mercoledì 7 ottobre 2009

Autodeterminazione e solitudine

È una storia triste, quella di Kerrie Wooltorton, ventiseiennne di Norwich, Inghilterra. Dopo aver ingerito intenzionalmente un liquido antigelo la donna aveva chiamato un’ambulanza, ma all’arrivo in ospedale si era opposta a che i medici intervenissero per salvarle la vita; a questo scopo aveva anche redatto tre giorni prima un testamento biologico e l’aveva portato con sé. I medici, dopo aver constatato che la donna appariva capace di intendere e di volere, avevano ritenuto che fosse contrario alla legge (il Mental Capacity Act del 2005) imporre un trattamento sanitario, e si erano limitati a fornire cure compassionevoli. Kerrie era morta il giorno dopo.

I fatti risalgono a due anni fa, ma in questi giorni un tribunale britannico ha stabilito che il comportamento dei medici non è stato contrario alla legge. Questa decisione ha scatenato inevitabilmente le polemiche: alcuni vi hanno visto una forzatura dello strumento legale del testamento biologico, che si trasformerebbe in questo modo in un mezzo per portare a termine indisturbati propositi suicidi. Per la verità, non è affatto chiaro che le direttive anticipate abbiano avuto un ruolo nella vicenda: Kerrie era cosciente al suo ingresso in ospedale, e si è opposta a voce all’intervento dei medici; il testamento biologico può aver al massimo rafforzato le parole della donna (si veda «Sheila McLean on advance directives and the case of Kerrie Wooltorton», BMJ Group Blogs, 1 ottobre 2009).
Più seria è la contestazione relativa alle reali condizioni mentali della donna. Sembra che alla Wooltorton fosse stato diagnosticato in passato il disturbo borderline di personalità; la donna risentiva fortemente dell’impossibilità di avere figli a causa di una malformazione fisica. La circostanza, se fosse vera, getterebbe forti dubbi sulla sentenza (o sulla legge su cui questa si è basata): una condizione necessaria per la validità del consenso informato in materia di fine vita è senza dubbio la capacità mentale. Vero è che in casi di disturbo mentale intrattabile la sofferenza del paziente può essere tanto intensa da rendere difficile per chiunque altro opporsi su basi morali a una decisione suicida. Al di là del caso in questione, va poi decisamente evitato quel vero e proprio comma-22 che fa dire ad alcuni che chiunque non sia pazzo può suicidarsi, ma chi decide di suicidarsi va per ciò stesso considerato pazzo: la diagnosi psichiatrica non deve fondarsi unicamente sul proposito suicida in sé.
Un altro requisito per avere un consenso informato valido in casi come questo è che il gesto non sia dettato dall’impulso del momento. Sicuramente non è stato così per Kerrie Wooltorton, che in un anno aveva tentato già altre nove volte di uccidersi, sempre con l’antigelo. In queste occasioni la donna non era riuscita ad andare fino in fondo, acconsentendo alla fine sempre alle cure. Dall’altra parte, questi reiterati tentativi pongono inevitabilmente una domanda: è possibile che una persona che voglia davvero suicidarsi non riesca a trovare un sistema più efficace? Esiste però una risposta: Kerrie ha specificato, arrivando in ospedale, che non voleva morire sola. Il ricorso a un veleno dall’effetto lento (e la telefonata al servizio di emergenza sanitaria) sembra essere stato determinato dal timore di finire in solitudine; ed è questo che dà alla vicenda tutta la sua tragica malinconia.

Il tema della solitudine ricorre spesso nelle discussioni sull’autoderminazione nei casi di fine vita. Lo evoca per esempio Assuntina Morresi in un articolo dedicato proprio al caso di Kerrie Wooltorton («Morte a comando. Purché sia salva la forma», Avvenire, 3 ottobre, p. 2). La Morresi denuncia il «verbo dell’autodeterminazione, ridotto ad un individualismo esasperato, in una società da cui si esigono “servizi” e “nuovi diritti”, ma nella quale le relazioni umane hanno sempre meno importanza». Nota acutamente Ivo Silvestro («Solitudine», L’Estinto, 3 ottobre), a proposito di questo articolo:

