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venerdì 27 luglio 2007

Natallie Evans vs United Kingdom: analisi di una sentenza della Corte europea

Bollettino Telematico di Filosofia Politica, 27 luglio 2007:

Non è la prima volta che un uomo e una donna si contendono la “proprietà” e il destino di alcuni embrioni crioconservati. Basti ricordare, solo per fare un esempio, lo scontro tra Mary Sue Davis e Junior Davis (Davis vs Davis, 842 S.W.2d 588, 597, Tennessee, 1992). Il caso di Natallie Evans è interessante perché è oggetto di una sentenza della Corte europea (Application no. 6339/05, Strasbourg, 10 aprile 2007) e perché nelle motivazioni che hanno portato alla decisione rientrano due temi centrali delle normative sulla procreazione assistita in generale e in particolare della legge 40/2004 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita): lo statuto dell’embrione (o del concepito) e la revocabilità del consenso a procedere all’impianto degli embrioni prodotti. Le normative in materia di fecondazione artificiale occupano uno spazio rilevante nelle policies di un Paese: perché riguardano la libertà individuale, la tutela di diritti fondamentali, i criteri stessi della legittimità della coercizione legale e, di conseguenza, la natura stessa degli assetti istituzionali.

Le tecnologie riproduttive rimediano alla sterilità, arginano il rischio di trasmettere al nascituro malattie genetiche o virali, cancellano la casualità della riproduzione e si offrono come mezzi per compiere una scelta procreativa responsabile. La trasformazione della procreazione da naturale ad artificiale implica delle profonde variazioni di significato per realtà come la famiglia e la parentela: la genitorialità, prima compatta, si frantuma in una complessità di possibili scelte.

L’irruzione dell’artificio nella riproduzione umana solleva numerose questioni morali e legali che la riproduzione “tradizionale” ignorava. Proprio come ogni volta che ad una sola possibilità se ne affiancano altre sorge la domanda se le nuove possibilità siano connotate moralmente e se debbano essere protette o limitate da una normativa. La natura amorale della procreazione naturale si frammenta in dilemmi morali e giuridici complessi e delicati.

In Italia la legge 40 del 2004 è un esempio di come una norma sia entrata nell’intimità delle persone, si sia sostituita alle decisioni personali e mediche e stia delineando scenari di vera e propria discriminazione e di violazione di diritti fondamentali quali la libertà e la salute riproduttiva.

Il confronto con le normative degli altri Paesi della Comunità europea costituisce una buona occasione per mettere in luce la illegittimità di alcuni divieti della legge 40 (primo tra tutti i limiti di accesso alle tecniche e il divieto di ricorrere alla Diagnosi Genetica di Preimpianto; a tal proposito non è superfluo ricordare che in Italia le diagnosi prenatali sono ammesse durante la gravidanza, e che la stessa normativa sulla procreazione assistita permette l’analisi osservazionale prima dell’impianto. Tutte indagini che hanno lo scopo di conoscere lo stato di salute dell’embrione e di offrire alla donna la possibilità di scegliere se portare avanti la gravidanza oppure interromperla – di non avviarla nel caso di indagine osservazionale: tra queste però, la Diagnosi Genetica di Preimpianto è stata vietata. Ma anche il divieto di fecondazione eterologa (e di donazione di gameti) e di crioconservazione degli embrioni o il limite di produzione di soli tre embrioni e l’obbligo del loro impianto immediato e contemporaneo).

La legge italiana sulla procreazione medicalmente assistita, insomma, piuttosto che regolamentare l’accesso alle tecniche di procreazione assistita, si incarica di negare immotivatamente questo accesso a molte categorie di individui. Questi confini appaiono ingiustificati se la procreazione assistita viene equiparata a una terapia: quale sarebbe la ragione per escludere da una cura qualcuno in base, ad esempio, allo stato di famiglia o alle preferenze sessuali (Articolo 5, Requisiti soggettivi: [...] possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi)?
Se anche non si volesse equiparare la procreazione assistita a una terapia, questi confini imposti alla libera scelta individuale appaiono comunque infondati: per sostenerli non viene addotta nessuna argomentazione che possa essere valida in una democrazia liberale. Questi confini ledono la salute dei cittadini italiani, che se vivessero in un altro Paese avrebbero vita più facile e maggiori possibilità di realizzare un desiderio legittimo: avere dei figli. Questi confini entrano in contrasto con alcuni diritti fondamentali e universali sanciti da trattati comunitari, oltre che dalla nostra stessa Costituzione e dalle Carte dei diritti fondamentali (il primo è il diritto alla salute, appunto) e creano quel fenomeno drammatico e gravemente discriminatorio chiamato turismo procreativo.

