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mercoledì 16 novembre 2011

Renato Balduzzi: chi è costui?

Il nuovo ministro della sanità, annunciato poco fa dal Presidente del Consiglio Mario Monti, è dunque Renato Balduzzi, Professore Ordinario di Diritto costituzionale all’Università del Piemonte Orientale, specialista delle questioni giuridiche della sanità. Si tratta, diciamolo subito, di un cattolico: dal suo curriculum vitae apprendiamo che

[d]al 2002 al 2009 è stato presidente nazionale del Movimento ecclesiale di impegno culturale (MEIC, già Movimento Laureati di Azione Cattolica) e attualmente è componente per l’Italia dello European Liaison Committee di Pax Romana - Miic (Mouvement international des intellectuels catholiques) - Icmica (International Catholic Mouvement for Intellectual and Cultural Affairs).
L’accenno all’Azione Cattolica farebbe pensare più a un «cattolico adulto» che a un integralista, e la cosa sembra confermata dall’esperienza di Balduzzi come consigliere giuridico dell’allora Ministro delle politiche per la famiglia Bindi, fra il 2006 e il 2008. Qui però iniziano le dolenti note, perché sembra assodato che Balduzzi sia stato tra gli artefici dello sciagurato disegno di legge sui DiCo, le dichiarazioni di convivenza volute dalla Bindi e naufragate ben presto nel ridicolo, non rimpiante da nessuno. In un articolo di Silvio Troilo, «I progetti di legge in materia di unioni di fatto: alla ricerca di una difficile coerenza con i principi costituzionali» (pubblicato in anteprima su Forum Costituzionale, 12 settembre 2008) trovo alcune citazioni di un saggio del Balduzzi, «Il d.d.l. sui diritti e i doveri delle persone stabilmente conviventi: modello originale o escamotage compromissorio?», Quaderni Regionali 26 (2007), pp. 39-56, a me inaccessibile, che per l’appunto tratta dei DiCo:
non è sufficiente richiamare l’art. 2 [della Costituzione] come clausola a fattispecie aperta (capace cioè di offrire tutela a situazioni via via avvertite come meritevoli di tutela dalla coscienza sociale, al di là di quelle canonizzate nel testo costituzionale), in quanto lo stesso art. 2 non offre tutela a tutti i desideri che si vorrebbero riconosciuti come bisogni e a tutti i bisogni che si vorrebbero tutelati come diritti, ma riconosce e garantisce quei desideri e quei bisogni che servono allo svolgimento della personalità all’interno di una formazione sociale.

la legge […] non è solo certificazione della realtà, ma è altresì regola della medesima, e pertanto discipline che applicassero indiscriminatamente e tout court normative di tutela dei diritti della famiglia a situazioni diverse dal modello costituzionale di famiglia verrebbero a menomare la funzione della norma costituzionale. La disposizione costituzionale sarebbe completamente travisata, ebbe modo di osservare ancora Moro (in risposta a un’insidiosa osservazione del qualunquista Mastroianni, riferita alla formula del progetto di costituzione, poi diventata […] l’art. 29 Cost.), se venisse portata a significare che si vuole riconoscere un vincolo familiare costituito soltanto in base ad uno stato di fatto.

collegare alla convivenza diritti e doveri non crea istituti concorrenziali al modello costituzionale di famiglia a condizione che tale collegamento non derivi da un atto di volontà pattizio (che avrebbe necessariamente l’effetto di far rinvenire il titolo dell’applicabilità di diritti e di doveri nella volontà dei conviventi, e non nel fatto della convivenza) ma sia conseguenziale al verificarsi di una situazione di fatto che presenti determinate caratteristiche per la cui predeterminazione il legislatore gode di una certa discrezionalità.
Queste ultime parole, un po’ oscure, diventano chiare quando si ricorderà il bizzarro meccanismo dei DiCo, che si sforzavano di derivare diritti e doveri dalla situazione di fatto della convivenza, ricorrendo – pur di evitare qualsiasi forma di assenso prestato di fronte a un funzionario – all’espediente famigerato della raccomandata con ricevuta di ritorno spedita al convivente.

Venendo a temi più propriamente sanitari, si deve registrare con qualche preoccupazione la partecipazione di Renato Balduzzi, in veste di curatore, al volume Le mani sull’uomo. Quali frontiere per la biotecnologia?, pubblicato per i tipi dell’editrice Ave nel 2005. Nella quarta di copertina si legge fra l’altro:
L’attualità politica porta alla comune attenzione temi sui quali a volte non siamo sufficientemente preparati, chiamandoci ad esprimere in merito una opinione consapevole. In questo breve sussidio vengono esposti anzitutto, quasi a modo di lessico, i concetti fondamentali dell’antropologia cristiana, quali quelli di corpo, persona, dignità umana, esaminati nei loro aspetti filosofici e teologici […]
L’antropologia cristiana è una delle parole d’ordine degli integralisti; ma il timore si rivela ben presto infondato, quando troviamo questa dichiarazione di Balduzzi, che risale al tempo del caso Englaro (agenzia Asca, 19 luglio 2008; si veda anche la stessa agenzia del 6 febbraio 2009):
«Evitiamo di farne materia di conflitto tra magistratura e politica»: è questa la prima necessità che il costituzionalista Renato Balduzzi avverte di fronte agli sviluppi del caso di Eluana Englaro. «Da costituzionalista, mi sembra azzardata e anche un po’ pericolosa l’ipotesi di conflitto di attribuzione», osserva. Quanto ai contenuti della polemica, il cattolico Balduzzi osserva: «È ora che l’iter del testamento biologico venga portato a compimento. Anche se non dobbiamo aspettarci che la norma possa risolvere tutto».
Balduzzi, che è presidente del Meic, il Movimento ecclesiale di impegno culturale, una delle storiche componenti dell’Azione cattolica italiana, è abituato ad entrare, da cattolico, nel cuore delle questioni eticamente più “sensibili” e politicamente più scottanti: nella scorsa legislatura, era Capo ufficio legislativo del Ministro della famiglia Rosy Bindi, autore (insieme all’altro cattolico Ceccanti) dello sfortunato disegno di legge sui Dico.
Nella sentenza della Cassazione su Eluana, Balduzzi non vede «sconfinamenti». «Non c’è una competenza riservata alle Camere su certi argomenti – spiega –. Anche ammesso che in tema di diritti il legislatore abbia una preminenza, il giudice arriva dove può in base alla legislazione vigente e ai principi costituzionali». «Bisogna ricordare che un ordinamento contiene sempre delle lacune e lo “jus dicere” del giudice comporta naturalmente la possibilità di colmarle. Il giudice non è certo solo la bocca della legge; il suo, anzi, è un duro mestiere, che deve bilanciare tanti principi e tenere in equilibrio diritti e doveri».
La questione è anche di opportunità, di tempi: «Sollevare un conflitto di attribuzione aggiunge motivi di contrasto ad una situazione già molto delicata nei rapporti tra politica e magistratura. Ma al di là di questo, la sentenza della Corte di Cassazione non crea nessun vulnus nelle prerogative del Parlamento».
«La norma – mette però in guardia –, per un caso limite come quello di Eluana, non risolverebbe tutto. E qui, ma non parlo più da costituzionalista, non so se la legge possa coprire questa materia così complessa, dove la prima regola dovrebbe essere quella della prudenza, del silenzio, unito alla coerenza, all’assunzione di responsabilità per quanto si dice. E a questo aggiungerei un’altra osservazione: non può essere considerato irrilevante dal punto di vista giuridico il fatto che ci sia qualcuno che si fa carico del “dovere” della solidarietà».
Il nodo, come è stato ricordato da più parti, è in quelle «direttive anticipate» che nel nostro paese non hanno ancora valore legale. C’è chi agita il timore dell’eutanasia: ma per Balduzzi, non si può parlare di «fughe in avanti» ed «estremismi» in un dibattito ormai maturo, ma fino ad oggi senza uno sbocco legislativo, come quello sul testamento biologico.
«L’iter del testamento biologico – secondo il professore – è quindi da portare a compimento, senza pensare che in una legge possa entrare tutto un sentire etico. Per questo è importante che non si strumentalizzi, ma si guardi veramente al bene comune. Se oggi si procede a colpi di sentenze è perché fino ad ora è mancata una sintesi».
Una sintesi. Quella fallita nel caso dei diritti delle coppie di fatto. Esiste un simile punto di equilibrio nel dibattito sul testamento biologico? «A mio parere – conclude Balduzzi – sta nel garantire una periodica verifica delle volontà del soggetto».
Queste non sono le parole di un campione dell’autodeterminazione, è vero, ma neppure quelle di un integralista. È palese anche qui lo sforzo di sintesi di Balduzzi fra due visioni opposte dei diritti; sintesi quasi certamente impossibile, come dimostra la débâcle dei DiCo, ma che dovrebbe tenere a bada – si spera – le richieste più voraci del mondo integralista. Di più, vista la situazione in cui nasce il nuovo governo, era purtroppo impossibile aspettarsi.

A proposito del mondo integralista, negli ultimi giorni alcuni dei suoi esponenti sembrano aver presagito la sconfitta, come dimostrano le dichiarazioni un po’ sguaiate di Assuntina Morresi («La crisi infuria lo spread avanza», Stranocristiano, 10 novembre 2011), che alla fine inclinano pericolosamente verso il complottismo. Scendendo di qualche gradino, al complottismo si abbandonava stamattina, prima della lettura della lista dei ministri, anche Berlicche: una perdita pressoché totale di contatto con la realtà che non potrà non far piacere a ogni sincero avversario dell’integralismo.

