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domenica 23 novembre 2014

Mario Adinolfi, i numeri e gli omosessuali /2


2. Quante sono le coppie omosessuali?

Nella prima parte di questo post abbiamo visto come Mario Adinolfi, in un nuovo capitolo del suo pamphlet integralista Voglio la mamma, abbia in parte alterato e in parte ignorato le percentuali di persone omosessuali e bisessuali fornite dall’Istat, e come abbia cercato di far passare come invenzioni della «lobby Lgbt» cifre di altra provenienza, che in realtà devono essere considerate fino a prova contraria legittime (anche perché, tenendo conto della grande incertezza che circonda la questione, non sono drasticamente diverse da quelle dell’Istat).
Proseguiamo adesso con l’analisi del testo di Adinolfi, e cerchiamo di stabilire quante siano le coppie omosessuali nel nostro paese.

Vogliamo essere più precisi? Andiamo allora a interrogare i dati dell’ultimo censimento, quello del 2011. I dati sono sempre elaborati dall’Istat, dunque dall’Istituto nazionale di statistica che nessuno può immaginare come ostile agli interessi della lobby Lgbt. Anzi. Secondo i dati del censimento in Italia esistono circa 17 milioni di famiglie. Per la precisione 16.648.000. Tra queste, 2.651.000 sono le famiglie monogenitoriali (un solo genitore, con figli) mentre 13.997.000 sono le coppie che vivono in una condizione di stabilità il proprio rapporto sentimentale. Sono coppie con o senza figli. Sapete quante sono, tra queste, le coppie composte da un uomo e da una donna: 13.990.000. Sì, avete letto bene, non è un refuso, non è un copia incolla avventato. Sono praticamente il totale. Le coppie dello stesso sesso certificate dal censimento 2011 sono 7.591.
Bene. Abbiamo un dato, è assodato. L’Istat, che non vuole apparire come ostile agli interessi delle coppie Lgbt, ha dichiarato in una nota che ci sono state coppie dello stesso sesso che “hanno preferito non dichiararsi”. Ok. Immagino che queste coppie che non si dichiarano in un censimento in forma anonima non siano interessate a affiggere le pubblicazioni di matrimonio. Dunque le coppie su cui la lobby Lgbt può far conto per le proprie rivendicazioni matrimonialiste sono 7.591. Intanto però ricordiamo che 13.990.000 coppie sono composte da un uomo e da una donna.
Se si scorrono i commenti alla pagina Facebook in cui è stato pubblicato questo testo, si noterà come un lettore chieda a più riprese un link alla fonte di questi dati. Adinolfi – che pure partecipa alla discussione – ignora completamente questa richiesta. Come mai? La risposta sorprenderà (forse) qualcuno: Adinolfi non può fornire nessun link perché non è in grado di farlo: non è infatti mai andato «a interrogare i dati dell’ultimo censimento» sul sito dell’Istat. La sua fonte è secondaria: si tratta di un articolo di Roberto Volpi, «Tutte quelle coppie gay (con figli) sparite dal censimento, o forse mai esistite», apparso il 23 settembre scorso sul Foglio. Volpi e il suo articolo non vengono citati in nessun modo da Adinolfi, neppure in risposta alle sollecitazioni del suddetto lettore.
Ma come faccio ad affermare con certezza che Adinolfi ha tratto i dati da Volpi e non dal sito dell’Istat? Semplice: perché nell’articolo di Volpi ci sono degli errori (l’autore non è nuovo a questo genere di distrazioni) che Adinolfi ha ripreso ciecamente. Il primo è il numero totale delle coppie formate da persone dello stesso sesso: 7513 per l’Istat, 7591 per Volpi e Adinolfi. Il secondo riguarda il numero dei figli delle coppie dello stesso sesso, che secondo Volpi e Adinolfi sono 529; per l’Istat, invece, 529 è il numero delle coppie con figli, non dei loro figli (quest’ultimo numero non è desumibile dal database, a quanto vedo). Altri due errori più piccoli ma sempre significativi: Volpi arrotonda erroneamente al migliaio inferiore il totale dei nuclei familiari e dei nuclei monogenitore, seguito fedelmente da Adinolfi. Non esiste infine neppure un dato riportato da Adinolfi nei paragrafi in questione che non sia presente già anche nell’articolo di Volpi. Qua e là si sfiora il plagio (corsivi miei): «L’Istat, che non vuole apparire come ostile agli interessi delle coppie Lgbt, ha dichiarato in una nota che ci sono state coppie dello stesso sesso che “hanno preferito non dichiararsi”. Ok» (Adinolfi); «Avverte tuttavia l’Istat che “i dati relativi alle coppie dello stesso sesso sono sottostimati e si riferiscono solamente alle coppie dello stesso sesso che si sono dichiarate. Molte persone in questa situazione hanno preferito non dichiararsi nonostante le raccomandazioni”. Ok, d’accordo […]» (Volpi). Sì, siamo davanti a un classico «copia incolla avventato».
Si dirà: per la tesi di Adinolfi cambia poco – le coppie dello stesso sesso sono praticamente le stesse, e se i loro figli non sono 529 è comunque abbastanza improbabile che superino il migliaio. Ma quello che emerge con chiarezza è il metodo dell’autore di Voglio la mamma: le cifre che confortano i suoi pregiudizi sono accettate senza uno straccio di controllo (e con poca gratitudine nei confronti di coloro a cui le sottrae), le altre devono sicuramente essere il frutto di qualche malvagio complotto.

Esaminiamo adesso più in particolare i dati Istat sul numero delle famiglie omosessuali, e vediamo se ad essi si può far dire ciò che Adinolfi vorrebbe. Partiamo dal numero di coppie conviventi. Abbiamo visto la nota dell’Istat, secondo cui i dati sono sottostimati. Forse qualcuno si chiederà come sia possibile che molte coppie abbiano preferito non dichiararsi: non sarebbe questa un’alterazione grossolana del censimento? Se due persone vivono assieme, com’è possibile farne risultare solo una? La risposta sta nel concetto di nucleo familiare, che per l’Istat «è definito come l’insieme delle persone che formano una relazione di coppia o di tipo genitore-figlio. […] Una famiglia può essere composta da più nuclei, ma può anche essere costituita da un nucleo e da uno o più membri isolati (altre persone residenti), o ancora da soli membri isolati». Esistono in Italia ben 560.422 famiglie composte da due persone, che dichiarano di non essere legate da una relazione di coppia o di tipo genitore-figlio; queste famiglie sono insomma composte da due «membri isolati». Molte saranno semplici coppie di amici, o coppie nonna-nipote, zio-nipote etc.; un certo numero saranno coppie – eterosessuali od omosessuali – che hanno deciso di non dichiararsi (altre coppie di questo genere possono essere nascoste in altre pieghe del censimento). Volpi tenta di minimizzare la cifra di chi non si è dichiarato, ma il suo non è altro che un argumentum ad incredulitatem:
sembra assai difficile supporre che per ogni coppia omosessuale censita ce ne siano, mettiamo, dieci o magari venti sfuggite al censimento, perché nell’eventualità ci sarebbe di che chiedere il subitaneo smantellamento del censimento stesso.
È importante ricordare a questo proposito come il censimento non si svolga affatto «in forma anonima», come pretende Adinolfi: i nomi dei censiti figurano sulla prima pagina del questionario Istat.
Per sapere qualcosa di più preciso, rivolgiamoci alla recentissima indagine condotta dalla European Union Agency for Fundamental Rights (EU LGBT survey – European Union lesbian, gay, bisexual and transgender survey: Main results, 2014, p. 134), da cui risulta che nel 2012 il 20% degli omosessuali/bisessuali italiani conviveva con un partner, a fronte di una media UE del 30% (più in basso dell’Italia si trovano solo Croazia, Grecia e Cipro). Questa non è tuttavia la percentuale che stiamo cercando: secondo la stessa fonte, il 5% degli omosessuali/bisessuali italiani ha un partner (convivente o non convivente) del sesso opposto. Se assumiamo che il 15% delle persone LGBT conviva con un partner dello stesso sesso, e applichiamo questa percentuale alla cifra di un milione data dall’Istat (vedi la prima parte di questo post), risulta che dovrebbero esistere in Italia circa 75.000 coppie omosessuali: dieci volte il numero di quelle dichiarate al censimento! Questa conclusione è confermata in modo decisivo da M. Barbagli e A. Colombo, autori di una fondamentale indagine sulla condizione omosessuale nel nostro paese (Omosessuali moderni. Gay e lesbiche in Italia, 2ª ed., Bologna, Il Mulino, 2007, p. 204; i dati si riferiscono a un sondaggio condotto nel 1995-96); elaborando i loro dati (cfr. anche pp. 211 e 317) risulta che il 14% delle persone LGBT convive con una persona dello stesso sesso (lo studio è del tutto indipendente da quello UE; entrambi i sondaggi – quello europeo e quello da cui prendono le mosse i due italiani – sono stati condotti in modo da garantire l’anonimato dei rispondenti).
Ma per Adinolfi le coppie non dichiarate non contano: «Immagino che queste coppie che non si dichiarano in un censimento in forma anonima non siano interessate a affiggere le pubblicazioni di matrimonio». Questa è un’affermazione di un cinismo ributtante; certo, una coppia non dichiarata potrebbe avere più difficoltà delle altre a contrarre eventualmente matrimonio, ma la ragione di questa titubanza non può che essere il timore di un ambiente ancora saturo di pregiudizi. Chiunque – perfino chi è contrario al matrimonio per tutti – dovrebbe auspicare che questa condizione di paura sia superata il più presto possibile, e non invece gongolare soddisfatto perché in questo modo si riduce il numero delle coppie potenzialmente interessate al matrimonio.

