbiamo sentito che i medici si rifiutano di «staccare il sondino»? Un’azione, sembrerebbe; ma invece nel rifiuto di questa particolare terapia quello che si chiede realmente ed essenzialmente è di sospendere l’immissione di alimenti in quel sondino (che può benissimo rimanere al suo posto), quindi un’omissione, non un’azione.
Cosa diventa allora qui la cosiddetta obiezione di coscienza? Semplice: diventa la libertà del medico integralista di invadere la sfera corporea di un’altra persona. Contro la sua volontà. Senza che sussista un obbligo giuridico di farlo. Diventa, in altre parole, pura e semplice violenza. Qui è l’obiettore a imporre un’azione all’altro, e l’obiezione si è trasformata così in ciò che originariamente doveva combattere. Come possa un liberale autentico – e Della Vedova lo è sicuramente – consentire a tutto ciò sfida la comprensione.
Con un grosso sforzo, si potrebbe forse ammettere l’obiezione se la legge riconoscesse almeno esplicitamente il diritto opposto del paziente a vedere rispettate le proprie direttive: questo potrebbe tradursi in pratica nell’obbligo dell’obiettore a trovare e indicare in tempi rapidi un altro medico che non si rifiuterà di cessare la violenza sul paziente. Sarebbe un’ingiustizia, sarebbe passibile di un’applicazione parziale e distorta (sappiamo bene cosa è successo con l’obiezione per l’aborto), ma almeno sarebbe un progresso rispetto alla situazione attuale. Solo che non è quello che scrive Della Vedova, che identifica chiaramente uno dei due raggruppamenti estremi (che dovrebbe rinunciare alle proprie posizioni a favore della proposta di mediazione) con quello di «chi vorrebbe una legge sulla falsariga di quella inglese o tedesca in nome della responsabilità e della libertà di cura delle persone». Ma in questo caso la previsione esplicita dell’obiezione di coscienza, senza un riconoscimento dei diritti del paziente, costituirebbe la coperta giuridica sotto cui l’arbitrio del medico integralista potrebbe esercitarsi indisturbato – almeno fino alla bocciatura della Corte Costituzionale (peraltro non più scontata, adesso che sembra divenuto normale per i giudici della Consulta essere commensali abituali dei governanti...). E questo è un netto peggioramento rispetto alla situazione attuale.
Infine, riguardo alla possibilità che Della Vedova vorrebbe concedere ai medici di «fare opposizione al giudice nei casi controversi», non saprei come interpretare queste parole se non nel senso giuridico della parola «opposizione», cioè «qualunque forma di impugnazione o di contestazione promossa contro un atto della pubblica autorità» (De Mauro). Ma a quanto mi risulta i medici hanno già diritto a proporre opposizione a ogni provvedimento giuridico di cui siano destinatari: se un tribunale decreta che il dr. Rossi deve sospendere la chemioterapia al paziente Verdi, Rossi – nei limiti dovuti, è ovvio – può benissimo impugnare il decreto. Sembra dunque che siamo qui di nuovo al ribadimento dell’esistente; e l’accenno ai giudici ci ricorda in compenso l’esito più probabile della «soft law», con la sua enumerazione di alti principi: che chi vorrà difendere il proprio diritto all’autodeterminazione sarà spesso costretto a intraprendere lunghe, costose, incerte battaglie legali.

lunedì 13 luglio 2009

Distogliere lo sguardo dall’uomo che muore non è un rimedio

La morte e il morire sono presenze ineliminabili della nostra esistenza. Sia intesi come il nostro morire, il pensare che moriremo e il nostro pensarci da morti; sia come morte delle persone cui siamo legati, il lutto e l’assenza.
La morte è indicibile e intollerabile; un pensiero che si sottrae alla comprensione e che spesso è oggetto di una rimozione individuale e collettiva. Basti pensare alla diffusa tentazione di sottrarsi ai discorsi sulla morte, agli scomposti gesti scaramantici quando qualcuno parla di morte o alle perifrasi usate per non dire “è morto”.
Eppure la morte si offre anche come un potente mezzo per godere della nostra esistenza terrena, nel dubbio o nella certezza del nulla che ci sarà dopo. Nella consapevolezza della finitezza è possibile radicare un saldo proposito di non sprecare la nostra vita a scadenza.
Marina Sozzi ha scritto di recente un libro sulla morte e sui vissuti intorno alla morte (Reinventare la morte, Laterza). Ci racconta delle reazioni rituali di fronte alla morte nel corso del tempo e in società eterogenee e del loro significato. Ci conduce lungo un affascinante percorso concettuale e terminologico fino alla nostra società, in cui la morte è spesso totalmente medicalizzata ed espulsa dalle case. E in cui la rimozione assume forme diverse: l’invocazione della morte naturale, il volgere altrove lo sguardo davanti al morente, o il relegare lo spazio e il tempo sociali del lutto al funerale e ai pochi giorni seguenti.
Sozzi costruisce una riflessione affascinante e “razionale sullo sconquasso emotivo e sociale che ha luogo intorno alla morte di un individuo”, come scrive nella introduzione. E pone la complessa questione della gestione del lutto: come lo affronta una società? Come lo affrontano gli individui? Qual è il potere dei rituali e quali sono le conseguenze del loro impoverimento? Impossibile non parlare di cure palliative, dei luoghi del morire contemporaneo o delle decisioni di fine vita, intesi come risposta culturale di una società.
Forse la solitudine del morente è davvero inconsolabile e irrimediabile, ma distogliere lo sguardo non è un rimedio soddisfacente.

