giovedì 1 luglio 2010

La tua libertà finisce dove cominciano i nostri valori

Alberto Gambino commenta sul giornale dei vescovi la recente sentenza della Corte di Giustizia Federale tedesca (equivalente alla nostra Cassazione), che ha sancito la legittimità dell’eutanasia passiva (ovvero, a essere più esatti, del rifiuto dell’alimentazione e idratazione artificiali) («Così in Germania la vita torna “disponibile”», Avvenire, 1 luglio 2010, inserto «È vita», p. 3):

L’errore di impostazione, ora anche della giurisprudenza tedesca, è ritenere che la libertà individuale, spazio da preservare anche ove non condivisibile sul piano morale, possa sempre tradursi in vere proprie pretese giuridiche che obbligano l’ordinamento a conformarsi a esse. […]
Il delicato bilanciamento tra libertà dell’individuo e valori di fondo della comunità si è, infatti, sin qui realizzato lasciando al primo i più ampi spazi purché la sua azione sia accettata dai consociati. Ove invece operi un giudizio di disvalore, l’azione del singolo rimane circoscritta entro legittimi spazi di libertà, ma non potrà mai diventare pretesa giuridica in grado di obbligare altri consociati.
Il pensiero liberale è chiaro sul limite della libertà individuale: in generale, non possiamo costringere gli altri a subire le nostre azioni o ad agire come piace a noi. Uno dei corollari di questo principio consiste appunto nel divieto di sottoporre i pazienti a trattamenti non voluti, anche quando questi siano volti a prolungarne la vita (la distinzione fra trattamenti sanitari e non, su cui tanti insistono, è ovviamente del tutto irrilevante in questo contesto). Dall’altro lato il paziente non può obbligare il medico a praticargli trattamenti, come l’eutanasia attiva, che quello rifiuta di attivare (anche se può esservi obbligato dai propri eventuali obblighi deontologici e contrattuali; e ovviamente se il paziente e il medico raggiungono un accordo in tal senso, è fatto divieto a terzi – torniamo qui al principio generale – di interferire nelle loro azioni).
I commenti di Alberto Gambino delineano invece, con cruda chiarezza, un ordinamento del tutto alternativo: il limite alla libertà personale è costituito dal gradimento che «la comunità» nutre nei confronti delle nostre scelte; non possiamo obbligare il medico a desistere da un’azione terapeutica, visto che per i valori «di fondo» la «disattivazione di trattamenti sanitari finalizzati alla salvaguardia della vita» non è ammissibile (Gambino, alquanto incoerentemente, proclama però di rispettare la possibilità di rifiutare le terapie). L’individuo non ha più nessuna autonomia morale, ma è sottoposto invece alla tirannia della maggioranza; Gambino ha almeno il merito di dirlo chiaramente.

102 commenti:

Anonimo ha detto...

Più che altro la posizione di Gambino contiene in sé i semi della propria distruzione.
Se un giorno i "valori di fondo della comunità" diventassero contrari a quelli che vuole Gambino, siamo sicuri che a quest'ultimo andrebbe bene sottoporsi docilmente alla "volontà generale"?
L'autoritarismo è quella cosa che a molti piace solo finché hanno in mano il bastone.

Magar ha detto...

Beh, in fin dei conti Gambino è onesto, dichiara il proprio quadro ideologico fin dal titolo dell'articolo (il titolista di Avvenire ha pienamente colto il "sugo" del commento): l'individuo non ha autonomia morale, perché la sua vita non gli appartiene pienamente, non è per lui "disponibile".
Fine dei giochi, la nostra libertà finisce dove inizia quella del Padrone delle nostre vite, suppongo...

E se qualcuno non condivide la Weltanschauung di Gambino, è una sorta di "sovversivo" morale, che rischia di portare alla pericolosissima "anarchia dei valori". Beh, certo, mica si può lasciar libero l'individuo di scegliersi i propri valori, dato che ha una vita a noleggio!

Barbara ha detto...

per me la cosa ancora più allucinante che la tirannia della maggioranza è il fatto che si ritenga una forma di vita debole come il malato terminale o la persona in fin di vita come rappresentativo del contributo ai valori della comunità. Cosa mai possa contribuire un semi-morto alla comunità, lo sa solo Gambino... per dire fino a che punto si distorcono parole e concetti.

