Su questo punto mi sembra importante far chiarezza. Comincio col far notare una cosa poco nota: il termine di accanimento terapeutico (AT) si incontra soltanto nella letteratura dei Paesi neolatini, e lo si cercherebbe invano nella letteratura bioetica di lingua inglese. L’espressione combina un aggettivo (“terapeutico”), che indica un’attività intenzionata a produrre un beneficio per un malato, e un sostantivo (“accanimento”) che ha il suo etimo nell’ira ostinata dei cani e che in via metaforica è passato a significare cocciutaggine, ostinazione, furia ed altro ancora. È insita in “accanimento” una connotazione negativa che contrasta singolarmente con quella neutra o positiva dell’aggettivo. Il successo dell’espressione in Italia è dovuto probabilmente proprio alla sua prevalente connotazione negativa in forza della quale tutti lo condannano e che si presta a facili slogan come “Né eutanasia, né accanimento terapeutico”, senza peraltro che sia emersa una definizione operativa condivisa. Il contesto in cui si suole parlare di AT è quello dei malati con prognosi infausta a breve termine. L’espressione sembra indicare in modo vago qualcosa come “un trattamento non indicato oppure non proporzionato, oppure non suscettibile di dare un beneficio”.
Vi sono stati diversi tentativi di definizione. In un documento del Comitato Nazionale per la Bioetica (Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana, Roma 1996) si legge: “Trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulti chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica”. In questa definizione sono presenti tre elementi principali : 1) la documentata inefficacia e quindi l’inutilità (o, nei termini della letteratura bioetica anglosassone, la futility); 2) la gravosità del trattamento e infine 3) l’eccezionalità dei mezzi terapeutici.
Per meglio comprendere quali comportamenti, nella realtà clinica, potrebbero ricadere nella definizione proposta dal Comitato facciamo un esempio concreto.
In un paziente operato di un tumore maligno del polmone si manifesta, a distanza di qualche mese, una metastasi a carico della colonna vertebrale che comprime il midollo spinale e provoca la paralisi degli arti inferiori e della vescica oltre ad intensi dolori. Questa situazione è gravemente invalidante ed è causa di dolore e sofferenza, ma di per sé non conduce a morte. Una tempestiva irradiazione della colonna vertebrale nel punto malato attenua i dolori senza risolvere la paralisi. Mettiamo ora che, a seguito di un cateterismo vescicale, reso necessario dalla paralisi, subentri una grave infezione con setticemia. Il malato è altamente febbrile e a rischio di vita. Se non trattato tempestivamente con terapie antibiotiche mirate e a dosi massicce è probabile che vada incontro alla morte. Se viene trattato secondo le regole dell’arte, ha buone probabilità di guarire dall’infezione e di sopravvivere per qualche settimana o magari per qualche mese, ma sempre paralizzato e sopportando intensi dolori e il disagio di altre complicazioni dovute alla paralisi degli arti inferiori. Molte persone sarebbero inclini a pensare che la somministrazione degli antibiotici rientri nella categoria dell’AT, in quanto il suo risultato consente sì di prolungare la vita, ma rischia di aggravare-prolungare la sofferenza del malato; eppure così non è alla luce dei criteri del CNB. Infatti la terapia antibiotica 1) è molto probabilmente efficace, 2) non è di per sé particolarmente gravosa e da ultimo 3) non è affatto eccezionale.
Vediamo un secondo esempio. La metastasi vertebrale del paziente è situata ad un livello molto alto, cioè nelle prime vertebre cervicali. Essa comporta la paralisi non solo degli arti superiori, ma dei quattro arti e dei muscoli respiratori: il paziente è a rischio immediato di morte per insufficienza respiratoria. Che cosa può fare il medico? Può sottoporre il malato ad intubazione tracheale ed iniziare una ventilazione meccanica permanente. È chiaro che la qualità di vita del paziente si deteriora ulteriormente: egli non sarà in grado di muovere agli arti, non potrà parlare (a causa del tubo tracheale) e non potrà sopravvivere se non collegato al ventilatore. Si tratta di AT? La maggior parte di noi sarebbe portata a rispondere affermativamente, ma – sempre alla luce dei criteri del Comitato – ciò è per lo meno discutibile. Infatti l’assistenza ventilatoria in questi casi è sicuramente efficace (essa può consentire una sopravvivenza di qualche settimana o di qualche mese), anche se è certamente gravosa e probabilmente eccezionale (ma oggi meno che in passato: il paziente potrebbe tornare a casa con un piccolo ventilatore portatile). Anche in un caso estremo come questo, dunque, non tutti i criteri dell’AT sono soddisfatti. Non stupisce perciò che, ad onta della generale riprovazione dell’AT che possiamo leggere sui documenti e sui testi di bioetica del nostro Paese, quella “cosa” che viene designata come AT sia regolarmente praticata in tutti gli ospedali italiani.
La definizione contenuta nella versione del 1995 del Codice deontologico dell’Ordine dei Medici all’art. 13 sembra essere più aderente alla realtà clinica. L’articolo in questione recita: “Il medico deve astenersi dal cosiddetto accanimento diagnostico-terapeutico, consistente nella ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente o un miglioramento della qualità della vita”. In questa definizione è contenuto in sostanza solo un criterio: l’inefficacia in relazione all’obiettivo del beneficio del paziente. Pur nella sua genericità, nella definizione del Codice ricadrebbe per lo meno il nostro secondo esempio, se non anche il primo.