DNews, 13 luglio 2009.

mercoledì 8 luglio 2009

Libertas ecclesiae e libertas civium

Assuntina Morresi dedica un lungo post sul suo blog, Stranocristiano.it, al significato della libertas ecclesiae oggi («Libertas ecclesiae e dintorni», 4 luglio 2009). Cerco di ripercorrere i punti salienti del ragionamento:

Noi chiediamo innanzitutto la libertas ecclesiae, la libertà della Chiesa di esistere […].
Alcuni miei amici dicono che Libertas ecclesiae significa poter costruire le nostre opere – dalle scuole, al Banco Alimentare, al Meeting – per fare esperienza e testimoniare la bellezza dell’incontro fatto.
Ma allora dovremmo anche ammettere che se domani, ad esempio, la Corte Costituzionale consentisse anche la diagnosi preimpianto degli embrioni, o la fecondazione eterologa, per le nostre opere non cambierebbe niente: ci sarebbe lo stesso il Meeting, faremmo ugualmente la Colletta Alimentare, le nostre scuole continuerebbero ad esistere.
[…] leggi di questo tipo non impediscono la libertas ecclesiae, se con questa espressione si intende semplicemente la possibilità di costruire le nostre opere, e testimoniare pubblicamente.
Allora, le possibilità sono due: o questi fatti nuovi (fecondazione artificiale, etc.) non hanno niente a che fare con la libertas ecclesiae, e quindi possiamo ignorarli ed andare avanti sulla nostra strada […] oppure dobbiamo chiederci se abbiamo capito cosa significa libertas ecclesiae.
Ma per la prima volta nella storia dell’umanità […] sta accadendo qualcosa di totalmente nuovo: si stanno sovvertendo tutte le categorie fondamentali dell’esperienza elementare. Si sta distruggendo l’umano nelle sue fondamenta.
[…]
Tecnicamente, un bambino oggi può avere fino a sei genitori, di cui tre fornitori del patrimonio genetico (una donna fornisce l’ovocita, un’altra i mitocondri dell’ovocita, un maschio lo sperma, e quindi il patrimonio genetico del bambino proviene da tre persone), e poi una terza donna mette a disposizione l’utero, una quarta sarà la madre “sociale”, che lo registra all’anagrafe come figlio suo, insieme ad un secondo maschio, il sesto genitore, che sarà il padre sociale.
Immaginiamo di raccontare a questo bambino l’esempio che ci faceva Don Giussani per spiegarci la “certezza morale”: se vai a casa e tua madre ti dà il risotto, tu non ti poni il problema di analizzarlo per verificare se è avvelenato, prima di mangiarlo, sarebbe irragionevole. Per il bambino con sei genitori, invece, il problema è capire se ha una mamma e chi è, prima ancora del risotto potenzialmente avvelenato, o no. L’esempio non vale più.
[…]
Mentre per quelli della mia età i sei genitori possibili sono aberrazioni evidenti, dobbiamo essere consapevoli che per i nostri figli e nipoti questa sarà una variante dell’esperienza umana, e anche se non sarà la loro esperienza personale, sarà quella che vedranno nei compagni di scuola, o in televisione. E quanto resisterà, il loro “cuore”?
[…]
La libertas ecclesiae è in pericolo quando si impedisce o si rende comunque difficile il paragone con l’esperienza elementare, perché in questo modo si impedisce l’esperienza cristiana.
La fragilità del ragionamento della Morresi dovrebbe essere evidente a chiunque: per quante persone possano aver contribuito alla costituzione genetica e alla nascita del bambino, non c’è dubbio che questi non avrebbe nessuna difficoltà a comprendere il brano di Don Giussani (curioso, per inciso, che l’autrice non abbia preso ad esempio testi più fondamentali, come la Bibbia: a meno che Comunione e Liberazione – alla quale la Morresi appartiene – non abbia tacitamente ampliato il canone delle Sacre Scritture...). La madre che prepara il risotto non può che essere, per definizione, quella sociale: che non è solo colei che lo registra all’anagrafe (come scrive un po’ tendenziosamente la nostra autrice), ma quella che lo alleva, che lo segue nei primi passi, che lo ama. La controprova è immediata: basti pensare ai bambini adottati, che di genitori ne hanno ben quattro. Provate a leggere il brano di Giussani a uno di questi bambini, e vedete se si confonde. L’esperienza umana fondante non è quella della relazione genetica – che pure ha la sua importanza – ma quella del rapporto di dipendenza e affetto fra un essere umano che si affaccia nel mondo e un altro essere umano che sta lì ad accoglierlo. E questa esperienza non è certo messa in pericolo da nessuna tecnologia biomedica, presente o futura; è questo il fondamento antropologico immutabile che la Morresi non vuole o non può vedere.

