Luisella Battaglia, membro del nuovo Comitato Nazionale per la Bioetica, ci aiuta a capire quali sono, già oggi, i diritti di un malato nelle stesse condizioni di Piero Welby («L’ultima volontà», Il Mattino, 13 dicembre 2006, pp. 1 e 11):
«Nessun intervento in campo sanitario può essere effettuato se non dopo che la persona a cui esso è diretto abbia dato un consenso libero e informato... La persona a cui è diretto l’intervento può, in ogni momento, ritirare liberamente il proprio consenso». È l’articolo 5 della Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina (1997) ratificata dal parlamento italiano nel 2001, non una nuova legge sull’eutanasia. Welby, chiedendo il distacco dal ventilatore polmonare, ha esercitato un suo diritto.
Un diritto sancito anche dall’articolo 32 della nostra Costituzione. «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento. Nessuno può essere sottoposto a una cura che rifiuti». Un diritto, occorre aggiungere, non dissimile da quello della signora che qualche tempo fa rifiutò l’amputazione della gamba, pur sapendo che tale scelta, compiuta in piena coscienza, l’avrebbe portata alla morte. Nessuno ha potuto impedire tale decisione, come nessuno può impedire a un testimone di Geova di rifiutare le trasfusioni di sangue.
Dovremmo chiederci perché sia così difficile, nel nostro paese, ottenere il rispetto dei diritti fondamentali delle persone. Negando il diritto di Welby all’autodeterminazione, si è di fatto restaurato un vecchio paternalismo medico che, con il pretesto della cura compassionevole, pretende di imporre la sua idea di «bene» in conflitto con quella del singolo individuo. «Prendersi cura» non significa sempre e solo tenere in vita a ogni costo ma assumersi talora la responsabilità condivisa di accompagnare la vita al suo naturale compimento.