mercoledì 27 dicembre 2006

5. L’eutanasia

Proprio questa parola-tabù, eutanasia, abbiamo udito continuamente a sproposito. Per lo più essa è stata usata sottolineando la sua connotazione retorica negativa. I più avvertiti hanno tentato di fare chiarezza, ricordando che, nell’accezione del termine che si trova nella letteratura bioetica internazionale, eutanasia significa “interruzione attiva della vita del malato terminale a sua richiesta”. In questo senso la richiesta di Welby non era una richiesta di eutanasia e il clamore suscitato sui media agitando questo termine era infondato.
Va riconosciuto però che da tempo il termine “eutanasia” ha assunto nel dibattito pubblico un significato più ampio, anche se dai contorni mal definiti. Per molti con questo termine si intendono le azioni che nella letteratura scientifica, non connotata ideologicamente, si definiscono “decisioni mediche di fine vita” (end of life decisions). È probabilmente in questo senso che alcuni politici hanno auspicato l’avvio di un’indagine su quella che hanno chiamato “eutanasia clandestina”. L’espressione è pericolosa, perché lascia intendere che negli ospedali italiani i medici di soppiatto sopprimono la vita di alcuni (molti?) malati. Ora, nel senso forte – e scientificamente prevalente – di eutanasia questo è certamente falso. Facendo parte del corpo medico da molti anni, posso assicurare il pubblico che comportamenti suscettibili di incriminazione sono temutissimi dal medici, che semmai tendono ad eccedere in cure salvavita. È invece senz’altro vero che oggi la morte, specie quando avviene in ospedale, è preceduta da decisioni di limitare le cure in percentuali che variano da un Paese all’altro, ma che non sono inferiori al 25% nei pazienti ricoverati nei reparti di degenza ordinaria e che giungono al 70-80% per i reparti di terapia intensiva. Ma non è affatto necessaria un’inchiesta parlamentare su questo: esistono già eccellenti studi europei, cui l’Italia ha partecipato, nonché alcuni studi italiani che confermano queste cifre. E non c’è alcuno scandalo in questo: le cifre riflettono semplicemente una realtà che semmai deve essere esaminata criticamente e, se necessario, regolata.

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