Aggiornamento 19/11/2011: un post di Relativismo? Sì grazie aggiunge qualche utile dettaglio al quadro della personalità e delle idee di Balduzzi.

giovedì 23 aprile 2009

Arrivano i DiDoRe

È disponibile sul sito della Camera dei Deputati il progetto di legge 1756, «Disciplina dei diritti e dei doveri di reciprocità dei conviventi» (assegnato il 9 marzo 2009 in sede referente alla II Commissione Giustizia), che stando alle dichiarazioni del primo firmatario, Lucio Barani del PdL, dovrebbe finalmente materializzare la proposta dei DiDoRe – Diritti e Doveri di Reciprocità dei conviventi, appunto – avanzata a suo tempo con molti squilli di fanfare da Gianfranco Rotondi e Renato Brunetta.
La proposta di legge è estremamente scarna: sette articoli quasi telegrafici, che nel complesso sono più brevi del cappello introduttivo. Il dono della sintesi è sempre da apprezzare, anche se l’impressione è che si sia voluto tenere volutamente un profilo basso, per motivi facilmente intuibili. L’impressione è confermata dal primo articolo, che secondo la moda recente dei disegni di legge su temi «sensibili» costituisce una dichiarazione di principi generali, che si vuole derivati dalla Costituzione. Il primo comma recita infatti: «Ai sensi degli articoli 29 e 31 della Costituzione, il riconoscimento della famiglia deve intendersi unicamente indirizzato verso l’unione tra due soggetti legati da vincolo matrimoniale». È, come si vede, un plateale metter le mani avanti, per estinguere sul nascere ogni illusione pericolosa sulla portata del disegno di legge. Il secondo comma aggiunge: «Alla famiglia, intesa ai sensi del comma 1, sono indirizzate, in via esclusiva, le agevolazioni e le provvidenze di natura economica e sociale previste dalle disposizioni vigenti che comportano oneri a carico della finanza pubblica». Coerentemente con questa impostazione, gli articoli da 3 a 7 elencano una serie di diritti dei conviventi senza oneri per lo Stato: diritto di visita presso gli ospedali, diritto di designare il convivente come rappresentante per le decisioni di fine vita, diritto di abitazione o di successione nell’affitto, diritto di ricevere gli alimenti. Manca stranamente ogni accenno al diritto di ricongiungimento familiare (questo in parte si può spiegare col fatto che, come vedremo fra poco, per conviventi si intendono persone normalmente coabitanti) e alla successione ereditaria.

Questo minimalismo dei diritti non costituisce, di per sé, motivo di scandalo. Il vero problema è che l’assetto legislativo ideale dovrebbe prevedere due modalità di regolazione delle convivenze: la prima, leggera, a garanzia di diritti per lo più negativi e non molto diversi in effetti da quelli contemplati dai DiDoRe, per i conviventi che desiderino mantenere un rapporto più libero e non troppo regolamentato; la seconda, impegnativa, che preveda l’estensione dei diritti e dei doveri del matrimonio a chi oggi non può sposarsi: in pratica, alle coppie omosessuali. Ma questa seconda colonna della norma non è proponibile nel nostro paese, a causa del veto della potenza straniera che tiene in pugno i nostri legislatori; e così le proposte di legge finiscono per essere sempre sbilenche. Nel caso dei non rimpianti DiCo si caricava quella che in sostanza era una legge per convivenze «leggere» di alcuni diritti «pesanti», come quello alla pensione di reversibilità, producendo un ibrido assai poco vitale che scontentava tutti; nel caso dei DiDoRe ci si dimentica semplicemente del problema di quelle coppie che non hanno nulla da invidiare in termini di impegno reciproco alle famiglie tradizionali, ma che non possono accedere alle stesse tutele, anzi si nega in capo alla legge che possano essere equiparate a quelle «naturali».

C’è poi un altro grave problema. Come abbiamo visto, la potenza straniera sopra evocata teme come la peste che la regolazione delle convivenze possa anche solo lontanamente richiamare il matrimonio; si deve dunque evitare fra l’altro ogni accenno a una cerimonia, a un incontro dei conviventi di fronte a un funzionario che abbia l’apparenza della stipulazione più o meno solenne di un patto. Per compiacere questo diktat si era ricorso in occasione dei DiCo a quel grottesco balletto di raccomandate che molto fece per affossare quella proposta e consegnarla agli annali del ridicolo. Per i DiDoRe la soluzione prescelta è più drastica: diritti e doveri conseguono non dalla sottoscrizione di un impegno formale, ma semplicemente dal trovarsi nella condizione di conviventi. Dice infatti l’art. 2 del disegno di legge: «1) La presente legge disciplina i diritti individuali e i doveri di soggetti maggiorenni, conviventi stabilmente da almeno tre anni, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 6, uniti da legami affettivi e di solidarietà ai fini di reciproca assistenza e solidarietà materiali e morali, non legati da rapporti di parentela né vincolati da precedenti matrimoni. 2) Per l’individuazione dell’inizio della stabile convivenza trova applicazione l’articolo 5, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223». E il comma del DPR 30 maggio 1989, n. 223, cui si fa riferimento, si limita a stabilire: «Agli effetti anagrafici per convivenza s’intende un insieme di persone normalmente coabitanti per motivi religiosi, di cura, di assistenza, militari, di pena e simili, aventi dimora abituale nello stesso comune» (da notare una possibile fonte di problemi interpretativi: qui si fa riferimento a «un insieme di persone», quindi anche più di due, mentre la proposta di legge sembra sempre dare per scontato che i conviventi siano solo due).
Se i DiDoRe divenissero legge, dunque, una persona che inizia una convivenza si troverebbe automaticamente di fronte alla prospettiva di dover un giorno «prestare gli alimenti oltre la cessazione della convivenza, con precedenza sugli altri obbligati, per un periodo determinato in proporzione [quale?] alla durata della convivenza medesima» (art. 7), a una persona con cui non ha più alcun legame affettivo, e senza aver stipulato alcun contratto in questo senso. (Curiosamente la proposta di legge non sembra contemplare obblighi di assistenza reciproca durante la convivenza.) Molto liberale, non c’è che dire. Forse i DiDoRe hanno in realtà lo scopo celato di favorire le sorti declinanti dell’istituto matrimoniale, che a questo punto appare in paragone più vantaggioso?

Stupisce di trovare fra le firme che accompagnano questo pezzo non esaltante di arte legislativa quella di Benedetto Della Vedova, che sul tema sappiamo avere ben altre idee. Capisco che si possa ritenere che qualcosa è meglio di niente, ma in questo caso il gioco al ribasso è andato decisamente troppo in là. Meglio niente, grazie, di questo.

domenica 7 settembre 2008

Statisti

Laura Della Pasqua, «Rotondi: “E ora facciamo i Dico”», Il Tempo, 7 settembre 2008:

La nuova legge che Rotondi anticipa a Il Tempo, riguarderà tutte quelle coppie, anche gay, che non costituiscono una famiglia così come la religione [!] e la Costituzione prevedono. Si tratta di quelle unioni che non hanno alcuni tipo di riconoscimento legislativo e non hanno quindi diritti. L’intento di Rotondi e di Brunetta è quindi di regolamentare queste unioni dal punto di vista legislativo. «Fermo restando che il tutto – precisa il responsabile dell’Attuazione del Programma – sarà a costo zero per lo Stato». […]
Il convivente potrà anche avere la pensione di reversibilità?
«Questo no, salterebbero gli equilibri previdenziali e perché la reversibilità è posta a tutela del concetto di famiglia, intesa come comunità finalizzata all’educazione dei figli. La reversibilità tutela i figli e il coniuge superstite che li ha educati. Insomma non è possibile con il pretesto dei diritti dei conviventi alterare gli equilibri del sistema sociale».
Corro subito ad avvertire mia zia: per qualche errore burocratico l’Inps le sta versando una pensione di reversibilità cui non ha diritto, visto che non ha mai avuto figli. Speriamo che le consentano di rateizzare la restituzione delle somme ingiustamente percepite...

mercoledì 5 dicembre 2007

Un testo base per i Cus

La Commissione Giustizia del Senato ha approvato ieri come testo di base per la legge sui Cus (Contratti di Unione Solidale) quello presentato da Cesare Salvi, Presidente della Commissione.
A una prima, rapida lettura, il testo si presenta sobrio e abbastanza ragionevole. È scomparso il meccanismo demenziale della raccomandata: il contratto di unione solidale si stipula mediante dichiarazione congiunta davanti al giudice di pace o ad un notaio. Sembrano presenti tutti i principali diritti: assistenza ospedaliera, trasferimenti, decisioni in caso di malattia o di morte (ma queste ultime, misteriosamente, solo «in assenza gli ascendenti o discendenti diretti maggiorenni del soggetto interessato»), successione nell’affitto.
Più discutibili sembrano gli articoli sulla successione ereditaria, a cui i partner hanno diritto solo a partire da nove anni (!) dall’inizio dell’unione, e con modalità di concorso che a prima vista sembrano inaccettabili (solo metà dell’eredità se esistono parenti diversi da figli, ascendenti, fratelli e sorelle!). Come già per i DiCo si rimandano infine gli aspetti previdenziali dei Cus a future decisioni «in sede di riordino della normativa previdenziale e pensionistica».