Va notato poi che l’Istat raccoglie solo il dato delle coppie conviventi, non anche di quelle impegnate in una relazione ma non conviventi. Per Barbagli e Colombo (ibidem), «dal 40 al 49% dei gay e dal 58 al 70% delle lesbiche hanno una relazione fissa». Questi numeri sono confermati in pieno dalla già citata EU LGBT survey (ibidem), secondo cui nel 2012 il 52% degli omosessuali italiani era impegnato in una relazione con un partner dell’altro sesso, nonché dall’indagine Modi di, promossa dall’Arcigay in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità (Survey nazionale su stato di salute, comportamenti protettivi e percezione del rischio HIV nella popolazione omo-bisessuale, a cura di R. Lelleri, Bologna 2006, p. 25), secondo cui nel 2005 il 40,2% degli omosessuali maschi e il 52% delle lesbiche aveva una relazione con una persona dello stesso sesso.
Anche tra queste persone si troveranno sicuramente molti interessati al matrimonio: in una parte dei casi, la mancata convivenza sarà di nuovo da attribuirsi alla necessità di evitare reazioni negative da parte dell’ambiente circostante, o alle normali difficoltà materiali che tutte le coppie incontrano per vivere insieme. È significativo inoltre per il nostro discorso che, come scrivono ancora Barbagli e Colombo (ibidem), «[l]a grandissima maggioranza degli omosessuali italiani cerca un rapporto di coppia stabile e solo un’esigua minoranza (il 12% degli uomini e l’8% delle donne) preferisce avere relazioni con partner occasionali». Un dato che fa giustizia di pregiudizi ancora largamente diffusi.

Ma ammettiamo, per puro amore di discussione, che esistano davvero solo 7500 coppie omosessuali conviventi e potenzialmente interessate al matrimonio. Sarebbe questo un argomento valido contro la richiesta di estendere anche alle coppie omosessuali il diritto di sposarsi, o almeno di contrarre un’unione civile?
Esistono in Italia, a quanto pare, circa 830 persone che portano il cognome «Adinolfi». Supponiamo per assurdo che per un’antica tradizione religiosa fosse proibito a queste persone di sposarsi, e che dopo un lungo processo di maturazione civile si arrivasse finalmente a mettere in questione questa discriminazione. Ora, cosa penseremmo se qualche retrogrado si opponesse alla riforma adducendo a pretesto che 830 persone sono pochissime? La nostra risposta, ovviamente, sarebbe che negare ingiustamente un diritto non è meno grave se lo si nega solo a poche persone, o persino solo a una; semmai è forse più grave. Se si vuole impedire che il matrimonio sia per tutti, si cerchino altri argomenti; quello dei numeri troppo esigui è un non-argomento.

Nella prossima parte affronterò la questione del numero dei figli delle coppie omosessuali.

(2 - continua)

sabato 11 ottobre 2014

Mario Adinolfi, i numeri e gli omosessuali /1

Auspicavo poco tempo fa che Mario Adinolfi volesse aggiungere quanto prima un seguito alla sua opera più fortunata, Voglio la mamma. Il seguito ancora non l’abbiamo, ma due giorni fa Adinolfi ha annunciato un’edizione aggiornata del suo capolavoro, che comprenderà anche quattro capitoli nuovi di zecca. L’autore generosamente ha già reso disponibile in rete uno dei capitoli («I numeri della condizione omosessuale in Italia», Facebook, 9 ottobre 2014), che qui esamineremo, cercando non solo di apprendere qualcosa del modus operandi di Adinolfi, ma anche – soggetto indubbiamente più interessante – di dare qualche risposta parziale a delle difficili domande: quanti sono gli omosessuali nel nostro paese? Quante sono le coppie omosessuali conviventi? Quanti sono i figli degli omosessuali?


1. Quanti sono gli omosessuali?

Scrive Adinolfi:

Le menzogne fondamentali su cui costoro [cioè «la lobby Lgbt»] basano poi ogni azione rivendicativa è quella dei numeri. Quanti sono gli omosessuali italiani? Secondo costoro sono cinque o sei milioni. Quanti sono i figli di coppia omogenitoriale (cioè nati per autoinseminazione o fecondazione eterologa in vitro nel caso di coppia lesbica, via utero in affitto nel caso di coppia gay)? Secondo Arcigay sono centomila, seconda Arcilesbica sono duecentomila, il guaio è che questi dati sono […] dati falsi.
Per avere i dati veri non è che si debba poi fare troppa fatica. Basta andare alle fonti reali e scientifiche, quelle neutrali, prive di qualsiasi tentazione di propaganda. […] Allora, andiamo a verificare sulle fonti reali e scientifiche i numeri.
Partiamo dalla domanda primaria: quanti sono gli omosessuali in Italia? La risposta chiara e netta ce la offre l’Istat, che ha dedicato alla questione uno dei suoi Rapporti. Gli italiani che si dichiarano “omosessuali o bisessuali” sono un milione. Poco più dell’uno per cento dei sessanta milioni di cittadini italiani, eliminando la quota di “bisessuali” possiamo tranquillamente dichiarare supportati dall’Istat che gli omosessuali in Italia sono attorno all’uno per cento della popolazione complessiva.
Cominciamo con il notare come l’aritmetica di Adinolfi sia piuttosto disinvolta: un milione di omosessuali/bisessuali sul totale di cittadini italiani sarebbe pari a una percentuale dell’1,67% circa, che non è proprio «poco più dell’uno per cento», ma casomai «poco meno del due per cento». Inoltre, l’esclusione dei bisessuali dal computo totale appare del tutto arbitraria, visto che Adinolfi continua per tutto il capitolo a parlare di «lobby Lgbt» – chissà per cosa pensa che stia quella b – e visto che anche i bisessuali sono ovviamente interessati al matrimonio tra persone dello stesso sesso; a meno che Adinolfi non pensi che un bisessuale, in caso di perdurante impedimento a sposare una persona dello stesso sesso di cui sia innamorato, possa sempre facilmente consolarsi con qualcuno del sesso opposto. Cosa ancora più importante, non è per nulla chiaro da dove Adinolfi tragga i dati per il suo arrotondamento all’uno per cento di omosessuali, visto che nel rapporto Istat, come vedremo tra un attimo, è riportato soltanto il numero complessivo degli omosessuali/bisessuali.