La recente sentenza della Corte di Strasburgo sul caso di Natallie Evans offre una occasione preziosa per illuminare la pericolosità della premessa fondamentale della legge 40: l’attribuzione di diritti al concepito. Attribuzione che implica la maggior parte dei divieti elencati dalla legge sulla procreazione assistita e che apre la strada a conseguenze morali e giuridiche pericolose e inaccettabili: sebbene la legge 40 esplicitamente dichiari di non volere interferire con la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza (Articolo 14, Limiti all’applicazione delle tecniche sugli embrioni: «[...] fermo restando quanto previsto dalla legge 22 maggio 1978, n. 194») vietare la crioconsevrazione e la soppressione degli embrioni si pone in contraddizione con la possibilità di interrompere lo sviluppo degli embrioni stessi abortendo. Attribuire un diritto alla vita all’embrione, inoltre, rischia di criminalizzare la gravidanza e di rendere ogni azione della donna potenzialmente lesiva dei diritti dell’embrione (a questo proposito è molto significativa la legge federale americana Unborn Victims of Violence Act o i processi contro donne incinte accusate di spaccio di sostanze stupefacenti, abusi infantili o addirittura di omicidio nel caso di Regina McKnight. Tutte queste donne sono state accusate per comportamenti tenuti durante la gravidanza).


Sommario
Articoli 2, 8 e 14
La storia di Natallie
Embrioni contesi
Human Fertilisation and Embryology Act 1990
Normative negli altri Paesi
I. Alleged violation of article 2 of the convention
Se Natallie fosse italiana?
II. Alleged violation of article 8 of the convention
A. The Chamber judgment
II. Alleged violation of article 14 of the convention taken in conjunction with article 8

martedì 10 aprile 2007

BioNews

Da BioNews di oggi tre rapidi aggiornamenti su vicende che abbiamo seguito qui su Bioetica:

  1. Natallie Evans ha perso l’ultimo appello. La Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha infatti rigettato l’istanza della donna, che chiedeva di farsi impiantare gli embrioni congelati contro l’opposizione del padre genetico, l’ex compagno della Evans. Curioso il commento di Anna Smajdor, una bioeticista dell’Imperial College di Londra, in supporto della donna: la Gran Bretagna è ossessionata dall’idea che la trasmissione dei propri geni sia l’essenza della paternità, lamenta la Smajdor; dimenticando che si potrebbe dire la stessa cosa a proposito della maternità... (Jess Buxton, «UK woman loses final embryo appeal»).
  2. Un gruppo di ricercatori svedesi è riuscito nell’impresa di trapiantare l’utero ad alcune pecore: dei quattordici animali sottoposti all’operazione, quattro sono ora gravidi – e sette sono morti (Heidi Nicholl, «Successful womb transplants in sheep lead to pregnancy»).
  3. La Commissione Scienza e Tecnologia della Camera dei Comuni britannica ha contestato il divieto ventilato dal governo alla creazione di embrioni ibridi, creati da ovociti di vacche o conigli il cui nucleo verrebbe sostituito con un nucleo tratto da una cellula umana. Attendiamo impazienti di sapere in che modo questa volta Il Foglio traviserà la notizia... (Antony Blackburn-Starza, «Parliamentary committee backs ‘hybrid embryos’»).

venerdì 10 marzo 2006

Sul caso di Natallie Evans

La Corte Europea dei Diritti Umani ha emesso il 7 marzo il verdetto sul caso di Natallie Evans (sic; non «Natalie» o «Nathalie»), una donna del Regno Unito cui i tribunali britannici avevano impedito di usare degli embrioni congelati per avere un figlio, a causa dell’opposizione dell’ex partner della donna, che aveva fornito il proprio seme per crearli. La donna, che non aveva più la possibilità di concepire, a causa di un cancro alle ovaie, chiedeva alla Corte di stabilire se le autorità del suo paese avessero violato la Convenzione Europea sui Diritti Umani, negandole il diritto ad avere un figlio geneticamente affine; la Corte ha sentenziato a suo sfavore (fonte: BioNews, 7 marzo).

Al di là degli aspetti giuridici del caso, vorrei azzardare qualche considerazione su quelli etici. È interessante notare come due dei giudici, dissociandosi in parte dalla sentenza, abbiano affermato che il diritto della donna ad avere un figlio debba essere considerato superiore a quello del partner a ritirare il proprio consenso. Mi pare tuttavia che esista un diritto uguale e opposto a non avere un figlio; e che l’uso dei propri geni rientri in una sfera di autodeterminazione privata che non può essere violata, neppure per impedire che un altro subisca un danno. Immaginiamo che l’embrione non fosse stato ancora concepito, e che i gameti delle due persone coinvolte si trovassero congelati separatamente: penso che in questo caso avremmo qualche difficoltà ad ammettere che il seme dell’uomo potesse venire usato contro il suo consenso. Non riesco a vedere differenze fondamentali tra quest’ultimo caso e quello in esame; direi pertanto che il verdetto della Corte sia giusto, tenendo conto del fatto che l’embrione non è una persona e non può pertanto vantare diritti sui propri geni, che l’uomo non sembra avere assunto impegni giuridicamente validi riguardo all’uso del proprio seme, e che l’embrione si trova ancora in provetta e non nell’utero materno (in caso contrario prevarrebbe naturalmente il diritto ancora più fondamentale della donna all’inviolabilità corporea, che è tanto forte da valere persino nel caso in cui una donna rimanga incinta contro la volontà del partner: questi non avrebbe comunque il diritto di farla abortire).

Aggiornamento: sugli aspetti giuridici del caso commenta Hazel Biggs su BioNews del 13 marzo («Last Chances, Lost Opportunities and Legal Contortions»).

Aggiornamento 2: sono disponibili in rete il testo completo della sentenza e un comunicato stampa ufficiale che la riassume.