domenica 23 novembre 2014

Mario Adinolfi, i numeri e gli omosessuali /2


2. Quante sono le coppie omosessuali?

Nella prima parte di questo post abbiamo visto come Mario Adinolfi, in un nuovo capitolo del suo pamphlet integralista Voglio la mamma, abbia in parte alterato e in parte ignorato le percentuali di persone omosessuali e bisessuali fornite dall’Istat, e come abbia cercato di far passare come invenzioni della «lobby Lgbt» cifre di altra provenienza, che in realtà devono essere considerate fino a prova contraria legittime (anche perché, tenendo conto della grande incertezza che circonda la questione, non sono drasticamente diverse da quelle dell’Istat).
Proseguiamo adesso con l’analisi del testo di Adinolfi, e cerchiamo di stabilire quante siano le coppie omosessuali nel nostro paese.

Vogliamo essere più precisi? Andiamo allora a interrogare i dati dell’ultimo censimento, quello del 2011. I dati sono sempre elaborati dall’Istat, dunque dall’Istituto nazionale di statistica che nessuno può immaginare come ostile agli interessi della lobby Lgbt. Anzi. Secondo i dati del censimento in Italia esistono circa 17 milioni di famiglie. Per la precisione 16.648.000. Tra queste, 2.651.000 sono le famiglie monogenitoriali (un solo genitore, con figli) mentre 13.997.000 sono le coppie che vivono in una condizione di stabilità il proprio rapporto sentimentale. Sono coppie con o senza figli. Sapete quante sono, tra queste, le coppie composte da un uomo e da una donna: 13.990.000. Sì, avete letto bene, non è un refuso, non è un copia incolla avventato. Sono praticamente il totale. Le coppie dello stesso sesso certificate dal censimento 2011 sono 7.591.
Bene. Abbiamo un dato, è assodato. L’Istat, che non vuole apparire come ostile agli interessi delle coppie Lgbt, ha dichiarato in una nota che ci sono state coppie dello stesso sesso che “hanno preferito non dichiararsi”. Ok. Immagino che queste coppie che non si dichiarano in un censimento in forma anonima non siano interessate a affiggere le pubblicazioni di matrimonio. Dunque le coppie su cui la lobby Lgbt può far conto per le proprie rivendicazioni matrimonialiste sono 7.591. Intanto però ricordiamo che 13.990.000 coppie sono composte da un uomo e da una donna.
Se si scorrono i commenti alla pagina Facebook in cui è stato pubblicato questo testo, si noterà come un lettore chieda a più riprese un link alla fonte di questi dati. Adinolfi – che pure partecipa alla discussione – ignora completamente questa richiesta. Come mai? La risposta sorprenderà (forse) qualcuno: Adinolfi non può fornire nessun link perché non è in grado di farlo: non è infatti mai andato «a interrogare i dati dell’ultimo censimento» sul sito dell’Istat. La sua fonte è secondaria: si tratta di un articolo di Roberto Volpi, «Tutte quelle coppie gay (con figli) sparite dal censimento, o forse mai esistite», apparso il 23 settembre scorso sul Foglio. Volpi e il suo articolo non vengono citati in nessun modo da Adinolfi, neppure in risposta alle sollecitazioni del suddetto lettore.
Ma come faccio ad affermare con certezza che Adinolfi ha tratto i dati da Volpi e non dal sito dell’Istat? Semplice: perché nell’articolo di Volpi ci sono degli errori (l’autore non è nuovo a questo genere di distrazioni) che Adinolfi ha ripreso ciecamente. Il primo è il numero totale delle coppie formate da persone dello stesso sesso: 7513 per l’Istat, 7591 per Volpi e Adinolfi. Il secondo riguarda il numero dei figli delle coppie dello stesso sesso, che secondo Volpi e Adinolfi sono 529; per l’Istat, invece, 529 è il numero delle coppie con figli, non dei loro figli (quest’ultimo numero non è desumibile dal database, a quanto vedo). Altri due errori più piccoli ma sempre significativi: Volpi arrotonda erroneamente al migliaio inferiore il totale dei nuclei familiari e dei nuclei monogenitore, seguito fedelmente da Adinolfi. Non esiste infine neppure un dato riportato da Adinolfi nei paragrafi in questione che non sia presente già anche nell’articolo di Volpi. Qua e là si sfiora il plagio (corsivi miei): «L’Istat, che non vuole apparire come ostile agli interessi delle coppie Lgbt, ha dichiarato in una nota che ci sono state coppie dello stesso sesso che “hanno preferito non dichiararsi”. Ok» (Adinolfi); «Avverte tuttavia l’Istat che “i dati relativi alle coppie dello stesso sesso sono sottostimati e si riferiscono solamente alle coppie dello stesso sesso che si sono dichiarate. Molte persone in questa situazione hanno preferito non dichiararsi nonostante le raccomandazioni”. Ok, d’accordo […]» (Volpi). Sì, siamo davanti a un classico «copia incolla avventato».
Si dirà: per la tesi di Adinolfi cambia poco – le coppie dello stesso sesso sono praticamente le stesse, e se i loro figli non sono 529 è comunque abbastanza improbabile che superino il migliaio. Ma quello che emerge con chiarezza è il metodo dell’autore di Voglio la mamma: le cifre che confortano i suoi pregiudizi sono accettate senza uno straccio di controllo (e con poca gratitudine nei confronti di coloro a cui le sottrae), le altre devono sicuramente essere il frutto di qualche malvagio complotto.