Entrambe le definizioni hanno un punto in comune: esse tentano di definire l’AT in modo oggettivo. Il loro intento è chiaro: permettere ai medici di individuare autonomamente comportamenti che, configurandosi come AT, siano da evitare. Resta però un grave problema irrisolto: dato che i concetti di beneficio e di qualità della vita non possono prescindere dalla soggettività del malato, una definizione strettamente oggettiva di AT si avvera impossibile. La recentissima revisione del Codice del 2006 cerca di tener conto di ciò; l’articolo 16 recita infatti: “Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse (il corsivo è mio), deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita”. Il criterio di fondo rimane lo stesso, ma viene introdotto un elemento nuovo, la volontà del paziente, senza peraltro chiarire che rapporto ci sia tra la valutazione oggettiva e la volontà del malato.
Credo che da quanto precede emerga bene che il concetto di AT è vago, insidioso e, a mio parere, potenzialmente dannoso in quanto tende ad espropriare il paziente dalla capacità di scegliere. Infatti oggi è diventato senso comune che, qualora il paziente sia in grado di partecipare al processo decisionale, nessuna cura può essere iniziata senza il suo consenso informato. Qualora il paziente dia il suo consenso informato ad un trattamento, in cui ravvisa o crede di ravvisare un potenziale beneficio, non ha alcun senso parlare di AT, a meno che il consenso sia stato estorto sulla base di un’informazione errata (se cioè non si sia trattato di un vero consenso informato). Dunque il concetto di AT non ha alcuna utilità se il paziente è in grado di prendere decisioni.
Viceversa esso potrebbe essere rilevante nelle situazioni in cui il paziente non è più capace di agire e non ha espresso in precedenza un’indicazione sulle sue preferenze riguardo ad eventuali futuri trattamenti, cioè una direttiva anticipata di trattamento. Al fine di evitare equivoci derivanti dall’usanza di etichettare il termine come figura retorica, avanzo una modesta proposta: rinunciare al termine di AT e di sostituirlo con quello di trattamento inappropriato rispetto al fine che si persegue in un determinato paziente. Quando il paziente può prender parte al processo decisionale, l’appropriatezza di un trattamento e il suo contrario, l’inappropriatezza, sono caratteristiche definibili sia in termini oggettivi (corretta indicazione, trattamento basato sulle evidenze, adeguatezza rispetto alla situazione complessiva del malato ecc.) sia in termini soggettivi (grado di accettabilità di quel trattamento per quel paziente), mentre riposano solo su elementi oggettivi quando mancano informazioni sulla soggettività. Nel secondo caso ci si può basare solo su criteri oggettivi, per stabilire i quali un ruolo importante può essere svolto dalle Società scientifiche con le loro raccomandazioni e linee guida e più in generale dalle istanze politiche e sociali, quando siano in grado di raggiungere decisioni condivise su come affrontare situazioni particolari.
Fatta questa lunga premessa, ricordo che il Ministro della Salute ha posto al Consiglio Superiore di Sanità il quesito se si potesse parlare di AT nel caso di Welby. La conclusione del parere, dopo una lunga serie di considerazioni e di distinguo, è stata che “nel caso specifico del Signor Piergiorgio Welby, il trattamento sostitutivo della funzione ventilatoria mediante ventilazione meccanica non configura, allo stato attuale, il profilo dell’AT”. In effetti, se riprendiamo i criteri della definizione del CNB, la ventilazione meccanica è un trattamento efficace (in quanto prolunga la vita), probabilmente non si può più – oggi, a differenza dal passato – considerare straordinario, anche se rimane indiscutibilmente gravoso. Inoltre Welby, come il Consiglio non manca di rilevare, non era un malato terminale, per lo meno nel senso che la sua morte, proseguendo l’assistenza ventilatoria, non era imminente e avrebbe potuto essere differita anche di mesi.
Mi chiedo però: che rilevanza aveva questo parere per la soluzione del caso Welby?
La risposta mi sembra ovvia: proprio nessuna. Discettare davanti a un malato vigile e lucido se il suo trattamento rientri o meno nella fattispecie dell’AT non importava a nessuno, men che meno a Welby, che aveva idee molto chiare sui suoi diritti e in particolare su quello di chiedere la sospensione di qualsiasi trattamento. Eppure un’autorità come il cardinale Barragan in una sua dichiarazione ha attribuito un valore fondamentale a questo parere, come se questo potesse individuare il limite fra lecito e illecito. Ci si può chiedere se la stessa decisione del Ministro di interpellare il Consiglio di Sanità e la posizione vaticana siano da attribuire alla generale confusione delle idee, di cui molti hanno dato prova in questa circostanza, o non piuttosto a qualcosa di diverso, cioè alla convinzione che nelle decisioni mediche (o quanto meno nelle decisioni cruciali) l’ultima parola spetta comunque ai sanitari e non al malato e credo che qui sia il punto cruciale della questione.
In realtà, se è vero che esiste un diritto costituzionalmente garantito di qualsiasi cittadino a rifiutare qualsiasi trattamento, è chiaro che il parere del Consiglio era del tutto irrilevante. La giurisprudenza relativa al rifiuto di trattamenti è povera e incerta, ma almeno in una situazione è ben attestata: penso al rifiuto delle trasfusioni da parte dei testimoni di Geova. Eppure a nessuno verrebbe in mente di definire le trasfusioni di sangue in corso di un’emorragia minacciosa una forma di AT.