Il problema è che l’autrice sembra convinta che si tratti di una storia di autodeterminazione e quindi di solitudine, come se l’unico modo per stare vicino a una persona fosse non rispettare la sua volontà.
Nel finale dell’articolo, sembra quasi che una possibile soluzione al tragico evento possa essere ridurre il potere giuridico del living will, dando ai medici la possibilità di ignorare le volontà del malato – il che avrebbe probabilmente salvato la vita a Kerrie, ma certo non l’avrebbe fatta sentire meno sola.
L’autodeterminazione implica sempre una scelta dell’individuo; né potrebbe essere diversamente (la cosiddetta autodeterminazione dei popoli, delle classi, delle comunità, etc. è poco più della mera somma di molte scelte individuali). Ma scelta individuale non è affatto uguale a scelta in solitudine, e men che meno a scelta per la solitudine. La mia scelta può essere aperta ai consigli degli altri, alle loro critiche, alle loro offerte d’aiuto, alle loro richieste di riconsiderare la questione, persino – in qualche misura – alle loro suggestioni e ai loro influssi, senza cessare per questo di essere perfettamente libera (per quanto può esserlo una scelta umana); purché rimanga sempre la mia scelta, quella con cui mi determino da me. E l’oggetto della mia scelta non sarà necessariamente una vita solitaria: al contrario – siamo animali sociali, in fondo – riguarderà più spesso che no le mie amicizie, i miei amori, i partiti (le chiese, i movimenti, i circoli) cui aderisco. Una scelta può perfino, come nel caso di Kerrie Wooltorton (ammesso che la sua sia stata davvero una scelta consapevole: il dubbio rimane), consistere tragicamente nel non voler morire da soli. Se i medici le avessero detto di no, quali alternative avrebbe verosimilmente avuto Kerrie? Di finire istupidita dai farmaci, isolata in un reparto di ospedale psichiatrico, o di morire con un sacchetto di plastica stretto attorno al collo nella solitudine della sua stanza. Autodeterminazione non è necessariamente sinonimo di solitudine; il suo opposto lo è quasi sempre.

25 commenti:

Anonimo ha detto...

"Vero è che in casi di disturbo mentale intrattabile la sofferenza del paziente può essere tanto intensa da rendere difficile per chiunque altro opporsi su basi morali a una decisione suicida"

Ossia? Visto che è quasi impossibile o comunque molto difficile aiutare una persona in condizioni gravi,aiutiamola almeno ad avere una dolce morte? Eutanasia e via?
Ho capito male?
Scusate il disturbo.

L.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Sintesi brutale ma sostanzialmente efficace (toglierei però il "molto difficile": in questo caso sarebbe doveroso tentare la terapia).

Anonimo ha detto...

Questa vicenda pone in risalto una delle conseguenze più tragiche della perseguibilità penale dell'aiuto al suicidio, il fatto che il suicida sia costretto a morire da solo, anche se volesse farlo scherzando o discutendo con gli amici, come Petronio, Seneca o Socrate...il punto è che siamo abituati a pensare alla morte come al peggiore dei mali, solo pochi si rendono conto che esistono forme e modi della vita che sono peggiori della morte.

Anonimo ha detto...

La logica di base sarebbe: io mi autodetermino. Che equivale a un: io sono mio.
Però poi con questo cartello che mostro al mondo, vado dal mondo a chiedergli qualcosa.
Perdonami Giuseppe ma questa mi sembra una stupidaggine logica. Se io sono mio, non ho niente da chiedere.
Quindi, quando la ragazza si è presentata dai medici, questi medici avrebbero potuto anche ghigliottinarla e nessuno avrebbe dovuto avere niente da ridire.
Trovo totalmente sballata la premessa logica con la quale si affrontano questi argomenti.
Se il singolo ha il potere su se stesso, gli si deve concederglielo fino a che lui lo desideri. Ma nel momento che si mette nelle mani di altri, il potere su se steso deve sssergli tolto.
Questa io la considero la vera giustzia.
E' un comportamento di pessimo gusto costringere un "ente" a fare i tuoi (sporchi)desideri, ed è compito dello Stato scoraggiare questo tipo di comportamento.
Amenochè non si creda che lo Stato debba proprio fare tutto.....
a.m.

Giuseppe Regalzi ha detto...

A.m., sei tu che fai confusione. Autodeterminazione significa: tutto ciò che mi viene fatto deve essere fatto col mio consenso. Non significa che nulla mi deve essere fatto!

