Credevo, e credo tuttora, che la sinistra italiana dovesse dotarsi di una sua cifra per così dire stilistica, se vogliamo evitare la parola «ideologica», che la differenziasse dalle ambiguità della Margherita, dal conformismo vaticanoide di Forza Italia. E pensavo, e penso, che il mio partito dovesse battersi contro le diseguaglianze sociali, senza cadere nel pauperismo, contro i privilegi delle categorie professionali protette senza cedere al liberismo sfrenato e contro quel perbenismo borghese della tolleranza che concede solo briciole caritatevoli ai nuovi diritti. Io non credo che la Serafini sia contro le coppie di fatto, non credo neppure che sia omofoba. Credo tuttavia che preferirebbe che le sue colleghe di partito, Pollastrini e Turco, se ne stessero zitte, evitando di dare della maggioranza di governo un’immagine zapaterista. Ciò è folle.
[…]
I Ds cementano l’alleanza con la Margherita rinunciando ai loro ideali di progresso, laicità, indipendenza e diventano solo l’edificio organizzativo del nuovo partito. I valori ce li metterà il socio debole. Non c’è più spazio per chi come me ha fatto delle battaglie per i diritti civili la propria ragion d’essere politica. Caro direttore, ringrazio la senatrice Serafini e i troppi rimasti in silenzio dinanzi alle sue dichiarazioni per avermi aiutato a capire che non è più questo il mio partito.
Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano
John Stuart Mill, La libertà
domenica 31 dicembre 2006
La follia della sinistra
È un articolo amaro, drammatico ma del tutto condivisibile quello di Alessandro Zan su Il Mattino del 30 dicembre e leggibile su Gay news, Zan: democratici di sinstra e la crisi dei diritti. È un articolo che impietosamente racconta i Ds per quello che sono, o per quello che sono diventati. Nelle loro piccole ipocrisie e nella loro mancanza di coraggio, nel loro seguire una strada di compromesso ad ogni costo sacrificando qualcosa che non ha prezzo: i diritti civili e la loro difesa. Ne riporto due passi, ma è da leggere tutto. Con l’avvertimento che è un bel pugno in pancia. Certo, meglio della schifosa ipocrisia di questi fantocci di un pensiero e di una politica di sinistra.
Frullatori di bambini, Saddam Hussein, Piergiorgio Welby e i cowboys
Per chiudere in bellezza il 2006 ecco una riflessione (opinione, come si legge) di Luca Volontè. Una riflessione che spazia dalla condanna a morte di Saddam Hussein alla sperimentazione embrionale, dalla politica crudele e ipocrita a Piergiorgio Welby, dalle preghierine a Caino e Abele. Ma lascio la parole al nostro, senza tediarvi oltre.
L’opinione
Volonté: «Quante ipocrisie attorno alla morte di un uomo» (Il Tempo, 31 dicembre 2006)
di LUCA VOLONTÈ (asterisco Capogruppo Udc alla Camera)
L’opinione
Volonté: «Quante ipocrisie attorno alla morte di un uomo» (Il Tempo, 31 dicembre 2006)
di LUCA VOLONTÈ (asterisco Capogruppo Udc alla Camera)
Appena sono stato raggiunto dalla notizia della impiccagione di Saddam, ho recitato «L’eterno riposo». Nessuno ragionevolmente può dubitare che per me la vita umana non sia sacra, dall’inizio alla fine. Perciò ho contrastato la scelta di Mussi, il silenzio di Prodi e la pavidità del Governo sul settimo Programma Quadro, quel via libera al macello degli embrioni umani, quel frullatore di bambini nei laboratori europei. Per la medesima ragione ho denunciato la strumentalizzazione eutanasica del caso Welby. L’iniziativa lanciata da Casini per i martiri innocenti indonesiani di settembre, calcava quel solco. Povero Saddam, nemmeno ha avuto modo di pentirsi, ma forse... chi puo dirlo? Dio solo lo sa. Tuttavia, molti si sono prodigati in appelli, la gran parte dei quali univoci, solo per Saddam. Questa schizofrenia non la tollero, la quasi totalità dei politici italiani che hanno chiesto la commutazione della pena è in mala fede. Sono coloro che appoggiano la scelta di Mussi, che nulla hanno fatto per bloccare l’omicidio di Stato nei confronti degli innocenti cinesi e indonesiani. I Radicali poi, esprimono il peggio di tutto ciò. Coaudiuvano le azioni per determinare la morte di Welby, esprimono un ministro, Emma Bonino, che si dimentica di sostenere i diritti umani in Cina e Bielorussia, pagano l’ex terrorista D’Elia perché nessuno tocchi Caino. Appunto, agli Abele ci hanno pensato loro con la pratica degli aborti, delle sperimentazioni embrionali. Prodi poi è un caso a sé. Come D’Alema avrebbe potuto intervenire con il premier Indonesiano, invece si è fermato al thè coi biscotti. Critica l’intervento in Iraq degli americani ma vorrebbe che i soldati Usa trattenessero per 30 anni Saddam in prigione, senza considerare i rischi di attentati e rivolte per liberarlo. Già, perché l’unica possibilità per evitare la morte di Saddam sarebbe stata quella di metterlo in prigione, di far controllare il carcere di massima sicurezza da diversi plotoni americani, di costringere di Usa a rimanere in Iraq per molti anni. A questo non pensa nessuno, tanto ormai si trattano gli Usa come gli spazzini del mondo, li si critica ma non si è capaci di creare una alternativa ai loro impulsi, a volte, da cowboys. Forse Prodi e Pannella pensavano di portare Saddam a scontare la pena in Italia? Forse Parisi avrebbe mandato il Battaglione San Marco a difendere la sua prigione? Basta ipocrisie. La vita è sacra, tutte la vite lo sono. Abbiamo festeggiato da qualche giorno la Festa dei Santi martiri innocenti, perché non partire dalla difesa della vita di questi, il cui sangue ci gronda dalle mani ed evitare di iniziare dai tiranni sanguinari. Ha ammazzato più Saddam di Pinochet. Se proprio si vuol dimostrare coerenza, si vuol partire da Saddam, allora da lui in poi cominciamo a difendere tutti gli innocenti, oltre ai colpevoli. Saddam è morto, ogni morte provocata è un danno per l’umanità, un omicidio. Lui era Caino e io prego anche per Abele. Troppi scaldasedie dell’Unione vogliono solo la libertà di Caino, non hanno pregato per lui, né diranno una parola per i martiri cristiani. Troppo comodo!
Saddam Hussein allo specchio
Su Saddam Hussein sono state già scritte migliaia di parole e altrettante ne saranno scritte. Lunghi anni di storia insanguinata e di complicità vergognose.
Come ho già detto, non mi esprimo sulla condanna a morte. Altri meglio di me lo hanno già fatto. Ma sui dettagli, su questo mi soffermo, sugli squarci di un orrore consumato come fosse una soap opera.
Come il sublime, anche l’orrore è nelle piccole cose.
Nella lunga diretta della notte dell’esecuzione Repubblica.it ha riportato alcune notizie davvero raccapriccianti.
05:02 Gb, il ministro degli Esteri: “Saddam Hussein ha pagato”
Margaret Beckett, il ministro degli Esteri del governo di Tony Blair si dichiara “soddisfatta che Saddam Hussein sia stato processato da una corte irachena per almeno una parte dei terrificanti crimini che ha commesso. Adesso ha pagato”. Il ministro Beckett ha però ricordato che “il governo britannico non ha appoggiato e non appoggia la pena di morte né in Iraq né in altri Paesi” si legge nella nota, “ed è favorevole alla sua abolizione, indipendentemente dalle persone implicate o dal crimine commesso. Abbiamo esposto con chiarezza il nostro punto di vista alle autorità irachene, ma rispettiamo la loro decisione che è stata quella di uno Stato sovrano”.
10:57 Impiccato con la corda usata per gli oppositori
Saddam Hussein è stato impiccato con la stessa corda che veniva usata per giustiziare gli oppositori del regime baathista, quando l’ex presidente era al potere. Lo ha rivelato la televisione al Iraqiya.
04:49 La Cnn parla di “Danze attorno al cadavere”
Secondo l’emittente americana che cita testimoni presenti all’esecuzione “si è ballato e cantato per la gioia” attorno al cadavere di Saddam Hussein. L’esecuzione è stata documentata ed esistono sia video che fotografie dichiara inoltre Cnn, citando la televisione statale irachena Iraqiya.
E ancora (14:10 Cameramen: su forca Saddam ha detto: “Iraq senza di me è niente”):
Ali Al Massedy, incaricato di utilizzare la telecamera con cui sono stati ripresi gli ultimi istanti di vita dell’ex dittatore, ha raccontato al settimanale americano Newsweek.
Il cameraman ha ripreso l’impiccagione da un metro di distanza. “È morto all’istante”, ha detto Massedy, aggiungendo che il corpo “si scuoteva”, ma non c’è stato “né sangue, né sputi”.
11:00 Il corpo mostrato ai parenti delle sue vittime
Dopo l’esecuzione il cadavere di Saddam è stato deposto in una cassa e trasferito nella sede del consiglio dei ministri, all’interno della superprotetta zona verde di Bagdad, dove è stato mostrato tra gli altri ad alcuni parenti delle vittime del regime e a testimoni che hanno deposto al processo conclusosi con la condanna a morte.
Se ci fosse stato uno specchio, quanti hanno sostenuto la condanna a morte e gioito al grido “giustizia è stata fatta” si sarebbero accorti di assomigliare al condannato. Perché sono diventati come lui. E a differenza di quanti hanno subito sulla propria pelle la devastazione e la morte, i politici e gli uomini di potere non hanno nessuna attenuante.
Come ho già detto, non mi esprimo sulla condanna a morte. Altri meglio di me lo hanno già fatto. Ma sui dettagli, su questo mi soffermo, sugli squarci di un orrore consumato come fosse una soap opera.
Come il sublime, anche l’orrore è nelle piccole cose.
Nella lunga diretta della notte dell’esecuzione Repubblica.it ha riportato alcune notizie davvero raccapriccianti.
05:02 Gb, il ministro degli Esteri: “Saddam Hussein ha pagato”
Margaret Beckett, il ministro degli Esteri del governo di Tony Blair si dichiara “soddisfatta che Saddam Hussein sia stato processato da una corte irachena per almeno una parte dei terrificanti crimini che ha commesso. Adesso ha pagato”. Il ministro Beckett ha però ricordato che “il governo britannico non ha appoggiato e non appoggia la pena di morte né in Iraq né in altri Paesi” si legge nella nota, “ed è favorevole alla sua abolizione, indipendentemente dalle persone implicate o dal crimine commesso. Abbiamo esposto con chiarezza il nostro punto di vista alle autorità irachene, ma rispettiamo la loro decisione che è stata quella di uno Stato sovrano”.
10:57 Impiccato con la corda usata per gli oppositori
Saddam Hussein è stato impiccato con la stessa corda che veniva usata per giustiziare gli oppositori del regime baathista, quando l’ex presidente era al potere. Lo ha rivelato la televisione al Iraqiya.
04:49 La Cnn parla di “Danze attorno al cadavere”
Secondo l’emittente americana che cita testimoni presenti all’esecuzione “si è ballato e cantato per la gioia” attorno al cadavere di Saddam Hussein. L’esecuzione è stata documentata ed esistono sia video che fotografie dichiara inoltre Cnn, citando la televisione statale irachena Iraqiya.
E ancora (14:10 Cameramen: su forca Saddam ha detto: “Iraq senza di me è niente”):
Ali Al Massedy, incaricato di utilizzare la telecamera con cui sono stati ripresi gli ultimi istanti di vita dell’ex dittatore, ha raccontato al settimanale americano Newsweek.
Il cameraman ha ripreso l’impiccagione da un metro di distanza. “È morto all’istante”, ha detto Massedy, aggiungendo che il corpo “si scuoteva”, ma non c’è stato “né sangue, né sputi”.
11:00 Il corpo mostrato ai parenti delle sue vittime
Dopo l’esecuzione il cadavere di Saddam è stato deposto in una cassa e trasferito nella sede del consiglio dei ministri, all’interno della superprotetta zona verde di Bagdad, dove è stato mostrato tra gli altri ad alcuni parenti delle vittime del regime e a testimoni che hanno deposto al processo conclusosi con la condanna a morte.
Se ci fosse stato uno specchio, quanti hanno sostenuto la condanna a morte e gioito al grido “giustizia è stata fatta” si sarebbero accorti di assomigliare al condannato. Perché sono diventati come lui. E a differenza di quanti hanno subito sulla propria pelle la devastazione e la morte, i politici e gli uomini di potere non hanno nessuna attenuante.
sabato 30 dicembre 2006
venerdì 29 dicembre 2006
Non tutto il Codacons
Riceviamo per conoscenza da Alessandro Ceriani, esponente del Codacons, e volentieri pubblichiamo, questa lettera a Rita Bernardini in cui si prendono le distanze dallo squallido comunicato stampa dell’Associazione, di cui avevamo dato conto qualche giorno fa.
In qualità di Responsabile Provinciale del Codacons di Rimini, esprimo il mio sincero rammarico per quanto accaduto e mi dissocio dal contenuto del Comunicato stampa del 18/12/2006 «Il Codacons dice basta alle speculazioni sulla pelle di Welby», diffuso dal nostro Codacons Nazionale, di cui ho ricevuto copia per conoscenza solo il 21 Dicembre. Definire Piergiorgio Welby persona incapace mi sembra veramente grave, tanto più che quest’Uomo con la sua triste vicenda personale ed epilogo ha fatto riflettere le menti capaci di riflettere e sensibilizzato le persone che sanno agire con il Cuore; non vedo quindi nell’azione del Vostro Movimento alcuna strumentalizzazione del caso.
Sono altrettanto rincresciuto per il fatto che prima di esprimersi ufficialmente su situazioni ed argomenti così importanti e delicati non sia stato né informato preventivamente né consultato come si dovrebbe per rispetto di chi come il Sottoscritto dedica quotidianamente energia e risorse per il Codacons.
Sbigottimento (mio)
Dalle news di www.nuovopsi.com:
29/12/2006: Del Bue: Volontà e Volontè.
29/12/2006: Del Bue: Volontà e Volontè.
Sono rimasto allibito del paragone che l’on. Volontè ha stabilito tra la condanna a morte di Saddam e la decisione di Welby di farla finita. Secondo Volontè, che è uomo intelligente e che stimo, sarebbero la stessa cosa. In base a questo ragionamento il medico che accetta di togliere il respiratore a Welby è come la corte di Bagdad che decide di impiccare un uomo. Se l’embrione è una persona, allora utilizzare l’embrione è assassinio. Non parliamo poi dell’aborto. Ma possibile che i diritti dell’uomo non vengano mai tenuti presenti e così, in primis, la sua volontà? Ricordiamoci che la rivoluzione francese ha declamato “Liberté, égalité, fraternité” e non Volontè.(Il corsivo è mio. Non so aggiungere altro, sono ammutolita. E lo stordimento è reso più grave da quella premessa.)
On. Mauro Del Bue
15 anni di violenza terapeutica
A parlare è il padre di Eluana Englaro, in coma da quindici anni e tenuta in vita da un sondino che la idrata e la alimenta.