Una proposta di legge insomma con aspetti discutibili, ma che nel complesso sembra un vero passo in avanti e non una grottesca presa in giro, com’era stato con i DiCo.
Il termine per la presentazione degli emendamenti è stato fissato alle ore 18 di martedì 15 gennaio 2008.

venerdì 9 novembre 2007

Gesto di ossequio

Antonio Capano, «Unioni civili, registro abolito», Avvenire, 9 novembre 2007, p. 10:

L’amministrazione comunale di Pizzo ha abolito da qualche giorno il registro delle unioni civili che era stato istituito con una delibera del 2004 dalla precedente giunta municipale.
Pizzo era stata la prima città della regione a dotarsi di questo strumento. Ma adesso, anche senza suscitare il clamore che aveva avuto per l’istituzione, stabilisce il nuovo primato di una comunità che lo elimina.
D’altra parte nessuno aveva usufruito di quel registro.
Nei giorni scorsi il sindaco del comune calabrese, Fernando Nicotra, ha indirizzato una lettera al Santo Padre per comunicare la decisione presa dalla propria giunta. E da Roma, attraverso la Segretaria di Stato vaticana, non si è fatta attendere la risposta con l’invio di un messaggio-benedizione indirizzato al Comune e al primo cittadino «per il premuroso gesto di ossequio e di fedele adesione all’universale ministero del Santo Padre, incoraggiando a preservare con gioia nei propositi di amore a Cristo nella continua ricerca della verità».
Forse avrei dovuto ambientare «Concetta» un po’ più vicino nel tempo...

venerdì 17 agosto 2007

Faccia da... (non lavatrice)

Il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa, in un’intervista rilasciata al gr di Radio Vaticana, dichiara (Cesa (Udc): grande centro possibile contro testamento biologico e coppie di fatto, Vivere & Morire, 13 agosto 2007):

Abbiamo di fronte a noi, a iniziare da settembre, dalla ripresa parlamentare, delle sfide molto serie e molto delicate. Mi riferisco al discorso dei Dico, si chiameranno Cus ma sono la stessa cosa; mi riferisco al problema del testamento biologico; a tante questioni rispetto alle quali penso che sia importante avere nel nostro Paese un’unità, diciamo un partito, che difenda con maggior forza questi valori.
(Poi, naturalmente, noi si fa un po’ come ci pare e si spera nessuno ci colga in flagrante e se dovesse capitare possiamo sempre rispondere che cosa c’entra la nostra vita privata?)
L’incauto Cesa, però, facendo la suddetta dichiarazione sembra definire i Cus e il testamento biologico valori da difendere (o forse è stato il giornalista che ha ammischiato le cose?).

giovedì 12 luglio 2007

Non più DiCo ma CUS

Sembra la sigla per il riciclaggio dei rifiuti (Dico: nuovo testo al Senato, ora si chiamano ‘Cus’, Il Corriere della Sera, 12 luglio 2007). Invece sta per Contratti di Unione Solidale.
Cesare Salvi, presidente della commissione Giustizia del Senato, ha presentato questa mattina il testo base sulle unioni civili al comitato ristretto della commissione. Sarà discusso nelle prossime settimane. Stiamo a vedere.

venerdì 18 maggio 2007

I mali del mondo

Chiara Saraceno (Monsignore si dia una calmata, La Stampa, 17 maggio 2007):

È difficile provare rispetto ed avere attenzione per chi confonde terroristi e violenti veri e persone che, assumendosene tutta la responsabilità e talvolta la sofferenza, compiono scelte eticamente motivate, ancorché in modo difforme dalla morale cattolica. Per chi, tra l’altro, non distingue neppure, dal punto di vista della gravità rispetto al suo stesso concetto di morale, tra aborto e convivenza senza matrimonio, tra eutanasia e approvazione dei Dico e ritiene (contro le stesse più recenti acquisizioni della Chiesa) che l’omosessualità sia uno stile di vita, e non una condizione umana in cui ci si trova a nascere e vivere. Perciò teme, un po’ grottescamente, che se si riconoscessero le coppie omosessuali nessuno più farebbe coppie (e matrimoni) eterosessuali. È una visione senza sfumature e senza distinzioni, oltre che senza rispetto. Per questo è intimamente violenta oltre che intellettualmente rozza.
Da leggere tutto.

martedì 10 aprile 2007

L’esercito di una missione (contro l’assenza di valori del pensiero laico)


Sono riflessioni amare quelle suscitate dalle dichiarazioni di Gerardo Bianco («È colpa della cultura settaria di sinistra». Gerardo Bianco (Ulivo): «La Chiesa interviene perché il pensiero laico è senza valori», Il Tempo, 10 aprile 2007), ma pur sempre preferibili rispetto all’impulso di sferrargli un pugno in faccia. Condanno la violenza, prima per ragioni estetiche e fisiche che morali. Ma la mia condanna è pur sempre abbastanza salda. Perciò provo a trasformare l’impulso di cui sopra in parole.
Basterebbe anche soltanto la sua dichiarazione riportata nel titolo: questa idea idiota che il pensiero laico è privo di valori è imbarazzante. Eppure viene ripetuta come una cantilena (la versione debole è: ci saranno pure valori laici, ma di certo non equiparabili nemmeno lontanamente ai Valori, quelli veri, quelli assoluti, del cattolicesimo) e senza porsi un problema gravissimo insito nella morale cattolica (forse in tutte le morali religiose): siamo sicuri che sia morale compiere x per non essere giudicato da dio? Siamo sicuri che non somigli a una contrattazione tra offerenti (io mi comporto bene, tu mi salvi l’anima?)? Il nostro evidente interesse (altrimenti detto secondo fine) non rischia di svilire il nostro comportamento? Un credente aiuta il prossimo per farsi bello; un laico lo aiuta perché crede che sia giusto farlo, senza aspettarsi ricompense o contentini.
Ma Bianco prosegue nell’elencare insensatezze, luoghi comuni, vere e proprie offese all’intelligenza. Parlando delle scritte contro Bagnasco e degli attacchi (?) alla Chiesa avverte che si tratta di «un classico fenomeno di intolleranza che c’è sempre dentro la cultura settaria della sinistra e presente anche in quella di destra. Sono i tipici comportamenti degli estremismi, inclini alle condanne e espressione di culture infantili che tendono a semplificare le cose. Chi la pensa diversamente è un nemico da distruggere. Una cultura laica che ritiene di essere depositaria del principio di libertà non si rende conto che in alcune posizioni di estremo laicismo alimentano forme di intolleranza».
Non vorrei destinare l’intero pomeriggio all’analisi del pensiero di Bianco. Ma fa senza dubbio sorridere il pretesto (siamo sicuri che Bagnasco non abbia mandato qualcuno con la bomboletta a scrivere insulti indirizzati alla sua persona?) e le connessioni spacciate per necessarie, alla fine delle quali la responsabilità delle scritte suddette è del laicismo! Le scritte sono una idiozia, ce le saremmo risparmiate volentieri, sono peggio degli striscioni allo stadio, inutili, di pessimo gusto, e così via. Ogni forma settaria ha qualcosa che non va, ma Bianco dimentica che la Chiesa cattolica è la madre di tutte le sette. E che è il suo modo di procedere quello di demolire i nemici. Essere (o ritenersi) depositari del principio di libertà non dovrebbe di per sé costituire una violenza: ci vuole qualcosa in più (l’imposizione di quella libertà) per essere ingiusti. La libertà, da sola, non può far male a nessuno.
Poi Bianco se la prende con Piergiorgio Odifreddi che chiama il Papa Adolfo I, esprime il proprio rimpianto per il «tramonto di un partito di ispirazione cristiana come la Dc» che mediava (mediava?) e conclude: «Mancando questa mediazione la Chiesa è stata costretta riempire il vuoto e a intervenire per richiamare alcuni valori che le forze politiche non sono capaci di difendere. Si sta sviluppando una cultura che da laica diventa laicista e poi degenera in estremismi eversivi».
Costretta da chi? Quali valori esattamente? Perché stona parecchio l’affidamento della difesa dei valori alla classe politica. Quanto a “laicismo” rimando ad un post di Malvino, che meglio di quanto avrei fatto io si è soffermato sul significato del termine.
Sulla questione della ingerenza della Chiesa in politica e sui Dico aggiunge in conclusione: «La Chiesa non può venire meno alla sua funzione. Perchè il pensiero laico non si interroga sulla disgregazione della famiglia? È chiaro che di fronte alla deriva della società che non ha più valori di riferimento, la Chiesa svolge una funzione di supplenza. Il pensiero laico non è più in grado di dare una risposta alla disgregazione della società. […] Ma quale ingerenza? È l’esercizio di una missione. La Chiesa è stimolatrice di una cultura ma la sfida non riesce a trovare interlocutori validi. La società ha bisogno di punti di riferimento valoriali. Il pensiero radicale ha messo in crisi tutti i valori. L’effetto è l’individualismo esasperato. […] La legge sui Dico ha messo a nudo le insufficienze del pensiero laico. Nel momento in cui la Chiesa viene a difendere il matrimonio finisce per difendere un istituto laico. La cultura laica quando rinuncia a difendere il matrimonio e la famiglia, non è in grado di esprimere un pensiero per organizzare la società».
Esercizio o esercito?

sabato 31 marzo 2007

Ipocrisia e insensatezza

E prosegue: «Perché quindi dire no a varie forme di convivenza stabile giuridicamente, di diritto pubblico, riconosciute e quindi creare figure alternative alla famiglia?», si domanda il prelato riferendosi ai Dico. «Perché dire di no all’incesto, come in Inghilterra dove un fratello e sorella hanno figli, vivono insieme e si vogliono bene?».

Mi domando: ci crede davvero a quello che dice? Si è mai domandato cosa significhino alcune parole? Certo non cambia ricordargli che i fratelli incestuosi sono tedeschi, ma se l’approssimazione è la stessa sugli altri argomenti e sulle inferenze, allora stiamo a posto.

lunedì 12 marzo 2007

?

Luca Volonté, «Il governo potrebbe cadere», Il Tempo, 11 marzo 2007:

Sono in piazza per interesse personale. Una norma improbabile contraria al principio di uguaglianza e alla libertà personale, opposta alla Costituzione. Fassino non ci va ma è molto presente a parole. Prometti privilegi irrinunciabili e non è una grande novità per l’attuale sinistra, ormai soltanto libertaria e radicale. Squatter antiamericani giacobini anticattolici, scientisti antinaturali tutti uniti dall’ideologia di costruire una nuova umanità, androgina oppure omosex che sia.
(Che ha detto?)

lunedì 5 marzo 2007

La maschera di Francesco D’Agostino e la manifestazione del 10 marzo (Diritti ora!)

