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lunedì 24 settembre 2012

I grassi non hanno colpe



Negli Stati Uniti il sovrappeso e l’obesità sono un grave problema sanitario e sociale. In molti Paesi industrializzati la percentuale di persone con problemi di peso aumenta vertiginosamente, con la complicità di uno stile di vita sedentario e frenetico. Non sono secondari il fattore economico e l’accesso a una corretta educazione alimentare: un fast food è più economico di un ristorante e ci vuole meno tempo a comprare un vassoio di cibo preconfezionato che a cucinarsi, magari tenendo sotto controllo le calorie. Servono solo qualche dollaro e un paio di minuti per acquistare un pasto ipercalorico.

Gli effetti collaterali dell’aumento di peso incidono sempre più sui costi sanitari e la diffusione dell’obesità infantile rischia di cronicizzare il fenomeno, rendendo sempre più difficile tornare indietro e arginare le conseguenze di 20 o 30 chili di troppo. Negli Stati Uniti quasi il 70% degli adulti e più del 30% dei bambini sono sovrappeso o obesi.
Patologie cardiovascolari, diabete, ma anche affaticamento cronico, depressione e vergogna appaiono come metastasi incontrollabili e, a volte, come un destino immutabile.

Di recente l’American Psychiatric Association ha introdotto 5 nuove categorie diagnostiche nell’area dei disturbi alimentari, tra cui il binge eating: mangiare compulsivamente e velocemente quantità eccessive di cibo.

Come invertire questa tendenza? Secondo un recente studio condotto da tre ricercatori dello Yale University’s Rudd Center for Food Policy and Obesity, e pubblicato sull’«International Journal of Obesity» pochi giorni fa, il segreto sta nel non nominare l’obesità e nell’evitare minacce e messaggi colpevolizzanti.
Lo studio, significativamente intitolato Fighting obesity or obese persons? («Combattere l’obesità o le persone obese?»), analizza la percezione pubblica dei messaggi delle campagne antiobesità.

Il Corriere della Sera, la Lettura #45, 23 settembre 2012.

giovedì 13 settembre 2007

Proibizionismo per i fast food?

L’obesità affligge molte persone e implica problemi di salute più o meno gravi. Il consiglio comunale di Los Angeles discuterà in autunno un’ordinanza per arginare l’invasione di fast food nell’area meridionale, dove la loro concentrazione è massiccia e gli obesi sono il 30% degli abitanti (la media nazionale è del 20).
La proposta solleva diversi interrogativi, primo fra tutti: servirà a qualcosa? Sebbene appaia bizzarra, la moratoria sui fast food si inscrive in una strada spianata da tempo: dal proibizionismo classico dell’alcol al divieto di fumare nei ristoranti. Dalla messa al bando del foie gras per ragioni etiche (a Chicago) alla proposta di dimezzare le porzioni al ristorante (il fu ministro della Salute Girolamo Sirchia). Già alcuni Stati americani hanno regolamentato i fast food, per ragioni estetiche o di concorrenza. Sarebbe la prima volta a protezione della salute. Tuttavia il paternalismo fa storcere il naso a molti. E sembra trascurare un aspetto: il basso costo di un pasto mordi e fuggi. Anche su questo fronte South LA ha un primato non invidiabile: il 28% della gente vive in povertà, contro il 16,2 nazionale.
Inoltre, l’applicazione dell’eventuale moratoria inciampa nell’ostacolo di definire un fast food. Molti si sono attrezzati da tempo con menu poco calorici e insalate accanto ai cheese burger a due piani. Non è ingenuo e riduttivo identificare fast food e cibo dannoso? Non sarebbe preferibile percorrere la strada della corretta informazione in tema di nutrizione e salute? Nel dubbio, aggiungiamo un posto a tavola per lo Stato, o almeno in fila per pagare un McMenu.

(Quei fast food messi al bando negli Stati Uniti, E Polis).

sabato 10 febbraio 2007

Sporco ciccione a chi?

Dare del “ciccione” a uno che in effetti è ciccione non è una offesa. Se a parlare è un medico, si intende. Addirittura sarebbe terapeutico.
A suggerirlo è la decisione della Corte di Cassazione in merito alla condanna del dottor X per ingiuria. La Corte d’Appello di Trieste aveva giudicato offensivi i modi e le parole del suddetto medico nei confronti di Alessandra V.: “Con tutti quei chili di troppo pretende di non avere il mal di schiena. Con lei perdo solo tempo, chi vuole che la guardi, chi vuole che la tocchi, lei deve dimagrire non le è ancora venuto un infarto, ma chi l’ha assunta, ma come può prestare questo servizio … lei è un peso per la società … visitarla è una perdita di soldi per l’Inail” (Ciccione? Se lo dice medico non è offesa, Sky Life, 9 febbraio 2007).

La corte di Cassazione ha stabilito che il medico si è macchiato al più di maleducazione, ma non di un reato penale.
“Un medico – scrive la Quinta sezione penale nella sentenza 4990 – non può porsi il problema dell’offensività della mera constatazione della condizione patologica del paziente”. E ancora : “Per la condanna penale non è sufficiente l’astratta idoneità delle parole a offendere, ma è necessario che esse siano a ciò destinate”.

Condanne penali a parte, le domande che a mio avviso rimangono insoddisfatte sono sostanzialmente due.
La prima è se davvero possa affermarsi che il maltrattamento (in questo caso linguistico) sia terapeutico. Magari per qualcuno sì, ma se a me uno mi dicesse “sporca cicciona” probabilmente mi incarterei ulteriormente e uscita dallo studio medico mi infilerei nel primo bar a ingozzarmi di porcherie.
La seconda è come considerare l’obesità: capriccio o malattia? Dalla vicenda in questione sembra quasi che la patologia sia esclusivamente quanto l’obesità causa (mal di schiena, rischi di problemi circolatori e così via) e non l’obesità stessa. Siamo sicuri che dire ad una anoressica “schifosa scrocchiazeppi” sia un buon modo di aiutarla?