Per questi signori non c'è distinzione tra libertà individuale, egoismo e essere fattori nocivi per la comunità. Non viene loro in mente che, magari, se uno è libero di scegliere, oppure se è vivo e in buona salute, può contribuire meglio alla comunità. No. Meglio uno bravo ad agire a comando e un malato terminale. Loro sì che fanno il bene. Di quello sopra nella struttura gerarchica.

Lutero dove sei...

Anonimo ha detto...

Chissà cosa scriverebbe Gambino se fosse nato in una tribù di cannibali, allora...

Anonimo ha detto...

Come fa Gambino a commentare una sentenza che non è stata ancora pubblicata nel suo testo esteso? (per ora è disponibile solo il comunicato stampa)
Elena

DiegoPig ha detto...

"Gambino, alquanto incoerentemente, proclama però di rispettare la possibilità di rifiutare le terapie"


Il che è un comportamento normale, per i difensori dei diritti non negoziabili.

Il problema di questi signori è che il costo dei loro principi è inaccettabile perfino per i loro stessi correligiosi.

Come nel caso dell'aborto (in cui il presunto diritto a vivere dell'embrione implica il divieto assoluto ed incondizionato all'aborto, anche nei casi in cui la vita della madre sia in pericolo) questi paladini della verità non sono in grado di dichiarare esplicitamente la propria adesione ai principi che proclamano.

Proprio come fa notare lei, Gambino è incoerente quando accetta la possibilità di rifiutare le cure perchè sa che una tale posizione è inaccettabile.



Cordiali Saluti,
DiegoPig

Alberto Gambino ha detto...

Dai commenti mi pare non abbiate colto che la distinzione che propongo corre sul filo libertà-diritto. Mentre la prima gioca il suo ruolo sul piano morale ed è lasciata all'azione individuale, quando si entra sul piano del diritto è l'ordinamento stesso a distinguere tra interessi che assumono il rango di pretese giuridiche e interessi che rimangono nell'alveo della libertà individuale. Solo i primi possono rivestire portata obbligatoria per gli altri consociati, che dunque li "devono" attuare. Ora il caso della volontà individuale legata al fine-vita non ha nel nostro ordinamento la portata di "pretesa giuridica", tant'è che si sta legiferando a proposito. Con la conseguenza che se qualcuno ponesse fine ad un'esistenza umana per assecondare il volere eutanasico del malato incorrerebbe nel reato di omocidio del consenziente o di suicidio assistito.

AG

Alberto Gambino ha detto...

Vorrei anche aggiungere per Magar, che l'espressione "indisponibile" per il diritto significa che "non si può trasferire a terzi" e non certo che non si può esercitare personalmente quel diritto. Infatti i c.d. diritti di libertà sono tali solo se esercitati personalmente, se si cedessero ad altri non sarebbero più diritti di libertà. Si pensi alla libertà di pensiero: potrei forse spogliarmene e trasmetterla ad un altro?

Per DiegoPig:
Il rifiuto di terapie è cosa diversa dall'interruzione di un presidio vitale in atto ad opera di un terzo. Il rifiuto di terapie, infatti, non coinvolge l'azione di un altro soggetto: rimane perciò nell'alveo di quella libertà morale che è incoercibile.

AG

Giuseppe Regalzi ha detto...

@Alberto Gambino:

grazie innanzitutto per i suoi commenti. Mi pare che al di là del disaccordo sui principi fondamentali che devono informare e dare legittimità a un ordinamento giuridico – principi liberali per me e altri commentatori, comunitaristici (se capisco bene) per lei – ci sia un più immediato motivo di dissenso.

Dalla sua risposta a DiegoPig, infatti, vedo che lei considera l'interruzione di un presidio vitale come un'azione che viene richiesta a un soggetto. Ma a me (e direi anche alla Corte tedesca) pare evidente che si tratti invece di un'omissione, di un'astensione dal proseguire un'azione. Ci possono essere alcuni elementi fonte di confusione (come quando si insiste sull'estrazione del sondino, che sembra in effetti un'azione; ma in realtà il sondino rimane al suo posto, e ciò che viene richiesto è invece di cessare di fornire alimenti all'apparato); e la distinzione rischia talvolta di essere sottile. Ma nel complesso mi pare che la situazione sia chiara, a pena di introdurre paradossi nell'ordinamento.