Francesco D’Agostino, L’Arcigay, col patrocinio del Comune.
Manifestazione a Roma scelta discutibile.
Riflettiamo sulla famiglia e ne riconosceremo la necessità storica, sociale e antropologica, Avvenire, 4 marzo 2007.

Il prossimo 10 marzo Roma ospiterà una manifestazione promossa dall’Arcigay, cui è già stato concesso il patrocinio del Comune. È ancora poco chiaro se la manifestazione sarà polemica con Prodi («Siamo stati mollati dal presidente del Consiglio», sembra che abbia dichiarato Aurelio Mancuso, segretario nazionale di Arcigay, aggiungendo di essere «molto amareggiato» per le parole pronunciate dal capo del Governo durante la replica al Senato) o se si limiterà a una pressione di piazza perché il Parlamento proceda rapidamente all’approvazione dei Di.co. Quello che è certo è che la manifestazione avrà sicuramente una valenza che andrà al di là del dibattito politico contingente. Se lo slogan dominante, come è stato annunciato, sarà: diritti ora, la manifestazione si concretizzerà nella rivendicazione del riconoscimento pubblico e legale di un modo altro non solo di vivere la sessualità, ma di pensare la famiglia, le relazioni interpersonali, l’identità individuale e di conseguenza né più né meno che la stessa vita collettiva. Si moltiplicheranno certamente gli inviti a liberare la legislazione da ogni subordinazione alla natura, nella pretesa illusoria che l’uomo possa liberamente plasmarsi a suo completo piacimento e a suo insindacabile arbitrio.
Il modo altro di vivere la sessualità, di pensare la famiglia, le relazioni interpersonali, l’identità individuale e di conseguenza né più né meno che la stessa vita collettiva (addirittura!): altro rispetto alle preferenze di Francesco D’Agostino? Perché è davvero difficile accettare che esista Una Verità in materia di sessualità, rapporti familiari, relazioni interpersonali, identità individuale e vita collettiva in opposizione alla quale i facinorosi manifestanti vogliono proporre una Verità Sbagliata. Intestardendosi a suggerire che non di Una Verità si deve parlare, ma di una preferenza (legittima) che non deve offendere e escludere le altre preferenze (legittime) in nome di un falso dio. Quali assurdità! Essere tracotanti, opporsi alla Natura (se qualche volenteroso volesse spiegarmi di cosa si tratta, gliene sarò eternamente grata, non per qualche giorno, ma per l’eternità), pensare di godere di uno spazio di libertà, opporsi all’idea di essere eterodeterminati e creati da dio.
Non esiste una famiglia naturale da imporre a tutti; esiste (dovrebbe esistere) la possibilità di scegliere in che modo vivere (tenendo fermo il limite del danno a terzi: ma chi sarebbe danneggiato dalle garanzie alle unioni civili? Chi sarebbe danneggiato da un modello familiare diverso dall’ingenuo modello d’agostiniano di madre + padre + figli?).
E in chiusura D’Agostino sembra abbracciare una idea bizzarra quanto diffusa: che la libertà significhi arbitrio e assenza di regole. Anarchia e disordine. La libertà non può essere ridotta a questa caricatura. La libertà individuale è un bene prezioso e che accetta limiti e argini. Ma questi limiti devono essere ragionevolmente sostenuti, non costruiti su pregiudizi e idee personali (legittime, ma non universalizzabili. E soprattutto, da non imporre con una legge o con una mancata legge).
Questa linea, del resto, non è futuribile: è già stata tracciata dalla Spagna di Zapatero, che, approvando la normativa sul cambiamento anagrafico di sesso su mera richiesta del soggetto, ha aggiunto un’ulteriore e decisiva pennellata alla rimozione di ogni rilievo giuridico dell’identità sessuale naturale. Ebbene, ad una manifestazione che abbia come fine ultimo quello di negare quella stabilità, che all’uomo è dato esperire radicandosi nella natura, bisogna dire di no. Questo no si badi bene non è rivolto agli omosessuali in quanto tali, che abbiamo tutti il dovere di considerare amici, fratelli, concittadini, persone, ma ad una visione del mondo (che peraltro non tutti i gay condividono) assieme errata e ingenua, quella per la quale la differenza sessuale debba essere ritenuta irrilevante, perché la nostra identità non dipenderebbe dal nostro volto, ma dalla maschera che decidiamo, occasionalmente, di indossare per nasconderlo.
Irresistibile il richiamo a Zapatero, metà diavolo metà sciroccato, che avrebbe compiuto un passo ulteriore nella disgregazione dei Valori e della Verità. L’identità sessuale naturale è molto più incerta di quanto D’Agostino vorrebbe. E non è certamente riducibile a un calcolo di geni e DNA, ma emerge da scelte, da preferenze, dalla vita che ognuno di noi vive e costruisce. Inquietante che D’Agostino senta la necessità di mettere le mani avanti: “il no non è rivolto agli omosessuali in quanto tali” (c’è bisogno di dirlo? Forse sì, purtroppo). E avrei la tentazione di rispedire al mittente l’amicizia e la fratellanza, perché condizionate da una visione del mondo ristretta e offensiva. La questione non è quella di considerare la differenza sessuale irrilevante, ma di non ridurla a qualcosa di prestabilito e di fisso, a un gioco di volti e maschere.
E allora come valutare la giornata del 10 marzo? Se ne può fare un buon uso? Il Comune di Roma evidentemente pensa di sì, dato che alla giornata ha discutibilmente concesso il suo patrocinio. Una scelta che non peggiorerà solo a condizione che ricordi al movimento gay che è giusto essere fieri solamente di ciò che si fa, non di ciò che si è. Costruire insieme (senza discriminarsi mai a vicenda) una società più giusta: se questo fosse l’appello che provenisse dalla manifestazione del 10 marzo, come rifiutarsi di ascoltarlo? Ma per operare a favore di una società più giusta bisogna togliersi le maschere (o rifiutarsi di indossarle, se non a carnevale) e aprire una riflessione seria, argomentata, non ideologica sull’identità umana e sui suoi bisogni. Riflettiamo sulla famiglia e ne riconosceremo la necessarietà storica, sociale e antropologica; riflettiamo sui diritti e capiremo che non ci è lecito confonderli con le pretese soggettive e arbitrarie dei singoli; riflettiamo sulla sessualità e arriveremo a concludere che esiste una sola grande dicotomia, quella maschio/femmina, che è semplicemente illusorio negare. Alcuni vogliono manifestare? Lo facciano; è un loro diritto, che tutti riconosciamo. Ma che tutti e non solo alcuni siano chiamati a ragionare su valori umani fondamentali è qualcosa di più di un diritto: è un dovere e una necessità.
Perché non si potrebbe essere anche fieri di ciò che si è? Perché se la si pensa come D’Agostino, che “quello che si è” è determinato da qualcun altro è chiaro che noi non c’entriamo nulla. Ma in quello che siamo entra anche la nostra volontà, e di questo possiamo essere fieri o vergognosi. Prima di invitare gli altri a togliersi le maschere, D’Agostino dovrebbe deporre la sua da censore e da inguaribile semplificatore. Tra i diritti fondamentali, caro D’Agostino, c’è quello di essere rispettati. E chiedere che unioni diverse da quella tradizionale del matrimonio siano protette è chiedere rispetto. È chiedere che si possa essere considerati compagni di vita di qualcuno senza scambiarsi vane parole in un abside di una chiesa; è chiedere di essere considerati validi interpreti della volontà di un altro anche senza fedi benedette (dobbiamo forse ricordare gli innumerevoli casi di persone escluse da ospedali o da funerali perché non consorti consacrati del proprio compagno malato o morto?); è chiedere di non essere estromessi dalla casa in cui si è vissuti o di avere una qualche voce sui figli cresciuti insieme.

domenica 25 febbraio 2007

Homo (in)habilis

Francesco Agnoli ha l’onore di essere oggetto delle nostre attenzioni ancora una volta nel giro di poco tempo scrivendo nell’inserto èFamiglia Ma io Dico: i giovani chiedono ben altro, Avvenire, 23 febbraio 2007 (non varrebbe nemmeno la pena di prenderlo seriamente in considerazione se non fosse rappresenttivo di un pensiero ossessivo e ingombrante). Inizia con una domanda folgorante (poi si lascia prendere dalla foga narrativa):

