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martedì 10 aprile 2007

BioNews

Da BioNews di oggi tre rapidi aggiornamenti su vicende che abbiamo seguito qui su Bioetica:

  1. Natallie Evans ha perso l’ultimo appello. La Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha infatti rigettato l’istanza della donna, che chiedeva di farsi impiantare gli embrioni congelati contro l’opposizione del padre genetico, l’ex compagno della Evans. Curioso il commento di Anna Smajdor, una bioeticista dell’Imperial College di Londra, in supporto della donna: la Gran Bretagna è ossessionata dall’idea che la trasmissione dei propri geni sia l’essenza della paternità, lamenta la Smajdor; dimenticando che si potrebbe dire la stessa cosa a proposito della maternità... (Jess Buxton, «UK woman loses final embryo appeal»).
  2. Un gruppo di ricercatori svedesi è riuscito nell’impresa di trapiantare l’utero ad alcune pecore: dei quattordici animali sottoposti all’operazione, quattro sono ora gravidi – e sette sono morti (Heidi Nicholl, «Successful womb transplants in sheep lead to pregnancy»).
  3. La Commissione Scienza e Tecnologia della Camera dei Comuni britannica ha contestato il divieto ventilato dal governo alla creazione di embrioni ibridi, creati da ovociti di vacche o conigli il cui nucleo verrebbe sostituito con un nucleo tratto da una cellula umana. Attendiamo impazienti di sapere in che modo questa volta Il Foglio traviserà la notizia... (Antony Blackburn-Starza, «Parliamentary committee backs ‘hybrid embryos’»).

martedì 16 gennaio 2007

Vicini al trapianto di utero

Bioetica si era già occupata del trapianto di utero quattro mesi fa («Verso il trapianto dell’utero», 13 settembre 2006). Allora l’annuncio degli studi in corso veniva dallo Hammersmith Hospital di Londra; oggi è la volta del Downtown Hospital di New York, dove un gruppo di ricercatori capitanati da Giuseppe Del Priore potrebbe tentare l’operazione entro la fine di questo anno, secondo il Washington Post (Rob Stein, «First U.S. Uterus Transplant Planned», 15 gennaio 2007, p. A01); più prudente la Associated Press, che con Marilynn Marchione riporta nello stesso giorno una dichiarazione del presidente dell’ospedale che esclude che l’operazione possa essere effettuata «any time in the near future» («Uterus Transplant May Enable Pregnancy»).
L’operazione consiste nel trapianto vero e proprio; nell’attesa di circa tre mesi, per assicurarsi che l’organo funzioni correttamente e che i farmaci antirigetto siano ben tollerati; nell’impianto di un embrione pre-esistente (per evitare gli inevitabili ritardi legati alla fecondazione in vitro). Alla nascita del bambino, che avviene per parto cesareo, l’utero viene rimosso; in ogni caso, se la gravidanza ritarda, l’organo non viene lasciato nel corpo della donna per più di due anni, in modo da interrompere l’uso dei farmaci. I ricercatori contemplano, seppur vagamente, la possibilità futura che pazienti ancora dotate di ovaie possano concepire naturalmente. Ancor più speculativa (ma inevitabile) l’idea di qualche commentatore sull’estensione dell’operazione agli uomini.

Alcuni bioeticisti, tra cui Arthur Caplan dell’Università di Pennsylvania, hanno voluto sottolineare le possibili difficoltà etiche generate dal grande valore simbolico dell’organo; ma Del Priore e i suoi colleghi hanno già ottenuto in un sondaggio pilota l’assenso dei familiari di potenziali donatrici.
L’unico vero, grande problema etico è dato dalle possibili conseguenze sulla salute dei futuri bambini dei farmaci antirigetto e di un utero non adeguato, visto che sarebbe sempre disponibile l’alternativa meno rischiosa della maternità surrogata. Al momento le prospettive sembrano comunque relativamente incoraggianti, secondo l’Associated Press:

The drugs generally are not dangerous to a fetus although certain ones should be avoided, said Dr. Vincent Armenti, kidney transplant chief at Temple University School of Medicine in Philadelphia. He keeps a registry of pregnancies in transplant recipients throughout North America.
As of mid-2005, 990 women had had 1,547 pregnancies with results not much worse than the general population. Of the 772 pregnancies in kidney recipients, 590 births resulted (the rest miscarried or chose abortion). About half of babies were born prematurely – most only slightly – and much of this was due to the mothers’ high blood pressure, not the transplant.
Only six babies died within a month of birth, and 4 percent had birth defects, some of them mild and fixable with surgery.
“The consensus of the community, supported by registry data, is that pregnancy can be safe in this population,” Armenti said.
Per il resto l’etica della libertà ci offre, come spesso accade, una guida sicura:
“I don’t think it’s really a doctor’s role to tell a patient that their values are not important. It’s up to us as doctors to advise our patients and safely escort them to the best life that they can have,” Del Priore said. … “I think patients deserve autonomy,” said Alan DeCherney, a fertility expert speaking on behalf of the American Society for Reproductive Medicine. “As long as they know all the facts, it should be their choice.”

mercoledì 13 settembre 2006

Verso il trapianto dell’utero

Medici dello Hammersmith Hospital di Londra ritengono che entro due anni saranno in grado di effettuare con successo il trapianto di utero (un tentativo precedente in Arabia Saudita, nel 2002, era fallito dopo 90 giorni dall’operazione). Chi riceverà l’organo – principalmente donne isterotomizzate o nate senza utero – lo terrà solo fino alla fine dell’eventuale gravidanza, e comunque non più di due o tre anni. Avere un figlio in questo modo comporterà seri rischi: si dovranno assumere farmaci immunosoppressivi durante la gravidanza e bisognerà ricorrere al parto cesareo. Si ritiene che in questo modo si eviteranno le difficoltà connesse con le madri surrogate, difficili da trovare e a volte tentate di tenere per sé il bambino (Antony Blackburn-Starza, «Doctors two years away from successful womb transplants», BioNews, 11 settembre 2006). Ma mi chiedo se non sarebbe il caso di tentare di risolverli, questi problemi, prima di sviluppare tecniche tanto rischiose.