Basta la parola
Dopo aver esaminato nella prima parte di questa serie il modo in cui la lettera della proposta di legge contro l’omofobia è stata in qualche caso alterata, e nella seconda e terza alcune delle interpretazioni aberranti che ne sono state date, è tempo di passare agli errori più generali che sono alla base della violenta reazione integralista alla proposta di legge Scalfarotto.
Iniziamo dal blog Orarel, in cui poche settimane fa Massimo Zambelli così commentava, in occasione delle note dichiarazioni di Guido Barilla («Omofobia», 27 settembre 2013):
Omo-fobia. Stanno facendo una legge basata su un errore linguistico e concettuale, tipico di chi confonde la realtà delle cose inventandosi il terzo sesso, o eliminando padre e madre, o imponendo uguaglianze nel matrimonio (da “mater”) che non esistono... Omofobia non vuol dire “odio per l’omosessuale” ma semmai “paura dell’omosessualità”. E da quando in qua una paura diventa reato? Stanno imponendo un regime liberticida e questo episodio di Barilla ne è l’ennesimo antipasto.
Si tratta, come si vede, dell’ennesima riproposizione della
fallacia etimologica, cioè dell’argomento erroneo secondo cui il «vero» significato di una parola, quello in cui dovrebbe essere sempre usata, coinciderebbe con il suo significato «originale» o con il significato «originale» delle parole che la compongono. Così, la parola
matrimonio si deve usare solo se a sposarsi c’è una
mater, cioè una donna; il termine
laico deve indicare solo una persona battezzata che non appartiene alla gerarchia ecclesiastica; etc. Spesso – come in questo caso – la fallacia si spinge addirittura oltre: non solo si afferma che le parole devono essere usate secondo il loro significato originario, ma anche che gli oggetti che esse designano possiedono in realtà tutte e sole le caratteristiche indicate dall’etimologia. Per esempio, sembra dire Zambelli, gli omofobi non odiano gli omosessuali, ma ne hanno soltanto timore; ed è rimasto celebre il
caso del tizio che voleva dimostrare che la logica non è altro che un gioco di parole, perché la parola
logica viene dal greco
logos, che significa appunto (tra le altre cose) «parola».
Tutto ciò è naturalmente in contrasto assoluto con quello che la più banale ragionevolezza prescrive: non confondere le cose con le parole che le designano, e usare il linguaggio in accordo con le finalità che ci poniamo. Così, se ci vogliamo far capire dal prossimo – la funzione di gran lunga più comune della lingua – dovremo usare le parole nel loro significato corrente; se teniamo alle forme tenderemo a privilegiare un uso più puristico (e quindi finché sarà possibile, per esempio, non impiegheremo «piuttosto che» come congiunzione, anche contro l’uso sempre più diffuso che se ne fa); se abbiamo una finalità estetica scriveremo poesie in cui le parole sono usate magari più per il loro suono che per il loro significato corrente; se vogliamo farci capire solo da qualcuno e non da altri useremo un codice in cui le parole hanno un significato segreto che non coincide con quello solito; infine, se vogliamo indagare le origini delle parole, ne studieremo l’etimologia. Come si vede, non si nega né si «confonde» in questo modo nessuna realtà; semplicemente, invece di farci dettare del tutto arbitrariamente da un aspetto particolare (o anche generale) della realtà un fine contrario ai nostri bisogni, traiamo da essa i mezzi per soddisfare dei fini che rimangono però umani ed autonomi. Che è poi quello che fanno anche coloro che ricorrono alla fallacia etimologica: non li vedrete mai parlare usando esclusivamente i significati originali delle parole (finirebbero diritti in un reparto psichiatrico); questa gente usa l’etimologia solo quando conferma le sue ideologie preferite. Non si sente nessuno, tranne forse qualche misogino estremo, dire che il patrimonio (da
pater) deve essere esclusivo appannaggio dei maschi, o che
laico è chi appartiene al popolo (secondo l’etimologia greca, che precede quella latina; e chissà cosa significava la relativa radice nel proto-indoeuropeo).
Tutto ciò è in fondo abbastanza scontato, e non valeva forse la pena di scriverci sopra un post, se non fosse per il fatto che troviamo qui esemplificato un passaggio estremamente diffuso nel pensiero cattolico: quello che va da una natura delle cose ritenuta per vari motivi più «profonda» ed «essenziale» (come l’etimologia, o la finalità procreativa degli atti sessuali) a una prescrizione immotivata e assurda («si devono usare le parole nel significato originale!»; «non si devono compiere atti sessuali tra persone dello stesso sesso!»), che tuttavia l’integralista spesso difende accusando bizzarramente chi non la pensa allo stesso modo di «negare» o «confondere» la realtà delle cose («avete commesso un errore linguistico»; «volete negare che i bambini nascano da un uomo e da una donna»). I difensori della cosiddetta «legge naturale» usano questa logica pervertita – anche se in genere non sono tanto ingenui da farsi cogliere a usare fallacie troppo evidenti, come quella di cui abbiamo parlato qui: la fallacia naturalistica imperversa, quella etimologica è riservata a chi è di bocca particolarmente buona.
(
4 - continua)