Se io decido di farmi levare un neo che non mi piace - siamo all'estremo opposto dei comportamenti rispetto al caso che esaminavo, come vedi - sto esercitando la mia autodeterminazione, e questa non è per nulla diminuita dal fatto che il neo non me lo levo da solo ma me lo faccio levare da uno specialista. Lo sto costringendo? Ovviamente no: lo pago (o lo pagano le mie tasse), e nessuno lo ha costretto contro la sua volontà a scegliere quel mestiere. Per il fatto che mi sto mettendo nelle sue mani, vuol dire anche che il potere che ho su me stesso mi deve essere levato? Che quel medico può decidere che mi deve levare anche altri nei che non mi davano fastidio - per il mio bene, naturalmente? Non scherziamo, su.

Anonimo ha detto...

Sì, ma se io mi autodetermino, detengo il potere su di me.
Se io riconosco che c'è un potere che mi può aiutare nei miei scopi, la mia autodeterminazione e quindi il mio potere non è totale.
Quello che voglio dire è che se vado a tagliarmi i capelli, durante il periodo di tempo del taglio, non ho il controllo delle forbici e quindi non è esatto dire che possiedo l'autodeterminazione. In quel periodo di tempo ho lasciato che il potere sui miei capelli ce l'abbia il barbiere e le sue forbici.
Se il barbiere ha un collasso e mi cade addosso ferendomi, cosa posso recriminare?
Inoltre facciamo finta che siamo al tempo dell'impero romano o anche prima. Chi avrebbe potuto fare una cosa del genere? Chiedere l'eutanasia? Improbabile.
Solo perchè oggi si considera che lo Stato debba accollarsi i "problemi sociali", avvengono cose del genere.
A me dell'eutanasia non mi importa granchè. Si potrebbe anche fare.
Quello che noto però è la solita corsa a trasformare il privato in pubblico.
Avere potere su se stessi significa avere un privato, avere delle capacità di auto-gestirsi, altrimnti non si è davvero autogestiti.
E' un pò come quello che quando il gioco si fa duro, chiama la mamma.
E anche questo si può fare, ma bisogna dirlo, bisogna esserne consapevoli. Bisogna dire che c'è una persona che è sconfitta, che si è arresa, non far passare il tutto come un atto amministrativo.
a.m.

Giuseppe Regalzi ha detto...

A.m., per difendere la propria autodeterminazione non occorre affatto immaginare che sia totale. Io non ho il potere di far tornare neri i miei capelli grigi, né ho il potere di buttare giù dal letto alle tre di notte il barbiere per farmi una tintura, magari gratis. Ma da questo non segue affatto che mi devo astenere dal modificare il colore dei miei capelli, o che peggio ancora qualcuno mi può afferrare per la strada e tingermeli di viola. Il discorso non è o tutto o niente.

Ti ripeto comunque la definizione che avevo già dato: autodeterminazione significa che tutto ciò che mi viene fatto deve essere fatto col mio consenso. Il buonsenso può dettare dei limiti (non devo dare il consenso a ogni singolo gesto del barbiere; accetto il rischio - ma anche questo volontariamente! - che il barbiere mi ferisca, etc.), ma non mi sembra che questo crei paradossi.

Anonimo ha detto...

Insomma, la parola esatta è "disdicevole". Hai presente quando ancora c'erano le lire e ogni tanto arrivava qualcuno e ti chiedeva: "ce l'hai cento lire?".
E' troppo dire che è un atteggiamento da mendicanti?
Il bello dell'auto-determinazione è che dovrebbe renderci tutti più liberi, ovvero anche la collettività dovrebbe guadagnare dall'auto-determinazione del singolo.
Ma se la collettività ci rimette, che senso ha?

Giuseppe Regalzi ha detto...

Ma esattamente in che senso la comunità ci rimette?

Anonimo ha detto...