DiegoPig ha detto...

Per Alberto Gambino, 2/7/10 12:07 (PARTE 2)

Altro punto discutibile della sua posizione è l'affermazione che esistano diritti indisponibili nel senso di "non trasferibili a terzi".
Purtroppo, quest'affermazione è palesemente infondata alla luce della semplice considerazione che non esiste l'inazione.

Lasciare le cose come stanno non è inazione: è un'azione intrapresa volontariamente.
Quindi, se davvero alcuni diritti non sono trasferibili ad altri, anche l'azione di lasciare le cose come stanno (che, in questo caso, corrispondono a continuare idratazione e nutrizione) sono una violazione del principio di indisponibilità perchè trasferiscono ad altri (in questo caso ai medici) la decisione di come agire.


Inoltre non si comprende come le sue affermazioni sull'esistenza di diritti indisponibili si accordi con le sue affermazioni circa "il delicato bilanciamento tra libertà dell’individuo e valori di fondo della comunità".
Se un diritto è indisponibile (cioè non trasferibile ad altri), non si capisce perchè mai si debba tenere conto dei valori di fondo della comunità.





Quindi, per concludere, la sua posizione è incoerente per tre aspetti:
1) perchè fa una distinzione di principio, cioè che nutrizione e idratazione non sono trattamenti terapeutici, assolutamente irrilevante ai fini della questione analizzata;
2) Parte dall'assunto errato che la continuazione dell'agire attuale sia equivalente al non agire, cioè che mantenere la situazione attuale non siano una violazione del principio dei diritti indisponibili.
3) Dopo aver affermato che esistono diritti indisponibili (nel senso di non trasferibili ad altri) afferma che tali diritti vanno bilanciati con i valori della comunità (si noti bene: non con i diritti della comunità, ma con i valori), il che equivale ad un trasferimento di tali diritti.

Cordiali Saluti,
DiegoPig

DiegoPig ha detto...

Per Alberto Gambino, 2/7/10 12:07 (PARTE 1)

"Per DiegoPig:
Il rifiuto di terapie è cosa diversa dall'interruzione di un presidio vitale in atto ad opera di un terzo"


Sig. Gambino, rispondo alla sua obiezione allo stesso modo in cui risposi a suo tempo sul gazzettino:

"E cosa cambia?"


Mi spiego: ammettiamo pure che idratazione e nutrizione non possano essere interrotte, nemmeno dietro richiesta del paziente.

Che cosa cambia? Assolutamente nulla, perchè una persona in stato vegetativo permanente è comunque soggetta ad infezioni (virali o batteriche) oppure a condizioni (come la peritonite) che richiedono un intervento terapeutico per essere risolte.

Quindi la sua distinzione non cambia di una virgola i fatti, perchè pur continuando idratazione e nutrizione ma interrompendo i trattamenti indubitabilmente terapeutici (come le cure antibiotiche oppure le operazioni chirurgiche) il paziente cesserà comunque di vivere.

Eppure, per un qualche motivo, lei considera la morte per infezione batterica "moralmente accettabile" (altrimenti non si capisce come possa affermare che il rifiuto delle terapie è legittimo), mentre considera "moralmente inaccettabile" la morte per fame o sete.

Alberto Gambino ha detto...

Vi ringrazio per la possibilità di dialogo.

A Regalzi: la "cessazione di fornire alimenti all'apparato", quando si è attivato un protocollo in tal senso e, dunque, quando l'organismo di un paziente incosciente è in grado di assorbirli è un modo per provocare la morte di un essere umano. Per questo la ritengo illecita ove esercitata da parte di un terzo, in quanto si tratterebbe di compartecipare ad un reato. Ove il paziente fosse invece vigile e chiedesse di sospendere il trattamento, verrebbe dimesso. Altrimenti significherebbe far entrare l'eutanasia nel nostro ordinamento, che - ricordo - non la prevede.

