mercoledì 27 dicembre 2006

4. Le cure palliative

Uno degli obiettivi dell’attuale Ministro della Salute è quello di promuovere e diffondere le cure palliative, e non c’è dubbio che si tratta di un obiettivo prioritario. Lo sviluppo di un adeguato sistema di cure palliative su tutto il territorio nazionale è certamente un compito di estrema importanza. Esso richiede azioni di ordine diverso: non solo stanziamento di fondi, emanazione di regole e di standard (che in parte già esistono), ma anche un grande sforzo educativo rivolto al personale sanitario e, contestualmente, un’opera di educazione sanitaria del pubblico sulla morte e sui limiti della medicina. Talora negli ambienti delle cure palliative si insiste sulla ineguale distribuzione dei servizi sul territorio e non c’è dubbio che questo è un problema, ma non bisogna credere che anche nelle “isole felici” come la Lombardia tutto vada per il meglio. Ad esempio accade ancor oggi che una larga parte di coloro che vengono ricoverati negli ultimi giorni di vita negli hospice non siano a conoscenza della loro diagnosi e della loro prognosi e non sappiano neppure bene in quale reparto si trovano. E questo malgrado che, nella filosofia generale delle cure palliative, sia implicito che il malato, per affrontare in modo adeguato questa fase della sua vita, deve comprendere la sua situazione. Ciò sembra dimostrare che al grande sforzo organizzativo che è stato profuso in alcune regioni non ha corrisposto uno sforzo altrettanto grande di tipo pedagogico nei confronti del corpo sanitario e del pubblico.
Sarebbe però un grave errore pensare che le cure palliative siano la soluzione di tutti i problemi, anche se il loro ruolo rimane fondamentale. Anche uno sviluppo ottimale della rete delle cure palliative non risolverebbe i problemi dei non pochi malati che si trovano nella condizione di Welby e di molti altri casi complessi e irrisolti. Anche a questo proposito abbiamo ascoltato in questi giorni discorsi confusi e non realistici. Qualcuno ha detto per esempio che Welby ha preso la sua decisione perché non era assistito in modo adeguato o perché era stato lasciato solo, ma dovrebbe esser chiaro a tutti che le cose non stavano così. La famiglia, e la moglie in particolare, gli sono stati accanto per anni in maniera encomiabile. Gli amici e i consoci della “Luca Coscioni” non solo lo hanno attorniato e sostenuto, ma gli hanno permesso di condurre battaglie politiche che molto hanno fatto per dare un senso alla sua vita. I suoi medici lo hanno seguito con assiduità e con affetto. Che cosa si poteva fare di più? Realisticamente si deve ammettere che nulla si poteva fare di più o di meglio, se non quello che ha fatto un medico coraggioso, una volta accertata la lucidità e la saldezza della volontà di Welby: addormentarlo e successivamente procedere all’interruzione del trattamento di ventilazione meccanica. Il ruolo delle cure palliative, in casi come questo, è solo quello di istituire la sedazione terminale.
Abbiamo letto che molti auspicano che “nessun malato terminale sia lasciato solo” e pensano che, se questo avverrà, nessuno chiederà al medico di interrompere un trattamento di sostegno vitale o di por fine attivamente ai propri giorni. L’auspicio che nessuno sia lasciato solo è condivisibile, ma non è realistico. Si ha l’impressione che alcuni abbiano una visione edulcorata, sentimentale dell’esistenza e non vogliano vedere il lato tragico che ad essa è immanente. Si può giungere al termine della propria esistenza “sazi di giorni”, attorniati dai propri cari e dagli amici e congedarsi da loro serenamente, ma anche giungere soli alla fine, per sfortuna o per i propri errori, e l’accompagnamento da parte di volontari solerti è certo gradito, ma non può sostituire ciò che si è perso o che non si è saputo conquistare. Né si può scegliere la modalità della morte, che talora è comunque straziata, non dignitosa, ad onta di tutto ciò che le cure migliori possono fare. E infine, anche se si giunge alla fine circondati da attenzioni, affetto e cure adeguate, come Piergiorgio Welby, la stanchezza del vivere in certe condizioni può indurre il malato, anche il meglio assistito, a chiedere di affrettare la morte. Si spiega così che anche nei migliori sistemi sanitari emergano sia richieste di sospensione di cure sia di eutanasia vera e propria.

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