Ma qual è questo rapporto dell’Istat, che Adinolfi non nomina? Si tratta de La popolazione omosessuale nella società italiana, pubblicato il 17 maggio 2012 (la situazione a cui fa riferimento è quella del 2011). Il rapporto contiene soprattutto dati sull’accettazione della condizione omosessuale da parte degli Italiani (me ne sono occupato in un’occasione precedente); il paragrafo sul numero di persone Lgbt si trova alle pp. 17-18:
Secondo i risultati della rilevazione, circa un milione di persone si è dichiarato omosessuale o bisessuale (pari al 2,4% della popolazione residente), il 77% dei rispondenti si definisce eterosessuale, lo 0,1% transessuale. Il 15,6% non ha risposto al quesito, mentre il 5% ha scelto la modalità “altro”, senza altra specificazione. I dati raccolti, quindi, non possono essere considerati come indicativi della effettiva consistenza della popolazione omosessuale nel nostro Paese, ma solo di quella che ha deciso di dichiararsi, rispondendo ad un quesito così delicato e sensibile, nonostante l’utilizzo di una tecnica che rispettava appieno la privacy dei rispondenti (busta chiusa e sigillata e impossibilità per l’intervistatore di verificare le risposte).
Si dichiarano più gli uomini (2,6%) che le donne (2,2%), più nel Nord (3,1%) che nel Centro (2,1%) o nel Mezzogiorno (1,6%). Tra i giovani la percentuale arriva al 3,2% ed è del 2,7% per le persone di 35-44 anni e di 55-64 anni. Tra gli anziani la percentuale scende allo 0,7%.
Come si vede, ritroviamo nel rapporto il milione di persone omosessuali/bisessuali citato da Adinolfi; ma la percentuale sul totale della popolazione residente non è né «poco più dell’uno per cento», né il mio 1,67%, bensì un sorprendente 2,4%. Come mai questa grossa discrepanza? La risposta è semplice: il rapporto è basato su un questionario sottoposto a persone comprese tra 18 e 74 anni di età; il denominatore è quindi significativamente inferiore ai 60 milioni circa della popolazione totale. È quindi ovvio, tra l’altro, che gli omosessuali/bisessuali dichiarati sono in Italia sensibilmente di più di un milione, visto che questo orientamento sessuale non è certo assente tra i minori di 18 anni o i maggiori di 74. Attraverso quale processo mentale Adinolfi sia passato dal 2,4% del rapporto al «poco più dell’uno per cento» è un mistero che non voglio nemmeno tentare di affrontare.

Ma c’è di più. Come il rapporto stesso chiaramente precisa, le cifre citate sono solo quelle degli omosessuali/bisessuali che hanno scelto di dichiararsi in occasione del sondaggio, e in nessun caso possono quindi essere considerate indicative dei numeri reali. Lo provano tra l’altro le grosse disparità geografiche e per classi di età della percentuale di omosessuali/bisessuali: non è che nell’Italia del nord ci siano più omosessuali o che l’omosessualità stia dilagando tra i giovani; piuttosto, a nord e tra i giovani esisterà un retroterra socioculturale che rende più facile la consapevolezza e l’espressione del proprio orientamento sessuale.
Come possiamo conoscere allora i numeri reali, che saranno per forza di cose maggiori di quelli citati? L’Istat ci prova; prosegue infatti il rapporto:
Come avviene nelle ricerche scientifiche internazionali l’orientamento sessuale è stato rilevato oltre che tramite l’autodefinizione, anche attraverso altre dimensioni, l’attrazione sessuale, l’innamoramento e l’aver avuto rapporti sessuali. Considerando tutte queste componenti, nel complesso si arriva ad una stima di circa 3 milioni di individui (6,7% della popolazione) per coloro i quali si sono apertamente dichiarati omosessuali/bisessuali o che, nel corso della loro vita, si sono innamorati o hanno avuto rapporti sessuali con una persona dello stesso sesso, o che sono oggi sessualmente attratti da persone dello stesso sesso.
Qui l’Istat sta applicando un principio di buonsenso che si usa nelle scienze sociali: non bisogna mai fermarsi a come i soggetti definiscono se stessi, ma prendere in esame anche i loro comportamenti concreti. Purtroppo però il rapporto non fornisce né le domande esatte presentate nel questionario né le percentuali delle risposte; è quindi impossibile dire cosa misuri esattamente la cifra di tre milioni di persone determinata dall’Istat, anche se lo stesso Istituto afferma di stare rilevando in questo modo «l’orientamento sessuale». Molto dipende naturalmente dalla definizione di omosessualità che si adotta: quante esperienze omosessuali sono necessarie per definire una persona omosessuale o bisessuale? Per quanto tempo devono protrarsi o ripetersi? Va notato peraltro che anche con questo metodo non si possono rilevare tutti gli omosessuali/bisessuali effettivi (per esempio, se qualcuno ha problemi a dichiararsi non eterosessuale avrà verosimilmente anche problemi ad ammettere di avere o avere avuto rapporti sessuali con persone del suo stesso sesso).
Quello che è certo è che se estendiamo la percentuale del 6,7% alla popolazione residente nel 2011, di età superiore all’età del consenso (51.666.428 persone, secondo i dati Istat), otteniamo una cifra di poco inferiore a tre milioni e mezzo di persone, più vicina alla cifra di «cinque milioni o sei milioni» attribuita da Adinolfi alla lobby Lgbt che al milione da lui preso per buono (anche se le cose si complicano se quei cinque milioni – come vedremo fra un attimo – si riferiscono ai soli omosessuali, e non anche ai bisessuali, come il numero dell’Istat). E forse è proprio per questo che nel testo di Adinolfi di quel 6,7% non c’è la benché minima traccia, neanche per tentare di confutarlo, anche se appartiene a una fonte che egli stesso cita e definisce «reale, scientifica e neutrale».