Esaminiamo adesso più in particolare i dati Istat sul numero delle famiglie omosessuali, e vediamo se ad essi si può far dire ciò che Adinolfi vorrebbe. Partiamo dal numero di coppie conviventi. Abbiamo visto la nota dell’Istat, secondo cui i dati sono sottostimati. Forse qualcuno si chiederà come sia possibile che molte coppie abbiano preferito non dichiararsi: non sarebbe questa un’alterazione grossolana del censimento? Se due persone vivono assieme, com’è possibile farne risultare solo una? La risposta sta nel concetto di nucleo familiare, che per l’Istat «è definito come l’insieme delle persone che formano una relazione di coppia o di tipo genitore-figlio. […] Una famiglia può essere composta da più nuclei, ma può anche essere costituita da un nucleo e da uno o più membri isolati (altre persone residenti), o ancora da soli membri isolati». Esistono in Italia ben 560.422 famiglie composte da due persone, che dichiarano di non essere legate da una relazione di coppia o di tipo genitore-figlio; queste famiglie sono insomma composte da due «membri isolati». Molte saranno semplici coppie di amici, o coppie nonna-nipote, zio-nipote etc.; un certo numero saranno coppie – eterosessuali od omosessuali – che hanno deciso di non dichiararsi (altre coppie di questo genere possono essere nascoste in altre pieghe del censimento). Volpi tenta di minimizzare la cifra di chi non si è dichiarato, ma il suo non è altro che un argumentum ad incredulitatem:
sembra assai difficile supporre che per ogni coppia omosessuale censita ce ne siano, mettiamo, dieci o magari venti sfuggite al censimento, perché nell’eventualità ci sarebbe di che chiedere il subitaneo smantellamento del censimento stesso.
È importante ricordare a questo proposito come il censimento non si svolga affatto «in forma anonima», come pretende Adinolfi: i nomi dei censiti figurano sulla prima pagina del questionario Istat.
Per sapere qualcosa di più preciso, rivolgiamoci alla recentissima indagine condotta dalla European Union Agency for Fundamental Rights (EU LGBT survey – European Union lesbian, gay, bisexual and transgender survey: Main results, 2014, p. 134), da cui risulta che nel 2012 il 20% degli omosessuali/bisessuali italiani conviveva con un partner, a fronte di una media UE del 30% (più in basso dell’Italia si trovano solo Croazia, Grecia e Cipro). Questa non è tuttavia la percentuale che stiamo cercando: secondo la stessa fonte, il 5% degli omosessuali/bisessuali italiani ha un partner (convivente o non convivente) del sesso opposto. Se assumiamo che il 15% delle persone LGBT conviva con un partner dello stesso sesso, e applichiamo questa percentuale alla cifra di un milione data dall’Istat (vedi la prima parte di questo post), risulta che dovrebbero esistere in Italia circa 75.000 coppie omosessuali: dieci volte il numero di quelle dichiarate al censimento! Questa conclusione è confermata in modo decisivo da M. Barbagli e A. Colombo, autori di una fondamentale indagine sulla condizione omosessuale nel nostro paese (Omosessuali moderni. Gay e lesbiche in Italia, 2ª ed., Bologna, Il Mulino, 2007, p. 204; i dati si riferiscono a un sondaggio condotto nel 1995-96); elaborando i loro dati (cfr. anche pp. 211 e 317) risulta che il 14% delle persone LGBT convive con una persona dello stesso sesso (lo studio è del tutto indipendente da quello UE; entrambi i sondaggi – quello europeo e quello da cui prendono le mosse i due italiani – sono stati condotti in modo da garantire l’anonimato dei rispondenti).
Ma per Adinolfi le coppie non dichiarate non contano: «Immagino che queste coppie che non si dichiarano in un censimento in forma anonima non siano interessate a affiggere le pubblicazioni di matrimonio». Questa è un’affermazione di un cinismo ributtante; certo, una coppia non dichiarata potrebbe avere più difficoltà delle altre a contrarre eventualmente matrimonio, ma la ragione di questa titubanza non può che essere il timore di un ambiente ancora saturo di pregiudizi. Chiunque – perfino chi è contrario al matrimonio per tutti – dovrebbe auspicare che questa condizione di paura sia superata il più presto possibile, e non invece gongolare soddisfatto perché in questo modo si riduce il numero delle coppie potenzialmente interessate al matrimonio.