Nel senso che sono oneri, impegni, sbattimenti...
Più un singolo è in grado di badare a se stesso e meno impegni ha la collettività verso di lui.
Insomma non saremmo creati per provocare impicci agli altri....
In questo senso a tutti conviene che i singoli siano il più autonomi possibile. Infatti, meno persone autonome ci sono e più la collettività è costretta a intervenire per sostenerli. E questo significa spese, sbattimenti, problemi,....
a.m.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Non capisco come questo si applichi al caso in esame. Quella poveretta ha chiesto ai medici proprio di non "sbattersi" per lei, di non intraprendere dei trattamenti sanitari; in altre parole, ha chiesto loro di non fare alcunché, a parte la limitatissima somministrazione di antidolorifici. Con il tuo ragionamento, a maggior ragione, nessuno dovrebbe mai ricorrere a cure mediche di sorta, perché questo "costringe" la collettività a uno sforzo certo superiore all'assistenza palliativa a una suicida. Eppure gli sforzi della collettività sono pagati anche con i nostri soldi: non è che chiediamo le cose gratis...

Anonimo ha detto...

E come la mettiamo con la volontà del medico? Può essere che questo quando ha scelto per vocazione di fare il medico, abbia avuto come missione quella di aiutare a vivere le persone non assisterle per il suicidio. Dal punto di vista del medico questo caso preciso potrebbe essere vissuto come un fallimento della sua professione. Dovrebbe esserci l'obiezione di coscienza anche per quei medici che come volontà hanno quella di salvare, aiutare, curare le vite umane.

Giuseppe Regalzi ha detto...

L'obiezione di coscienza in questo caso autorizzerebbe il medico a compiere un'autentica violenza ai danni del paziente. Non si capisce poi perché la volontà del medico debba prevalere su quella del paziente; il principio liberale di non-interferenza dà lo stesso valore a entrambe, e impedisce a ciascuno dei due di costringere l'altro a fare/subire alcunché.

Marcoz ha detto...

Giuseppe Regalzi, santo subito!
(per la pazienza, se non altro)

Saluti

Giuseppe Regalzi ha detto...

:-D

silvio ha detto...

Ma se io al medico invece che chiedergli di togliermi un neo gli chiedo di tagliarmi il pene perchè ho violentato qualcuno e non voglio succeda mai più, il medico è tenuto a farlo?
E se io cominciassi da solo e poi andassi al pronto soccorso senza essere riuscito ad amputarlo completamente i medici devono finire di tagliare come io vorrei? o sono in qualche modo "autorizzati" a riattaccare il tutto?

Giuseppe Regalzi ha detto...

I medici sono tenuti a fare ciò che impone il loro codice deontologico, le leggi e i contratti con il sistema sanitario (o con le cliniche private in cui operano). Se questi non li obbligano, allora non sono tenuti per nulla a eseguire i tuoi voleri - così come tu non sei tenuto a sottostare ai loro. Quindi la risposta alla domanda è: no, non sono tenuti ad amputare o a finire di amputare. Per ricucire hanno bisogno del tuo consenso, se sei capace di intendere e di volere.

Anonimo ha detto...

Bravo Silvio.
L'unica auto-determinazione è quando fai tu quello che vuoi. Se la tua volontà richiede l'intervnto altrui, allora devi vedertela con la volontà altrui.
In questo caso, non si può correttamente parlare di auto-determinazione. Ed ecco l'importanza della vera auto-determinazione che sottolineavo nei post precedenti.
Chi chiede l'eutanasia, il suicidio assistito e via dicendo, NON E' realmente auto-determinato. E' una finzione. E' teatro. Ecco perchè l'istituzione non dovrebbe accondiscendere a questi signori. Questa gente ha perso ogni dignità, cosa dobbiamo farne?
L'ideologia di sinistra porta alla tolleranza...."se ti chiedono una cosa, concedila"....che bello! Molto positivo, quasi sognante....purtroppo ci siamo anche noi: i realisti.

Anonimo ha detto...

Firma del post dimenticata: a.m.

Giuseppe Regalzi ha detto...

A.m.: "Se la tua volontà richiede l'intervnto altrui, allora devi vedertela con la volontà altrui".

Certo, come no. Quindi quando vai dal dentista perché non sei in grado di estrarti da solo un molare, è giustissimo che quello tenti di strapparti anche tutti gli altri denti, in stile Il Maratoneta. Un ragionamento che non fa una piega.

Marcoz ha detto...

Chi chiede l'eutanasia, il suicidio assistito e via dicendo, NON E' realmente auto-determinato

Davvero? Applichiamo il concetto, tanto per fare un esempio.