Ma da dove arrivano precisamente questi «cinque milioni o sei milioni»? Adinolfi non lo dice; una brevissima ricerca ci permette di scoprire che in Italia la cifra dei cinque milioni è stata introdotta (o reintrodotta) nel dibattito pubblico recente in seguito alla pubblicazione del Rapporto Italia 2003 dell’Eurispes, che a pagina 1091 legge:
Si stima che gli omosessuali in Italia siano circa cinque milioni; secondo l’Organizzazione mondiale della sanità sarebbero tra il 5% ed il 10% della popolazione italiana. Questo dato tende ad essere piuttosto costante a livello geografico e tra le classi sociali e le professioni.
Numericamente, dunque, gli omosessuali possono ancora essere definiti come una importante minoranza.
Purtroppo il rapporto dell’Eurispes non cita fonti di nessun tipo. Sembra comunque che la cifra di cinque milioni di omosessuali fosse già presente in un precedente rapporto dello stesso istituto (che all’epoca si chiamava Ispes), Il sorriso di Afrodite. Rapporto sulla condizione omosessuale in Italia, a cura di Crescenzo Fiore (Firenze, Vallecchi, 1991), che mi è rimasto purtroppo inaccessibile (traggo la notizia da F. Targonski, Fenomenologia della diversità, 2ª ed., Roma, MFE, 1994, p. 111).
Quanto al dato dell’Organizzazione mondiale della sanità, esso pure ricompare più indietro nel tempo, mutando leggermente aspetto man mano che si procede a ritroso. La citazione più antica a cui sono potuto pervenire si trova in un articolo di Gino Olivari, «Quanti sono gli omofili in Italia», apparso nel lontano 1976 sulla rivista Il Ponte, fondata da Piero Calamandrei (vol. 32, n. 2-3, pp. 283-84):
Comprendendo anche le donne, l’Organizzazione mondiale della sanità valuta che in Italia gli omofili veri siano complessivamente 2 milioni e 475 mila: circa il 4,50% dell’intera popolazione maschile e femminile. […] Oltre al milione e centoventimila, di sesso maschile, risulterebbero, sempre in Italia, almeno 5 milioni di maschi bisessuali.
Purtroppo anche qui nessuna indicazione della fonte, della cui esistenza non mi pare lecito dubitare, ma che in ogni caso risulterebbe ormai piuttosto datata. Lascio ricostruire al lettore volenteroso come si sia eventualmente passati da questi numeri al 5-10% attribuito all’OMS dall’Eurispes. (Di Olivari, figura d’altri tempi, generosa e al tempo stesso contraddittoria, si legga la bella intervista concessa a Giovanni Dell’Orto e Francesco Vallini, «Erano anni difficili...», Babilonia, n. 64, febbraio 1989, pp. 51-53.)

Per concludere questa prima parte, come valutazione personale e assolutamente non scientifica, direi che, considerata ogni cosa, la stima più prudente della percentuale di persone omosessuali e bisessuali nel nostro paese – intese come coloro che nel corso dell’ultimo anno hanno sperimentato un’attrazione sessuale e/o sentimentale stabile (ma non necessariamente esclusiva) per le persone dello stesso sesso – potrebbe oscillare tra il 3% e il 4%. Decisamente molto di più dell’1%. Far sparire o definire arbitrariamente false le cifre che non ci piacciono porta sempre a perdere di vista la realtà.
Nella prossima parte vedremo altri numeri e cercheremo soprattutto di rispondere a una domanda importante: quando si parla di diritti, le cifre importano veramente?

(1 - continua)

martedì 3 giugno 2014

«Poverina», «da lesbica», «Penso che sia noto a tutti»

È lunedì pomeriggio, fa caldo, sono più pigra del solito. Vengo coinvolta in un’avvincente discussione che parte da un avvincente pensiero di Mario Adinolfi.
Qualcuno deve aver cominciato a parlare di genitorialità e qualcun altro ha citato il mio vecchio libro Buoni genitori. A quel punto Adinolfi ha risposto usando un incontrovertibile argomento.


Qualcun altro gli ha risposto con un argomento che non se la passa molto meglio.



Su “poverina” non mi soffermo: la terza elementare è finita da un po’ e se non riesci a dire null’altro puoi anche parlare da solo. Sul suo libretto tutto quello che c’era da dire l’ha scritto Giuseppe Regalzi. (Però che ingrato, Mario, e pensare che avevo anche caldeggiato che il suo capitolo di VLM, rimosso da Facebook qualche giorno fa, gli fosse immediatamente restituito).
Ma su “da lesbica sì.

Non tanto per smentire o confermare un orientamento sessuale, ma per sottolineare che è come dirmi “culona” perché non riesci a dire altro (che l’intento fosse difensivo è irrilevante, l’argomento è comunque fragile). È come dire “faccia di velluto” o “cesso” (aggiungete a piacere gli epiteti che vi danno maggiore soddisfazione animalesca mentre ne pronunciate lentamente ogni sillaba).

Che “da lesbica” sarei – anzi, non potrei che essere – una voce parziale somiglia a un argomento (sballato, ma ci somiglia), la cui faccia speculare (altrettanto sballata) sarebbe che da non lesbica sarei intrinsecamente imparziale? E il sottofondo è: se non sei lesbica che cazzo scrivi a fare di lesbiche?

L’idea sottostante è che i neri devono difendere i diritti dei neri, le donne quelli delle donne, e così via. In un circolo soffocante e claustrofobico. In un panorama in cui la discriminazione e l’uguaglianza – che sono le due vere questioni sottostanti – spariscono e sono ingoiate da litigi di cortile. Chi strilla di più, chi insulta meglio, chi ha più pazienza di far finta di discutere buttando parole a caso. “Lesbica!”, “Frocio!”, “Cicciona!”, “Quattrocchi!”.

Lo avevo scritto anche nell’introduzione di Buoni genitori: infartuati che curano infartuati, zoppi che aggiustano ossa rotte, muti che fanno i logopedisti, glabri che mettono a punto il perfetto trapianto di capelli e villosi che studiano l’epilazione definitiva.

L’implicazione vale però solo quando vi fa comodo, ovviamente. Vale soprattutto nel dominio degli orientamenti sessuali: perché mai dovresti interessarti di adozione o matrimonio per tutti se non ti interessa personalmente (ovvero se non sei lesbica o gay)? Mi era successo anche scrivendo di tecniche riproduttive: dovevo essere per forza sterile, altrimenti perché mai? Che te ne frega?

Non c’è solo un ingrediente pornografico e – ancora una volta – da scuola elementare, ma una idea completamente fuori fuoco di come si affrontano le discussioni. Una visione da ubriachi che cercano la chiave persa nel luogo dove c’è più luce e non dove l’hanno verosimilmente lasciata cadere inavvertitamente.

Cercate di offrire argomenti e non descrizioni, presunte o vere, di cosce troppo grasse, colli troppo corti, preferenze sessuali x o y, gusti alimentari. Cercate di ricordarvi che non c’è più la mamma che corre in vostro soccorso quando avete fatto o detto qualche scemenza. Poi, per carità, avete il diritto di dire scemenze, anche più volte al giorno, anche per tutta la vita.

PS
Ho chiesto, per curiosità, da dove venisse l’informazione sul mio orientamento sessuale e ho ricevuto la più bella risposta possibile: Penso che sia noto a tutti”. Meglio di Philip Roth.         

mercoledì 30 aprile 2014

Quegli zelanti ripetitori

Uno degli aspetti più divertenti della gazzarra inscenata da integralisti, clericali e neofascisti intorno alla vicenda del romanzo Sei come sei di Melania Mazzucco, proposto (assieme a diversi altri) agli studenti di alcune classi del Liceo Giulio Cesare di Roma, è l’insistenza con cui il brano «pornografico» viene riproposto proprio da chi più se ne dice scandalizzato. Eccolo dunque ripetuto da Marcello Veneziani sul Giornale, da Mario Giordano su Libero (un articolo da leggere, questo, se si vuole capire cosa sia e dove stia veramente l’oscenità), da Giuliano Guzzo sul suo blog, sul sito di Libertà e persona, sul sito Notizie ProVita, e altri ancora.
La domanda che sorge subito alla mente è: ma se si è convinti davvero che il brano sia così pericoloso per le giovani menti, perché ripeterlo allora in bella evidenza in luoghi facilmente accessibili da più minorenni di quanti ne siano passati per le aule del Giulio Cesare dal giorno della sua fondazione? Dovere di cronaca, si potrebbe rispondere; e magari il motivo sarà davvero questo, soprattutto per i giornali, che nelle edizioni a stampa non possono ovviamente linkare un contenuto esterno.
Poi però ti imbatti nel sito dell’UCCR, Unione Cristiani Cattolici Razionali («Pornografia gay al liceo “Giulio Cesare”: ecco il brano», 30 aprile 2014), e la domanda ritorna: come mai, subito dopo aver proposto il collegamento a due versioni integrali del brano e a una parziale, questi signori hanno sentito comunque il bisogno di riportarlo a loro volta, e con le frasi più significative («ficcò la testa fra le gambe», «un odore penetrante di urina», «il suo sapore in gola per giorni») evidenziate in un turgido grassetto, quasi a scongiurare il rischio che i lettori potessero perderne per disattenzione anche solo una goccia? Cerchi di ricacciare indietro il vago sospetto che sorge inevitabilmente in casi come questo, e prosegui nella lettura – durante la quale apprendi che gli «insegnanti, sempre senza avvertire le famiglie, hanno anche strumentalizzato Papa Francesco» (per l’UCCR evidentemente ci vuole il permesso delle famiglie anche per strumentalizzare il papa), e che «“Tutto normale” è il leit-movie [sic] del libro»; quand’ecco che verso la fine dell’articolo trovi questo:

