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sabato 9 maggio 2009

Divagazioni

"Il senatore Ceccanti individua nella sentenza della Consulta sulla legge 40 un monito nei confronti del legislatore sul testamento biologico, affinché la possibilità del medico di decidere in scienza e coscienza, secondo la volontà del paziente ma tenendo anche conto delle evoluzioni tecnico-scientifiche, non sia imbrigliata da una normativa eccessivamente rigida. Siamo d'accordo con lui". Lo dichiara Gaetano Quagliariello, vicepresidente vicario dei senatori del PdL. "Infatti - prosegue - è esattamente questo il principio ispiratore della legge Calabrò approvata in Senato: il medico deve tener conto delle volontà precedentemente espresse dal paziente ma non ne può essere un mero esecutore notarile, perché nel frattempo la scienza potrebbe aver compiuto progressi favorevoli al malato, che quest'ultimo anni prima non poteva immaginare. Già il senatore Marino, nominando come fiduciario nel suo testamento biologico un amico medico con piena facoltà di decidere per lui le terapie migliori nel momento della necessità, ci aveva confortato sulla bontà di questa legge. Le dichiarazioni di oggi del senatore Ceccanti - conclude Quagliariello - rafforzano i nostri convincimenti".
Quagliarello ci è o ci fa? Sembra davvero difficile struppiare in questo modo il senso di quanto affermato dalla Consulta e da Ceccanti. Ma Quagliarello lo fa (o prova a farlo per chi ci casca).
Chi sarà tanto sciocco da redigere un testamento biologico che non ha carattere vincolante? Per quale ragione dovrei perderci tempo?

giovedì 2 aprile 2009

Ancora Ceccanti sulla legge 40

(Adnkronos) Roma, 2 apr. - «Fermo restando che le motivazioni della Corte ci aiuteranno a capire meglio la sentenza sulla legge 40, vanno fin d’ora chiariti due equivoci, a prescindere dai giudizi di valore». Lo dichiara il senatore del Pd Stefano Ceccanti che spiega: «Il Parlamento, se crede, ha il diritto di intervenire di nuovo sulla materia, ma non ha nessun obbligo di farlo. La legge può funzionare con le disposizioni eliminate dalla Corte e con quella introdotta che consente la crioconservazione a favore della salute della donna». «Il governo, dal canto suo – aggiunge – non solo non ha, con lo strumento delle linee guida, in alcun modo la possibilità di reinserire disposizioni giudicate incostituzionali in una legge, ma neanche quello di ripristinare il divieto di analisi pre-impianto. Se lo volesse fare, l’esito sarebbe già scritto: una sentenza di illegittimità della magistratura. La precedente sentenza del Tar del Lazio che ha fatto saltare il divieto ha infatti chiarito che le linee guida sono soltanto un “atto amministrativo di natura regolamentare” che non può violare la riserva di legge “sull’oggetto della procreazione medicalmente assistita”». «Su questo giudizio di illegittimità la sentenza della Corte non aggiunge niente. Essa si è mossa dandolo naturalmente per presupposto. Il divieto di analisi pre-impianto potrebbe, in astratto, essere quindi reinserito solo con legge, ma – conclude Ceccanti – a quel punto sarebbe comunque esposto al giudizio negativo della Corte costituzionale».