Beppino Englaro chiede da altrettanti anni che sia rispettato il desiderio della figlia: di non essere tenuta in vita in queste condizioni, desiderio espresso dalla ragazza un anno prima del suo drammatico incidente.
Ma finora gli è stata negata la possibilità di tagliare quel filo sottile che mantiene ancora in vita Eluana. Una vita esclusivamente corporea, biologica.
Come lo stesso Beppino dice, Eluana non c’è più da quella notte del 18 gennaio 1992.
Il video.
Beppino Englaro chiede da altrettanti anni che sia rispettato il desiderio della figlia: di non essere tenuta in vita in queste condizioni, desiderio espresso dalla ragazza un anno prima del suo drammatico incidente.
Ma finora gli è stata negata la possibilità di tagliare quel filo sottile che mantiene ancora in vita Eluana. Una vita esclusivamente corporea, biologica.
Come lo stesso Beppino dice, Eluana non c’è più da quella notte del 18 gennaio 1992.
Il video.
Welby, una vicenda personale
Anna Serafini («All’integralismo non si risponde col laicismo», Il Riformista, 28 dicembre 2006):
E ancora:
Quanto al muro che ci sarebbe tra eutanasia e accanimento terapeutico, di grazia, da dove origina tale sicurezza? E perché non tentare qualche dimostrazione di quanto si sostiene?
Vanno benissimo, poi, le direttive anticipate, che siano benvenute. Ma mi sfugge qualcosa, lo sento. E credo sia un atroce dubbio temporale. Se posso dichiarare anticipatamente la mia volontà (dichiaro oggi: non voglio il trattamento x domani), posso anche dichiarare attualmente la mia volontà (dichiaro oggi: non voglio il trattamento x oggi)? Se concordiamo nel rispondere “sì”, allora tenetevi la vostra pietà. A Welby bastava la risposta affermativa alla domanda suddetta.
Le parole di Welby andavano ascoltate, ma non mi piace il risvolto politico e ideologico che ha preso questa vicenda personale. Quello che prevale in me è un sentimento di umana pietà.E dopo averle ascoltate, gentile signora, che cosa si sarebbe dovuto fare? Girarsi dall’altra parte e proseguire la propria vita? Magari lesinando un po’ di pietà, quella non si nega a nessuno. Ci risiamo: pietà (pietismo), e poi l’immobilità di un silenzio codino. “Ho pietà di te, questo ti basta?”. D’altra parte cosa si pretenderebbe, un diritto? Un rispetto? Suvvia. Che ti basti la pietà, Welby, accontentati.
E ancora:
Il confine tra eutanasia e accanimento terapeutico può esser labile, ma invece è forte. Abbiamo bisogno di una legge che consenta a ciascuno di dichiarare anticipatamente la propria volontà di non essere più curato quando non sussiste alcuna possibilità di recupero.Sul confine forte non vi è dubbio. Ma è il confine che esiste tra accanimento terapeutico e terapia, e chiamasi libertà individuale: è il paziente (la persona, il cittadino) a stabilire se un determinato trattamento è una terapia adeguata o eccessiva.
Quanto al muro che ci sarebbe tra eutanasia e accanimento terapeutico, di grazia, da dove origina tale sicurezza? E perché non tentare qualche dimostrazione di quanto si sostiene?
Vanno benissimo, poi, le direttive anticipate, che siano benvenute. Ma mi sfugge qualcosa, lo sento. E credo sia un atroce dubbio temporale. Se posso dichiarare anticipatamente la mia volontà (dichiaro oggi: non voglio il trattamento x domani), posso anche dichiarare attualmente la mia volontà (dichiaro oggi: non voglio il trattamento x oggi)? Se concordiamo nel rispondere “sì”, allora tenetevi la vostra pietà. A Welby bastava la risposta affermativa alla domanda suddetta.
Eutanasia di un tiranno
Anche la condanna a morte di Saddam Hussein offre l’occasione per parlare di Piergiorgio Welby. Anche Magdi Allam (L’Italia unita per la vita di Saddam, Il Corriere della Sera, 29 dicembre 2006) si addentra nei meandri etici e nell’oscurità dell’animo umano.
Non voglio pronunciami sulla condanna a morte, non l’ho fatto finora per varie ragioni e non lo farò ora.
Ma sulle considerazioni di Allam.
Amara e verosimile quella iniziale: Saddam Hussein ha raccolto intorno a sé l’Italia quasi al completo, come una vecchia nonna circondata dai nipotini (“una rara opportunità, visto che i mondiali di calcio saranno tra 4 anni, di rinsaldare l’unità nazionale”). Continua Allam: “Non si era mai visto un fronte così ampio e compatto di italiani a difesa della sacralità della vita di Saddam”. La condanna della condanna a morte (mi perdonerete il pasticcio) di Hussein non è motivata dalla sacralità della vita, almeno non nella maggioranza dei casi. Ci sarà pure qualcuno che ricicla l’arma brandita in altre circostanze (legge 40, aborto, sperimentazione embrionale) nel caso di Hussein, ma non è senza dubbio la ragione principale. La pena di morte (e non la pena di morte per Saddam Hussein) è considerata una ‘soluzione’ inammissibile moralmente, una contraddizione rispetto all’intento riabilitativo e rieducativo dell’incarcerazione, oltre che un deterrente inutile.
Gli esempi che poi elenca Magdi Allam per dimostrare l’assurdità della difesa (esclusivamente indirizzata) al dittatore sono indubbiamente agghiaccianti, ma non centrano il bersaglio. Sono argomenti emotivi (e che senza dubbio colpiscono allo stomaco) ma non razionali, non pertinenti.
Perché difendere Hussein e non difendere le vittime predestinate dei burattinai del terrore? Perché non c’è stata nessuna manifestazione in occasione dell’assurda condanna dei 6 della Libia? Perché non ci si scompone quando “il regime saudita o quello iraniano che regolarmente danno in pasto alla loro gente lo spettacolo pubblico della decapitazione o impiccagione dei trasgressori della morale islamica?”.
Domande scomode e drammatiche, ma fuori tema. È un po’ come quando la maestra ci beccava a copiare e ci annullava il compito in classe, e la nostra difesa prendeva le sembianze di una rivendicazione che voleva cancellare la nostra responsabilità, a metà tra giustiziere e vittima: “ma anche lui copiava!”.
Ma l’analogia più sballata deve ancora arrivare e ha dell’incredibile, per fare uso di uno splendido eufemismo.
Poi forse, potrebbe continuare Allam, non mi sono informato a fondo sulle condizioni di Welby (che significa vitale, perché avrò scelto questo aggettivo? Sì certo, Welby è vivo, ma ha spiegato in modo semplice e inequivocabile la differenza tra vita biologica e vita intesa pienamente, tra sopravvivenza e vita, tra tortura e sofferenza). Infine, dovrebbe riflettere Allam, forse ho esagerato a parlare di sacrificio, mi sono lasciato prendere la mano. Ho giocato troppo con le parole: già sostenere che Welby sia stato strumentalizzato per affermare un diritto è discutibile, ma il sacrificio è davvero troppo.
Come è troppo l’eutanasia forzata: è già abbastanza confusa e sporcata la discussione sull’eutanasia, perché aggiungere altro fango? Eutanasia forzata. Certo suona bene (suonerà bene ma che c’entra?). E poi richiama la morte pietosa del nazionalsocialismo, fa proprio una bella figura in chiusura del mio articolo.
(Osceno, tutto questo è osceno – non mi servono altre parole).
Non voglio pronunciami sulla condanna a morte, non l’ho fatto finora per varie ragioni e non lo farò ora.
Ma sulle considerazioni di Allam.
Amara e verosimile quella iniziale: Saddam Hussein ha raccolto intorno a sé l’Italia quasi al completo, come una vecchia nonna circondata dai nipotini (“una rara opportunità, visto che i mondiali di calcio saranno tra 4 anni, di rinsaldare l’unità nazionale”). Continua Allam: “Non si era mai visto un fronte così ampio e compatto di italiani a difesa della sacralità della vita di Saddam”. La condanna della condanna a morte (mi perdonerete il pasticcio) di Hussein non è motivata dalla sacralità della vita, almeno non nella maggioranza dei casi. Ci sarà pure qualcuno che ricicla l’arma brandita in altre circostanze (legge 40, aborto, sperimentazione embrionale) nel caso di Hussein, ma non è senza dubbio la ragione principale. La pena di morte (e non la pena di morte per Saddam Hussein) è considerata una ‘soluzione’ inammissibile moralmente, una contraddizione rispetto all’intento riabilitativo e rieducativo dell’incarcerazione, oltre che un deterrente inutile.
Gli esempi che poi elenca Magdi Allam per dimostrare l’assurdità della difesa (esclusivamente indirizzata) al dittatore sono indubbiamente agghiaccianti, ma non centrano il bersaglio. Sono argomenti emotivi (e che senza dubbio colpiscono allo stomaco) ma non razionali, non pertinenti.
Perché difendere Hussein e non difendere le vittime predestinate dei burattinai del terrore? Perché non c’è stata nessuna manifestazione in occasione dell’assurda condanna dei 6 della Libia? Perché non ci si scompone quando “il regime saudita o quello iraniano che regolarmente danno in pasto alla loro gente lo spettacolo pubblico della decapitazione o impiccagione dei trasgressori della morale islamica?”.
Domande scomode e drammatiche, ma fuori tema. È un po’ come quando la maestra ci beccava a copiare e ci annullava il compito in classe, e la nostra difesa prendeva le sembianze di una rivendicazione che voleva cancellare la nostra responsabilità, a metà tra giustiziere e vittima: “ma anche lui copiava!”.
Ma l’analogia più sballata deve ancora arrivare e ha dell’incredibile, per fare uso di uno splendido eufemismo.
Se così fosse, come mai — passando in ambito strettamente etico — il valore supremo della sacralità della vita dovrebbe valere nel caso di Saddam, mentre viene violato nel caso di Piergiorgio Welby? Come è possibile che coloro che hanno immaginato che l’esistenza di una persona più che vitale potesse essere sacrificata per accreditare il diritto all’eutanasia, siano gli stessi che ora difendono il diritto alla vita di un tiranno che per 35 anni ha esercitato l’eutanasia forzata nei confronti di un milione di iracheni?Welby e Hussein: a questo ancora non ci eravamo arrivati. Forse Allam si sarebbe potuto rispondere da solo. E la prima risposta sarebbe stata: beh, certo, una prima forse insignificante differenza si chiama volontà o libertà personale o autodeterminazione (Saddam non vuole morire e addirittura si dichiara un martire, Welby voleva morire). Un desiderio individuale contro una imposizione di Stato.
Poi forse, potrebbe continuare Allam, non mi sono informato a fondo sulle condizioni di Welby (che significa vitale, perché avrò scelto questo aggettivo? Sì certo, Welby è vivo, ma ha spiegato in modo semplice e inequivocabile la differenza tra vita biologica e vita intesa pienamente, tra sopravvivenza e vita, tra tortura e sofferenza). Infine, dovrebbe riflettere Allam, forse ho esagerato a parlare di sacrificio, mi sono lasciato prendere la mano. Ho giocato troppo con le parole: già sostenere che Welby sia stato strumentalizzato per affermare un diritto è discutibile, ma il sacrificio è davvero troppo.
Come è troppo l’eutanasia forzata: è già abbastanza confusa e sporcata la discussione sull’eutanasia, perché aggiungere altro fango? Eutanasia forzata. Certo suona bene (suonerà bene ma che c’entra?). E poi richiama la morte pietosa del nazionalsocialismo, fa proprio una bella figura in chiusura del mio articolo.
(Osceno, tutto questo è osceno – non mi servono altre parole).
giovedì 28 dicembre 2006
Effetti climatici
Welby: comune Aosta, parlamento legiferi presto su eutanasia (Ansa, 28 dicembre 2006):
“Il Parlamento italiano affronti al più presto la tematica dell’eutanasia”. L’appello è contenuto in una mozione di indirizzo approvata oggi a maggioranza dal Consiglio comunale di Aosta.È proprio vero, il freddo ha effetti benefici sul sistema nervoso centrale.
Secondo il documento consiliare, che ha ottenuto quindici voti favorevoli, sette astensioni e il voto contrario del consigliere della Stella Alpina, il medico Giuseppe D’Alessandro, “la legislazione attuale – si legge nel testo consiliare – per la volontà di non legiferare in materia di eutanasia di fatto delega alla classe medica e a quella giudiziaria la regolamentazione, in base a diverse casistiche, del delicato crinale che divide cura medica e accanimento terapeutico, rendendo impossibile al paziente terminale di scegliere in libertà e coscienza il suo destino”.
Per questo motivo, secondo il Consiglio comunale del capoluogo regionale “non è più rinviabile la necessità di affrontare questo nodo, che non è solo un nodo politico, ma soprattutto etico e morale”.
Digestivo per elefanti
Gli alberi di Natale invenduti (quelli veri, non quelli di plastica) sono lo spuntino per questi due elefanti (Sara, a sinistra, e Dzomba). Da vent’anni questa tradizione si ripete allo zoo di Rostock, in Germania. Pare che i pachidermi apprezzino molto i giovani abeti, che fanno bene alla loro digestione.
Mi raccomando, però, non lo dite a Luca Volontè, perché altrimenti potrebbe prendersela a male. Addirittura mangiare un simbolo natalizio...
Mi raccomando, però, non lo dite a Luca Volontè, perché altrimenti potrebbe prendersela a male. Addirittura mangiare un simbolo natalizio...
L’abito fa il poliziotto
Era stato espulso perché si vestiva da donna (fuori dagli orari di servizio) e il suo ricorso al Tar è stato respinto con la motivazione: assoluta mancanza del senso dell’onore e della morale, comportamento oltremodo riprovevole e assolutamente inconciliabile con le funzioni proprie di un operatore di polizia.
Amante di minigonne e orecchini, X era un vice sovrintendente della Polizia postale di Venezia.
A sua difesa l’agente aveva sostenuto che la scelta degli abiti femminili altro non era che una “libera espressione della propria natura estrosa e anticonformista” – e dal momento che la suddetta libera espressione avveniva fuori dall’orario di lavoro... (sarebbe come licenziare un insegnante di italiano perché la notte sbaglia i congiuntivi).
Ma è solo adesso che viene il bello (la responsabilità non saprei a chi va attribuita, se al cronista, al Tar o a chissà chi): a conferma della opportunità del licenziamento si aggiunge che “Nel passato però il funzionario era stato sanzionato per aver puntato la pistola d’ordinanza contro una persona per risolvere una questione personale. E inoltre i suoi vicini di casa avevano protestato per la sua abitudine di lavare d’estate l’auto nel giardino condominiale in costume da bagno, e talvolta denudandosi” (Cacciato da polizia perché si veste da donna, Il Corriere della Sera, 28 dicembre 2006).
Sembrerebbe che puntare la pistola in faccia a qualcuno sia altrettanto grave di lavare la propria auto nel giardino condominiale (non parliamo nemmeno dell’eventualità che ciò avvenga in abiti succinti o senza abiti). Perché diavolo è stato espulso, per intemperanza da rivoltella o per gusti vestiari poco convenzionali?