Anche “Il Giornale” ha pubblicato il brano, e dopo le frasi in cui si cita “l’odore penetrante di urina, e un sapore dolce [...] lo inghiottì fino all’ultima goccia e sentì il suo sapore in gola per giorni”, Marcello Veneziani ha domandato […].
La ripetizione del brano a una trentina di righe di distanza è talmente pleonastica e talmente gratuita che, sconfitto, cedi di botto, e lasci che l’oscuro sospetto si trasformi senza più freni in solare certezza.

martedì 8 gennaio 2013

Il papa e l’uccellino

È la notizia dell’anno: Joseph Ratzinger, in arte Benedetto XVI, ha inaugurato un account Twitter.

Se non sarà lui in carne e ossa a digitare, lo farà qualcun altro autorizzato da Ratzinger a esprimere pensieri papali in 140 caratteri al massimo. Il 12 dicembre il primo twit: “Cari amici, sono lieto di stare in contatto con voi tramite Twitter. Grazie per la vostra generosa risposta. Vi benedico dal mio cuore”.
Anche prima che ci fosse il primo twit i followers erano centinaia di migliaia - in effetti pochi pensando a quanti nella realtà riconoscono al papa un’autorità religiosa, e soprattutto tenendo a mente che Justin Bieber ne ha quasi 31 milioni e mezzo e Lady Gaga oltre 32 milioni. I followers aumentano di giorno in giorno e si frammentano nei vari profili: it, eu, es, uk - ognuno dei quali segue solo gli altri @Pontifex in un circolo autoreferenziale. Oggi il profilo principale - Pontifex senza estensioni di nazionalità - ne ha poco più di un milione. Gli altri qualche centinaia di migliaia tutti insieme. Ma a parte i numeri, comunque provvisori, l’arrivo di Ratzinger nel mondo virtuale di Twitter qualcosa dà da riflettere. Secondo Whitney Mallet (Follow The Leader, The New Inquiry) è sorprendente che un sistema religioso tanto fondato sul materialismo, un sistema la cui fede si basa sulla credenza che l’ostia sia fisicamente - e non simbolicamente - il corpo di Cristo, sia interessato al virtuale. E potrebbe essere rischioso combinare la santità all’astrazione. Il passato rapporto della Chiesa con la tecnologia e i nuovi media suggerisce che il Web sarà terra di conquista. Non è certo una novità: il Vaticano ha già un sito multilingue - molto old fashioned e con meno traduzioni di Scientology (che il potere lo si veda dal numero delle lingue?), un’applicazione per la confessione - che però vale più come allenamento che come mezzo per l’assoluzione che reresta prerogativa umana - e una indubbia familiarità con la radio, la tv e vari altri mezzi di informazione/evangelizzazione. Il web sembra essere ancora un terreno quasi vergine, o almeno meno usato degli altri media, e un luogo ideale da conquistare. Soprattutto se si tiene conto che l’espansione cattolica è più vitale in Paesi come l’Asia e l’America meridionale, e nelle popolazioni più povere - mentre in Europa è in arresto o in declino. Tablet e pc a basso costo potrebbero essere buoni alleati della diffusione del Verbo. Non è detto però che la gerarchia, su cui il sistema cattolico si regge, non possa esserne scossa profondamente, colpita dal boomerang twitterante in modo imprevisto. Le strade della nemesi virtuale sono infinite. Per ora sembra essere la cautela l’ispirazione del neonato profilo. Nel corso dello stesso 14 dicembre, mentre su Twitter si legge una domanda mite e compatibile con varie credenze religiose (“Qualche suggerimento su quale sia il modo più proficuo per pregare mentre siamo così occupati con il lavoro, la famiglia e il mondo?”), l’Agi riporta una tipica manifestazione di aggressività ratzingeriana (“Unioni gay minacciano la pace. Eutanasia e aborto un pericolo”). In occasione della giornata mondiale della pace il messaggio papale torna su alcuni dei cavalli di battaglia tipicamente cattolici, o addirittura clericali, seppure mascherati da principi razionali e appartenenti alla “natura umana”. Un mistero della fede, probabilmente. Troppo lungo da twittare e troppo importante per essere spezzettato. Appena Pontifex scoprirà google shortener o altri modi analoghi per accorciare i link, il baratro sarà probabilmente colmato. Nel frattempo il Vaticano accoglie Rebecca Kadaga, presidente del parlamento ugandese e fan della legge antigay. ×

I miei oscar 2012: Moonrise Kingdom di Wes Anderson, No di Pablo Larrein, Episodes 2.

Lamette, Il Mucchio di gennaio 2013.

giovedì 29 marzo 2012

Don’t ask, don’t tell

Stonewall, New York City

La morte di Lucio Dalla ha smosso un fondale fangoso e ben sedimentato. Non tanto la morte in sé - che ha comunque dato il via a una corsa a manifestare una specie di egocentrica mania di raccontarsi e ha diviso gli italiani tra detrattori e eterni sostenitori: cosa ha significato Dalla per me, qual è la mia canzone preferita, dov’ero quando ho saputo che è morto e cosa facevo. Sul fronte opposto: non faceva nulla di buono da vent’anni o più, non lo ascoltavo mai, vuoi mettere i Rolling Stones?, che brutto quel parrucchino e così via. Come se non bastasse s’è poi scatenata l’onda dei buoni (e cattivi) sentimenti sulla morte di chi non ha mai dichiarato la propria omosessualità, con un misto di commiserazione, adulta “comprensione” e posticipata denuncia. Su questo aspetto della sua vita si sono avventati tardivamente sciacalli e spioni: outing forzati e ipocrite manifestazioni verso Marco Alemanno - compagno, collaboratore, amico intimo o molto intimo, ci mancava solo colf. Non solo: commozione e apprezzamento per l’indubitabile segnale di apertura da parte della Chiesa, visto che il funerale proprio in una Chiesa s’è celebrato - secondo la regola “don’t ask, don’t tell” consigliata ai militari statunitensi. Basta non dire, basta non chiedere. Un suggerimento ipocrita e ignorato dai due innamorati all’aeroporto delle Hawaii alla fine del febbraio scorso: un sergente dei Marines e il suo compagno, che quando si sono rivisti si sono abbracciati e baciati in pubblico. Sullo sfondo la bandiera a stelle e strisce. Ma qui in Italia vale ancora, e se vuoi un funerale in Chiesa è meglio non fare dichiarazioni avventate. È il dominio dei diritti mai affermati o erosi, dove ci si arrangia e si chiede per favore, invece di poter reclamare un diritto (alla uguaglianza e alla non discriminazione). Rimane sicuramente controverso se le persone famose abbiano il dovere di combattere ingiustizie e discriminazioni esistenti tramite la propria testimonianza. E rimane anche il dubbio su quanta fatica sia necessaria per occultare, negare e rimuovere un pezzo tanto rilevante della tua vita. Dalla in ogni modo è un caso singolo, ma è anche una occasione per parlare di un buco di diritti che non accenna a restringersi. Il buco di un Paese in cui l’affetto e il legame tra due uomini e due donne non è protetto dalla legge sebbene non vi siano ostacoli costituzionali ad impedirlo: l’articolo 29 parla di coniugi e non di vagine e peni. Un Paese però confuso, perché se ti sottoponi a un intervento per cambiare sesso, puoi poi sposare qualcuno del tuo stesso sesso (quello genetico, quello originario che poi hai modificato chirurgicamente). E questo è giusto, ma solleva almeno un paio di domande: a fare la differenza è una parte anatomica presente o assente? E se due persone possono sposarsi e adottare in queste condizioni, perché siamo ossessionati dal guardare nelle mutande? Ma è proprio questo uno dei nodi: l’ossessione pornografica presente pure nella oscena circolare firmata da Giuliano Amato che impedisce di trascrivere matrimoni contratti all’estero, cioè in Paesi più giusti del nostro. Quella circolare ha invocato, per giustificarsi, ragioni di ordine pubblico e ha invitato i responsabili dell’applicazione di suddetta trascrizione a controllare bene il sesso dei richiedenti. Non solo il matrimonio in Italia ha confini tanto angusti, ma ogni tentativo di offrire almeno una caricatura di uguaglianza - DiCo, DiDoRe e altre mostruosità - è fallito miseramente. Sembra paradossale e inutile combattere l’omofobia se viviamo in uno Stato che la giustifica e la sostiene, perché è il primo a confermare che le persone non sono tutte uguali. Alla fine di dicembre scorso è stato pubblicato un report sull’American Journal of Public Health che mostrava i vantaggi del matrimonio: gli Stati in cui tutti possono sposarsi spendono meno in assistenza sanitaria. Se non fossimo pronti a giocarci la carta della giustizia, potremmo insomma attaccarci a quella della convenienza. Il moralismo però prevale su tutto. Se questo è un Paese giusto.