Va notato poi che l’Istat raccoglie solo il dato delle coppie conviventi, non anche di quelle impegnate in una relazione ma non conviventi. Per Barbagli e Colombo (ibidem), «dal 40 al 49% dei gay e dal 58 al 70% delle lesbiche hanno una relazione fissa». Questi numeri sono confermati in pieno dalla già citata EU LGBT survey (ibidem), secondo cui nel 2012 il 52% degli omosessuali italiani era impegnato in una relazione con un partner dell’altro sesso, nonché dall’indagine Modi di, promossa dall’Arcigay in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità (Survey nazionale su stato di salute, comportamenti protettivi e percezione del rischio HIV nella popolazione omo-bisessuale, a cura di R. Lelleri, Bologna 2006, p. 25), secondo cui nel 2005 il 40,2% degli omosessuali maschi e il 52% delle lesbiche aveva una relazione con una persona dello stesso sesso.
Anche tra queste persone si troveranno sicuramente molti interessati al matrimonio: in una parte dei casi, la mancata convivenza sarà di nuovo da attribuirsi alla necessità di evitare reazioni negative da parte dell’ambiente circostante, o alle normali difficoltà materiali che tutte le coppie incontrano per vivere insieme. È significativo inoltre per il nostro discorso che, come scrivono ancora Barbagli e Colombo (ibidem), «[l]a grandissima maggioranza degli omosessuali italiani cerca un rapporto di coppia stabile e solo un’esigua minoranza (il 12% degli uomini e l’8% delle donne) preferisce avere relazioni con partner occasionali». Un dato che fa giustizia di pregiudizi ancora largamente diffusi.

Ma ammettiamo, per puro amore di discussione, che esistano davvero solo 7500 coppie omosessuali conviventi e potenzialmente interessate al matrimonio. Sarebbe questo un argomento valido contro la richiesta di estendere anche alle coppie omosessuali il diritto di sposarsi, o almeno di contrarre un’unione civile?
Esistono in Italia, a quanto pare, circa 830 persone che portano il cognome «Adinolfi». Supponiamo per assurdo che per un’antica tradizione religiosa fosse proibito a queste persone di sposarsi, e che dopo un lungo processo di maturazione civile si arrivasse finalmente a mettere in questione questa discriminazione. Ora, cosa penseremmo se qualche retrogrado si opponesse alla riforma adducendo a pretesto che 830 persone sono pochissime? La nostra risposta, ovviamente, sarebbe che negare ingiustamente un diritto non è meno grave se lo si nega solo a poche persone, o persino solo a una; semmai è forse più grave. Se si vuole impedire che il matrimonio sia per tutti, si cerchino altri argomenti; quello dei numeri troppo esigui è un non-argomento.

Nella prossima parte affronterò la questione del numero dei figli delle coppie omosessuali.

(2 - continua)

mercoledì 19 novembre 2014

Perché gli uomini possono parlare di aborto

Un gruppo di studenti “per la vita”, Oxford Students for Life, ha organizzato un incontro sull’aborto. O meglio su quanto la “cultura dell’aborto” sia un segno della decadenza dei tempi. Sono contrari, da buoni prolife, alla legalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza, considerata come il più atroce dei delitti.

L’incontro e gli slogan per promuoverlo fanno arrabbiare un po’ di persone. Tra queste, WomCam ha criticato anche che a parlare di aborto fossero due uomini. Il gruppo di femministe ha scritto: “è assurdo pensare che dovremmo ascoltare due uomini cisgender discutere su cosa le persone con un utero dovrebbero fare con i loro corpi, […] persone che non si troveranno mai ad aver bisogno di abortire”.

L’incontro non si svolgerà più, e l’inutilità delle discussioni (spesso solo apparenti) sull’aborto è dimostrata per l’ennesima volta. Su una barricata c’è chi urla “abortire è il peggiore degli omicidi!”, sull’altra chi domanda con indignazione “come puoi tu uomo parlare di aborto?”.

Ovvero, come puoi tu che non potrai mai trovarti ad abortire avere qualcosa da dire? Questa convinzione è tra le più perniciose e sbagliate che si possano immaginare (che la decisione non possa che essere della diretta interessata è una premessa che qui diamo per scontata).

Pagina99, 18 novembre 2014.

lunedì 17 novembre 2014

Quanto costa l’ideologia sull’aborto alla sanità pubblica?