Amante di minigonne e orecchini, X era un vice sovrintendente della Polizia postale di Venezia.
A sua difesa l’agente aveva sostenuto che la scelta degli abiti femminili altro non era che una “libera espressione della propria natura estrosa e anticonformista” – e dal momento che la suddetta libera espressione avveniva fuori dall’orario di lavoro... (sarebbe come licenziare un insegnante di italiano perché la notte sbaglia i congiuntivi).
Ma è solo adesso che viene il bello (la responsabilità non saprei a chi va attribuita, se al cronista, al Tar o a chissà chi): a conferma della opportunità del licenziamento si aggiunge che “Nel passato però il funzionario era stato sanzionato per aver puntato la pistola d’ordinanza contro una persona per risolvere una questione personale. E inoltre i suoi vicini di casa avevano protestato per la sua abitudine di lavare d’estate l’auto nel giardino condominiale in costume da bagno, e talvolta denudandosi” (Cacciato da polizia perché si veste da donna, Il Corriere della Sera, 28 dicembre 2006).
Sembrerebbe che puntare la pistola in faccia a qualcuno sia altrettanto grave di lavare la propria auto nel giardino condominiale (non parliamo nemmeno dell’eventualità che ciò avvenga in abiti succinti o senza abiti). Perché diavolo è stato espulso, per intemperanza da rivoltella o per gusti vestiari poco convenzionali?
Un problema di diritto canonico
Dal Codice di diritto canonico, canone 1184:
§1. Se prima della morte non diedero alcun segno di pentimento, devono essere privati delle esequie ecclesiastiche: 1) quelli che sono notoriamente apostati, eretici, scismatici; 2) coloro che scelsero la cremazione del proprio corpo per ragioni contrarie alla fede cristiana; 3) gli altri peccatori manifesti, ai quali non è possibile concedere le esequie senza pubblico scandalo dei fedeli.Ma Piergiorgio Welby in quale delle tre categorie rientrava, esattamente?
§2. Presentandosi qualche dubbio, si consulti l’Ordinario del luogo, al cui giudizio bisogna stare.
Misericordia divina
Romano Prodi (Welby: Prodi, contrario ad eutanasia ed accanimento, laRepubblica.it, 28 dicembre 2006):
“Sono contrario all’eutanasia, ma anche all’accanimento terapeutico che diventa in molti casi una forma di angoscia. […] Credo che il dolore umano vada rispettato, non strumentalizzato. […] Non è un problema legislativo questo ma di delicatezza, di costume”. Il premier ha invitato i giornalisti a trattare queste questioni con “delicatezza”, perché “questi casi saranno sempre più frequenti nel nostro paese”. Prodi ha sottolineato di non voler “entrare nel merito delle scelte dell’autorità ecclesiastica” riguardo ai funerali religiosi per Welby. Ma, ha concluso, “credo molto nella grandezza e nella misericordia di Dio”.Parole che riempiono un vuoto davvero necessario. Che chiariscono concetti ambigui e che riempiono il cuore di rassicurazione e fiducia verso il destino dello Stato (laico) e di quanti rischiano di vivere sulla propria pelle (i casi frequenti) gravi malattie. Coraggio, la misericordia di Dio è infinita.
Socci e la storia
Se Gesù non fosse nato non esisterebbero i “diritti dell’uomo”. Né la democrazia (ripeto: la democrazia e la libertà sarebbero stati inconcepibili).(Antonio Socci, «E se Gesù non fosse venuto?», Libero, 26 dicembre 2006.)
Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini, in quanto noi siamo più d’esempio ad altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo che i dirittti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia: di fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta un piano di parità, mentre per quanto riguarda la considerazione pubblica nell’amministrazione dello Stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere in un determinato campo, non per la provenienza da una classe sociale più che per quello che vale. E per quanto riguarda la povertà, se uno può fare qualcosa di buono alla città, non ne è impedito dall’oscurità del suo rango sociale.(Pericle, Epitaffio per i caduti di Cefallenia, in Tucidide, Storie 2,37,1, trad. di Claudio Moreschini, Torino, Boringhieri, 1963.)
And if all others accepted the lie which the Party imposed – if all records told the same tale – then the lie passed into history and became truth. “Who controls the past”, ran the Party slogan, “controls the future: who controls the present controls the past”. And yet the past, though of its nature alterable, never had been altered. Whatever was true now was true from everlasting to everlasting. It was quite simple. All that was needed was an unending series of victories over your own memory. “Reality control”, they called it: in Newspeak, “doublethink”.(George Orwell, Nineteen eighty-four, a novel, London, Secker & Warburg, 1949.)
mercoledì 27 dicembre 2006
In memoria di Piergiorgio Welby, di Carlo Alberto Defanti
Riceviamo e pubblichiamo molto volentieri un articolo in memoria di Piergiorgio Welby di Carlo Alberto Defanti, Primario neurologo emerito, A.O. Niguarda Ca’ Granda, Milano. In memoria dell’uomo Welby e in memoria della sua battaglia.
L’occasione è imperdibile per fare chiarezza su alcuni abusi (consapevoli o compiuti per superficialità) su parole e concetti che ci hanno assordato in queste lunghe settimane.
Per facilitare la lettura abbiamo postato ciascun paragrafo separatamente.
1. In memoria di Piergiorgio Welby
2. Qual era la situazione di Welby?
3. L’accanimento terapeutico
4. Le cure palliative
5. L’eutanasia
6. Il testamento biologico
7. Che fare in memoria di Welby?
L’occasione è imperdibile per fare chiarezza su alcuni abusi (consapevoli o compiuti per superficialità) su parole e concetti che ci hanno assordato in queste lunghe settimane.
Per facilitare la lettura abbiamo postato ciascun paragrafo separatamente.
1. In memoria di Piergiorgio Welby
2. Qual era la situazione di Welby?
3. L’accanimento terapeutico
4. Le cure palliative
5. L’eutanasia
6. Il testamento biologico
7. Che fare in memoria di Welby?
1. In memoria di Piergiorgio Welby
Quasi tre mesi sono trascorsi da quando Piergiorgio Welby ha chiesto apertamente di essere lasciato morire, rinunciando alla ventilazione artificiale che lo teneva in vita dal 1997 e solo ieri notte (scrivo nella serata di giovedì 21 dicembre) è riuscito ad ottenerlo. Sono stati davvero lunghi e angosciosi per tutti: per Welby, per i suoi cari, per i suoi amici e per il pubblico che ha seguito la sua vicenda. Tra coloro che non lo conoscevano e non avevano legami con lui, io sono stato profondamente toccato dalla sua storia e dalla sua battaglia e mi sembra di qualche interesse spiegare perché.
Il mio mestiere di neurologo, da molti anni quotidianamente a contatto con malati affetti da patologie degenerative croniche del sistema nervoso, mi ha messo non di rado di fronte a casi come il suo e ha fatto nascere in me già dal finire degli anni ’80 il bisogno di capire gli aspetti etici della cura di questi pazienti e la consapevolezza di dovermi comportare nei loro riguardi nel modo più consono alla loro condizione e alla loro concezione di vita.
La lunga riflessione su questi temi e lo sforzo di agire nel modo più appropriato mi ha fatto sembrare assurdi e cacofonici molti pareri che anche persone autorevoli hanno espresso sul caso. Termini come eutanasia, accanimento terapeutico, cure palliative e testamento biologico sono stati impiegati per lo più a sproposito. Tutto sommato, malgrado la loro inconcludenza, le pronunce della magistratura sono state più pertinenti, in quanto hanno almeno riconosciuto il punto fondamentale, cioè il diritto di Welby (e di qualsiasi cittadino) di rinunciare a qualsiasi trattamento sanitario (anche se salvavita).
C’è voluto il coraggio di un uomo di buona volontà, Mario Riccio, per dare a Welby la sola risposta che egli si attendeva e che gli era dovuta. Certo il clamore destato dalla sua decisione di affrontare apertamente e di gettare nella pubblica arena il suo caso ha reso il compito dei medici molto difficile. Sapendo di esporsi al rischio di incriminazione per omicidio e al pubblico ludibrio di una parte almeno degli organi di stampa e dell’opinione pubblica, coloro che in passato si erano trovati di fronte a casi analoghi, a partire da me stesso, non se la sono sentiti di offrirsi di aiutarlo. Lo ha fatto un anestesista-rianimatore che possedeva le conoscenze e l’esperienza per praticare la doverosa sedazione terminale. Mario Riccio ha sentito così fortemente il dovere di aiutare un malato in grave difficoltà da proporsi a lui (attraverso l’Associazione di cui Welby era presidente) per puro spirito di servizio, lasciando da parte tutte le considerazioni e le paure che hanno frenato gli altri medici che pur condividevano le sue idee. La purezza delle sue motivazioni è così evidente che tutte le persone ragionevoli sperano che la magistratura non decida di incriminarlo.
Il mio mestiere di neurologo, da molti anni quotidianamente a contatto con malati affetti da patologie degenerative croniche del sistema nervoso, mi ha messo non di rado di fronte a casi come il suo e ha fatto nascere in me già dal finire degli anni ’80 il bisogno di capire gli aspetti etici della cura di questi pazienti e la consapevolezza di dovermi comportare nei loro riguardi nel modo più consono alla loro condizione e alla loro concezione di vita.
La lunga riflessione su questi temi e lo sforzo di agire nel modo più appropriato mi ha fatto sembrare assurdi e cacofonici molti pareri che anche persone autorevoli hanno espresso sul caso. Termini come eutanasia, accanimento terapeutico, cure palliative e testamento biologico sono stati impiegati per lo più a sproposito. Tutto sommato, malgrado la loro inconcludenza, le pronunce della magistratura sono state più pertinenti, in quanto hanno almeno riconosciuto il punto fondamentale, cioè il diritto di Welby (e di qualsiasi cittadino) di rinunciare a qualsiasi trattamento sanitario (anche se salvavita).
C’è voluto il coraggio di un uomo di buona volontà, Mario Riccio, per dare a Welby la sola risposta che egli si attendeva e che gli era dovuta. Certo il clamore destato dalla sua decisione di affrontare apertamente e di gettare nella pubblica arena il suo caso ha reso il compito dei medici molto difficile. Sapendo di esporsi al rischio di incriminazione per omicidio e al pubblico ludibrio di una parte almeno degli organi di stampa e dell’opinione pubblica, coloro che in passato si erano trovati di fronte a casi analoghi, a partire da me stesso, non se la sono sentiti di offrirsi di aiutarlo. Lo ha fatto un anestesista-rianimatore che possedeva le conoscenze e l’esperienza per praticare la doverosa sedazione terminale. Mario Riccio ha sentito così fortemente il dovere di aiutare un malato in grave difficoltà da proporsi a lui (attraverso l’Associazione di cui Welby era presidente) per puro spirito di servizio, lasciando da parte tutte le considerazioni e le paure che hanno frenato gli altri medici che pur condividevano le sue idee. La purezza delle sue motivazioni è così evidente che tutte le persone ragionevoli sperano che la magistratura non decida di incriminarlo.
2. Qual era la situazione di Welby?
Abbiamo un debito verso Piergiorgio Welby, è nostra responsabilità trovare risposte alle sue domande e a quelle di tutti coloro che si trovano alla fine della loro vita e non rinunciano a decidere per sé, al fine da aprire per loro una strada meno tormentata. Per far questo, in via preliminare è necessario fare un tentativo di dipanare la complicata matassa di questa vicenda, individuandone i fili conduttori.
Riassumo: Piero Welby era stato colpito nella terza decade di vita da una distrofia muscolare che nel tempo l’ha portato alla quasi completa immobilità e, nove anni fa, all’insufficienza respiratoria. Prima di quel momento, conoscendo quanto sarebbe accaduto, egli aveva chiesto di non essere sottoposto alla tracheotomia e alla ventilazione assistita quando fossero iniziate le difficoltà respiratorie; ciononostante – come spesso accade e per amore verso di lui – al momento in cui le difficoltà si manifestarono (e accadde in modo abbastanza improvviso) la moglie lo condusse in Ospedale, dove l’intubazione e poi la tracheotomia furono praticate in emergenza, sostanzialmente contro il suo parere. Si tratta purtroppo di una situazione quanto mai frequente nel nostro Paese, anche perché le volontà precedentemente espresse non erano, come del resto ancora non sono, sufficientemente tutelate (le sole norme oggi esistenti in proposito, la Convenzione di Oviedo e il Codice deontologico dell’Ordine dei Medici sono state emanate rispettivamente nel 1997 e nel 1998). Ciononostante Welby era riuscito a farsi una ragione della sua nuova, non voluta situazione ed era riuscito non solo a vivere, ma anche ad essere attivo, conducendo importanti battaglie politiche, dapprima per consentire il diritto di voto ai cittadini con grave disabilità e da ultimo, quando il processo patologico gli stava togliendo ogni residua capacità e minacciando anche la sua possibilità di comunicare con gli altri, per il diritto a rinunciare a terapie non volute.
Se gettiamo uno sguardo d’insieme sulla sua storia, vediamo facilmente quel che è accaduto: la malattia muscolare cronica di cui egli soffriva sin dalla gioventù era entrata, già nel 1997, nella sua fase terminale e in altri tempi l’avrebbe portato a morte in pochi giorni. Il processo del morire era stato invece interrotto dalla decisione, presa dai medici, di praticate la tracheotomia e la ventilazione artificiale. La successiva decisione del malato di rinunciare a questo ausilio, presa a distanza di anni e dopo lunga e matura esperienza e riflessione – una volta messa in opera – non ha fatto che consentire a quel processo di concludersi. In teoria il malato stesso avrebbe potuto spegnere il ventilatore, per esempio con un semplice dispositivo elettromeccanico, ma in questo modo sarebbe andato incontro ad una terribile morte per soffocamento. Il ruolo del medico a questo punto è stato molto semplice: egli ha praticato la cosiddetta sedazione palliativa, vale a dire ha sedato il paziente togliendogli la coscienza, in modo da impedire che provasse la sensazione del soffocamento. Di per sé la sedazione non ha accelerato la morte del paziente, che – proseguendo la ventilazione meccanica – avrebbe potuto sopravvivere per molti giorni privo di coscienza; la morte è avvenuta in seguito all’insufficienza respiratoria. Quanto allo spegnimento del ventilatore, esso avrebbe potuto essere eseguito da altri, non necessariamente dal medico, ma questi ha ritenuto di assumersene l’intera responsabilità. Il dottor Riccio ha agito secondo quanto viene proposto in documenti pubblici di molte Società scientifiche, fra cui cito il recentissimo documento della Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva, SIAARTI (SIAARTI, Commissione di Bioetica, Le cure di fine vita e l’anestesista-rianimatore. Raccomandazioni SIIAARTI per l’approccio al malato morente, dicembre 2006) e il documento del Gruppo di Studio di Bioetica e Cure palliative della Società Italiana di Neurologia del 2005 (Bonito V. et al., The clinical and ethical appropriateness of sedation in palliative neurological treatments, “Neurol. Sci.”, 2005; 26:370-385).
