Abbiamo un debito verso Piergiorgio Welby, è nostra responsabilità trovare risposte alle sue domande e a quelle di tutti coloro che si trovano alla fine della loro vita e non rinunciano a decidere per sé, al fine da aprire per loro una strada meno tormentata. Per far questo, in via preliminare è necessario fare un tentativo di dipanare la complicata matassa di questa vicenda, individuandone i fili conduttori.
Riassumo: Piero Welby era stato colpito nella terza decade di vita da una distrofia muscolare che nel tempo l’ha portato alla quasi completa immobilità e, nove anni fa, all’insufficienza respiratoria. Prima di quel momento, conoscendo quanto sarebbe accaduto, egli aveva chiesto di non essere sottoposto alla tracheotomia e alla ventilazione assistita quando fossero iniziate le difficoltà respiratorie; ciononostante – come spesso accade e per amore verso di lui – al momento in cui le difficoltà si manifestarono (e accadde in modo abbastanza improvviso) la moglie lo condusse in Ospedale, dove l’intubazione e poi la tracheotomia furono praticate in emergenza, sostanzialmente contro il suo parere. Si tratta purtroppo di una situazione quanto mai frequente nel nostro Paese, anche perché le volontà precedentemente espresse non erano, come del resto ancora non sono, sufficientemente tutelate (le sole norme oggi esistenti in proposito, la Convenzione di Oviedo e il Codice deontologico dell’Ordine dei Medici sono state emanate rispettivamente nel 1997 e nel 1998). Ciononostante Welby era riuscito a farsi una ragione della sua nuova, non voluta situazione ed era riuscito non solo a vivere, ma anche ad essere attivo, conducendo importanti battaglie politiche, dapprima per consentire il diritto di voto ai cittadini con grave disabilità e da ultimo, quando il processo patologico gli stava togliendo ogni residua capacità e minacciando anche la sua possibilità di comunicare con gli altri, per il diritto a rinunciare a terapie non volute.
Se gettiamo uno sguardo d’insieme sulla sua storia, vediamo facilmente quel che è accaduto: la malattia muscolare cronica di cui egli soffriva sin dalla gioventù era entrata, già nel 1997, nella sua fase terminale e in altri tempi l’avrebbe portato a morte in pochi giorni. Il processo del morire era stato invece interrotto dalla decisione, presa dai medici, di praticate la tracheotomia e la ventilazione artificiale. La successiva decisione del malato di rinunciare a questo ausilio, presa a distanza di anni e dopo lunga e matura esperienza e riflessione – una volta messa in opera – non ha fatto che consentire a quel processo di concludersi. In teoria il malato stesso avrebbe potuto spegnere il ventilatore, per esempio con un semplice dispositivo elettromeccanico, ma in questo modo sarebbe andato incontro ad una terribile morte per soffocamento. Il ruolo del medico a questo punto è stato molto semplice: egli ha praticato la cosiddetta sedazione palliativa, vale a dire ha sedato il paziente togliendogli la coscienza, in modo da impedire che provasse la sensazione del soffocamento. Di per sé la sedazione non ha accelerato la morte del paziente, che – proseguendo la ventilazione meccanica – avrebbe potuto sopravvivere per molti giorni privo di coscienza; la morte è avvenuta in seguito all’insufficienza respiratoria. Quanto allo spegnimento del ventilatore, esso avrebbe potuto essere eseguito da altri, non necessariamente dal medico, ma questi ha ritenuto di assumersene l’intera responsabilità. Il dottor Riccio ha agito secondo quanto viene proposto in documenti pubblici di molte Società scientifiche, fra cui cito il recentissimo documento della Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva, SIAARTI (SIAARTI, Commissione di Bioetica, Le cure di fine vita e l’anestesista-rianimatore. Raccomandazioni SIIAARTI per l’approccio al malato morente, dicembre 2006) e il documento del Gruppo di Studio di Bioetica e Cure palliative della Società Italiana di Neurologia del 2005 (Bonito V. et al., The clinical and ethical appropriateness of sedation in palliative neurological treatments, “Neurol. Sci.”, 2005; 26:370-385).
Sembra evidente che si è trattato di un limpido caso di legittima rinuncia di un malato ad una terapia che nel tempo era divenuta per lui troppo gravosa. La situazione è del tutto analoga, sul piano morale e giuridico, a quella di un malato sottoposto da anni a dialisi e che, per stanchezza o altri motivi, decida di rinunciarvi (ciò che si verifica sempre più spesso anche nel nostro Paese). Le differenze sono soltanto di ordine tecnico: fra l’arresto della dialisi e la morte trascorrono due-tre settimane, mentre la sospensione della ventilazione provoca la morte quasi immediatamente; inoltre nell’arresto di dialisi un trattamento palliativo non è altrettanto indispensabile che nel caso della ventilazione.
In sintesi possiamo dire che la vita di Welby è stata allungata di ben nove anni da una tecnologia medica (da lui non richiesta, ma poi accettata) e che ora è terminata quando egli ha ritenuto che i mezzi di sostegno vitale gli imponessero “un onere straordinario [per se stesso o per gli altri]” (Pio XII, Discorsi ai medici, Orizzonte Medico, Roma 1959) cui non era più tenuto. Non è chi non veda come una tale situazione differisce profondamente da quella dell’eutanasia, atto mediante il quale un malato chiede al suo medico di interrompere attivamente la sua vita (su questo tornerò più avanti). Il processo del morire viene in quel caso abbreviato, mentre nel caso di Welby è stato interrotto e in certo modo “congelato”, per essere poi riavviato ad anni di distanza.
Forse qualcuno pensa che non sia lecito rinunciare a tutte le possibilità di prolungamento vitale che la tecnologia medica ci offre. Se fosse così, sarebbe stato in fallo anche Papa Wojtyla quando rinunciò a un nuovo ricovero al “Gemelli”, come di recente ha confermato il cardinale Barragan. Ora è proprio in questa convinzione che si radica il cosiddetto “accanimento terapeutico”, che così spesso viene nominato, a proposito e non, che tutti deprecano e, ahimé!, molti praticano largamente.
mercoledì 27 dicembre 2006
2. Qual era la situazione di Welby?
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