mercoledì 27 dicembre 2006

7. Che fare in memoria di Welby?

Mi sono chiesto che cosa potrebbe fare, nell’attuale difficile frangente, il Ministro della Salute, che proprio di recente ha insediato una Commissione per la terapia del dolore, le cure palliative e la dignità del morire di cui faccio parte.
Ho già detto della promozione delle cure palliative, che è obiettivo prioritario, ma tenendo presente che alle cure palliative non possiamo chiedere ciò che esse non possono dare, cioè la soluzione di tutti i problemi. Come ho detto, anche nei migliori sistemi sanitari emergono sia richieste di sospensione di cure (vedi Welby) che di eutanasia vera e propria. Nei Paesi Bassi e nello Stato dell’Oregon, dove operano reti di cure palliative eccellenti e dove vigono norme che depenalizzano l’eutanasia e/o il suicidio assistito, un numero non grande ma comunque significativo di malati chiede e ottiene l’eutanasia e l’assistenza al suicidio malgrado abbia potuto fruire di cure palliative.
È doveroso che la società dia una risposta alle domande di queste persone. Credo che la risposta non possa che essere positiva nel primo caso, mentre assai più controversa è la seconda situazione; probabilmente una risposta positiva non è matura nel contesto italiano di oggi.
Un’altra idea del tutto condivisibile del Ministro è quella di aprire un discorso pubblico sulla morte. Credo che sia essenziale diffondere fra il pubblico quanto ho appena detto sulle decisioni mediche di fine vita, sulla loro diffusione e sulla loro inevitabilità. Credo altresì che sia importantissimo un discorso pubblico sui limiti della medicina. Coesiste nella pubblica opinione un duplice, contraddittorio atteggiamento: da un lato si temono gli effetti del cosiddetto AT, dall’altro si chiede al medico molto spesso di “fare tutto il possibile”, ciò che non può non sfociare nell’AT. È molto importante a parer mio diffondere una visione sobria e razionale dei limiti della medicina e non soli sui limiti di oggi (per definizione superabili), ma anche sui limiti probabili della medicina del futuro, specie nell’ambito della patologia dell’invecchiamento.
Un discorso culturale altrettanto ambizioso va fatto nei riguardi del corpo medico, teso ad aprire una discussione critica degli scopi stessi della medicina, anche sulla scorta delle indicazioni scaturite qualche anno fa dal progetto internazionale “Goals of Medicine” (Gli scopi della medicina: nuove priorità. Un rapporto dello Hastings Center, “Politeia” 1997; 13, n. 45), che non hanno avuto a mio giudizio una eco adeguata nel nostro paese. Il problema di fondo sta nel riconoscere che opera tuttora nel mondo medico uno scopo che, seppur non dichiarato, nondimeno è reale: l’obiettivo di prolungare la vita con ogni mezzo, indipendentemente dalla sua qualità (il cosiddetto atteggiamento vitalistico). È proprio questo che sta alla base delle situazioni di cui abbiamo parlato e che tradizionalmente sono etichettate come AT. Il progetto su citato contesta la preminenza di questo goal e propone di sostituirlo con una molteplicità di scopi più adeguati allo stato attuale della medicina, fra i quali l’obiettivo, importante in questo contesto, di rendere possibile una morte serena.
Vediamo così qual è il lascito di Welby per noi: un’agenda di lavoro estremamente ricca per i prossimi anni. Non possiamo sfuggire, abbiamo un preciso debito verso di lui e verso tutti coloro che vivono la sua stessa esperienza. E poi ne va della nostra stessa vita e della nostra morte!

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