Sembra evidente che si è trattato di un limpido caso di legittima rinuncia di un malato ad una terapia che nel tempo era divenuta per lui troppo gravosa. La situazione è del tutto analoga, sul piano morale e giuridico, a quella di un malato sottoposto da anni a dialisi e che, per stanchezza o altri motivi, decida di rinunciarvi (ciò che si verifica sempre più spesso anche nel nostro Paese). Le differenze sono soltanto di ordine tecnico: fra l’arresto della dialisi e la morte trascorrono due-tre settimane, mentre la sospensione della ventilazione provoca la morte quasi immediatamente; inoltre nell’arresto di dialisi un trattamento palliativo non è altrettanto indispensabile che nel caso della ventilazione.
In sintesi possiamo dire che la vita di Welby è stata allungata di ben nove anni da una tecnologia medica (da lui non richiesta, ma poi accettata) e che ora è terminata quando egli ha ritenuto che i mezzi di sostegno vitale gli imponessero “un onere straordinario [per se stesso o per gli altri]” (Pio XII, Discorsi ai medici, Orizzonte Medico, Roma 1959) cui non era più tenuto. Non è chi non veda come una tale situazione differisce profondamente da quella dell’eutanasia, atto mediante il quale un malato chiede al suo medico di interrompere attivamente la sua vita (su questo tornerò più avanti). Il processo del morire viene in quel caso abbreviato, mentre nel caso di Welby è stato interrotto e in certo modo “congelato”, per essere poi riavviato ad anni di distanza.
Forse qualcuno pensa che non sia lecito rinunciare a tutte le possibilità di prolungamento vitale che la tecnologia medica ci offre. Se fosse così, sarebbe stato in fallo anche Papa Wojtyla quando rinunciò a un nuovo ricovero al “Gemelli”, come di recente ha confermato il cardinale Barragan. Ora è proprio in questa convinzione che si radica il cosiddetto “accanimento terapeutico”, che così spesso viene nominato, a proposito e non, che tutti deprecano e, ahimé!, molti praticano largamente.
Riassumo: Piero Welby era stato colpito nella terza decade di vita da una distrofia muscolare che nel tempo l’ha portato alla quasi completa immobilità e, nove anni fa, all’insufficienza respiratoria. Prima di quel momento, conoscendo quanto sarebbe accaduto, egli aveva chiesto di non essere sottoposto alla tracheotomia e alla ventilazione assistita quando fossero iniziate le difficoltà respiratorie; ciononostante – come spesso accade e per amore verso di lui – al momento in cui le difficoltà si manifestarono (e accadde in modo abbastanza improvviso) la moglie lo condusse in Ospedale, dove l’intubazione e poi la tracheotomia furono praticate in emergenza, sostanzialmente contro il suo parere. Si tratta purtroppo di una situazione quanto mai frequente nel nostro Paese, anche perché le volontà precedentemente espresse non erano, come del resto ancora non sono, sufficientemente tutelate (le sole norme oggi esistenti in proposito, la Convenzione di Oviedo e il Codice deontologico dell’Ordine dei Medici sono state emanate rispettivamente nel 1997 e nel 1998). Ciononostante Welby era riuscito a farsi una ragione della sua nuova, non voluta situazione ed era riuscito non solo a vivere, ma anche ad essere attivo, conducendo importanti battaglie politiche, dapprima per consentire il diritto di voto ai cittadini con grave disabilità e da ultimo, quando il processo patologico gli stava togliendo ogni residua capacità e minacciando anche la sua possibilità di comunicare con gli altri, per il diritto a rinunciare a terapie non volute.
Se gettiamo uno sguardo d’insieme sulla sua storia, vediamo facilmente quel che è accaduto: la malattia muscolare cronica di cui egli soffriva sin dalla gioventù era entrata, già nel 1997, nella sua fase terminale e in altri tempi l’avrebbe portato a morte in pochi giorni. Il processo del morire era stato invece interrotto dalla decisione, presa dai medici, di praticate la tracheotomia e la ventilazione artificiale. La successiva decisione del malato di rinunciare a questo ausilio, presa a distanza di anni e dopo lunga e matura esperienza e riflessione – una volta messa in opera – non ha fatto che consentire a quel processo di concludersi. In teoria il malato stesso avrebbe potuto spegnere il ventilatore, per esempio con un semplice dispositivo elettromeccanico, ma in questo modo sarebbe andato incontro ad una terribile morte per soffocamento. Il ruolo del medico a questo punto è stato molto semplice: egli ha praticato la cosiddetta sedazione palliativa, vale a dire ha sedato il paziente togliendogli la coscienza, in modo da impedire che provasse la sensazione del soffocamento. Di per sé la sedazione non ha accelerato la morte del paziente, che – proseguendo la ventilazione meccanica – avrebbe potuto sopravvivere per molti giorni privo di coscienza; la morte è avvenuta in seguito all’insufficienza respiratoria. Quanto allo spegnimento del ventilatore, esso avrebbe potuto essere eseguito da altri, non necessariamente dal medico, ma questi ha ritenuto di assumersene l’intera responsabilità. Il dottor Riccio ha agito secondo quanto viene proposto in documenti pubblici di molte Società scientifiche, fra cui cito il recentissimo documento della Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva, SIAARTI (SIAARTI, Commissione di Bioetica, Le cure di fine vita e l’anestesista-rianimatore. Raccomandazioni SIIAARTI per l’approccio al malato morente, dicembre 2006) e il documento del Gruppo di Studio di Bioetica e Cure palliative della Società Italiana di Neurologia del 2005 (Bonito V. et al., The clinical and ethical appropriateness of sedation in palliative neurological treatments, “Neurol. Sci.”, 2005; 26:370-385).
Sembra evidente che si è trattato di un limpido caso di legittima rinuncia di un malato ad una terapia che nel tempo era divenuta per lui troppo gravosa. La situazione è del tutto analoga, sul piano morale e giuridico, a quella di un malato sottoposto da anni a dialisi e che, per stanchezza o altri motivi, decida di rinunciarvi (ciò che si verifica sempre più spesso anche nel nostro Paese). Le differenze sono soltanto di ordine tecnico: fra l’arresto della dialisi e la morte trascorrono due-tre settimane, mentre la sospensione della ventilazione provoca la morte quasi immediatamente; inoltre nell’arresto di dialisi un trattamento palliativo non è altrettanto indispensabile che nel caso della ventilazione.
In sintesi possiamo dire che la vita di Welby è stata allungata di ben nove anni da una tecnologia medica (da lui non richiesta, ma poi accettata) e che ora è terminata quando egli ha ritenuto che i mezzi di sostegno vitale gli imponessero “un onere straordinario [per se stesso o per gli altri]” (Pio XII, Discorsi ai medici, Orizzonte Medico, Roma 1959) cui non era più tenuto. Non è chi non veda come una tale situazione differisce profondamente da quella dell’eutanasia, atto mediante il quale un malato chiede al suo medico di interrompere attivamente la sua vita (su questo tornerò più avanti). Il processo del morire viene in quel caso abbreviato, mentre nel caso di Welby è stato interrotto e in certo modo “congelato”, per essere poi riavviato ad anni di distanza.
Forse qualcuno pensa che non sia lecito rinunciare a tutte le possibilità di prolungamento vitale che la tecnologia medica ci offre. Se fosse così, sarebbe stato in fallo anche Papa Wojtyla quando rinunciò a un nuovo ricovero al “Gemelli”, come di recente ha confermato il cardinale Barragan. Ora è proprio in questa convinzione che si radica il cosiddetto “accanimento terapeutico”, che così spesso viene nominato, a proposito e non, che tutti deprecano e, ahimé!, molti praticano largamente.
3. L’accanimento terapeutico
Su questo punto mi sembra importante far chiarezza. Comincio col far notare una cosa poco nota: il termine di accanimento terapeutico (AT) si incontra soltanto nella letteratura dei Paesi neolatini, e lo si cercherebbe invano nella letteratura bioetica di lingua inglese. L’espressione combina un aggettivo (“terapeutico”), che indica un’attività intenzionata a produrre un beneficio per un malato, e un sostantivo (“accanimento”) che ha il suo etimo nell’ira ostinata dei cani e che in via metaforica è passato a significare cocciutaggine, ostinazione, furia ed altro ancora. È insita in “accanimento” una connotazione negativa che contrasta singolarmente con quella neutra o positiva dell’aggettivo. Il successo dell’espressione in Italia è dovuto probabilmente proprio alla sua prevalente connotazione negativa in forza della quale tutti lo condannano e che si presta a facili slogan come “Né eutanasia, né accanimento terapeutico”, senza peraltro che sia emersa una definizione operativa condivisa. Il contesto in cui si suole parlare di AT è quello dei malati con prognosi infausta a breve termine. L’espressione sembra indicare in modo vago qualcosa come “un trattamento non indicato oppure non proporzionato, oppure non suscettibile di dare un beneficio”.
Vi sono stati diversi tentativi di definizione. In un documento del Comitato Nazionale per la Bioetica (Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana, Roma 1996) si legge: “Trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulti chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica”. In questa definizione sono presenti tre elementi principali : 1) la documentata inefficacia e quindi l’inutilità (o, nei termini della letteratura bioetica anglosassone, la futility); 2) la gravosità del trattamento e infine 3) l’eccezionalità dei mezzi terapeutici.
Per meglio comprendere quali comportamenti, nella realtà clinica, potrebbero ricadere nella definizione proposta dal Comitato facciamo un esempio concreto.
In un paziente operato di un tumore maligno del polmone si manifesta, a distanza di qualche mese, una metastasi a carico della colonna vertebrale che comprime il midollo spinale e provoca la paralisi degli arti inferiori e della vescica oltre ad intensi dolori. Questa situazione è gravemente invalidante ed è causa di dolore e sofferenza, ma di per sé non conduce a morte. Una tempestiva irradiazione della colonna vertebrale nel punto malato attenua i dolori senza risolvere la paralisi. Mettiamo ora che, a seguito di un cateterismo vescicale, reso necessario dalla paralisi, subentri una grave infezione con setticemia. Il malato è altamente febbrile e a rischio di vita. Se non trattato tempestivamente con terapie antibiotiche mirate e a dosi massicce è probabile che vada incontro alla morte. Se viene trattato secondo le regole dell’arte, ha buone probabilità di guarire dall’infezione e di sopravvivere per qualche settimana o magari per qualche mese, ma sempre paralizzato e sopportando intensi dolori e il disagio di altre complicazioni dovute alla paralisi degli arti inferiori. Molte persone sarebbero inclini a pensare che la somministrazione degli antibiotici rientri nella categoria dell’AT, in quanto il suo risultato consente sì di prolungare la vita, ma rischia di aggravare-prolungare la sofferenza del malato; eppure così non è alla luce dei criteri del CNB. Infatti la terapia antibiotica 1) è molto probabilmente efficace, 2) non è di per sé particolarmente gravosa e da ultimo 3) non è affatto eccezionale.
Vediamo un secondo esempio. La metastasi vertebrale del paziente è situata ad un livello molto alto, cioè nelle prime vertebre cervicali. Essa comporta la paralisi non solo degli arti superiori, ma dei quattro arti e dei muscoli respiratori: il paziente è a rischio immediato di morte per insufficienza respiratoria. Che cosa può fare il medico? Può sottoporre il malato ad intubazione tracheale ed iniziare una ventilazione meccanica permanente. È chiaro che la qualità di vita del paziente si deteriora ulteriormente: egli non sarà in grado di muovere agli arti, non potrà parlare (a causa del tubo tracheale) e non potrà sopravvivere se non collegato al ventilatore. Si tratta di AT? La maggior parte di noi sarebbe portata a rispondere affermativamente, ma – sempre alla luce dei criteri del Comitato – ciò è per lo meno discutibile. Infatti l’assistenza ventilatoria in questi casi è sicuramente efficace (essa può consentire una sopravvivenza di qualche settimana o di qualche mese), anche se è certamente gravosa e probabilmente eccezionale (ma oggi meno che in passato: il paziente potrebbe tornare a casa con un piccolo ventilatore portatile). Anche in un caso estremo come questo, dunque, non tutti i criteri dell’AT sono soddisfatti. Non stupisce perciò che, ad onta della generale riprovazione dell’AT che possiamo leggere sui documenti e sui testi di bioetica del nostro Paese, quella “cosa” che viene designata come AT sia regolarmente praticata in tutti gli ospedali italiani.
La definizione contenuta nella versione del 1995 del Codice deontologico dell’Ordine dei Medici all’art. 13 sembra essere più aderente alla realtà clinica. L’articolo in questione recita: “Il medico deve astenersi dal cosiddetto accanimento diagnostico-terapeutico, consistente nella ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente o un miglioramento della qualità della vita”. In questa definizione è contenuto in sostanza solo un criterio: l’inefficacia in relazione all’obiettivo del beneficio del paziente. Pur nella sua genericità, nella definizione del Codice ricadrebbe per lo meno il nostro secondo esempio, se non anche il primo.
Entrambe le definizioni hanno un punto in comune: esse tentano di definire l’AT in modo oggettivo. Il loro intento è chiaro: permettere ai medici di individuare autonomamente comportamenti che, configurandosi come AT, siano da evitare. Resta però un grave problema irrisolto: dato che i concetti di beneficio e di qualità della vita non possono prescindere dalla soggettività del malato, una definizione strettamente oggettiva di AT si avvera impossibile. La recentissima revisione del Codice del 2006 cerca di tener conto di ciò; l’articolo 16 recita infatti: “Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse (il corsivo è mio), deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita”. Il criterio di fondo rimane lo stesso, ma viene introdotto un elemento nuovo, la volontà del paziente, senza peraltro chiarire che rapporto ci sia tra la valutazione oggettiva e la volontà del malato.
Credo che da quanto precede emerga bene che il concetto di AT è vago, insidioso e, a mio parere, potenzialmente dannoso in quanto tende ad espropriare il paziente dalla capacità di scegliere. Infatti oggi è diventato senso comune che, qualora il paziente sia in grado di partecipare al processo decisionale, nessuna cura può essere iniziata senza il suo consenso informato. Qualora il paziente dia il suo consenso informato ad un trattamento, in cui ravvisa o crede di ravvisare un potenziale beneficio, non ha alcun senso parlare di AT, a meno che il consenso sia stato estorto sulla base di un’informazione errata (se cioè non si sia trattato di un vero consenso informato). Dunque il concetto di AT non ha alcuna utilità se il paziente è in grado di prendere decisioni.
Viceversa esso potrebbe essere rilevante nelle situazioni in cui il paziente non è più capace di agire e non ha espresso in precedenza un’indicazione sulle sue preferenze riguardo ad eventuali futuri trattamenti, cioè una direttiva anticipata di trattamento. Al fine di evitare equivoci derivanti dall’usanza di etichettare il termine come figura retorica, avanzo una modesta proposta: rinunciare al termine di AT e di sostituirlo con quello di trattamento inappropriato rispetto al fine che si persegue in un determinato paziente. Quando il paziente può prender parte al processo decisionale, l’appropriatezza di un trattamento e il suo contrario, l’inappropriatezza, sono caratteristiche definibili sia in termini oggettivi (corretta indicazione, trattamento basato sulle evidenze, adeguatezza rispetto alla situazione complessiva del malato ecc.) sia in termini soggettivi (grado di accettabilità di quel trattamento per quel paziente), mentre riposano solo su elementi oggettivi quando mancano informazioni sulla soggettività. Nel secondo caso ci si può basare solo su criteri oggettivi, per stabilire i quali un ruolo importante può essere svolto dalle Società scientifiche con le loro raccomandazioni e linee guida e più in generale dalle istanze politiche e sociali, quando siano in grado di raggiungere decisioni condivise su come affrontare situazioni particolari.