Lamette, Il Mucchio n. 693 di aprile.

giovedì 24 novembre 2011

Il riparatore



Il 23 dicembre 2007 Davide Varì pubblica su “Liberazione” una inchiesta su Tonino Cantelmi e le terapie riparative - ovvero quelle terapie che vogliono aggiustare gli orientamenti omosessuali. Cantelmi querela Varì. Non perché gli ha dato del riparatore, ma perché ha definito il suo studio “un porto di mare”.
Il processo s’è concluso da poche settimane con l’assoluzione di Varì: la sua inchiesta non ha varcato i confini del legittimo esercizio del diritto di critica e di cronaca e il fatto non sussiste, non è reato. Anzi, il giudice ha ritenuto che il pezzo avesse un interesse pubblico incontestabile. Le espressioni che hanno offeso Cantelmi non possono considerarsi diffamatorie. Inoltre - e questo è l’aspetto preoccupante - “non è apparso del tutto estraneo il Cantelmi alla cura dell’orientamento sessuale dei propri pazienti”.
Ma andiamo per ordine. La vicenda inizia nel 2007 con Varì che finge di cercare aiuto perché è a disagio con la sua omosessualità. Il sospetto è che ci siano alcuni terapeuti convinti che l’omosessualità possa essere curata, anzi debba essere curata. Ricordiamo che considerare di per sé patologico un determinato orientamento sessuale è insensato e scorretto e che per fortuna l’omosessualità non è più considerata una malattia. Ciò non significa che la propria sessualità non possa sollevare conflitti o disagi, ma che il malessere va cercato altrove e che l’omosessualità non è un errore da correggere. Eppure alcuni si ostinano nel considerarla un difetto, una deviazione o qualcosa che non va e che, dunque, deve essere riparata. Alcune associazioni sono esplicitamente a favore della riparazione, come Obiettivo Chaire, Living Waters, il Gruppo Lot o il Narth (National Association for Research & Therapy of Homosexuality) - ma molti altri preferiscono essere meno espliciti: come Scienza e Vita o Agapo, Associazione di genitori e amici di persone omosessuali (da non confondere con l’Agedo, Associazione di genitori di omosessuali). Il dominio dei riparatori ha confini nebbiosi e può includere tutti quelli che credono che l’omosessualità sia intrinsecamente sbagliata - questa premessa è la condizione sufficiente per sentire puzza di riparazione.

Su Il Mucchio Selvaggio di dicembre.

lunedì 20 giugno 2011

Non vorrei che mio figlio fosse gay

Tutto qua. Anche perché non ho figli maschi, per fortuna, ho 2 figlie femmine. Purtroppo anche tra le donne esiste l’omosessualità.
Il segreto? Provate a vederlo pensando di guardare una sit com, convincetevi che sia una versione (penosa, concordo) di Corrado Guzzanti o di George Carlin.

lunedì 16 maggio 2011

Varie

“È inaccettabile - ha detto Casini durante la trasmissione KlausCondicio - che un videogioco che entra nelle case di milioni di italiani permetta ad un bambino di 6-7-8 anni di creare una coppia gay, che può anche adottare bambini. Questi videogiochi sono molto pericolosi, minacciano l’educazione di un bambino, la loro diffusione ha risvolti di carattere igienico-sanitario. Lo sviluppo della sessualità di un adolescente presenta inizialmente aspetti di omosessualità e bisessualità, che poi si armonizzano e l’eterosessualità diventa la regola. Questi videogiochi intervengono in quel momento di sviluppo parziale, in cui è normale che ci siano tendenze omosessuali che rischiano di essere fissate. Questo è un modo per fissare l’omosessualità”.

Casini annuncia di voler portare il problema all’attenzione dell’Europarlamento: “Vietare la vendita del gioco almeno ai minorenni (come è avvenuto con la pornografia) è una strada percorribile.
Ovvero come iniziare bene la settimana. Casini & Co. dimenticano di nominare l’effetto devastante della stupidità e della ignoranza sull’educazione (il pezzo per intero lo trovate qui).
E per rimediare qui sotto alcune segnalazioni di articoli interesanti.

IVF multiple births ‘coming down’ says HFEA
, BBC News, 13 may 2011.
The proportion of risky multiple births during IVF treatment is falling according to the Human Fertilisation and Embryology Authority (HFEA).
The reduction so far has largely been down to increased use of a technique called single embryo transfer.
Only one embryo is implanted in women who have the greatest chance of getting pregnant. HFEA figures show this has not affected the success rate.
“There are some people who don’t wait.” Robert Krulwich on the future of journalism, Discover Magazine, may 12th 2011.

Friday The 13th Superstitions: Where’d They Come From?
, The Huffington Post, May 13, 2011.

Life and the Cosmos, Word by Painstaking Word, (a conversation with Stephen Hawking), The New York Times, may 9 2011.

The mark of Kane, Slate, may 8 2011.