I giovani hanno veramente bisogno dei Dico? Stiamo guardando al loro futuro, stiamo forse pensando a loro? Per rispondere a questa domanda, così essenziale, vorrei partire dalla vita, dall’esperienza concreta. Qualche sera fa ho portato al cinema una mia classe, a vedere “La ricerca della felicità” di Gabriele Muccino. Un film ispirato ad una storia vera. La storia di una famiglia in cui la madre abbandona marito e figlio, perché i disagi economici rendono la vita, per lei, insopportabile. Il padre, invece, vuole tenere duro: ha avuto anche lui una infanzia difficile, ha conosciuto suo padre molto avanti negli anni, e vuole per suo figlio qualcosa di diverso. Il film è tutto giocato su questo rapporto, tra padre e figlio: il padre che domanda di continuo al suo bambino se ha fiducia in lui. E il bimbo che si affida, come tutti i bimbi, a chi lo ama. Poi, alla fine del film, ho riportato a casa una mia alunna: non a casa sua, ma di sua nonna. Il padre, infatti, vive da una parte, la madre da un’altra, e lei con la nonna. Vede sua madre in giorni prestabiliti, ma non per molto, né con grande gioia: «Lei tanto è indaffarata col suo moroso». Io, che ho vissuto in una bella famiglia, unita, felice, non ho potuto non commuovermi, e chiedermi: cosa stiamo dando, ai nostri giovani? Tutti in fondo se lo chiedono: cosa gli stiamo dando, per quanto riguarda la famiglia, o per quanto riguarda il lavoro.
Francesco Agnoli si pone come interprete e portavoce dei “giovani”, e a loro nome spiega che “no, dei Dico i giovani non hanno bisogno” e che “i giovani hanno bisogno della famiglia Vera” (ha chiesto loro di che opinione fossero?). Che cosa poi sia, la famiglia Vera, ce lo spiega lui. Se esista o se sia mai esistita io non so. Ma Francesco è convinto che i principali guai (se non addirittura tutti i guai) derivino dalla dissoluzione di questo passepartout esistenziale. Come se il matrimonio (in chiesa, si intende) possa ergersi a garante di qualcosa. E non perché legalmente è possibile divorziare. Anche prima del divorzio esistevano famiglie (bollate dal matrimonio indissolubile, data di scadenza: MAI) infelici, disastrose, pericolose. Umberto Galimberti, il cui pensiero e il cui modo di “fare filosofia” non mi sono congeniali, una volta rivolse ai lettori della sua rubrica su D di Repubblica una questione scomoda e imbarazzante (a proposito di un caso di una mamma che avevo ucciso il figlio inscenando un rapimento; il figlio era naturale e la mamma regolarmente sposata): se l’ingenuo pensiero dell’amore materno e delle premure parentali non fosse tale (ingenuo), non ci ritroveremmo con tanti bambini, adolescenti e adulti inguaiati. In altre parole (vorrei che Francesco comprendesse senza sbavature): le madri non sono sempre amorevoli e premurose; le famiglie (tradizionali) non sono sempre accudenti e rassicuranti; i legami familiari non sono sempre impostati sulla fiducia e l’amore. Distinguere i buoni dai cattivi in base a una parola (Matrimonio) è una operazione rassicurante ma nella migliore delle ipotesi inefficace. E spesso stupida, di quella stupidità cieca e insofferente alle complicazioni e alle distinzioni.
Mi fa sorridere l’apologia del film di Gabriele Muccino, l’ingenuità del dire con enfasi “è una storia vera” (e pertanto avrebbe un valore aggiuntivo?), la semplificazione del pensare che un modello formale possa garantire il buon esito della “ricerca della felicità”. Mi piacerebbe sapere se davvero il caro Francesco sia convinto che la famiglia (come la intende lui, madre padre e figli) sia una garanzia sufficiente a conferire stabilità e rassicurazione. E mi astengo dal chiedere cosa diavolo ci facesse Francesco al cinema con una sua alunna (sì, sì; al cinema era con tutta la classe, ma poi a casa ne ha riaccompagnata soltanto una. Oppure è munito di un pulmino giallo?).
Ma andiamo avanti con la lettura.
Il grande finanziere George Soros, un ebreo ungherese che vive in America, ha scritto un libro, “Soros su Soros” (editrice Ponte alle Grazie), molto utile per capire dove stiamo andando. In esso ci parla delle sue doti di “filantropo”: si batte, con le sue infinite disponibilità economiche, in collaborazione con Hugh Hefner, proprietario di Playboy, per una «società aperta», cioè una società in cui vi sia droga libera, mobilità lavorativa, mercato libero, emigrazione e immigrazione... in cui «la struttura organica di una società si è disintegrata al punto che i suoi atomi, gli individui, si muovono in varie parti senza radici». In questa società, scrive Soros, «amici, vicini di casa, mariti e mogli diventano, se non intercambiabili, almeno prontamente rimpiazzabili da sostituti impercettibilmente inferiori, o superiori... il rapporto tra genitori e figli rimane presumibilmente fisso, ma i legami che li uniscono potrebbero diventare meno importanti». L’essenziale, prosegue Soros, è che «nelle società aperte ogni individuo deve trovarsi da solo il proprio scopo di vita», sapendo che la libertà è semplicemente la possibilità dell’individuo di «conseguire il proprio interesse personale come egli lo percepisce».
Ma noi siamo veramente fatti per questo? Siamo veramente fatti «per il nostro interesse personale», per muoverci di continuo, per continuare a cambiare lavoro e dimora? Siamo fatti per avere più famiglie, più genitori, amici e vicini intercambiabili, e cioè senza valore? A me non sembra. Mi pare, al contrario, che tanti giovani non credono più all’amore per sempre perché gli abbiamo tolto la terra sotto i piedi: abbiamo reso ardua l’opzione famiglia, con le mille paure e con la sfiducia che caratterizzano la cultura odierna, e poi rimandando di continuo l’età della indipendenza lavorativa, precarizzando il lavoro, omettendo ogni politica sociale a favore della famiglia...
È molto interessante come la pluralità diventi interscambiabilità e poi assenza di valore. Seguendo quella idea che la possibilità di scelta costituisca in realtà una svalutazione. In fondo, se la Verità è una, tutte le altre “opzioni” hanno poco o nessun valore.
Le credenze, poi, non hanno il potere di affermarsi a dispetto delle circostanze. Io posso pure credere in Gesù Bambino, ma non è la debolezza della mia credenza a far trapelare le crepe. Così, posso anche credere nell’amore per sempre, ma se mio marito mi picchia cosa scelgo, la credenza o la fuga?
L’uomo, invece, è l’unico “animale” che ha bisogno di sicurezza, di stabilità, di fedeltà, di unità: l’unico che rimane legato alla famiglia d’origine, per tutta la vita; l’unico che dipende da essa per moltissimi anni; l’unico che tendenzialmente ama per sempre; l’unico che mantiene il legame con i suoi cari, tramite la tomba, persino dopo la morte... L’uomo crea e desidera amicizie stabili, una dimora fissa, un lavoro che non cambi di continuo... Su questa stabilità costruisce la sua identità, il suo essere qualcuno, la sua tranquillità interiore.
Ma che ne sa? È lecito che qualcuno desideri diversamente? E come si mantiene il legame con i propri cari tramite la tomba? È un legame monodirezionale? Oppure anche chi sta sottoterra mantiene un legame? Gli argomenti di Francesco sono stringenti, e non poteva mancare il richiamo ai figli adottati o ai figli della procreazione assistita.
Il figlio ha la necessità di poter contare sui suoi genitori, vive della loro unità e soffre delle loro discordie; il marito e la moglie, hanno bisogno di poter contare sul coniuge, di aver in lui una sicurezza, un aiuto, un conforto.
Lo dimostra molto bene il caso dei figli adottati o, ancor di più, di quelli nati con fecondazione artificiale eterologa. I primi, infatti, ricercano di solito i loro genitori naturali, desiderano conoscerli, anche se si trovano benissimo nella famiglia adottiva. I nati da eterologa, invece, come racconta Chiara Valentini, giornalista de L’espresso, nel suo “La fecondazione proibita” (editrice Feltrinelli), divenuti maggiorenni si mettono spesso sulle tracce del loro padre o della loro madre genetici: eppure non li hanno mai visti, neppure di lontano!
Feltrinelli è una casa editrice femminile?
Ebbene cosa stiamo costruendo noi con i Dico? Stiamo creando una società sempre più aperta, ma nel senso di liquida, di sfuggente, di instabile ed incerta... in cui un figlio, o una moglie, si cambiano come si cambia il lavoro, anzi più in fretta ancora di un co.co.co, o come si cambia un cellulare, affinché l’economia continui a girare... Così facendo però non costruiamo l’uomo, ma lo decostruiamo: torneremo nomadi, come nei tempi preistorici: nomadi spirituali, cioè uomini soli, senza radici, senza storia, senza legami. I giovani non vogliono questo: soprattutto quelli come la mia alunna, che ha sperimentato su di sé l’incertezza dell’amore, vogliono altro. È la mia personale riflessione, ma anche la mia esperienza quotidiana di insegnante. Tutti vorrebbero costruire sulla roccia degli affetti stabili, e non sulla sabbia delle passioni mutevoli, delle paure e degli egoismi. Compito dello Stato è tutelare e difendere questo desiderio originario, e non altro.
Tutelare, non imporre. Tutelare significa proteggere, non eliminare gli avversari. Starebbe bene Agnoli tra gli uomini d’un tempo. Quelli che non si ponevano troppi interrogativi sulla vita e sulla morte, ma dovevano procacciarsi il cibo. E tenere a freno la lingua per concentrare le energie sulla corsa e il pugnalare a morte la povera bestiola da fare alla brace.

