Roberta De Monticelli, «Una pillola da non scomunicare», Il Sole 24 Ore (8 agosto 2009, p. 9):
[O]nestà vorrebbe che lo si dicesse chiaro: quello che della pillola abortiva non va bene è il fatto che umanizza una condizione dolorosissima. Il fatto che, come sempre la medicina, diminuisce la nostra sofferenza quando è inutile.Da leggere tutto.
Se una prende una decisione che la sua guida spirituale giudica malvagia, che almeno soffra il più possibile, e soprattutto che sia il più possibile dipendente dal medico (cioè da colui che dovrebbe invece essere semplicemente al servizio del paziente libero, responsabile e informato, quando si tratti di sanità pubblica). Anzi: ben venga la dipendenza e l’onerosità, come forza dissuasiva, e pazienza se la peccatrice non avrà peccato solo per evitare quest’onere. Certo una profonda stima della maturità morale dei cittadini, questa: non facilitate l’aborto, se no le remore morali verranno meno!
Qualche vescovo ha detto ciò chiaramente? Nemmeno per sogno: su questo punto la nebbia si fa fittissima. Scrive il cardinal Poletto: «La nostra scelta di parlare è nata per contrastare un punto di vista che consideriamo molto pericoloso e sbagliato, quello per cui la pillola renderebbe l’aborto facile e indolore». Ma se non lo rendesse facile e indolore (siamo d’accordo!) – perché opporsi a essa invece che direttamente alla 194?
C’è un altro argomento che invece sarebbe chiarissimo: troppa libertà. La vicenda di Eluana prima e ora quella della RU486 «ci fanno vedere – scrive il cardinal Bagnasco – un indirizzo prevalente se non assoluto verso la libertà dell’individuo, una libertà che sembra essere assoluta». Ecco, ma su questo punto le persone che infine scelgono e decidono, secondo quanto finora previsto dalla legge, cioè gli individui adulti e responsabili, in particolare le donne, sono o non sono “troppo” libere? Al dunque, sì e no, insieme.
Poverette. «Gravissime sono le ricadute psicologiche – recita il documento dell’Ufficio per la pastorale della salute della Diocesi di Torino – perché il medico, quando non sceglie di avvalersi dell’obiezione di coscienza, assume il ruolo di assistente passivo e la donna diventa protagonista dell’atto abortivo che si protrae nel tempo, finché, dopo interminabili ore vissute nell’angoscia e con inevitabili sensi di colpa, è costretta a vedere il figlio espulso, rifiutato come un corpo estraneo». «Costretta»? Ma il problema non era che era troppo libera?
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