Qui potrebbe concludersi un post relativamente breve. Resterebbe però senza risposta una domanda che alcuni potrebbero porsi: a che si deve l’elaborazione di un sofisma tanto esile, e degli innumerevoli altri (di regola non molto migliori) che il campo integralista produce a getto continuo? È evidente che siamo qui di fronte a una classica produzione ideologica, in cui si prendono le relazioni sociali e le si fanno apparire come se risiedessro nella natura delle cose, per dar loro una parvenza di inevitabilità; è questa la ragione ultima del biologismo grossolano che ormai pervade uniformemente il pensiero integralista, e che – come abbiamo appena visto – finisce per porre sullo stesso piano la donatrice di mitocondri e la persona che il bambino chiama «mamma». Ciò che è un po’ meno evidente è l’interesse ultimo che questa elaborazione ideologica intende mascherare. Spesso identifichiamo questo interesse con una volontà di guadagnare nuovi spazi di dominio sulla società, ma proprio il testo di Assuntina Morresi può svelare una prospettiva diversa (per quanto non inedita).
«Quanto resisterà, il loro “cuore”?», si chiede a un certo punto la Morresi, parlando dei figli e nipoti di chi appartiene al suo spicchio di cristianesimo, e la preoccupazione sembra sincera. La famiglia tradizionale (per ragioni che qui non è possibile affrontare) è al centro dell’elaborazione teorica dell’integralismo: quasi ogni tema dell’agenda integralistica – aborto, divorzio, contraccezione, scuola cattolica, omosessualità – tocca direttamente la sostanza o l’immagine del modello familiare tradizionale; solo la battaglia sul testamento biologico fa parzialmente eccezione. In un’epoca in cui i modelli familiari sono numerosi, e in genere assai più attraenti di quello offerto dalle pagine di Stranocristiano, si fa urgente la necessità di una giustificazione ideologica, che assegni a quello solo la qualifica di «naturale», mentre diffama gli altri, arrivando a descriverli come inumani. Giustificazione ideologica diretta sia verso l’esterno – a supporto della pretesa propriamente integralistica di una norma civile asservita a quella religiosa – sia verso l’interno – in particolare a beneficio (?) dei membri della comunità ancora incapaci di discriminare le «aberrazioni evidenti». Scopriamo insomma alla fine che il modello sociale integralista non vuole realmente espandersi – non ne ha più la forza: vuole difendersi, e in particolare difendere la propria riproduzione (e qui forse conta anche il fatto che più di altri modelli esso si affida alla solidarietà fra generazioni).
Anche la deriva paranoica che sempre più spesso si coglie negli scritti di alcuni integralisti, il vittimismo aggressivo e confabulatorio che proietta sugli altri le proprie pulsioni, per esempio fantasticando di improbabili complotti della «lobby omosessuale» orditi per sovvertire la vita tranquilla della famiglia tradizionale, mi sembra un chiaro sintomo che il gioco è ormai in difesa.
In teoria un compromesso sarebbe possibile: non mancano esempi di gruppi con stili di vita non molto più attraenti di quello integralista che riescono a sopravvivere nel mondo moderno senza ricorrere alla via normativa. Si pensi per esempio agli Amish, che pure consentono ai propri giovani di fare esperienza del mondo esterno. In pratica, finché l’integralismo manterrà la speranza di imporre il proprio credo a chi non ne vuol sapere nulla grazie all’appoggio di una politica asservita, la libertas ecclesiae continuerà a conculcare la libertas civium.

lunedì 6 luglio 2009

sabato 4 luglio 2009

Io ci sono con Ignazio Marino. E voi?