Il padre dei DiCo si redime

Siamo stati severi, qualche giorno fa qui su Bioetica – e credo a ragione – con Stefano Ceccanti, consigliere giuridico del ministro Pollastrini ed estensore materiale (assieme ad altri) del disegno di legge sui DiCo. Ma ciò non toglie che Ceccanti dica anche cose intelligenti, quando non si trova a dover difendere l’indifendibile. In particolare, un suo articolo sul Foglio di ieri fa giustizia di alcuni luoghi comuni che girano sulle convivenze («Il cattodem Ceccanti si cimenta con la bozza della nota dei vescovi. Un duello in punta di diritto», 24 febbraio 2007, p. 3). Parlando della bozza (trapelata sulla stampa) della futura Nota Cei, che dovrebbe impegnare i politici cattolici a contrastare ogni proposta di legge sui Pacs, Ceccanti afferma:

L’autonomia privata potrà garantire qualcosa come dice il documento del 2003, ma purtroppo non può garantire nessuno dei diritti previsti dai Dico.
La bozza parte dal documento della Congregazione per la Dottrina della fede del 2003 che parla di “autonomia privata […] per tutelare situazioni giuridiche di reciproco interesse”: questa apertura si riferisce a un’area molto ristretta. La bozza, in spirito di ulteriore apertura, vorrebbe ricomprendere in quell’apertura “molti dei diritti di cui parla il presente progetto di legge”. Un’operazione che però, purtroppo, non si può proprio fare. Con tutta evidenza i contratti non possono regolare né una quota di legittima nelle successioni, né diritti previdenziali e pensionistici, né permessi di soggiorno, né far insorgere obblighi alimentari. Neppure possono determinare una giurisprudenza univoca in materia di impresa o di trattamenti sanitari (che infatti ad oggi non è univoca), consentire in caso di conflitto con familiari un effettivo diritto all’assistenza per malattia o ricovero, costituire titolo per trasferimenti e assegnazioni di sede o imporre standard essenziali alla legislazione regionale per alloggi di edilizia pubblica. Né possono espandere al di là delle tipologie di conviventi già tutelati il subentro nel contratto di affitto o l’opposizione alla donazione degli organi. Alla fine, pertanto, se ci si basa solo sul Documento del 2003, bisogna affermare che nessuno di quei diritti è meritevole di tutela da parte del Parlamento, cosa che comunque finirebbe per provocare interventi del potere giudiziario per sanare le più evidenti discriminazioni. Ma è proprio inevitabile restare nei limiti del 2003? La prolusione del cardinale Ruini al Consiglio permanente del settembre 2005 poneva anch’essa la via del diritto comune come strada maestra, ma ricomprendeva poi come subordinata la possibilità di varare “qualora emergessero alcune ulteriori esigenze, specifiche e realmente fondate, eventuali norme a loro tutela” che dovrebbero “rimanere nell’ambito dei diritti e dei doveri delle persone”. Perché non riconfermare anche tale apertura che nella bozza non c’è più?
Da leggere anche il resto (che si può integrare utilmente con «Chi si oppone è contrario anche al Trattato costituzionale europeo?», Il Riformista, 14 febbraio 2007, p. 5, dello stesso Ceccanti).

sabato 24 febbraio 2007

Diritti in svendita

sabato 17 febbraio 2007

DiCo: il ministero tenta di chiarire – ma non ci riesce

Dopo le perplessità espresse da molti – compresi noi di Bioetica, in un post precedente – su alcune palesi assurdità contenute nel disegno di legge governativo sui DiCo, il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio tenta di chiarire alcuni dei punti più controversi, con una scheda di approfondimento («Cosa sono i DiCo»; il contenuto è praticamente identico a quello di una ‘intervista’ a Stefano Ceccanti, uno degli estensori materiali della legge, presente sullo stesso sito).

Il primo chiarimento riguarda, come ci si poteva aspettare, la famigerata raccomandata con ricevuta di ritorno:

Due persone, che si trovino nelle condizioni previste dalla legge, possono ottenere certificazione di questa realtà se si trovano in questa condizione di fatto, che possono dichiarare in due modi a loro scelta:
A) quella [sic] più semplice è di andare contestualmente all’ufficio di anagrafe facendo una dichiarazione;
B) in alternativa può andare uno solo e dimostrare di avere avvisato l’altro con raccomandata con ricevuta di ritorno. Nell’applicazione della legge si garantirà che sia l’altro convivente a ricevere materialmente tale comunicazione [corsivo mio].
La spiegazione non spiega un granché, come si vede, e non ci rimane che fantasticare su come si otterrà la garanzia che la raccomandata cada nelle mani giuste. Escludendo che il postino si accampi sotto casa nostra in attesa che il nostro convivente torni a casa dopo una settimana di vacanze, possiamo supporre che la raccomandata DiCo dovrà portare stampigliata in bella evidenza l’oggetto del suo contenuto (pazienza per la privacy...), e che potrà essere consegnata solo dietro esibizione di un documento personale, di cui il postino annoterà scrupolosamente gli estremi; il destinatario non reperibile si dovrà recare presso l’ufficio postale, senza possibilità di deleghe. Tutto, pur di non sancire l’obbligo della dichiarazione contestuale e dell’assenso di entrambi i conviventi.
Non sfugge la preghiera implicita contenuta al punto A): lo sappiamo bene – sembrano dire i tecnici ministeriali – che le complicazioni della raccomandata sono inverosimili e pazzesche; l’unico modo sensato per dichiarare i DiCo è di venire a farlo tutti e due all’Anagrafe. Ma non possiamo dirlo apertamente: sù, fate i bravi, non metteteci in difficoltà con i teodem – ci rimettereste anche voi, se quelli bocciano la legge – lasciate perdere le Poste e venite all’Anagrafe, che così si fa prima e con meno fatica...

Il disegno di legge solleva un’altra, ancor più grave perplessità: da molti indizi sembra che esso non preveda la possibilità per due conviventi di sottrarsi ai suoi effetti giuridici, che lo vogliano oppure no. Qui la risposta del Ministero è più indiretta, e conviene analizzarla a fondo.
Cominciamo da ciò che sembra affermare la lettera del disegno di legge, all’art. 1:
1. Due persone maggiorenni e capaci, anche dello stesso sesso, unite da reciproci vincoli affettivi, che convivono stabilmente e si prestano assistenza e solidarietà materiale e morale, […] sono titolari dei diritti, dei doveri e delle facoltà stabiliti dalla presente legge.
2. La convivenza di cui al comma 1 è provata dalle risultanze anagrafiche in conformità agli articoli 4, 13 comma 1 lettera b), 21 e 33 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, secondo le modalità stabilite nel medesimo decreto per l’iscrizione, il mutamento o la cancellazione. È fatta salva la prova contraria sulla sussistenza degli elementi di cui al comma 1 e delle cause di esclusione di cui all’articolo 2. […]
3. Relativamente alla convivenza di cui al comma 1, qualora la dichiarazione all’ufficio di anagrafe di cui all’articolo 13, comma 1, lettera b), del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, non sia resa contestualmente da entrambi i conviventi, il convivente che l’ha resa ha l’onere di darne comunicazione mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento all’altro convivente; la mancata comunicazione preclude la possibilità di utilizzare le risultanze anagrafiche a fini probatori ai sensi della presente legge.
Cosa vuol dire tutto ciò? Come si vede, si cita due volte un decreto del Presidente della Repubblica, approvato nel 1989 e quindi già da tempo in vigore. All’art. 4, comma 1 il decreto definisce cosa si deve intendere per «famiglia»:
Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune.
Secondo l’art. 13, comma 1, lettera b dello stesso decreto, chi forma una nuova famiglia ha l’obbligo di dichiararlo entro venti giorni all’Anagrafe del Comune in cui vive, che a sua volta creerà una apposita scheda di famiglia. Ora, da una lettura attenta del disegno di legge sui DiCo sembrerebbe che sia questa dichiarazione quella di cui parla: basta che Elisabetta abbia dichiarato all’Anagrafe – come è suo preciso obbligo – di convivere con Luca, e che Luca ne sia stato portato a conoscenza, perché i due si trovino automaticamente titolari di tutti i diritti e i doveri previsti dalla legge sui DiCo (per la verità, secondo una possibile interpretazione il disegno di legge sembrerebbe imporre le conseguenze giuridiche della convivenza anche a chi non sia stato informato dell’iscrizione all’anagrafe; ma non complichiamo ulteriormente le cose).
La scheda di approfondimento cambia però inopinatamente le carte in tavola. Subito dopo il passo sulla raccomandata, afferma infatti:
L’anagrafe riporterà tali dichiarazioni in una scheda che è già prevista, che si chiama scheda della famiglia anagrafica, dove sono già inseriti tutti quanti vivono sotto lo stesso tetto. Oggi non si sa a che titolo vivono insieme, a meno che non risulti dai registri di un altro ufficio, quello dello stato civile.
L’anagrafe si limita a fotografare la realtà; invece lo stato civile registra gli status, come il matrimonio: sono due uffici diversi.
Dopo l’entrata in vigore della legge:
  • chi fa emergere la propria situazione di fatto andando all’anagrafe e facendo quella dichiarazione in uno di quei due modi previsti si trova dentro l’ambito di applicazione della legge.
  • Chi non può perché rientra nelle esclusioni della legge, o chi non è interessato a dichiarare che convive con le caratteristiche individuate dall’art. 1 della legge, continua a stare puramente e semplicemente nella scheda della famiglia anagrafica: la legge non gli si applica.
C’è bisogno di questo passaggio perché ci deve essere certezza sui titolari: sia in positivo, per renderli effettivi, sia in negativo, per evitare abusi [corsivi miei].
Qui la dichiarazione all’Anagrafe si è sdoppiata: quella obbligatoria per la costituzione di una nuova famiglia non basta più per fare scattare gli effetti giuridici dei DiCo; ce ne vuole una seconda, integrativa, non prevista dal decreto presidenziale di cui parlavamo, in cui si afferma che chi convive lo fa su basi affettive.
Si tratta di un chiarimento del disegno di legge del Governo o di una sua correzione? Temo che si debba propendere per la seconda ipotesi: nella bozza che era circolata prima dell’intervento del giornale dei vescovi, l’art. 1, comma 1 recitava:
Qualora due persone, anche dello stesso sesso, legate da reciproci vincoli affettivi e che convivono stabilmente, intendano avvalersi dei diritti e, conseguentemente adempiere ai doveri individuati dalla presente legge, ne fanno dichiarazione congiunta all’ufficiale dell’anagrafe del Comune dove hanno stabilito la comune residenza, il quale annota la data della dichiarazione e la integra nella scheda anagrafica di cui all’articolo 1 della legge 24 dicembre 1954, n. 1228 ed agli articoli 4, 21 e 33 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223.
Questo è precisamente ciò che adesso dice la scheda di approfondimento del Ministero – ma non sembra un caso che il testo del disegno di legge contenga invece una formulazione del tutto diversa.
Ammettiamo comunque che questa sia l’interpretazione autentica della legge, o meglio ancora che – integralisti permettendo – la legge ritorni alla lettera primitiva; potrebbero i conviventi stare tranquilli? Il dubbio, purtroppo, è più che mai lecito.
La scheda di approfondimento ripete ossessivamente un concetto: diritti e corrispondenti doveri nascono da un fatto (la parola ricorre ben cinque volte nella prima pagina del documento). Recependo interamente le obiezioni della Conferenza Episcopale Italiana, i legislatori hanno voluto in questo modo marcare un punto fermo: i diritti previsti dalla legge non nascono da un libero patto tra i due contraenti. La convivenza non è un nuovo istituto cui chi vuole può accedere, ma una condizione di fatto cui si attaccano una serie di conseguenze giuridiche, valide per chiunque in quella condizione si trovi ad essere. La controprova di quanto qui si afferma è data da una monumentale assenza nella scheda ministeriale: si continua a non chiarire come il convivente che riceve la comunicazione dell’avvenuta dichiarazione possa sottrarsi, se così vuole, a degli obblighi che non ha sottoscritto. Ebbene, il chiarimento non c’è perché non ci può essere: se il cittadino, pur convivendo more uxorio con il suo partner potesse sottrarsi agli effetti dei DiCo, ciò vorrebbe dire che la legge riguarda un nuovo status giuridico, e non a una condizione di fatto già esistente; ma questo, a causa della pressione della Cei, non si può proprio ammettere.
Si dirà: pazienza, per le coppie normali basterà non firmare la dichiarazione integrativa con la quale si certifica a che titolo si svolge la convivenza. Ebbene, non ne sarei tanto sicuro. Torniamo ai nostri Luca ed Elisabetta. Elisabetta ha dichiarato la nascita della nuova famiglia all’Anagrafe ma, d’accordo con Luca, ha omesso di integrare la scheda di famiglia con la dichiarazione sulle motivazioni della convivenza. Cosa diceva, però, l’art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica?
Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune.
Nel momento in cui Luca cambiasse idea, e volesse costringere la propria partner a corrispondergli gli alimenti, potrebbe dimostrare molto facilmente di non essere legato a lei da «vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione o tutela»; e che dunque Elisabetta, con la dichiarazione all’Anagrafe, aveva implicitamente ammesso l’esistenza di vincoli affettivi, proprio quelli cui la legge fa corrispondere precisi obblighi... Come afferma ad altro proposito la scheda del ministero, involontariamente minacciosa: «nei primi nove mesi dall’entrata in vigore della legge si può provare che la convivenza è iniziata prima con gli stessi criteri usati nei tribunali». Ed è lì che finirà prevedibilmente questa legge, se sciaguratamente le Camere la lasciassero passare immutata: nelle aule dei tribunali.