Per DiegoPig: non mi riferivo a pazienti coscienti evidentemente (per i quali vale in ogni caso la possibilità di essere dimessi dal ricovero), ma a pazienti incoscienti: qui entra in gioco il tema delle direttive anticipate di trattamento, che in Italia non sono legge. La mia distinzione non è dunque tra rifiuto di terapia e rifiuto di sostentamento, ma tra rifiuto cosciente e rifiuto presunto (come avvenuto nel caso Englaro): quest'ultimo non lo ritengo giuridicamente percorribile.

Rispetto ai diritti indisponibili, il loro legame con la comunità deriva proprio dal fatto che è quest'ultima a riconoscerli.

AG

DiegoPig ha detto...

Per Alberto Gambino, 2/7/10 13:42 (PARTE 1)


"Per DiegoPig: non mi riferivo a pazienti coscienti evidentemente (per i quali vale in ogni caso la possibilità di essere dimessi dal ricovero), ma a pazienti incoscienti: qui entra in gioco il tema delle direttive anticipate di trattamento, che in Italia non sono legge. La mia distinzione non è dunque tra rifiuto di terapia e rifiuto di sostentamento, ma tra rifiuto cosciente e rifiuto presunto (come avvenuto nel caso Englaro): quest'ultimo non lo ritengo giuridicamente percorribile."


Il che è un problema completamente diverso dall'accettabilità morale o meno di interrompere idratazione e nutrizione.
Il problema che lei ora pone è la "presunzione di rifiuto", che è un problema assolutamente reale.
Ma è tanto reale quanto reale è la "presunzione di accettazione".

Cosa le fa pensare che, in un caso come quello Englaro, la "presunzione di accettazione" sia più fondata della "presunzione di rifiuto"?
Non c'è niente, infatti, che faccia pensare che marcire immobili in un letto di ospedale per 17 anni sia preferibile ad una morte dopo una settimana di sete.

Il caso Englaro ha dimostrato chiaramente che anche coloro che si trovano in stato vegetativo permanente mantengono gli stessi diritti dei pazienti coscienti.
Quindi mantengono anche il diritto di rifiutare le terapie ed il sostentamento.

Ora, il problema è: come determiniamo le volontà del paziente in stato vegetativo permanente?
Lei sembra presupporre che "la vita" sia la scelta più probabile.
Eppure io sono qui a dirle che, succeddesse a me, preferirei la morte per sete piuttosto che 17 anni di immobilità.

Cosa le fa pensare che la sua posizione sia più vicina della mia al pensiero di un generico paziente?

DiegoPig ha detto...

Per Alberto Gambino, 2/7/10 13:42 (PARTE 2)


"Rispetto ai diritti indisponibili, il loro legame con la comunità deriva proprio dal fatto che è quest'ultima a riconoscerli."

Il che è un'affermazione contradditoria: per essere indisponibile, un diritto dev'essere intrinseco alla persona, senza bisogno di riconoscimenti da parte della comunità.
Se ci fosse bisogno di tale riconoscimento, infatti, la comunità potrebbe tranquillamente trasformare un diritto indisponibile in diritto disponibile (il che rende del tutto inutile il concetto stesso di diritto indisponibile).




Per concludere, se deriviamo la distinzione tra morale ed immorale dal fatto che una richiesta sia esplicita o presunta, ci si deve chiedere: perchè il "presunto rifiuto" è meno probabile della "presunta accettazione" (della continuazione del trattamento)?


Cordiali Saluti,
DiegoPig

Giuseppe Regalzi ha detto...

"Per questo la ritengo illecita ove esercitata da parte di un terzo, in quanto si tratterebbe di compartecipare ad un reato".

Questo però è un giudizio basato su ciò che oggi è consentito o non consentito dalla legge. In Germania, a quanto sembra, la sospensione dell'alimentazione non è più reato, ma lei è contrario lo stesso. Mi pare allora che l'oggetto della discussione dovrebbe essere se la legge è giusta o meno, non se una certa condotta sia condannata o meno dalla legge.

Alberto Gambino ha detto...

Sulla presunzione di volontà ritengo - Costituzione alla mano - che nel dubbio occorra seguire l'interpretazione più coerente con la tutela del bene vita.