Fatta questa lunga premessa, ricordo che il Ministro della Salute ha posto al Consiglio Superiore di Sanità il quesito se si potesse parlare di AT nel caso di Welby. La conclusione del parere, dopo una lunga serie di considerazioni e di distinguo, è stata che “nel caso specifico del Signor Piergiorgio Welby, il trattamento sostitutivo della funzione ventilatoria mediante ventilazione meccanica non configura, allo stato attuale, il profilo dell’AT”. In effetti, se riprendiamo i criteri della definizione del CNB, la ventilazione meccanica è un trattamento efficace (in quanto prolunga la vita), probabilmente non si può più – oggi, a differenza dal passato – considerare straordinario, anche se rimane indiscutibilmente gravoso. Inoltre Welby, come il Consiglio non manca di rilevare, non era un malato terminale, per lo meno nel senso che la sua morte, proseguendo l’assistenza ventilatoria, non era imminente e avrebbe potuto essere differita anche di mesi.
Mi chiedo però: che rilevanza aveva questo parere per la soluzione del caso Welby?
La risposta mi sembra ovvia: proprio nessuna. Discettare davanti a un malato vigile e lucido se il suo trattamento rientri o meno nella fattispecie dell’AT non importava a nessuno, men che meno a Welby, che aveva idee molto chiare sui suoi diritti e in particolare su quello di chiedere la sospensione di qualsiasi trattamento. Eppure un’autorità come il cardinale Barragan in una sua dichiarazione ha attribuito un valore fondamentale a questo parere, come se questo potesse individuare il limite fra lecito e illecito. Ci si può chiedere se la stessa decisione del Ministro di interpellare il Consiglio di Sanità e la posizione vaticana siano da attribuire alla generale confusione delle idee, di cui molti hanno dato prova in questa circostanza, o non piuttosto a qualcosa di diverso, cioè alla convinzione che nelle decisioni mediche (o quanto meno nelle decisioni cruciali) l’ultima parola spetta comunque ai sanitari e non al malato e credo che qui sia il punto cruciale della questione.
In realtà, se è vero che esiste un diritto costituzionalmente garantito di qualsiasi cittadino a rifiutare qualsiasi trattamento, è chiaro che il parere del Consiglio era del tutto irrilevante. La giurisprudenza relativa al rifiuto di trattamenti è povera e incerta, ma almeno in una situazione è ben attestata: penso al rifiuto delle trasfusioni da parte dei testimoni di Geova. Eppure a nessuno verrebbe in mente di definire le trasfusioni di sangue in corso di un’emorragia minacciosa una forma di AT.
Vi sono stati diversi tentativi di definizione. In un documento del Comitato Nazionale per la Bioetica (Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana, Roma 1996) si legge: “Trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulti chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica”. In questa definizione sono presenti tre elementi principali : 1) la documentata inefficacia e quindi l’inutilità (o, nei termini della letteratura bioetica anglosassone, la futility); 2) la gravosità del trattamento e infine 3) l’eccezionalità dei mezzi terapeutici.
Per meglio comprendere quali comportamenti, nella realtà clinica, potrebbero ricadere nella definizione proposta dal Comitato facciamo un esempio concreto.
In un paziente operato di un tumore maligno del polmone si manifesta, a distanza di qualche mese, una metastasi a carico della colonna vertebrale che comprime il midollo spinale e provoca la paralisi degli arti inferiori e della vescica oltre ad intensi dolori. Questa situazione è gravemente invalidante ed è causa di dolore e sofferenza, ma di per sé non conduce a morte. Una tempestiva irradiazione della colonna vertebrale nel punto malato attenua i dolori senza risolvere la paralisi. Mettiamo ora che, a seguito di un cateterismo vescicale, reso necessario dalla paralisi, subentri una grave infezione con setticemia. Il malato è altamente febbrile e a rischio di vita. Se non trattato tempestivamente con terapie antibiotiche mirate e a dosi massicce è probabile che vada incontro alla morte. Se viene trattato secondo le regole dell’arte, ha buone probabilità di guarire dall’infezione e di sopravvivere per qualche settimana o magari per qualche mese, ma sempre paralizzato e sopportando intensi dolori e il disagio di altre complicazioni dovute alla paralisi degli arti inferiori. Molte persone sarebbero inclini a pensare che la somministrazione degli antibiotici rientri nella categoria dell’AT, in quanto il suo risultato consente sì di prolungare la vita, ma rischia di aggravare-prolungare la sofferenza del malato; eppure così non è alla luce dei criteri del CNB. Infatti la terapia antibiotica 1) è molto probabilmente efficace, 2) non è di per sé particolarmente gravosa e da ultimo 3) non è affatto eccezionale.
Vediamo un secondo esempio. La metastasi vertebrale del paziente è situata ad un livello molto alto, cioè nelle prime vertebre cervicali. Essa comporta la paralisi non solo degli arti superiori, ma dei quattro arti e dei muscoli respiratori: il paziente è a rischio immediato di morte per insufficienza respiratoria. Che cosa può fare il medico? Può sottoporre il malato ad intubazione tracheale ed iniziare una ventilazione meccanica permanente. È chiaro che la qualità di vita del paziente si deteriora ulteriormente: egli non sarà in grado di muovere agli arti, non potrà parlare (a causa del tubo tracheale) e non potrà sopravvivere se non collegato al ventilatore. Si tratta di AT? La maggior parte di noi sarebbe portata a rispondere affermativamente, ma – sempre alla luce dei criteri del Comitato – ciò è per lo meno discutibile. Infatti l’assistenza ventilatoria in questi casi è sicuramente efficace (essa può consentire una sopravvivenza di qualche settimana o di qualche mese), anche se è certamente gravosa e probabilmente eccezionale (ma oggi meno che in passato: il paziente potrebbe tornare a casa con un piccolo ventilatore portatile). Anche in un caso estremo come questo, dunque, non tutti i criteri dell’AT sono soddisfatti. Non stupisce perciò che, ad onta della generale riprovazione dell’AT che possiamo leggere sui documenti e sui testi di bioetica del nostro Paese, quella “cosa” che viene designata come AT sia regolarmente praticata in tutti gli ospedali italiani.
La definizione contenuta nella versione del 1995 del Codice deontologico dell’Ordine dei Medici all’art. 13 sembra essere più aderente alla realtà clinica. L’articolo in questione recita: “Il medico deve astenersi dal cosiddetto accanimento diagnostico-terapeutico, consistente nella ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente o un miglioramento della qualità della vita”. In questa definizione è contenuto in sostanza solo un criterio: l’inefficacia in relazione all’obiettivo del beneficio del paziente. Pur nella sua genericità, nella definizione del Codice ricadrebbe per lo meno il nostro secondo esempio, se non anche il primo.
Entrambe le definizioni hanno un punto in comune: esse tentano di definire l’AT in modo oggettivo. Il loro intento è chiaro: permettere ai medici di individuare autonomamente comportamenti che, configurandosi come AT, siano da evitare. Resta però un grave problema irrisolto: dato che i concetti di beneficio e di qualità della vita non possono prescindere dalla soggettività del malato, una definizione strettamente oggettiva di AT si avvera impossibile. La recentissima revisione del Codice del 2006 cerca di tener conto di ciò; l’articolo 16 recita infatti: “Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse (il corsivo è mio), deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita”. Il criterio di fondo rimane lo stesso, ma viene introdotto un elemento nuovo, la volontà del paziente, senza peraltro chiarire che rapporto ci sia tra la valutazione oggettiva e la volontà del malato.
Credo che da quanto precede emerga bene che il concetto di AT è vago, insidioso e, a mio parere, potenzialmente dannoso in quanto tende ad espropriare il paziente dalla capacità di scegliere. Infatti oggi è diventato senso comune che, qualora il paziente sia in grado di partecipare al processo decisionale, nessuna cura può essere iniziata senza il suo consenso informato. Qualora il paziente dia il suo consenso informato ad un trattamento, in cui ravvisa o crede di ravvisare un potenziale beneficio, non ha alcun senso parlare di AT, a meno che il consenso sia stato estorto sulla base di un’informazione errata (se cioè non si sia trattato di un vero consenso informato). Dunque il concetto di AT non ha alcuna utilità se il paziente è in grado di prendere decisioni.
Viceversa esso potrebbe essere rilevante nelle situazioni in cui il paziente non è più capace di agire e non ha espresso in precedenza un’indicazione sulle sue preferenze riguardo ad eventuali futuri trattamenti, cioè una direttiva anticipata di trattamento. Al fine di evitare equivoci derivanti dall’usanza di etichettare il termine come figura retorica, avanzo una modesta proposta: rinunciare al termine di AT e di sostituirlo con quello di trattamento inappropriato rispetto al fine che si persegue in un determinato paziente. Quando il paziente può prender parte al processo decisionale, l’appropriatezza di un trattamento e il suo contrario, l’inappropriatezza, sono caratteristiche definibili sia in termini oggettivi (corretta indicazione, trattamento basato sulle evidenze, adeguatezza rispetto alla situazione complessiva del malato ecc.) sia in termini soggettivi (grado di accettabilità di quel trattamento per quel paziente), mentre riposano solo su elementi oggettivi quando mancano informazioni sulla soggettività. Nel secondo caso ci si può basare solo su criteri oggettivi, per stabilire i quali un ruolo importante può essere svolto dalle Società scientifiche con le loro raccomandazioni e linee guida e più in generale dalle istanze politiche e sociali, quando siano in grado di raggiungere decisioni condivise su come affrontare situazioni particolari.
Fatta questa lunga premessa, ricordo che il Ministro della Salute ha posto al Consiglio Superiore di Sanità il quesito se si potesse parlare di AT nel caso di Welby. La conclusione del parere, dopo una lunga serie di considerazioni e di distinguo, è stata che “nel caso specifico del Signor Piergiorgio Welby, il trattamento sostitutivo della funzione ventilatoria mediante ventilazione meccanica non configura, allo stato attuale, il profilo dell’AT”. In effetti, se riprendiamo i criteri della definizione del CNB, la ventilazione meccanica è un trattamento efficace (in quanto prolunga la vita), probabilmente non si può più – oggi, a differenza dal passato – considerare straordinario, anche se rimane indiscutibilmente gravoso. Inoltre Welby, come il Consiglio non manca di rilevare, non era un malato terminale, per lo meno nel senso che la sua morte, proseguendo l’assistenza ventilatoria, non era imminente e avrebbe potuto essere differita anche di mesi.
Mi chiedo però: che rilevanza aveva questo parere per la soluzione del caso Welby?
La risposta mi sembra ovvia: proprio nessuna. Discettare davanti a un malato vigile e lucido se il suo trattamento rientri o meno nella fattispecie dell’AT non importava a nessuno, men che meno a Welby, che aveva idee molto chiare sui suoi diritti e in particolare su quello di chiedere la sospensione di qualsiasi trattamento. Eppure un’autorità come il cardinale Barragan in una sua dichiarazione ha attribuito un valore fondamentale a questo parere, come se questo potesse individuare il limite fra lecito e illecito. Ci si può chiedere se la stessa decisione del Ministro di interpellare il Consiglio di Sanità e la posizione vaticana siano da attribuire alla generale confusione delle idee, di cui molti hanno dato prova in questa circostanza, o non piuttosto a qualcosa di diverso, cioè alla convinzione che nelle decisioni mediche (o quanto meno nelle decisioni cruciali) l’ultima parola spetta comunque ai sanitari e non al malato e credo che qui sia il punto cruciale della questione.
In realtà, se è vero che esiste un diritto costituzionalmente garantito di qualsiasi cittadino a rifiutare qualsiasi trattamento, è chiaro che il parere del Consiglio era del tutto irrilevante. La giurisprudenza relativa al rifiuto di trattamenti è povera e incerta, ma almeno in una situazione è ben attestata: penso al rifiuto delle trasfusioni da parte dei testimoni di Geova. Eppure a nessuno verrebbe in mente di definire le trasfusioni di sangue in corso di un’emorragia minacciosa una forma di AT.
4. Le cure palliative
Uno degli obiettivi dell’attuale Ministro della Salute è quello di promuovere e diffondere le cure palliative, e non c’è dubbio che si tratta di un obiettivo prioritario. Lo sviluppo di un adeguato sistema di cure palliative su tutto il territorio nazionale è certamente un compito di estrema importanza. Esso richiede azioni di ordine diverso: non solo stanziamento di fondi, emanazione di regole e di standard (che in parte già esistono), ma anche un grande sforzo educativo rivolto al personale sanitario e, contestualmente, un’opera di educazione sanitaria del pubblico sulla morte e sui limiti della medicina. Talora negli ambienti delle cure palliative si insiste sulla ineguale distribuzione dei servizi sul territorio e non c’è dubbio che questo è un problema, ma non bisogna credere che anche nelle “isole felici” come la Lombardia tutto vada per il meglio. Ad esempio accade ancor oggi che una larga parte di coloro che vengono ricoverati negli ultimi giorni di vita negli hospice non siano a conoscenza della loro diagnosi e della loro prognosi e non sappiano neppure bene in quale reparto si trovano. E questo malgrado che, nella filosofia generale delle cure palliative, sia implicito che il malato, per affrontare in modo adeguato questa fase della sua vita, deve comprendere la sua situazione. Ciò sembra dimostrare che al grande sforzo organizzativo che è stato profuso in alcune regioni non ha corrisposto uno sforzo altrettanto grande di tipo pedagogico nei confronti del corpo sanitario e del pubblico.
Sarebbe però un grave errore pensare che le cure palliative siano la soluzione di tutti i problemi, anche se il loro ruolo rimane fondamentale. Anche uno sviluppo ottimale della rete delle cure palliative non risolverebbe i problemi dei non pochi malati che si trovano nella condizione di Welby e di molti altri casi complessi e irrisolti. Anche a questo proposito abbiamo ascoltato in questi giorni discorsi confusi e non realistici. Qualcuno ha detto per esempio che Welby ha preso la sua decisione perché non era assistito in modo adeguato o perché era stato lasciato solo, ma dovrebbe esser chiaro a tutti che le cose non stavano così. La famiglia, e la moglie in particolare, gli sono stati accanto per anni in maniera encomiabile. Gli amici e i consoci della “Luca Coscioni” non solo lo hanno attorniato e sostenuto, ma gli hanno permesso di condurre battaglie politiche che molto hanno fatto per dare un senso alla sua vita. I suoi medici lo hanno seguito con assiduità e con affetto. Che cosa si poteva fare di più? Realisticamente si deve ammettere che nulla si poteva fare di più o di meglio, se non quello che ha fatto un medico coraggioso, una volta accertata la lucidità e la saldezza della volontà di Welby: addormentarlo e successivamente procedere all’interruzione del trattamento di ventilazione meccanica. Il ruolo delle cure palliative, in casi come questo, è solo quello di istituire la sedazione terminale.