La smentita di un miracolo annunciato


Francesco Agnoli in I Dico non si fanno per rispetto della libertà, èFamiglia online (Avvenire), 16 febbraio 2007:

In questi giorni, quando si discute dei Dico, ritorna di continuo un vecchio ritornello: «Io, personalmente, non farei nessun Dico. Credo nel matrimonio, nell’amore responsabile, stabile, fedele, fatto di diritti e di doveri. Ma perché impedire i Dico ad altri, che la pensano diversamente, che non hanno la mia stessa visione del matrimonio? Perché imporre ad altri la mia opinione?».
Queste prime righe sono state una promessa di un miracolo (fatta eccezione per l’identificazione tra matrimonio e amore responsabile e così via; ma insomma non si può chiedere ad una zanzara di suonare il pianoforte). Che puntualmente ha mostrato la sua fallacia. Ho pensato: “Francesco Agnoli ha capito uno dei concetti fondamentali della civiltà, uno dei fondamenti dello Stato liberale, conquista politica e culturale rivoluzionaria quasi quanto l’evoluzionismo”. (Chissà che non sia un caso che mi sia venuto in mente tale paragone. Il nostro sembra in difficoltà su entrambi i versanti.)
Dicevo, la smentita di un miracolo annunciato. Alla sesta riga ecco giungere un “In realtà”. Francesco Agnoli ci spiega come stanno davvero le cose, ci racconta cosa si nasconde dietro all’apparente ragionamento (che poi un ragionamento dovrebbe dirsi errato o corretto, coerente o contraddittorio, ma apparente che cosa significa? Che non è un ragionamento, bensì un sofisma – ecco svelato l’arcano. Tuttavia il sofisma non è che un ragionamento capzioso, magari falso, ma è un ragionamento (e quanto i sofisti ragionassero meglio di Agnoli è superfluo dire).
In realtà, dietro questo apparente ragionamento, si nasconde un sofisma: mentre si discute di un argomento, i cosiddetti Dico, mentre si vota per creare o meno un nuovo istituto giuridico, mentre insomma ognuno dice la sua, a favore o contro, per cambiare la società e le sue consuetudini, gli unici che rischiano di tagliarsi fuori sarebbero coloro che si oppongono, coloro che non approvano.
Che cosa ciarla Agnoli? Tagliarsi fuori? Forse non ha capito il ragionamento dal quale è partito. Chi dice: “Non farei x, ma non imporrei agli altri di non fare x” è un buon esempio di essere umano civile e in grado di sottrarsi alla violenza di “Ti obbligo per il tuo bene”. Ma per Agnoli questo è un atto di autocensura.
Bella democrazia, quella in cui qualcuno deve decidere di stare sostanzialmente zitto, omettere di esprimere la propria opinione, auto-censurare il proprio punto di vista! Non è un caso che a ripetere per primi il ritornello, affinché tanti lo imparino a memoria, sono solitamente i radicali. Gli stessi che si scandalizzano quando qualcuno parla di verità, quando qualcuno afferma di credere nella verità, e poi costituiscono un partito per portare avanti, a suon di leggi, referendum e propaganda, le proprie “verità”! Dovrebbe allora anzitutto essere chiara una cosa: chi crede nel matrimonio, come istituto fondamentale su cui si basa la società umana, può e deve sostenere la sua convinzione, allo stesso modo di chi fa il contrario, senza essere accusato, da quest’ultimo, di conculcare la libertà altrui.
È diverso sostenere la propria opinione dall’imporla per legge (o per assenza di legge). Chi crede nel matrimonio si sposa; questo dovrebbe significare che chi crede nel matrimonio deve trascinare fino all’abside tutti i recalcitranti amanti? E poi, caro Agnoli, non hai fatto caso che sei passato da verità (singolare) a verità (plurale)? Slittamento per te casuale, ma involontariamente segnale di quanto sto per ricordarti: chi si batte per la possibilità di scegliere (verità al plurale) non impone a nessuno una visione della vita che è necessariamente personale, soggettiva e non universalizzabile. Chi si batte per la libertà (di divorziare, di abortire, di morire, e così via) riconsegna il destino nelle mani di ciascun individuo, ma non costringe nessuno a una scelta predefinita. Chi vuole divorzia, chi non vuole si ama per tutta la vita o vive da separato in casa. Insomma, ognuno fa come vuole (con i limiti segnati dal principio del danno su cui ora non ho voglia di soffermarmi).
Ma Agnoli non sa di cosa sta parlando. Non sceglie il silenzio dinnanzi a faccende che gli si negano, ma la presunzione di essere portatore di Verità (quella al singolare).
Detto questo, è bene ricordare alcuni concetti innati nell’uomo, anche in quello pagano dell’antica Grecia.
Se sono innati (ovvero legati alla natura umana, alla natura dell’homo sapiens) certo che ce l’hanno pure i greci (pure tanti altri che Agnoli escluderebbe). Ma non è ancora arrivato il meglio.
l’uomo, come scriveva Aristotele, è un animale sociale, politico, che vive in relazione con gli altri, e che non può fare altrimenti. Agli altri si interessa, con gli altri vive, gioisce, soffre, costruisce e distrugge... Il poeta latino Terenzio scriveva: «Sono uomo, e nulla di ciò che è umano considero a me estraneo». Il pensiero liberale individualista, invece, sostiene che ognuno fa quello che vuole, perché ognuno è padrone di se stesso, della sua vita, e può disporne a piacimento; e sostiene che qui starebbe la vera libertà, la vera realizzazione dell’uomo. Afferma che ognuno deve perseguire il proprio interesse, ripiegarsi sul proprio io, escludere gli altri dal proprio orizzonte. Ma questo ragionare, oltre che profondamente egoistico, non è neppure umano. Non siamo monadi, esseri assoluti svincolati da tutto e dal prossimo, «atomi nello spazio e attimi nel tempo», bensì creature con dei legami, con un passato, una storia, un’origine, e in qualche modo già artefici del futuro. Come alberi piantati a terra, con le radici, e con i rami tesi verso il cielo, e verso il futuro. Nasciamo da una relazione, ci sviluppiamo nell’utero materno, in relazione con nostra madre, cresciamo in un tessuto di relazioni, che non ci limitano, nella nostra libertà, ma ci realizzano e ci completano. Poi diveniamo adulti, indipendenti, si fa per dire, magari pure benestanti, e qualcuno si illude di poter fare da solo, decidere da solo, realizzare da solo la propria felicità. Così, divenuti cinici, riduciamo il lavoro a competizione, la vita a una giungla in cui vige la legge del più forte, e la vita affettiva a esperienza solamente individuale e privata, come un oggetto di nostra appartenenza. Così riduciamo spesso il sesso a qualcosa di svincolato dall’altro, non come relazione, ma come auto-realizzazione, in cui il prossimo diviene mezzo, e non più fine (il famoso “amore sicuro”).
Difficile governare i pensieri eh? Inutile rispondere a chi non si è preso nemmeno la briga di conoscere la storia del pensiero umano, e farfuglia parole la cui eco scolastica ammanta di ridicolo. La legge del più forte? Io rinuncio, l’unica risposta che mi viene in mente è quanto diceva Woddy Allen a proposito di masturbazione: è fare del sesso con qualcuno che stimate veramente!