Hitler v. Hitler. Can a parent lose custody of his child because he’s a neo-Nazi?, Slate, may 11 2011.

sabato 7 maggio 2011

Opus Gay


Mel ROMA, venerdì 13 maggio ore 18, presentazione del libro di Ilaria Donatio OPUS GAY. La Chiesa cattolica e l'omosessualità.

martedì 25 gennaio 2011

Adinolfi’s wife

No comment.

mercoledì 3 novembre 2010

Silvio, gli omosessuali e i cavallucci marini

Il titolo dell’articolo può mettere i brividi, ma la lettura del pezzo con cui Melania Rizzoli, «medico e deputato Pdl», difende l’ultima uscita del capo del governo, regala invece alla fine qualche momento di sana allegria («Basta con le solite ipocrisie: tutti preferiamo figli etero», Il Giornale, 3 novembre 2010, p. 3). Qualche esempio a caso:

La frase del premier «meglio essere appassionati di belle ragazze che essere gay», che apparentemente può apparire discriminatoria, è invece per Berlusconi una cosa normale e naturale da dire. Anzi per lui è un inno alla vita. A modo suo certo, ma per uno come lui che ama la vita e la vive così tanto e non ne fa mistero, sarebbe inconcepibile preferire una esistenza sterile, senza lasciare il segno fisico di sé. Non è nella sua natura. Lo ha dimostrato in tutti i modi, lo dimostra ancora oggi e continuerà a farlo.
È forse un modo per avvertirci che il prossimo scandalo sarà sui figli segreti di Berlusconi?
Non sarebbe lui altrimenti. Ve lo immaginate un Silvio Berlusconi omosessuale, o che commenti i fatti di questi giorni con un «sarebbe stato meglio per me essere gay che appassionato di belle ragazze»? Sarebbe stato grottesco, finto […].
E invece così...
Anzi lui ripete spesso, perché ci crede davvero e questo dobbiamo riconoscerglielo, che il futuro è delle donne. E questa è un’assoluta verità. Per dimostrarlo basta osservare madre natura. Anche nel mondo animale esiste l’omosessualità, in percentuale molto più ridotta di quella umana, ma che sta diminuendo spontaneamente in maniera significativa. Ci sono infatti [corsivo mio, G.R.] diverse specie animali, come per esempio i cavallucci marini o le meduse, che oggi si riproducono già in assenza completa del maschio, considerato il sesso debole e perciò in estinzione, e lo stesso corpo femminile e il suo organo genitale al momento del concepimento si modifica e sostituisce di fatto il ruolo e l’organo maschile […].
E quando i maschi si saranno estinti e rimarranno solo le femmine ci sarà, uhm, la fine dell’omosessualità?
È ancora teoria, certo, ma non così teorica.
O un’ipotesi non tanto ipotetica...

(Grazie a Massimo Redaelli.)

lunedì 26 luglio 2010

Ho maggiore pietà per un sacerdote pedofilo che che per un prete gay

Bruno Volpe e il suo Pontifex sono noti per essere tra i peggiori rappresentanti della peggiore religione (sarebbe bene tenere a mente la radice etimologica).
Ma ogni tanto raggiungono vette inimmaginabili forse anche dai loro stessi ammiratori - ammesso che ne abbiano, ma temiano di sì.
Già il titolo basterebbe. Il Volpe è talmente coinvolto emotivamente che gli scappano due che: capita di balbettare quando si è presi da una discussione che ci accalora.
Dicevamo che il titolo basterebbe, eppure le dichiarazioni di tale monsignor Serafino Sprovieri, Vescovo Emerito di Benevento (tutto maiuscolo per il Volpe adorante) riportate con orgoglio meritano la nostra attenzione.
Eccellenza afferma

Costoro [i gay, manco a dirlo] con la loro vita dissoluta e depravata infangano la chiesa, sembrano inseriti in una mentalità pagana e volgare che tollera ed ammicca a queste perversioni, a queste anormalità. I gay che ostentano ...
... la loro diversità e la mettono in pratica, sono perversi, una cosa oscena, la Bibbia é chiara, non ammette repliche: la pratica della omosessualità é una vergogna, causa di esclusione dal Regno dei Cieli e motivo di allontanamento da Dio, motivo per il quale queste cose, a costo di passare per vecchi, superati, retrogradi, vanno dette e denunciate con vigore.
[...] sacerdozio ministeriale e omosessualità non possono coesistere, un gay non ha la mentalità equilibrata, stabile e limpida per poter esercitare questo ministero sacramentale con le carte in regola, motivo per il quale bisognerebbe stare attenti a chi fare entrare nei seminari. Coloro che hanno tendenze gay devono rimanere a casa e non infiltrarsi nei ranghi del clero.
Evviva Pontifex. Finalmente una parola chiara sul peggiore scandalo di questi tempi, una vera e propria offesa per la chiesa, integgerrima paladina di giustizia e umanità.
Qualcuno ha nominato le vittime? A parte la legge naturale e il diritto canonico pare non ci siano vittime. Somiglia tanto allo stupro come delitto contro la morale.

venerdì 14 maggio 2010

La terapia riparativa? Un inganno

Gay Liberation Monument
“La verità è che non si è omosessuali, ma eterosessuali latenti. Far uscire la nostra vera identità maschile è possibile: noi ci siamo riusciti e siamo qui per tenderti una mano!”.
Questa e altre chicche si possono leggere sul sito che presenta l’imminente convegno di Joseph Nicolosi a Brescia il 21 e 22 maggio.
Nicolosi è uno dei padri della terapia riparativa, ovvero quella che ripara dalla omosessualità. Meglio sarebbe chiamarla ideologia riparativa, perché è difficile definire terapia qualcosa che ha la presunzione di “curare” ciò che non è intrinsecamente una malattia - proprio come sarebbe incongruo riparare ciò che non è rotto. Gli orientamenti e le preferenze sessuali costituiscono un dominio fluido ed eterogeneo e l’eterosessualità non è il golden standard cui ispirarsi o, peggio, l’unico modo sano e giusto di amare e fare l’amore.
L’ideologia riparativa è un inganno crudele e pericoloso, in cui purtroppo si può inciampare per varie ragioni: informazioni sbagliate, paura, pregiudizi (è ancora molto diffusa l’idea che l’omosessualità sia una patologia o una perversione, un difetto nello sviluppo sessuale e affettivo). Ragioni che portano a formulare una domanda di aiuto che riceve la risposta più sbagliata.
Meglio quindi conoscere i riparatori e lasciarli alle loro farneticazioni. Tra i rappresentati italiani presenti al convegno ci sono Chiara Atzori, Roberto Marchesini e Giancarlo Ricci.

Dnews, 14 maggio 2010.

martedì 11 maggio 2010

Io sono, io scorro


12-13 Maggio 2010, Io sono, Io scorro. Identità trans, lesbica e gay in Italia, Facoltà di Psicologia, Università “Sapienza” Roma, Aula Magna, via dei Marsi 78.

Il blog del convegno con tutte le informazioni.

venerdì 23 aprile 2010

Matrimoni per persone dello stesso sesso

Un commento interessante di Persio Tincani (Matrimonio omosessuale, se il codice civile prevale sulla Costituzione, Micromega):

La vicenda del matrimonio omosessuale in Corte costituzionale si è conclusa nel modo che in molti prevedevano, cioè con un sostanziale rigetto delle questioni di costituzionalità rimesse dalla corte d'appello di Trento e dal tribunale di Venezia. Che la decisione fosse, in questo senso, prevedibile non ha, però, nulla a che vedere con la questione in sé (il matrimonio omosessuale è compatibile con la Costituzione?) e molto a che vedere con il fatto che non dobbiamo fingerci vergini, del tipo di quelle convinte che ci sia sempre un giudice a Berlino. Che la Corte avrebbe respinto le questioni, insomma, eravamo più o meno tutti ragionevolmente certi, tanto i favorevoli al matrimonio omosessuale, ovvero la stragrande maggioranza dei giuristi italiani, quanto la minoranza dei giuristi contrari.

Tutti o quasi tutti, infatti, consideravano assai improbabile che la Corte avrebbe deciso nel senso dell'ammissibilità del matrimonio omosessuale, in quanto la questione è stata caricata (non importa adesso quanto ciò sia stato fatto ad arte) di un significato politico pressoché esclusivo, che ha finito per far passare nelle retrovie il fatto che si tratti, come ogni altra questione posta di fronte alla Consulta, di una faccenda di leggi e di diritto.

Al di là delle argomentazioni sostenute da ciascuno per la tesi della fondatezza o dell'infondatezza dei particolari rilievi di costituzionalità presenti nei due atti con i quali le corti hanno posto la questione di fronte alla Consulta, e ancor di più al di là degli argomenti che ciascuno adduce per l'ammissibilità o per l'inammissibilità del matrimonio omosessuale nel nostro ordinamento, nessuno avrebbe scommesso sul fatto che una parola definitiva sarebbe stata pronunciata dalla Corte in merito.