Non dovremmo essere tutti d’accordo sull’uso appropriato delle risorse? Sulla volontà di non sprecare soldi, soprattutto in un contesto di limitatezza delle risorse? Quali sono le soluzioni per garantire meglio i servizi sanitari e per spendere meno? Partiamo dall’interruzione volontaria della gravidanza (IVG) e dall’ultima relazione ministeriale perché l’aborto è forse uno degli esempi migliori di come le ragioni ideologiche e pretestuose abbiano la meglio sulle valutazioni razionali e sulle buone pratiche sanitarie. L’altro ieri Bergoglio ha invitato i medici a compiere scelte coraggiose e controcorrente, opponendosi al «pensiero dominante», alla «‘falsa compassione’: quella che ritiene sia un aiuto alla donna favorire l’aborto» (come possa essere controcorrente una scelta adottata da più di 7 ginecologi su 10 non è chiaro). Nessuno ha parlato delle scelte delle donne e nessuno della garanzia del servizio. Un servizio garantito in modo eterogeneo e che costa molto più di quanto potrebbe. Inefficienza e sprechi economici: il peggio che si possa immaginare. Michele Grandolfo, epidemiologo, già dirigente di ricerca dell’Istituto superiore di sanità (ISS), ci spiega come si potrebbero risparmiare moltissimi soldi garantendo, al contempo, servizi migliori. «Il primo obbligo di un sistema sanitario nazionale (SSN) è quello di utilizzare le procedure che hanno una base scientifica – in questo caso le raccomandazioni internazionali dell’Organizzazione mondiale della sanità (WHO, Safe abortion: technical and policy guidance for health systems).

Next, 17 novembre 2014.

mercoledì 12 novembre 2014

Quando il figlio di «nessuno» viene dato in adozione

 

Utero in affitto, la Cassazione toglie a una coppia bresciana il figlio di 3 anni nato in Ucraina, titolava ieri la Repubblica (sottotitolo: La Suprema corte sbarra il passo alla pratica della maternità surrogata: il bambino, avuto in Ucraina da una madre ‘in affitto’ che adesso non è rintracciabile, non può essere riconosciuto in Italia). Finisce in adozione il neonato «comprato» in Ucraina invece Il Corriere della Sera (sottotitolo Il piccolo Tommaso, 3 anni, era nato da una madre surrogata su «committenza» di una coppia di 50enni che non può avere figli). Oggi su la Stampa va un po’ meglio: È nato da madre surrogata. I giudici lo danno in adozione. Nel sottotitolo emerge forse l’elemento più importante: Il piccolo da quattro anni vive con quelli che chiama mamma e papà. La Cassazione: per la legge italiana è figlio di nessuno.

LA STORIA
Così la Stampa racconta l’accaduto: «Figlio di nessuno. In questo modo la Cassazione definisce un bambino nato da una madre surrogata scelta in Ucraina da una coppia di italiani. Una sentenza che punisce due genitori che avevano cercato in tutti i modi di avere un bambino approdando all’ultima spiaggia dell’utero in affitto. Una sentenza che sbarra la strada ad altri tentativi del genere. Una sentenza che affida in adozione ad un’altra famiglia, da subito, il piccolo Tommaso, lo chiameremo così, che oggi ha oggi 4 anni. Chissà se gli racconteranno tutta la sua storia. Della sua nascita in Ucraina nel 2011; di quei signori che avrebbero voluto farsi chiamare da lui mamma e papà. Due cinquantenni di Crema che non potevano avere figli e ai quali, per tre volte, era stata respinta la richiesta di adottare in Italia. Chissà se gli spiegheranno mai che ad avviso dei supremi giudici, doveva essere dato in adozione perché l’Italia non riconosce la pratica della maternità surrogata e, in base alle legge, era – primo caso del genere – figlio di nessuno». La procura generale della Cassazione aveva chiesto la revoca dello stato di adottabilità e la restituzione del bambino alla coppia. I due, di ritorno dall’Ucraina, avevano tentato di farlo riconoscere all’anagrafe. Ma era andato tutto male. Il DNA del bambino non era come sarebbe dovuto essere, i suoi genitori non erano quelli che ne chiedevano il riconoscimento. E così era venuta fuori la verità: erano andati a Kiev e avevano pagato 25.000 euro per una maternità surrogata. «Dalle indagini era subito emerso che né il marito né la moglie erano in grado di procreare: alla signora era stato asportato l’utero e l’uomo era affetto da oligospermia», si legge su la Repubblica che riporta anche la notizia che ai «coniugi di Brescia, oggi cinquantenni [...] per tre volte era stata respinta la richiesta di adottare in Italia». Allora erano stati denunciati per frode anagrafica, oggi la Cassazione decide di far adottare quel bambino.

Next, 12 novembre 2014.

mercoledì 5 novembre 2014