Abbiamo letto che molti auspicano che “nessun malato terminale sia lasciato solo” e pensano che, se questo avverrà, nessuno chiederà al medico di interrompere un trattamento di sostegno vitale o di por fine attivamente ai propri giorni. L’auspicio che nessuno sia lasciato solo è condivisibile, ma non è realistico. Si ha l’impressione che alcuni abbiano una visione edulcorata, sentimentale dell’esistenza e non vogliano vedere il lato tragico che ad essa è immanente. Si può giungere al termine della propria esistenza “sazi di giorni”, attorniati dai propri cari e dagli amici e congedarsi da loro serenamente, ma anche giungere soli alla fine, per sfortuna o per i propri errori, e l’accompagnamento da parte di volontari solerti è certo gradito, ma non può sostituire ciò che si è perso o che non si è saputo conquistare. Né si può scegliere la modalità della morte, che talora è comunque straziata, non dignitosa, ad onta di tutto ciò che le cure migliori possono fare. E infine, anche se si giunge alla fine circondati da attenzioni, affetto e cure adeguate, come Piergiorgio Welby, la stanchezza del vivere in certe condizioni può indurre il malato, anche il meglio assistito, a chiedere di affrettare la morte. Si spiega così che anche nei migliori sistemi sanitari emergano sia richieste di sospensione di cure sia di eutanasia vera e propria.
Sarebbe però un grave errore pensare che le cure palliative siano la soluzione di tutti i problemi, anche se il loro ruolo rimane fondamentale. Anche uno sviluppo ottimale della rete delle cure palliative non risolverebbe i problemi dei non pochi malati che si trovano nella condizione di Welby e di molti altri casi complessi e irrisolti. Anche a questo proposito abbiamo ascoltato in questi giorni discorsi confusi e non realistici. Qualcuno ha detto per esempio che Welby ha preso la sua decisione perché non era assistito in modo adeguato o perché era stato lasciato solo, ma dovrebbe esser chiaro a tutti che le cose non stavano così. La famiglia, e la moglie in particolare, gli sono stati accanto per anni in maniera encomiabile. Gli amici e i consoci della “Luca Coscioni” non solo lo hanno attorniato e sostenuto, ma gli hanno permesso di condurre battaglie politiche che molto hanno fatto per dare un senso alla sua vita. I suoi medici lo hanno seguito con assiduità e con affetto. Che cosa si poteva fare di più? Realisticamente si deve ammettere che nulla si poteva fare di più o di meglio, se non quello che ha fatto un medico coraggioso, una volta accertata la lucidità e la saldezza della volontà di Welby: addormentarlo e successivamente procedere all’interruzione del trattamento di ventilazione meccanica. Il ruolo delle cure palliative, in casi come questo, è solo quello di istituire la sedazione terminale.
Abbiamo letto che molti auspicano che “nessun malato terminale sia lasciato solo” e pensano che, se questo avverrà, nessuno chiederà al medico di interrompere un trattamento di sostegno vitale o di por fine attivamente ai propri giorni. L’auspicio che nessuno sia lasciato solo è condivisibile, ma non è realistico. Si ha l’impressione che alcuni abbiano una visione edulcorata, sentimentale dell’esistenza e non vogliano vedere il lato tragico che ad essa è immanente. Si può giungere al termine della propria esistenza “sazi di giorni”, attorniati dai propri cari e dagli amici e congedarsi da loro serenamente, ma anche giungere soli alla fine, per sfortuna o per i propri errori, e l’accompagnamento da parte di volontari solerti è certo gradito, ma non può sostituire ciò che si è perso o che non si è saputo conquistare. Né si può scegliere la modalità della morte, che talora è comunque straziata, non dignitosa, ad onta di tutto ciò che le cure migliori possono fare. E infine, anche se si giunge alla fine circondati da attenzioni, affetto e cure adeguate, come Piergiorgio Welby, la stanchezza del vivere in certe condizioni può indurre il malato, anche il meglio assistito, a chiedere di affrettare la morte. Si spiega così che anche nei migliori sistemi sanitari emergano sia richieste di sospensione di cure sia di eutanasia vera e propria.
5. L’eutanasia
Proprio questa parola-tabù, eutanasia, abbiamo udito continuamente a sproposito. Per lo più essa è stata usata sottolineando la sua connotazione retorica negativa. I più avvertiti hanno tentato di fare chiarezza, ricordando che, nell’accezione del termine che si trova nella letteratura bioetica internazionale, eutanasia significa “interruzione attiva della vita del malato terminale a sua richiesta”. In questo senso la richiesta di Welby non era una richiesta di eutanasia e il clamore suscitato sui media agitando questo termine era infondato.
Va riconosciuto però che da tempo il termine “eutanasia” ha assunto nel dibattito pubblico un significato più ampio, anche se dai contorni mal definiti. Per molti con questo termine si intendono le azioni che nella letteratura scientifica, non connotata ideologicamente, si definiscono “decisioni mediche di fine vita” (end of life decisions). È probabilmente in questo senso che alcuni politici hanno auspicato l’avvio di un’indagine su quella che hanno chiamato “eutanasia clandestina”. L’espressione è pericolosa, perché lascia intendere che negli ospedali italiani i medici di soppiatto sopprimono la vita di alcuni (molti?) malati. Ora, nel senso forte – e scientificamente prevalente – di eutanasia questo è certamente falso. Facendo parte del corpo medico da molti anni, posso assicurare il pubblico che comportamenti suscettibili di incriminazione sono temutissimi dal medici, che semmai tendono ad eccedere in cure salvavita. È invece senz’altro vero che oggi la morte, specie quando avviene in ospedale, è preceduta da decisioni di limitare le cure in percentuali che variano da un Paese all’altro, ma che non sono inferiori al 25% nei pazienti ricoverati nei reparti di degenza ordinaria e che giungono al 70-80% per i reparti di terapia intensiva. Ma non è affatto necessaria un’inchiesta parlamentare su questo: esistono già eccellenti studi europei, cui l’Italia ha partecipato, nonché alcuni studi italiani che confermano queste cifre. E non c’è alcuno scandalo in questo: le cifre riflettono semplicemente una realtà che semmai deve essere esaminata criticamente e, se necessario, regolata.
Va riconosciuto però che da tempo il termine “eutanasia” ha assunto nel dibattito pubblico un significato più ampio, anche se dai contorni mal definiti. Per molti con questo termine si intendono le azioni che nella letteratura scientifica, non connotata ideologicamente, si definiscono “decisioni mediche di fine vita” (end of life decisions). È probabilmente in questo senso che alcuni politici hanno auspicato l’avvio di un’indagine su quella che hanno chiamato “eutanasia clandestina”. L’espressione è pericolosa, perché lascia intendere che negli ospedali italiani i medici di soppiatto sopprimono la vita di alcuni (molti?) malati. Ora, nel senso forte – e scientificamente prevalente – di eutanasia questo è certamente falso. Facendo parte del corpo medico da molti anni, posso assicurare il pubblico che comportamenti suscettibili di incriminazione sono temutissimi dal medici, che semmai tendono ad eccedere in cure salvavita. È invece senz’altro vero che oggi la morte, specie quando avviene in ospedale, è preceduta da decisioni di limitare le cure in percentuali che variano da un Paese all’altro, ma che non sono inferiori al 25% nei pazienti ricoverati nei reparti di degenza ordinaria e che giungono al 70-80% per i reparti di terapia intensiva. Ma non è affatto necessaria un’inchiesta parlamentare su questo: esistono già eccellenti studi europei, cui l’Italia ha partecipato, nonché alcuni studi italiani che confermano queste cifre. E non c’è alcuno scandalo in questo: le cifre riflettono semplicemente una realtà che semmai deve essere esaminata criticamente e, se necessario, regolata.
6. Il testamento biologico
Grottesco è stato l’espediente retorico di alcuni uomini politici, che hanno sostenuto che la via maestra per affrontare queste situazioni è una nuova legge sul testamento biologico. Non mi sogno di negarne l’importanza, se è vero che mi adopero da quindici anni per questo, ma è altrettanto ovvio che il testamento biologico nel caso di Welby era del tutto irrilevante, essendo egli stato lucido e presente sino all’ultimo momento.
Tutt’al più potrebbe essere utile che, in seno alla legge sul testamento biologico, siano inseriti articoli che riaffermino il principio del consenso (e del rifiuto) informato alle cure e che prevedano il carattere vincolante delle direttive contenute nel testamento stesso.
Tutt’al più potrebbe essere utile che, in seno alla legge sul testamento biologico, siano inseriti articoli che riaffermino il principio del consenso (e del rifiuto) informato alle cure e che prevedano il carattere vincolante delle direttive contenute nel testamento stesso.
7. Che fare in memoria di Welby?
Mi sono chiesto che cosa potrebbe fare, nell’attuale difficile frangente, il Ministro della Salute, che proprio di recente ha insediato una Commissione per la terapia del dolore, le cure palliative e la dignità del morire di cui faccio parte.
Ho già detto della promozione delle cure palliative, che è obiettivo prioritario, ma tenendo presente che alle cure palliative non possiamo chiedere ciò che esse non possono dare, cioè la soluzione di tutti i problemi. Come ho detto, anche nei migliori sistemi sanitari emergono sia richieste di sospensione di cure (vedi Welby) che di eutanasia vera e propria. Nei Paesi Bassi e nello Stato dell’Oregon, dove operano reti di cure palliative eccellenti e dove vigono norme che depenalizzano l’eutanasia e/o il suicidio assistito, un numero non grande ma comunque significativo di malati chiede e ottiene l’eutanasia e l’assistenza al suicidio malgrado abbia potuto fruire di cure palliative.
È doveroso che la società dia una risposta alle domande di queste persone. Credo che la risposta non possa che essere positiva nel primo caso, mentre assai più controversa è la seconda situazione; probabilmente una risposta positiva non è matura nel contesto italiano di oggi.
Un’altra idea del tutto condivisibile del Ministro è quella di aprire un discorso pubblico sulla morte. Credo che sia essenziale diffondere fra il pubblico quanto ho appena detto sulle decisioni mediche di fine vita, sulla loro diffusione e sulla loro inevitabilità. Credo altresì che sia importantissimo un discorso pubblico sui limiti della medicina. Coesiste nella pubblica opinione un duplice, contraddittorio atteggiamento: da un lato si temono gli effetti del cosiddetto AT, dall’altro si chiede al medico molto spesso di “fare tutto il possibile”, ciò che non può non sfociare nell’AT. È molto importante a parer mio diffondere una visione sobria e razionale dei limiti della medicina e non soli sui limiti di oggi (per definizione superabili), ma anche sui limiti probabili della medicina del futuro, specie nell’ambito della patologia dell’invecchiamento.
Un discorso culturale altrettanto ambizioso va fatto nei riguardi del corpo medico, teso ad aprire una discussione critica degli scopi stessi della medicina, anche sulla scorta delle indicazioni scaturite qualche anno fa dal progetto internazionale “Goals of Medicine” (Gli scopi della medicina: nuove priorità. Un rapporto dello Hastings Center, “Politeia” 1997; 13, n. 45), che non hanno avuto a mio giudizio una eco adeguata nel nostro paese. Il problema di fondo sta nel riconoscere che opera tuttora nel mondo medico uno scopo che, seppur non dichiarato, nondimeno è reale: l’obiettivo di prolungare la vita con ogni mezzo, indipendentemente dalla sua qualità (il cosiddetto atteggiamento vitalistico). È proprio questo che sta alla base delle situazioni di cui abbiamo parlato e che tradizionalmente sono etichettate come AT. Il progetto su citato contesta la preminenza di questo goal e propone di sostituirlo con una molteplicità di scopi più adeguati allo stato attuale della medicina, fra i quali l’obiettivo, importante in questo contesto, di rendere possibile una morte serena.
Vediamo così qual è il lascito di Welby per noi: un’agenda di lavoro estremamente ricca per i prossimi anni. Non possiamo sfuggire, abbiamo un preciso debito verso di lui e verso tutti coloro che vivono la sua stessa esperienza. E poi ne va della nostra stessa vita e della nostra morte!
Ho già detto della promozione delle cure palliative, che è obiettivo prioritario, ma tenendo presente che alle cure palliative non possiamo chiedere ciò che esse non possono dare, cioè la soluzione di tutti i problemi. Come ho detto, anche nei migliori sistemi sanitari emergono sia richieste di sospensione di cure (vedi Welby) che di eutanasia vera e propria. Nei Paesi Bassi e nello Stato dell’Oregon, dove operano reti di cure palliative eccellenti e dove vigono norme che depenalizzano l’eutanasia e/o il suicidio assistito, un numero non grande ma comunque significativo di malati chiede e ottiene l’eutanasia e l’assistenza al suicidio malgrado abbia potuto fruire di cure palliative.
È doveroso che la società dia una risposta alle domande di queste persone. Credo che la risposta non possa che essere positiva nel primo caso, mentre assai più controversa è la seconda situazione; probabilmente una risposta positiva non è matura nel contesto italiano di oggi.
Un’altra idea del tutto condivisibile del Ministro è quella di aprire un discorso pubblico sulla morte. Credo che sia essenziale diffondere fra il pubblico quanto ho appena detto sulle decisioni mediche di fine vita, sulla loro diffusione e sulla loro inevitabilità. Credo altresì che sia importantissimo un discorso pubblico sui limiti della medicina. Coesiste nella pubblica opinione un duplice, contraddittorio atteggiamento: da un lato si temono gli effetti del cosiddetto AT, dall’altro si chiede al medico molto spesso di “fare tutto il possibile”, ciò che non può non sfociare nell’AT. È molto importante a parer mio diffondere una visione sobria e razionale dei limiti della medicina e non soli sui limiti di oggi (per definizione superabili), ma anche sui limiti probabili della medicina del futuro, specie nell’ambito della patologia dell’invecchiamento.
Un discorso culturale altrettanto ambizioso va fatto nei riguardi del corpo medico, teso ad aprire una discussione critica degli scopi stessi della medicina, anche sulla scorta delle indicazioni scaturite qualche anno fa dal progetto internazionale “Goals of Medicine” (Gli scopi della medicina: nuove priorità. Un rapporto dello Hastings Center, “Politeia” 1997; 13, n. 45), che non hanno avuto a mio giudizio una eco adeguata nel nostro paese. Il problema di fondo sta nel riconoscere che opera tuttora nel mondo medico uno scopo che, seppur non dichiarato, nondimeno è reale: l’obiettivo di prolungare la vita con ogni mezzo, indipendentemente dalla sua qualità (il cosiddetto atteggiamento vitalistico). È proprio questo che sta alla base delle situazioni di cui abbiamo parlato e che tradizionalmente sono etichettate come AT. Il progetto su citato contesta la preminenza di questo goal e propone di sostituirlo con una molteplicità di scopi più adeguati allo stato attuale della medicina, fra i quali l’obiettivo, importante in questo contesto, di rendere possibile una morte serena.