Anche ad Agnoli sorge un dubbio (non sulla masturbazione, né sulla sua inconsistenza cerebrale):
Tutto questo per dire cosa? Che la relazione matrimoniale è alla base di una società umana: «dal dì che nozze e tribunali ed are/ dieder alle umane belve essere pietose/ di sé stesse e d’altrui...». Così scriveva Ugo Foscolo, non certo un cattolico bigotto: la civiltà è nata intorno all’istituto del matrimonio e al diritto, inteso come sforzo di regolare e raggiungere il bene comune, non quello individuale, particolare, personale... Il matrimonio, che è nato dalla pietas per noi stessi e per gli altri, come scrive Foscolo, che è per l’uomo, è allora il luogo della vita affettiva, quello in cui cresciamo come figli, in cui impariamo a relazionarci col nostro prossimo, il più prossimo possibile, per crescere con un equilibrio interiore, sapendo di essere amati, veramente, e cioè stabilmente.
Ulteriore rimembranza liceale, Foscolo è vissuto un paio di secoli fa. Senza scivolare in una ingenua visione di perfettibilità del genere umano e della società, è lecito tuttavia domandarsi se il giudizio di Foscolo sul matrimonio sia non pertinente. Poetico, per carità, ma non pertinente. (E di citazione che smentirebbero Foscolo ce ne sarebbero molte, ma avrebbe un senso procedere a colpi di “X ha detto” “Y ha detto”?).
E infine la conclusione.
Dire no ai Dico significa allora continuare a credere nel matrimonio, nelle nozze civilizzatrici, nel diritto come tutela del bene comune, nell’uomo come animale sociale... Abbiamo una visione del mondo, un’idea di uomo, perché tutto ciò che è umano ci interessa, ci sta a cuore: e abbiamo il dovere, sacrosanto, di dirlo, di crederci, di batterci per questo... contro la società disgregata, in cui ognuno fa e disfa, senza neppure trattative, assume diritti e rifiuta doveri, in nome del suo io, più o meno gonfio, più o meno smarrito, più o meno disorientato. Se chi propone i Dico dice di farlo per gli altri, è bene dire che gli altri non hanno bisogno di questo, ma di altro: del matrimonio, dell’assunzione di responsabilità, di fronte a chi amano e alla società! Diciamolo ad alta voce, senza paura: diciamo no ai Dico, né carne né pesce, né pasta né minestra, costruzione giuridica artificiosa, incomprensibile, nata attraverso cavilli e mediazioni continue, a metà tra qualcosa e qualcos’altro, tra la convivenza e il matrimonio, inafferrabile e disorientante.
Non sono per l’uomo, ma contro di lui. Se ne accorgerebbero soprattutto le generazioni future: generazioni che partirebbero già col piede sbagliato, se gli spiegassimo, noi, oggi, che l’amore non è una dedizione totale, ma un patto momentaneo, un momento, un attimo, per quanto “ben” regolamentato. Lo scriveva anche Verga: abbiamo bisogno di uno scoglio, di una certezza, quella della famiglia, e coloro che vogliono abbandonare lo scoglio, la realtà umana e naturale che ci è propria e che ci corrisponde, per brama di ignoto, di meglio, o per puro egoismo, sono destinati a naufragare. Mancano forse i naufragi, nella odierna disgregazione delle famiglie, perché qualcuno possa dire che ciò che si è detto non è sperimentabile?
Strano che tra la citazione non siano comparsi I Promessi Sposi, incredibilmente inerenti per argomento e soprattutto sopravvissuti eterni nelle nostre memorie dopo esserceli sorbiti 6 volte nel corso degli anni scolastici.
Ma io ho un dubbio: l’amore è dedizione totale o istupidimento animale? Diciamolo ad alta voce (anche noi), senza paura: diciamo no all’idiozia, all’approssimazione, al vuoto cerebrale. E non mi riferisco ai DiCo.

(In onore di Francesco Agnoli ho creato una nuova etichetta. Spero apprezzi.)

mercoledì 14 febbraio 2007

Non sono incostituzionali

Dichiarazione-appello promossa dalla Fondazione Critica Liberale sull’interpretazione dell’art. 29 della Costituzione:

Senza entrare nel merito della discussione delle attuali proposte di riforma, volte a riconoscere o tutelare in diversa forma e misura unioni familiari di tipo diverso da quello tradizionale, ci preme però chiarire che è infondata l’affermazione secondo cui l’articolo 29, primo comma, della vigente Costituzione porrebbe dei limiti costituzionali al riconoscimento giuridico delle famiglie non tradizionali o non fondate sul matrimonio, come è ormai avvenuto in quasi tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale.
L’articolo 29, primo comma, non impone affatto alla Repubblica di riconoscere come famiglia solo quella definita quale «società naturale fondata sul matrimonio». Impone invece alla Repubblica di riconoscere i suoi diritti, in quanto espressione dell’autonomia sociale. Testualmente: «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». Ad essa viene quindi garantita una sfera di autonomia rispetto al potere dello Stato. Per tale motivo sarebbe contraria alla Costituzione una legge ordinaria che mirasse a disconoscere i diritti di tali famiglie.
«Circoscrivere i poteri del futuro legislatore in ordine alla sua [della famiglia] regolamentazione»: questa la funzione della disposizione secondo quanto ebbe a dichiarare Costantino Mortati nell’Assemblea costituente. «Non è una definizione, è una determinazione di limiti», ribadì nella stessa sede Aldo Moro.
Il Costituente del 1946-47 non poteva immaginare che nei decenni successivi sarebbe stata avanzata in Italia o altrove la richiesta del riconoscimento di famiglie di tipo diverso dal modello tradizionale, mentre vivo era invece il ricordo del tentativo fascista di monopolizzare l’educazione dei giovani, tentativo analogo a quello in corso proprio in quei mesi con l’instaurazione di regimi stalinisti in molti paesi dell’Europa centrale: e tale era appunto il pericolo che con la formulazione dell’articolo 29 si intendeva scongiurare.
Inoltre, secondo l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la disciplina nazionale può modulare variamente le modalità di esercizio dei distinti diritti di sposarsi e di costituire una famiglia, ma non in forme tali che possano portare alla vanificazione dell’uno o dell’altro.
Il riconoscimento giuridico di altre tipologie di famiglia non comporterebbe alcun disconoscimento dei diritti delle famiglie fondate sul matrimonio e non potrebbe quindi violare il disposto dell’articolo 29, primo comma, della Costituzione.
Il fatto che la Costituzione garantisca in modo particolare i diritti della famiglia fondata sul matrimonio non può in alcun modo avere come effetto il mancato riconoscimento dei diritti delle altre formazioni famigliari. A proposito delle quali vanno invece tenuti ben presenti il fondamentale divieto di discriminare sulla base, anche, di «condizioni personali», di cui all’articolo 3, primo comma, della Costituzione, e il dovere della Repubblica di riconoscere e garantire «i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», di cui all’articolo 2, già richiamato in questa materia dalla giurisprudenza costituzionale.

martedì 13 febbraio 2007

Dicitencellovuieastacumpagnavosta

Sebastiano Messina, La sigla, in Bonsai di ieri (Il Corriere della Sera):

Dal momento stesso in cui il governo ha varato il ddl sui Dico (Diritti dei Conviventi) tutti, o quasi, vogliono correggerlo. Anche nel titolo, che in effetti non è brillantissimo. La senatrice Binetti, leader dei teodem, ha già proposto di cambiarlo in Didoco (Diritti e Doveri della Coppia). Siamo sinceri: non funziona.
La sigla Dico non va perché è la prima persona singolare del verbo dire. E le convivenze vorrebbero non l’io ma il noi. Dunque sarebbe più coerente modificarla in Diciamo (Diritti Coppie Italiane Amorevoli). O in Diremo (Disposizione Immediata per il Riconoscimento delle Esistenti Matrimonialità Occulte). Volendo poi pensare a qualcosa di più articolato, andrebbe bene anche Diciamolo (Doveri Impliciti dei Conviventi Italiani in Attesa di Matrimonio O Legittima Omologazione).
Il meccanismo surreale della raccomandata al convivente renderebbe appropriato anche Diglielotu (Disciplina Generale Limitata E Labirintica per l’Organizzazione di Tutte le Unioni). Scarterei invece, per quanto suggestivo – ma troppo difficile da scrivere a nord del Garigliano – l’acronimo che convincerebbe persino Mastella: Dicitencellovuieastacumpagnavosta.

domenica 11 febbraio 2007

Parole parole parole

Piero Fassino (Fassino: niente interferenze. Per Rutelli «possibili ritocchi», Libertà, 10 febbraio 2007) ha dichiarato:

«è sbagliato chiedere alla Chiesa di tacere», ma la politica deve fare il suo mestiere «senza subire interferenze».
E speriamo che non siano solo buoni propositi presto barattati con la prudenza. Certo, di fronte a dichiarazioni come quelle di
Rocco Buttiglione che accusa: «Il Dico introduce il principio del divorzio a richiesta copiato forse dal Corano, dove però si chiama ripudio». E Roberto Calderoli della Lega avverte: «In Senato faremo le barricate». Intanto Francesco Cossiga presenta provocatoriamente un disegno di legge per abolire l’incesto e permettere la poligamia
ci teniamo senza fiatare i buoni propositi. E ringraziamo di cuore della concessione.