Niente da aggiungere, a parte il fatto che prenderò la tessera del PD (la prima tessera della mia vita) per votare Ignazio Marino.

È arrivato il momento. Siamo in molti, moltissimi.

Sogniamo un'Italia diversa,
crediamo nella cultura del merito, nella laicità dello Stato, nella solidarietà, nel rispetto delle regole, nei diritti uguali per tutti.
Vogliamo liberare le energie migliori di questo Paese e creare una squadra di persone che diano voce, forza, concretezza alle nostre idee.

Siamo decisi a contrastare democraticamente chi governa l'Italia in maniera ottusa e maldestra:

per un Paese curato, sicuro, sereno, moderno
per un Paese che conti, in cui si faccia strada il coraggio, la capacità, la speranza
per un lavoro con un salario degno che valorizzi ogni individuo
per una scuola come principale strumento per la formazione e l'integrazione dei nostri figli
per uno sviluppo economico, responsabile, che rispetti l'ambiente

Vogliamo che ognuno possa costruire con fiducia il futuro, realizzare il proprio sogno e vogliamo essere liberi di scegliere.
Non sono slogan, sono i valori in cui crediamo e che ci uniscono. Ma affinché questi valori diventino azioni positive, ognuno di noi deve fare un passo avanti e assumersi un impegno.

IO CI SONO

Sono pronto a fare il primo passo per assumermi la responsabilità di dare voce e concretezza a ciò in cui crediamo.
Sulla stessa strada siamo in tanti, a partire da un gruppo di democratici liberi nello spirito e visionari, che hanno scelto di impegnarsi e condividere la sfida.
Non siamo spinti né sostenuti da correnti, siamo un ruscello ma possiamo diventare un fiume se ognuno di noi è disposto a contribuire con la propria goccia d'acqua.
Il fiume deve scorrere dentro gli argini e ogni persona per contare si deve iscrivere al Partito Democratico e partecipare con il proprio voto alla fase congressuale, per scegliere il candidato.
Facciamoci vedere. Facciamo sentire quanto è forte la nostra voglia di cambiare.
Entro l'11 luglio iscriviamoci tutti al PD.
E tra una settimana, se saremo in tanti, il fiume seguirà un nuovo corso.
Di speranza e fiducia.

Ignazio R. Marino

Per iscriversi al PD basta presentarsi con un documento al circolo più vicino al luogo in cui abiti (http://www.partitodemocratico.it/circoli/cerca.aspx).
Una volta iscritto invia un'email all'indirizzo ignazio.marino@gmail.com

giovedì 2 luglio 2009

Il commensale

Aldo Schiavone, «Parzialità confessa», La Repubblica, 2 luglio 2009, p. 1:

L’idea che ogni comportamento e ogni scelta personale di chi riveste funzioni pubbliche delicatissime debbano essere sottratti a qualunque obbligo – anche elementare – di opportunità, di misura e di riservatezza è semplicemente aberrante.
E rovescia nella sostanza delle cose – mentre pretende di applicarlo letteralmente – un caposaldo dell’etica liberale. Che questo modo di ragionare – dove si eleva l’anomia e l’arbitrio individuale a principio universale di condotta – sia quello di un giudice della Corte Costituzionale, se non arriva ancora a farci disperare del futuro del nostro diritto e della nostra Costituzione (c’è ben altro, per fortuna, alla Consulta), ci fa interrogare però con angoscia sul degrado del nostro discorso pubblico, e sul senso dello Stato che circola in ambienti giuridici e politici tutt’altro che marginali.
La lettera aperta che il giudice Mazzella ha scritto al presidente del Consiglio è un testo troppo meschino per essere veramente preoccupante dal punto di vista culturale: ci senti dentro un’aria di combriccole, di tavole imbandite, di domestiche fedeli e di chiacchiere, che nulla ha che fare con quello che dovrebbe essere lo spirito, il costume, lo stile mentale di un grande Servitore del diritto e della giustizia, quali che siano i suoi punti di riferimento ideali. I giudici costituzionali avrebbero da rispettare uno status, che qui risulta violato nella forma e nella sostanza. Non c’è nella lettera una sola parola che rimandi all’altissima funzione ricoperta da chi la scrive, e ai doveri che essa prescrive – doveri scritti e non scritti: nulla di nulla; un silenzio agghiacciante.
Da leggere tutto.