Ciò che stupisce, quindi, non è che la Corte abbia dichiarato non fondate le questioni di costituzionalità, ma il modo in cui lo ha fatto, cioè con una sentenza, la n.138 2010 (15 aprile), assai criticabile, sia sotto il profilo della tecnica giuridica, sia sotto il profilo della mera coerenza argomentativa. I passaggi argomentativi fallaci o discutibili della sentenza sono molti. Qui mi limito a segnalarne uno.
Continua.

martedì 5 gennaio 2010

Gli evangelici cristiani alla conquista dell’Uganda


Ecco alcuni portavoce della cristianità in azione. Superfluo commentare. Doveroso leggere tutto il pezzo (Americans’ Role Seen in Uganda Anti-Gay Push, The New York Times, january 3, 2010). In Italia ne parla quasi solo Internazionale. I grandi quotidiani, almeno nelle versioni .it, hanno altre fondamentali notizie da seguire (dal punto g alle varie liti da cortile).

Last March, three American evangelical Christians, whose teachings about “curing” homosexuals have been widely discredited in the United States, arrived here in Uganda’s capital to give a series of talks.

The theme of the event, according to Stephen Langa, its Ugandan organizer, was “the gay agenda — that whole hidden and dark agenda” — and the threat homosexuals posed to Bible-based values and the traditional African family.

For three days, according to participants and audio recordings, thousands of Ugandans, including police officers, teachers and national politicians, listened raptly to the Americans, who were presented as experts on homosexuality. The visitors discussed how to make gay people straight, how gay men often sodomized teenage boys and how “the gay movement is an evil institution” whose goal is “to defeat the marriage-based society and replace it with a culture of sexual promiscuity.”

Now the three Americans are finding themselves on the defensive, saying they had no intention of helping stoke the kind of anger that could lead to what came next: a bill to impose a death sentence for homosexual behavior.

One month after the conference, a previously unknown Ugandan politician, who boasts of having evangelical friends in the American government, introduced the Anti-Homosexuality Bill of 2009, which threatens to hang homosexuals, and, as a result, has put Uganda on a collision course with Western nations.

Donor countries, including the United States, are demanding that Uganda’s government drop the proposed law, saying it violates human rights, though Uganda’s minister of ethics and integrity (who previously tried to ban miniskirts) recently said, “Homosexuals can forget about human rights.”

domenica 8 novembre 2009

Il malato è l’omofobo

Elisa Battistini intervista Vittorio Lingiardi, medico, psicoanalista, direttore della Scuola di specializzazione in Psicologia Clinica dell’Università «La Sapienza» di Roma («Sul lettino c’è l’omosessuale ma il malato è l’omofobo», Il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2009, p. 7):

“Qualsiasi tentativo di cambiare un orientamento omosessuale è destinato al fallimento. La psicoterapia serve a riconoscere la propria omosessualità, non a correggerla”. […]
Perché allora un omosessuale si rivolge a un analista?
“Perché vive un conflitto a causa dell’interiorizzazione di uno stigma che viene dall’esterno. In generale, l’omosessualità è ancora vista come una devianza, una sfortuna, un’anomalia”.
Chi è il paziente tipo?
“Giovani sotto i 30 anni, nell’età in cui si struttura la personalità. Adolescenti che temono di dare un dispiacere ai genitori. Giovani che risentono di un contesto sociale discriminatorio. Perciò è fondamentale dare diritti e mostrare rispetto”.
[…]
Di cosa ha paura l’omofobo?
“L’omosessualità lo spaventa perché rappresenta un disordine rispetto a categorie che ritiene immutabili, come il maschile e il femminile, l’attivo e il passivo. L’omosessualità disorienta l’omofobo. Poi c’è la paura di ciò che non si conosce, dell’ignoto. Infine c’è anche una sorta di inaccettabile invidia per chi vive liberamente la propria sessualità”.
Da leggere tutto.

lunedì 15 giugno 2009

E con il Roma Pride torna la questione dei diritti mutilati



A qualche ora dalla conclusione del Pride romano è forse possibile riflettere su alcune questioni.
La più importante è sul senso attuale e indigeno dei Pride, soprattutto alla luce delle oziose polemiche che la ricorrenza suscita e delle difficoltà incontrate per avere il percorso. A pochi giorni dal Roma Pride, infatti, non era ancora stato indicato ufficialmente da dove si sarebbe partiti e dove si sarebbe arrivati. Tanto per dirne una.
Si diceva il senso. Sebbene eterogeneo e complesso, oggi in Italia è innegabile che sia rappresentato dalla denuncia delle ingiustizie esistenti e dalla richiesta di reale parità e uguaglianza per i cittadini GLBTQ. Dal ribadire che non possono esistere disuguaglianze in base all'orientamento sessuale di qualcuno proprio come non dovrebbero esistere per il colore della pelle, le nostre credenze, la nostra opinione politica. A meno che non vi sia un danno per qualcuno. L'orientamento sessuale non costituisce intrinsecamente un danno per nessuno, perciò non esiste una ragione che non sia pretestuosa per mantenere una situazione giuridica e culturale asimmetrica: chi è eterosessuale gode di tutti i diritti civili; chi invece non lo è, riceve diritti mutilati.
La battaglia deve svolgersi su questi due fronti, culturale e giuridico, difficile dire in che ordine temporale e di importanza. In che misura è la cultura a “imporre” una legge? O è la legge che avvia il cambiamento culturale necessario? Forse è un processo talmente intrecciato da rendere insensate queste domande, ma è indubitabile che la conoscenza sia una condizione necessaria per avviarlo: e allora i detrattori e i critici farebbero bene a conoscere le radici storiche dei Pride, il loro significato, gli orrori, passati e presenti, cui si oppongono; farebbero bene poi a conoscere il peso psichico della discriminazione e combatterlo finalmente, invece di esserne complici. In prima linea (quella della complicità) i nostri politici.
E se qualcuno si scandalizza per un culo scoperto o una provocazione festosa, ha tutta la nostra comprensione: deve già essere tanto difficile campare in un Paese come il nostro per un animo impressionabile!

(DNews, 15 giugno 2009)

venerdì 29 maggio 2009

Basta sprechi e la Carfagna si scorda i gay

L'omosessualità non è re[ato]
Quante polemiche infondate sulla sparizione della lotta all’omofobia dal sito del Ministero per le Pari Opportunità! Quante proteste inutili rivolte al ministro Mara Carfagna, accusata di essere insensibile verso la discriminazione su base sessuale e le mancate tutele di alcuni cittadini!
Nella nuova veste del sito non si nominano le questioni GLBTQ non perché il ministro sia disinteressato o disattento, ma perché non esiste più una “questione GLBTQ”: l’uguaglianza dei diritti per tutti i cittadini è stata portata a compimento; la legislazione italiana ha raggiunto quella dei più avanzati Paesi al mondo; il matrimonio è una possibilità per tutti, indipendentemente dall’orientamento sessuale – per quale ragione dovrebbe essere rilevante per avere la possibilità di sposarsi? – la maturazione culturale è giunta a compimento e nessuno più sghignazza davanti a due uomini o a due donne che si baciano, perché ognuno è libero di vivere come vuole e di amare chi vuole.
Insomma, mantenere una commissione che combatte le ingiustizie quando le ingiustizie non esistono più sarebbe come mantenere una commissione per gli invalidi di guerra dopo che da un paio di secoli si vive in pace. Carfagna non ama ciò che è superfluo. Come darle torto in un periodo in cui è moralmente doveroso evitare gli sprechi?

(DNews, 29 maggio 2009)