Vediamo così qual è il lascito di Welby per noi: un’agenda di lavoro estremamente ricca per i prossimi anni. Non possiamo sfuggire, abbiamo un preciso debito verso di lui e verso tutti coloro che vivono la sua stessa esperienza. E poi ne va della nostra stessa vita e della nostra morte!
Qualcuno si è estinto...
Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc (Margherita e Udc tornano a fare fronte, il Tempo, 27 dicembre 2006):
La sinistra radicale pretende di imporre i propri valori e le proprie regole non solo alle istituzioni italiane, ma anche alla Chiesa dettando le norme dei suoi comportamenti ecclesiali. Se qualcuno non avesse capito quale arroganza e quanta strumentalizzazione vi è in questo comportamento la vicenda Welby dovrebbe aprire gli occhi a tutti. Il tutto magari in nome della laicità dello Stato, massima ipocrisia in questo caso.
Un appello e una riflessione
Riceviamo e volentieri pubblichiamo un appello del Comitato Cremonese per la Libertà di Cura e di Ricerca Scientifica a sostegno del Dott. Mario Riccio.
Rispondendo con generosità e coscienza alle insistenti richieste di Piergiorgio Welby di sospendere le terapie divenute per lui ormai insostenibili, il dottor Mario Riccio ha messo a disposizione le proprie competenze professionali affinché Welby potesse esercitare questo suo diritto.Unita all’appello si trova questa bella e utile riflessione del professor Maurizio Mori:
Il gesto del dottor Riccio, pur approvato dalla maggioranza dei cittadini, ha suscitato reazioni scomposte da parte di sedicenti fautori della sacralità della vita che strumentalmente chiedono sanzioni severe nei suoi confronti.
Noi sottoscritti riteniamo che il dottor Riccio abbia agito sulla scorta di un alta coscienza morale, nel pieno della legalità e della deontologia professionale.
Siamo orgogliosi che in Italia ci siano cittadini attenti e medici coscienziosi come il dottor Riccio, al quale manifestiamo la nostra piena solidarietà.
Confidiamo che i procedimenti giuridici minacciati contro di lui vengano al più presto archiviati, ribadendo così il diritto individuale di rifiutare le terapie ritenute inappropriate, diritto garantito dalla Costituzione.
Ringraziamo Mario Riccio per aver mostrato come in medicina possa esserci spazio per la compassione e per il rispetto dei diritti civili fondamentali.
Ci sono almeno tre aspetti del caso Welby e della sua morte che lasciano stupefatti (e amareggiati). Il primo riguarda l’inatteso rigurgito del vitalismo medico, cosicché si dice che il medico dovrebbe sempre fare di tutto per prolungare la vita e procrastinare la morte. Il vitalismo sembra saldarsi con la sacralità della vita asserendo che è la “vita in sé” ad avere valore, portando così a procedere con gli interventi terapeutici indipendentemente dalla volontà degli interessati e dalla qualità della loro esistenza pur di prolungare la vita. C’è d’avere paura del vitalismo, che informa una medicina disumana e irrispettosa del consenso informato dei pazienti. Ciò che vale è la “vita buona”, ossia ricca di contenuti e di quel “sugo” che ciascuno vuole e sa porre nella propria esistenza, fin che può.
L’altro aspetto che stupisce è la continua evasione del problema posto da Welby. Dopo anni di malattia e di riflessione, Welby è giunto a formulare una precisa volontà: voleva rifiutare le terapie che ormai erano diventate insopportabili. Invece di rispettare questa decisione meditata, i vitalisti hanno detto che qualcosa era andato storto e che i suoi desideri non erano autentici, perché altrimenti avrebbe dovuto scegliere diversamente. Insomma, invece di stare sul problema in esame, svicolano su altro – sull’ambiente familiare, quasi insinuando che non fosse all’altezza; o sul contesto culturale edonista. Questo modo di ragionare mostra che il vitalismo non ha alcun rispetto per la persona e per le esigenze della persona: ai vitalisti interessa solo l’astratta salvaguardia della sacralità della vita. Dobbiamo ringraziare il dottor Riccio che, invece, ha preso sul serio e rispettato la richiesta di Welby, mostrando di trattarlo come persona matura e di esercitare una medicina umana che sa sospendere le terapie (come prescritto dal diritto).
L’ultimo aspetto che stupisce riguarda l’accusa di strumentalizzazione: ora che la vicenda Welby ha commosso l’opinione pubblica raccogliendo forti e diffuse simpatie, i cattolici accusano i laici di aver creato troppo clamore su un caso che avrebbe dovuto restare nel silenzio. Eppure, poco più di un anno fa l’agonia di papa Giovanni Paolo II è stata seguita in diretta per giorni con un’attenzione mediatica senza precedenti. Qui i cattolici usano due pesi e due misure: allora quel clamore era buono e benedetto perché il papa accettava la volontà di Dio, mentre ora il clamore sarebbe frutto di una congiura mediatica perché Welby chiedeva di potere sospendere le terapie per non continuare a soffrire e vedere rispettato il proprio piano di vita. Solo il vittimismo di chi si sente ormai accerchiato e non ha più argomenti può portare a simili lamentele.
La realtà è il caso Welby ha commosso l’Italia perché migliaia di persone si trovano in situazione analoga. Benvenuto è il caso Welby, che turba l’opinione pubblica e dà una poderosa picconata al vitalismo sottolineando la centralità della volontà delle persone nelle terapie. Più che di leggi nuove (quelle in vigore sono già abbastanza chiare!) abbiamo bisogno di un nuovo atteggiamento culturale che ci porti ad abbandonare le sopravvivenze culturali derivanti dalla sacralità della vita.
martedì 26 dicembre 2006
Transustanziazione di Welby
Si affaccia dalla loggia centrale della Basilica di San Pietro, Benedetto XVI, per leggere il suo messaggio di Natale. Tra le imperdibili anafore e i moniti terrifici e la messa in guardia dalla tracotanza umana e dalla seduttiva ma pericolosa scienza, anche un riferimento al ribelle Welby: «Che pensare di chi sceglie la morte credendo di inneggiare alla vita?» (Vaticano. Il progresso porta a scegliere la morte, Vivere & Morire, 26 dicembre 2006).
Che pensare di chi invita alla castità come mezzo per non diffondere l’Aids? Che pensare di chi si dice allarmato al punto da non poter più tacere (ma quando mai l’ha fatto?) sulle dissolute coppie di fatto? Che pensare di chi fa il gioco delle tre carte da Ratisbona alla Turchia (sarà stato il clima?)?
E di chi crede nell’immacolata concezione o nella transustanziazione?
L’elenco sarebbe lungo e mi annoierebbe. Ma a proposito di transustanziazione mi viene sempre tanto da ridere quando ripenso alle parole di Richard Dawkins (ne Il Cappellano del Diavolo):
Che pensare di chi invita alla castità come mezzo per non diffondere l’Aids? Che pensare di chi si dice allarmato al punto da non poter più tacere (ma quando mai l’ha fatto?) sulle dissolute coppie di fatto? Che pensare di chi fa il gioco delle tre carte da Ratisbona alla Turchia (sarà stato il clima?)?
E di chi crede nell’immacolata concezione o nella transustanziazione?
L’elenco sarebbe lungo e mi annoierebbe. Ma a proposito di transustanziazione mi viene sempre tanto da ridere quando ripenso alle parole di Richard Dawkins (ne Il Cappellano del Diavolo):
Qualunque persona dotata di una superficiale religiosità potrebbe credere che il pane rappresenti simbolicamente il corpo di Cristo; ma ci vuole un vero cattolico purosangue per credere in qualcosa di così folle come la transustanziazione.
Grillo Parlante (a vanvera)
Torno sul commento di Beppe Grillo stimolata da due circostanze.
La prima è il riconoscimento assegnatogli da Malvino, Il Gran Premio Stronzo d’Oro. Meritatissimo. Assegnazione quasi plebiscitaria (anche leggendo i commenti nel blog di Grillo è facile intuire le reazioni che le sue parole, banali prima ancora di essere offensive, hanno suscitato).
Tuttavia, è quasi inevitabile, mi addolora che Stefano Lorenzetto (incastrato dal mio compare) non abbia sfidato la top ten delle merdacce.
Proporrei almeno un premio di consolazione (certo, sarebbe molto affollato).
La seconda è il tentativo di cavare qualcosa di buono anche dalle circostanze più tetre.
Quanto pensassi di Grillo e delle sue pornografiche riflessioni su Welby avevo già detto. Pollice verso. E il buono dove sarebbe?
Nella limpida evidenza che il principio di autorità è fallace e stupido. Nel ricordarsi di fregarsene della reputazione di chi parla per concentrarsi sulle parole. Antipatia o simpatia, stima o disprezzo, non dovrebbero intaccare l’analisi razionale dei pareri di volta in volta offerti alla pubblica piazza.
A conferma di ciò, ci tocca riconoscere che Roberto Calderoli (proprio lui in persona!) ha avuto un atteggiamento dignitoso riguardo al rifiuto dei funerali religiosi a Welby: “mi sento obbligato però ad intervenire, appellandomi al Vicariato, perché torni sulla sua posizione di non voler concedere le esequie religiose al povero Welby” (Italia. Domani a Roma funerale laico per Piergiorgio Welby, Vivere & Morire, 23 dicembre 2006).
lunedì 25 dicembre 2006
Dacci oggi il nostro Volontè quotidiano
Luca Volonté, capogruppo dell’Udc a Montecitorio, se la prende con la Rai: “In piazza c’erano più telecamere Rai che fedeli”, ironizza.(Welby, poli divisi sul no ai funerali religiosi, ANSA.it, 24 dicembre 2006). Essì, la Rai (è noto) è una organizzazione sovversiva e rivoluzionaria, e non si sarebbe di certo lasciata sfuggire una tale occasione polemica. Infatti, tutti i telegiornali Rai hanno un servizio sul Papa o sui parenti del Papa almeno tra le prime 3 notizie (anche in presenza di stragi, attentati o epidemie); per non parlare del Televideo.
Telecamere in spalla, l’esercito di anticlericali si è recato in piazza San Giovanni Bosco per umiliare la Chiesa. Ma non ce n’era bisogno. L’aveva già fatto da sola.
A quale fedeltà si riferisca Volontè non ci è concesso sapere. Verosimilmente soltanto a quella cattolica, quella genuina. Le altre non sono rilevanti.
Per concludere, temo che l’ironia difetti totalmente al nostro. E non è l’unica assenza nel patrimonio volonteano.
L’omelia natalizia di Bioetica
Il Comune di Luton, in Inghilterra, ha chiesto ai suoi cittadini di rinunciare ai festeggiamenti per Natale, che è stato rinominato «Luminos». La città di Birmingham ha deciso di cancellare il nome Natale dai suoi registri e rimpiazzarlo con quello «più corretto» di Winterval. Nel 70 per cento degli uffici del Regno Unito sono stati vietati gli addobbi per non turbare gli impiegati appartenenti ad altre confessioni. Bandite anche le opere di bene: un signore di Reading ha dovuto pagare una multa perché si era rifiutato di obbedire all’ordine del Comune di non accendere il suo grande display natalizio di fronte a una folla di consueti spettatori i quali, come ogni anno, avrebbero pagato un piccolo contributo che sarebbe poi stato devoluto in beneficenza.
Queste notizie angosciose dal fronte della guerra del Natale venivano annunciate dal quotidiano dei Vescovi, Avvenire, il 12 dicembre scorso («Natale, un estraneo in Europa?»); nello stesso numero dell’autorevole foglio, Marina Corradi traeva da questo infausto bollettino grami presagi sul destino della cristianità europea: «Londra ammaina il presepe per rispetto. E se fosse una scusa?»; e l’occhiello ammoniva gravemente: «Caso serio».
Peccato, veramente peccato che non sia vero niente, o quasi. A Luton non si festeggia nessun Luminos; cinque anni fa era stato organizzato un evento con questo nome alla fine di novembre, ma non aveva rimpiazzato i festeggiamenti natalizi, e da allora non è stato più ripetuto. A Birmingham il Natale non si chiama Winterval; questo era il nome attribuito nel 1997 e nel 1998 al periodo che va da novembre a gennaio, in un’iniziativa promozionale a favore del nuovo centro commerciale della città; a Natale, durante quello stesso periodo, il consiglio comunale era adornato da un gigantesto striscione che proclamava «Merry Christmas!» (come lo è anche quest’anno), e il sindaco aveva spedito la tradizionale cartolina con lo stesso augurio. La proibizione delle decorazioni natalizie nel 74% degli uffici aperti al pubblico risulta da un sondaggio in cui la domanda chiave era formulata in una maniera non proprio impeccabile: «Ammette di aver proibito le decorazioni natalizie per la preoccupazione di offendere altre fedi?» («Do you admit to banning Christmas decorations because you are worried about offending other faiths?»); uno si immagina il povero intervistato che non ha fatto mettere le decorazioni natalizie perché rappresentano un costo eccessivo, rendono l’ufficio meno professionale e/o rubano troppo tempo agli impiegati, e che invece di fare la figura del micragnoso decide di presentarsi in una più nobile veste a un intervistatore il cui tono si palesa bene in un’altra domanda: «È consapevole dell’obbligo di legge di celebrare tutte le religioni?» («Are you aware of your legal requirement to celebrate all faiths?») – obbligo che, però, non esiste nel Regno Unito. Quanto al signore di Reading, che si chiama Vic Moszczynski, il suo display quest’anno sta ancora lì; la multa gli era stata comminata perché con 20.000 luci e altoparlanti che sparavano musica sacra ad alto volume la cosa stava diventando leggermente fastidiosa per i vicini. Mr Moszczynski ha acconsentito a ridurre luminarie e musiche (ma ha introdotto in cambio un cannone sparaneve; la storia continua...).
Cos’è successo ad Avvenire, che ha causato questa topica di epiche proporzioni? Il fatto è che le fonti a cui i suoi giornalisti si sono rifatti sono il Sun e il Daily Express, due dei tabloid più noti, cioè due illustri rappresentanti di quella che i britannici chiamano gutter press e noi in Italia «stampa spazzatura», nota per le foto di signorine scollacciate e per le storie inventate di sana pianta; le prime non sono state ancora riprese da Avvenire, le seconde invece sì. Stranamente (ma forse non tanto), Avvenire ha ignorato del tutto il serissimo Guardian, che quattro giorni prima dei due articoli allarmistici di Corradi & colleghi dedicava un ampio pezzo a ristabilire la verità dei fatti (Oliver Burkeman, «The phoney war on Christmas», 8 dicembre 2006). Un piccolo ma indicativo particolare: sulla versione web di quest’ultimo articolo campeggia in bell’evidenza una correzione: un certo signore, citato da Burkeman, non era vescovo di Oxford ma di Birmingham. Credete che il tabloid della Conferenza Episcopale Italiana pubblicherà mai una ritrattazione degli articoli fasulli dei suoi propagandisti?
A parte la deontologia giornalistica, si potrebbe obiettare che storie simili sono troppo diffuse per essere tutte inventate: abbiamo letto tutti della scuola bolzanina in cui in un primo momento era stato vietato di cantare Stille Nacht per non offendere gli alunni musulmani. E comunque, laici e liberali non dovrebbero nascondersi, per esprimere un giudizio su questi episodi, dietro al fatto che vengono esagerati a bella posta o inventati di sana pianta per ricompattare le truppe sempre più distratte del Vaticano.