Il sig. AM ci sta dicendo che una persona, a cui venga diagnosticato un male incurabile, dimostrerebbe la sua (auto)determinazione solo se provvedesse subito a lanciarsi dal decimo piano, spappolandosi sull'asfalto, senza cercare di approfittare al meglio di qualsiasi scampolo di vita che gli rimane. E dovrebbe farlo perché, sempre secondo la tesi del sig. AM, giunti a uno stadio della malattia che rende problematico, o impossibile, tale (poco auspicabile) "fai da te", la nostra (auto) determinazione non sarebbe più effettiva.
In pratica, prima la fai finita, meglio è. Mi pare giusto: d'altro canto sono poco apprezzabili gli individui che rimandano le situazioni che, prima o poi, bisogna ineluttabilmente affrontare.

Spero di non aver parlato troppo: non vorrei mai che il sig. AM, capace evidentemente di una volontà e di una (auto)determinazione ferrei, ne traesse le estreme conseguenze e ci privasse della sua compagnia, con largo anticipo rispetto alle aspettative di vita media.

Saluti

Anonimo ha detto...

Marcoz, noi abbiamo una vita privata. Siamo umani e abbiamo una vita privata. La tendenza della modernità è quella invece di coinvolgere il singolo nei processi collettivi. Abbiamo creato degli stati che si occupano di noi, una scienza che dovrebbe farci belli e sani.
E siamo talmente condizionati a questa forma di "aiuto" che non averla ci sembrerebbe di sprofondare all'inferno. Nell'inferno del nostro privato. Personalmente non concordo con questa corsa alla "collettivizzazione". Anzi, magari meno mi sento coinvolto e meglio sto. Ebbene, coraggio, viviamoci ognuno i nostri inferni.....
a.m.

paolo de gregorio ha detto...

L'uomo è un animale sociale. Basterebbe studiarsi l'antropologia o le specie che più ci assomigliano per capire che ce l'abbiamo praticamente scritto nel DNA, come il fatto che respiriamo ossigeno invece che azoto. Poi certo, volendo si può fondare la religione dell'uomo privato che fa tutto da sé, come quell'homo antiquus che con i prodotti della collettività si è cimentato non di rado nella pratica del trollismo (anche questa una parola latina, ovviamente).

silvio ha detto...

Quindi se io sono al pronto soccorso e chiedo di finire l'amputazione e non voglio essere ricucito e risulto capace di intendere e volere (ma in una situazione del genere quale scala di valutazione si applica? esiste una valutazione validata da usare in momenti di rischio immediato della vita o di lesione grave?) cosa fanno i dottori?
Dimmi, secondo te, cosa farebbe un bravo medico, serio, deontologicamente a posto e in linea con la legge. E come modificheresti tu, eventualmente, il codice deontologico e/o la legge italiana.
grazie

Giuseppe Regalzi ha detto...

Valutare lo stato mentale di una persona durante un'emergenza può essere in effetti difficile. Si possono prendere in considerazione la coerenza delle risposte, la capacità di comprendere ciò che viene comunicato, le motivazioni del gesto; ma tutte queste cose non sostituiscono una valutazione psichiatrica ponderata.

In questo caso un medico coscienzioso (e una legge equilibrata) dovrebbe cercare di evitare gesti irreparabili; un compromesso potrebbe essere quello di dire: per ora ti ricucio, ma se poi risulta che sei capace amputiamo (ciò che si fa, si è tenuti a disfare). Comunque il paziente può evitare il dilemma facendosi fare subito prima una valutazione psichiatrica... In questo caso il medico è tenuto a finire di amputare, ma solo se lasciando le cose come stanno si mette a repentaglio la vita del paziente. In caso di amputazione ex novo, il medico non è invece tenuto a niente (a meno che non si configuri di nuovo una situazione pericolosa per la vita del paziente, che potrebbe per esempio sentire un irrefrenabile impulso a far da sé, per il quale non esistano cure - hai presente quelli che pensano che certe parti del loro corpo non gli appartengano?).

Questa è più o meno quella che mi sembra la soluzione più ragionevole. In Italia in questo momento sarebbe piuttosto difficile agire in questo modo senza conseguenze, visto che il principio del consenso informato non è stato codificato fino in fondo, e viste le pressioni delle forze illiberali.