mercoledì 1 aprile 2009

Ceccanti sulla decisione della Consulta

(ANSA) - ROMA, 1 APR - «La Corte costituzionale si è pronunciata direttamente solo su due commi, il 2 e il 3, dell’art. 14 della legge 40 del 2004; sulle altre parti che erano state impugnate non si è pronunciata, non le ha dichiarate costituzionali, ma semplicemente irrilevanti nei casi in questione. Quindi sono state esaminate solo due norme e sono cadute entrambe per incostituzionalità». Così il senatore del Pd Stefano Ceccanti, analizza la sentenza della Consulta sulla legge in tema di procreazione assistita. Il costituzionalista del Pd sostiene che innanzitutto «vanno precisati i contenuti. Nel comma 2 la Corte ha eliminato il vincolo numerico alla creazione di un massimo di tre embrioni e quello temporale a impiantarli tutti contemporaneamente, lasciando il limite a non crearne in numero superiore a quello strettamente necessario e rinviando quindi implicitamente alla scelta del medico il numero di embrioni e il numero degli impianti, tenendo conto delle condizioni di salute della donna. Nel comma 3 – aggiunge Ceccanti – la Corte ha proceduto a integrare direttamente la norma con una sentenza cosiddetta additiva, cioè aggiungendo parole alla legge, senza bisogno di un ulteriore intervento del Parlamento, evitando così il vuoto legislativo. Una tecnica che si adotta quando la soluzione che discenderebbe dalla sentenza sarebbe obbligata». «L’aggiunta del vincolo di procedere senza pregiudizio della salute della donna – evidenzia Ceccanti – significa concretamente ampliare i casi in cui è consentita la crioconservazione degli embrioni, anche in vista di impianti successivi. Una scelta strettamente conseguente a quella operata nel comma 2». «Anche se conosciamo solo il dispositivo» il costituzionalista del Pd ipotizza anche le motivazioni: «la Corte dovrebbe aver riconosciuto la fondatezza dei richiami dei giudici alla violazione di almeno tre articoli della Costituzione: il secondo (dignità della persona, lesa perchè la normativa rigida portava con sè trattamenti invasivi e a basso tasso di efficacia); il terzo (uguaglianza perchè trattava irragionevolmente allo stesso modo donne diverse, con parti trigemini per le giovani e trattamenti inefficaci per le più anziane), il 32 (diritto alla salute rispetto ai rischi per la donna in relazione a trattamenti pericolosi) della Costituzione». Ceccanti evidenzia infine «un insegnamento di metodo: contro leggi incostituzionali non si promuovono referendum, si attende che la giustizia costituzionale faccia il suo corso, evitando un passaggio inutile».

domenica 25 febbraio 2007

Il padre dei DiCo si redime

Siamo stati severi, qualche giorno fa qui su Bioetica – e credo a ragione – con Stefano Ceccanti, consigliere giuridico del ministro Pollastrini ed estensore materiale (assieme ad altri) del disegno di legge sui DiCo. Ma ciò non toglie che Ceccanti dica anche cose intelligenti, quando non si trova a dover difendere l’indifendibile. In particolare, un suo articolo sul Foglio di ieri fa giustizia di alcuni luoghi comuni che girano sulle convivenze («Il cattodem Ceccanti si cimenta con la bozza della nota dei vescovi. Un duello in punta di diritto», 24 febbraio 2007, p. 3). Parlando della bozza (trapelata sulla stampa) della futura Nota Cei, che dovrebbe impegnare i politici cattolici a contrastare ogni proposta di legge sui Pacs, Ceccanti afferma:

L’autonomia privata potrà garantire qualcosa come dice il documento del 2003, ma purtroppo non può garantire nessuno dei diritti previsti dai Dico.
La bozza parte dal documento della Congregazione per la Dottrina della fede del 2003 che parla di “autonomia privata […] per tutelare situazioni giuridiche di reciproco interesse”: questa apertura si riferisce a un’area molto ristretta. La bozza, in spirito di ulteriore apertura, vorrebbe ricomprendere in quell’apertura “molti dei diritti di cui parla il presente progetto di legge”. Un’operazione che però, purtroppo, non si può proprio fare. Con tutta evidenza i contratti non possono regolare né una quota di legittima nelle successioni, né diritti previdenziali e pensionistici, né permessi di soggiorno, né far insorgere obblighi alimentari. Neppure possono determinare una giurisprudenza univoca in materia di impresa o di trattamenti sanitari (che infatti ad oggi non è univoca), consentire in caso di conflitto con familiari un effettivo diritto all’assistenza per malattia o ricovero, costituire titolo per trasferimenti e assegnazioni di sede o imporre standard essenziali alla legislazione regionale per alloggi di edilizia pubblica. Né possono espandere al di là delle tipologie di conviventi già tutelati il subentro nel contratto di affitto o l’opposizione alla donazione degli organi. Alla fine, pertanto, se ci si basa solo sul Documento del 2003, bisogna affermare che nessuno di quei diritti è meritevole di tutela da parte del Parlamento, cosa che comunque finirebbe per provocare interventi del potere giudiziario per sanare le più evidenti discriminazioni. Ma è proprio inevitabile restare nei limiti del 2003? La prolusione del cardinale Ruini al Consiglio permanente del settembre 2005 poneva anch’essa la via del diritto comune come strada maestra, ma ricomprendeva poi come subordinata la possibilità di varare “qualora emergessero alcune ulteriori esigenze, specifiche e realmente fondate, eventuali norme a loro tutela” che dovrebbero “rimanere nell’ambito dei diritti e dei doveri delle persone”. Perché non riconfermare anche tale apertura che nella bozza non c’è più?
Da leggere anche il resto (che si può integrare utilmente con «Chi si oppone è contrario anche al Trattato costituzionale europeo?», Il Riformista, 14 febbraio 2007, p. 5, dello stesso Ceccanti).