Personalmente, credo che la political correctness sia peggiore di qualsiasi manifestazione pubblica impropria della fede cristiana. Moltiplicare per mille l’ansia di censura, l’idea – illiberale per eccellenza – che idee e simboli possano costituire offese insopportabili, non costituisce certo un progresso, ma è solo il sintomo della stessa malattia: il cancro-in-testa del delirio identitario, condito magari di comica ignoranza, come quando qualcuno si affanna a cancellare in quanto simboli cristiani per eccellenza alberi e festoni di natale.
Idealmente, uno Stato laico non dovrebbe riconoscere feste religiose (come l’assurda festa dell’Immacolata Concezione, che blocca per un giorno un paese intero per celebrare un dogma che la stessa maggioranza dei frequentatori di messe confonde con tutt’altra credenza); il 25 dicembre festeggerebbe il solstizio da poco avvenuto, lasciando ai fedeli di riempire la festività con le elaborazioni sul tema delle varie chiese e religioni. Niente presepi nei luoghi pubblici, solo alberi di natale e luminarie (negli spazi privati aperti al pubblico ognuno si regolerebbe invece come gli pare); ma nessun divieto occhiuto di evitare ogni riferimento religioso: perché negarsi e negare il piacere di ascoltare alla televisione pubblica Adeste fideles? Tutto ciò, naturalmente, sotto la ratio non di una difesa dalle opinioni altrui, ma – al contrario – del rifiuto di alterare la bilancia della libera scelta fra opzioni spirituali diverse gettandovi sopra il peso dello Stato, e del rifiuto di un protezionismo religioso che, come tutti i protezionismi, maschera con la difesa dell’identità nazionale quella che è in realtà la difesa dei privilegi di una casta ai danni del pubblico.
Ovviamente, nulla di tutto ciò costituirebbe veramente un’urgenza: sarebbe grottesco affannarsi a sottrarre il bue, l’asino e la mangiatoia dagli asili infantili mentre miliardi di Euro dei contribuenti finiscono in un’altra mangiatoia assai più vasta (alla quale attingono fra l’altro, in cambio dei bei servizi che abbiamo visto, anche Avvenire e i suoi ‘giornalisti’). E tuttavia, come resistere alla tentazione di godersi le reazioni parossistiche degli integralisti, quando vedono posti in dubbio i loro sacri privilegi?
Riprendiamoci, dunque, privatamente, le antiche tradizioni dei giorni che seguono il solstizio invernale: alberi della fertilità e allegri consumi. Basta con la mortuaria e ipocrita lagna del «Natale consumista»! Non posso dirlo con parole più adatte di quelle di Johann Hari («I love the commercialisation of Christmas», The Independent, 21 dicembre 2006):
Queste notizie angosciose dal fronte della guerra del Natale venivano annunciate dal quotidiano dei Vescovi, Avvenire, il 12 dicembre scorso («Natale, un estraneo in Europa?»); nello stesso numero dell’autorevole foglio, Marina Corradi traeva da questo infausto bollettino grami presagi sul destino della cristianità europea: «Londra ammaina il presepe per rispetto. E se fosse una scusa?»; e l’occhiello ammoniva gravemente: «Caso serio».
Peccato, veramente peccato che non sia vero niente, o quasi. A Luton non si festeggia nessun Luminos; cinque anni fa era stato organizzato un evento con questo nome alla fine di novembre, ma non aveva rimpiazzato i festeggiamenti natalizi, e da allora non è stato più ripetuto. A Birmingham il Natale non si chiama Winterval; questo era il nome attribuito nel 1997 e nel 1998 al periodo che va da novembre a gennaio, in un’iniziativa promozionale a favore del nuovo centro commerciale della città; a Natale, durante quello stesso periodo, il consiglio comunale era adornato da un gigantesto striscione che proclamava «Merry Christmas!» (come lo è anche quest’anno), e il sindaco aveva spedito la tradizionale cartolina con lo stesso augurio. La proibizione delle decorazioni natalizie nel 74% degli uffici aperti al pubblico risulta da un sondaggio in cui la domanda chiave era formulata in una maniera non proprio impeccabile: «Ammette di aver proibito le decorazioni natalizie per la preoccupazione di offendere altre fedi?» («Do you admit to banning Christmas decorations because you are worried about offending other faiths?»); uno si immagina il povero intervistato che non ha fatto mettere le decorazioni natalizie perché rappresentano un costo eccessivo, rendono l’ufficio meno professionale e/o rubano troppo tempo agli impiegati, e che invece di fare la figura del micragnoso decide di presentarsi in una più nobile veste a un intervistatore il cui tono si palesa bene in un’altra domanda: «È consapevole dell’obbligo di legge di celebrare tutte le religioni?» («Are you aware of your legal requirement to celebrate all faiths?») – obbligo che, però, non esiste nel Regno Unito. Quanto al signore di Reading, che si chiama Vic Moszczynski, il suo display quest’anno sta ancora lì; la multa gli era stata comminata perché con 20.000 luci e altoparlanti che sparavano musica sacra ad alto volume la cosa stava diventando leggermente fastidiosa per i vicini. Mr Moszczynski ha acconsentito a ridurre luminarie e musiche (ma ha introdotto in cambio un cannone sparaneve; la storia continua...).
Cos’è successo ad Avvenire, che ha causato questa topica di epiche proporzioni? Il fatto è che le fonti a cui i suoi giornalisti si sono rifatti sono il Sun e il Daily Express, due dei tabloid più noti, cioè due illustri rappresentanti di quella che i britannici chiamano gutter press e noi in Italia «stampa spazzatura», nota per le foto di signorine scollacciate e per le storie inventate di sana pianta; le prime non sono state ancora riprese da Avvenire, le seconde invece sì. Stranamente (ma forse non tanto), Avvenire ha ignorato del tutto il serissimo Guardian, che quattro giorni prima dei due articoli allarmistici di Corradi & colleghi dedicava un ampio pezzo a ristabilire la verità dei fatti (Oliver Burkeman, «The phoney war on Christmas», 8 dicembre 2006). Un piccolo ma indicativo particolare: sulla versione web di quest’ultimo articolo campeggia in bell’evidenza una correzione: un certo signore, citato da Burkeman, non era vescovo di Oxford ma di Birmingham. Credete che il tabloid della Conferenza Episcopale Italiana pubblicherà mai una ritrattazione degli articoli fasulli dei suoi propagandisti?
A parte la deontologia giornalistica, si potrebbe obiettare che storie simili sono troppo diffuse per essere tutte inventate: abbiamo letto tutti della scuola bolzanina in cui in un primo momento era stato vietato di cantare Stille Nacht per non offendere gli alunni musulmani. E comunque, laici e liberali non dovrebbero nascondersi, per esprimere un giudizio su questi episodi, dietro al fatto che vengono esagerati a bella posta o inventati di sana pianta per ricompattare le truppe sempre più distratte del Vaticano.
Personalmente, credo che la political correctness sia peggiore di qualsiasi manifestazione pubblica impropria della fede cristiana. Moltiplicare per mille l’ansia di censura, l’idea – illiberale per eccellenza – che idee e simboli possano costituire offese insopportabili, non costituisce certo un progresso, ma è solo il sintomo della stessa malattia: il cancro-in-testa del delirio identitario, condito magari di comica ignoranza, come quando qualcuno si affanna a cancellare in quanto simboli cristiani per eccellenza alberi e festoni di natale.
Idealmente, uno Stato laico non dovrebbe riconoscere feste religiose (come l’assurda festa dell’Immacolata Concezione, che blocca per un giorno un paese intero per celebrare un dogma che la stessa maggioranza dei frequentatori di messe confonde con tutt’altra credenza); il 25 dicembre festeggerebbe il solstizio da poco avvenuto, lasciando ai fedeli di riempire la festività con le elaborazioni sul tema delle varie chiese e religioni. Niente presepi nei luoghi pubblici, solo alberi di natale e luminarie (negli spazi privati aperti al pubblico ognuno si regolerebbe invece come gli pare); ma nessun divieto occhiuto di evitare ogni riferimento religioso: perché negarsi e negare il piacere di ascoltare alla televisione pubblica Adeste fideles? Tutto ciò, naturalmente, sotto la ratio non di una difesa dalle opinioni altrui, ma – al contrario – del rifiuto di alterare la bilancia della libera scelta fra opzioni spirituali diverse gettandovi sopra il peso dello Stato, e del rifiuto di un protezionismo religioso che, come tutti i protezionismi, maschera con la difesa dell’identità nazionale quella che è in realtà la difesa dei privilegi di una casta ai danni del pubblico.
Ovviamente, nulla di tutto ciò costituirebbe veramente un’urgenza: sarebbe grottesco affannarsi a sottrarre il bue, l’asino e la mangiatoia dagli asili infantili mentre miliardi di Euro dei contribuenti finiscono in un’altra mangiatoia assai più vasta (alla quale attingono fra l’altro, in cambio dei bei servizi che abbiamo visto, anche Avvenire e i suoi ‘giornalisti’). E tuttavia, come resistere alla tentazione di godersi le reazioni parossistiche degli integralisti, quando vedono posti in dubbio i loro sacri privilegi?
Riprendiamoci, dunque, privatamente, le antiche tradizioni dei giorni che seguono il solstizio invernale: alberi della fertilità e allegri consumi. Basta con la mortuaria e ipocrita lagna del «Natale consumista»! Non posso dirlo con parole più adatte di quelle di Johann Hari («I love the commercialisation of Christmas», The Independent, 21 dicembre 2006):
At this time of year, a low, familiar bleat is invariably heard from the pulpits and vestries: Christmas has become crudely commercialised. Money, money, money has trumped Messiah, Messiah, Messiah.I giorni tornano ad allungarsi, le tenebre non hanno prevalso neppure questa volta sui lumi. Buon Natale del Sole Invitto da parte di Bioetica!
This year, the first to utter this cry has been Dr John Sentamu, the Archbishop of York, warning “the spiritual values that many people rightly acknowledge at the heart of Christmas are [now] subjected to an assault of materialism”. Many of us nod solemnly at this thought, before guiltily dashing out to Brent Cross to buy another DVD player, remote-control dinosaur and pair of Heelys for the kids.
I am on the side of the DVD players, the dinosaurs and the Heelys. Far better to worship Mammon – and our friends and family – than to waste our time worshipping a supernatural being for whom there is no evidence, speaking through a holy book littered with repellent ideas. … (Remember their God commands parents to kill their children if they talk back to them, in Exodus 21:15, and feeds small children to bears, in Elisha 2:22.)
Why should we allow the adherents of this book – even those who somehow ignore these ugly passages – to seize our greatest annual festival, one that far predates the birth of Christ? There were winter festivals with trees and gifts on these islands long before a non-virgin gave birth in a Bethlehem stable, and there will be one long after the Judaeo-Christian God has joined Zeus, Baal and Odin in the cemetery for forgotten deities.
This year there has been an attempt by the right-wing press to import into Britain the hilarious Fox News hysteria that claims “the left is waging war on Christmas”, as if we were wannabe Grinches tearing down tinsel. That’s not true, but we should be trying to de-Christianise the festival, turning it into a celebration of our existing friends and relatives, rather than a fiction. There’s no need to change the name to “Winterval” – just encourage people to carry on as they are, shunning the churches and turning Brent Cross, the Arndale Centre and (most importantly) the arms of their loved ones into their substitutes.
Omelia fanciullesca
Tutti dobbiamo «fare la nostra parte» affinché «sia rispettata la dignità dei bambini»: di tutti i piccoli che nel mondo soffrono, subiscono abusi, non vengono fatti nascere, patiscono la miseria e la fame, vengono fatti combattere come bimbi-soldato.(Il Papa: «Difendiamo i bambini», Il Corriere della Sera, 25 dicembre 2006.)
Che cominci dai preti pedofili la sua difesa ai bambini. E poi passi alla fame alla miseria e alla negazione della nascita.
domenica 24 dicembre 2006
Sarà la sua di madre!, io sono orfana
Ersilio Tonini ci illumina sulle ragioni del gran rifiuto (Tonini: ‘No alla strumentalizzazione della morte’, Quotidiano.net, 24 dicembre 2006):
Pertanto: non sarebbe stata una ragione in più per offrire misericordia al povero strumentalizzato (non entro nel merito della questione strumentalizzazione, rimango in punta di piedi sul nesso causale tra la strumentalizzazione e il rifiuto)? Perché prendersela con Welby che altro non era che vittima di quella strumentalizzazione condannata da Tonini?
Strumentalizzato in vita, Welby è rifiutato in morte.
Al più bisognava negare i funerali cattolici agli strumentalizzatori. Un anatema a futura memoria. Un lucchetto alla porta del paradiso.
Oppure questo rifiuto voleva vendicarsi nei confronti di quanti avevano chiesto i funerali cattolici? Già la vendetta non sarebbe proprio materna, ma poi prendersela con uno per punire altri non è da gentiluomini. La vendetta trasversale è da mafiosi.
(A chiedere i funerali sono stati Mina e i familiari di Piergiorgio; e sono loro la parte offesa in questa storia. Chi non è credente, è evidente, se ne sbatte di croci crocette e benedizioni. E pure chi è morto ha perso interesse al riguardo. La questione immonda è che la chiesa si manifesta ferma come un ubriaco nel tentativo di aprire la porta della propria casa.)
La Chiesa è madre e lo è con tutti. Purtroppo però in questo caso ha dovuto mostrarsi ferma: c’è stata una strumentalizzazione della sofferenza di quest’uomo e della sua morte, un can can mediatico per dire ‘abbiamo ragione noi’.Non ho capito. Ci sarebbe stata una strumentalizzazione da parte di terzi della sofferenza di Welby (e non di Welby su di sé)? Qualcuno avrebbe strumentalizzato la sofferenza di Welby per ottenere una vittoria politica e mediatica e egoista. Il suo corpo come campo di battaglia.
Pertanto: non sarebbe stata una ragione in più per offrire misericordia al povero strumentalizzato (non entro nel merito della questione strumentalizzazione, rimango in punta di piedi sul nesso causale tra la strumentalizzazione e il rifiuto)? Perché prendersela con Welby che altro non era che vittima di quella strumentalizzazione condannata da Tonini?
Strumentalizzato in vita, Welby è rifiutato in morte.
Al più bisognava negare i funerali cattolici agli strumentalizzatori. Un anatema a futura memoria. Un lucchetto alla porta del paradiso.
Oppure questo rifiuto voleva vendicarsi nei confronti di quanti avevano chiesto i funerali cattolici? Già la vendetta non sarebbe proprio materna, ma poi prendersela con uno per punire altri non è da gentiluomini. La vendetta trasversale è da mafiosi.
(A chiedere i funerali sono stati Mina e i familiari di Piergiorgio; e sono loro la parte offesa in questa storia. Chi non è credente, è evidente, se ne sbatte di croci crocette e benedizioni. E pure chi è morto ha perso interesse al riguardo. La questione immonda è che la chiesa si manifesta ferma come un ubriaco nel tentativo di aprire la porta della propria casa.)