Sulla giustizia o meno di una legga il sistema normativo esistente offre sempre spunti rilevanti, in quanto è espressione dell'etica condivisa di una comunità organizzata. Certamente non è detto che però quell'etica corrisponda alla morale personale di ciascun consociato.

AG

DiegoPig ha detto...

Per Alberto Gambino, 5/7/10 14:47

"Sulla presunzione di volontà ritengo - Costituzione alla mano - che nel dubbio occorra seguire l'interpretazione più coerente con la tutela del bene vita."



Ma questo non spiega perchè lei ritenga più significativa, ai fini della presunzione di volontà, la parte in cui la costituzione difende la vita piuttosto che la parte che sancisce il diritto di rifiutare le terapie (diritto che lei riconosce).

Quindi la costituzione stessa ritiene la vita un valore secondario rispetto alla libertà del cittadino di scegliere se accettare o meno le terapie (anche a costo della vita stessa).

Perciò la domanda resta: perchè per un cittadino cosciente la libertà di scelta è più importante della vita mentre per il cittadino in stato vegativo permanente no?


Cordiali Saluti,
DiegoPig

paolo de gregorio ha detto...

Alberto Gambino, mi legge dov'è scritto nella Costituzione italiana che le leggi debbano dare "espressione dell'etica condivisa di una comunità organizzata"? E dove starebbe inoltre scritto che queste ultime sovrascrivano la "morale personale di ciascun consociato"?

A me pare che l'articolo 3 sia abbastanza chiaro: lo Stato non frappone, ma "rimuove" gli ostacoli alla realizzazione personale, principio che non vedo come possa conciliarsi con l'idea che lo Stato (per vece della collettività) invece possa eventualmente annullare l'aspirazione alla realzizazione personale.

In buona sostanza, negli stati liberali e costituzionali non vengono posti limiti se non in base al principio che non si devono creare conflitti tra libertà contrapposte, mentre qualora esista un riconoscimento che qualcuno inquadrerebbe (a torto o a ragione) come "etico", esso viene sempre inteso in senso positivo e non negativo: a chi vuole contribuire in un certo modo costruttivo alla collettività lo Stato mette in mano strumenti in più, ma mai viene sancito che chi non voglia contribuire allo stesso modo debba vivere sotto libertà vigilata. Come esempio prendo il caso del matrimonio: la Costituzione riconosce privilegi ai coniugi, ma non per questo "punisce" chi non si sposa, né costringe i "consociati" a sposarsi.

Confesso che l'idea che la Costituzione preveda invece una realizzazione di un'etica collettiva attraverso la privazione della libertà di qualcuno dei suoi cittadini - a seconda dei propri principi (esclusivamente) morali - mi è del tutto nuova: lei sta paro paro proponendo che se il mio principio morale non va a genio alla collettività allora io non tanto non accedo ad alcuni privilegi, ma vengo addirittura privato di parte della mia libertà personale, a prescindere dal nocumento materiale che io possa arrecare ad altri con i miei principi (ma meramente per effetto del fatto che essi non vengono riconosciuti da tutti).

Poi certo, tutto starebbe a stabilire se sul mio corpo la Sua libertà di farne quello che ritiene di farne (del mio corpo) prevalga sulla mia libertà di disporne: curioso quindi che dalla mia indisponibilità sul mio corpo Lei tenti di far discendere il principio che, al contrario di me, Lei abbia totale disponibilità di esso.

Aggiungo che si sta anche dando adito ad una falsa contrapposizione. Prendiamo i testimoni di Geova: come fa Lei a conciliare il loro eventuale diritto, che spero ritenga sacrosanto, di non voler operare (magari sotto minaccia della legge) trasfusioni di sangue su terzi, con il diritto del paziente? Posso immaginare che mi risponderà che il testimone di Geova non dovrebbe esercitare la professione di medico o infermiere, in modo che rimarrà libero di esercitare la propria libertà di coscienza senza interferire con altre libertà. Con una minima estrapolazione sono certo che si accorgerà che le sentenze di cui stiamo parlando non possono essere considerate in immediata e ineliminabile contrapposizione con il diritto alla libertà di coscienza: lo sono solo nel momento in cui Lei pretende di lasciar intendere che le professioni vengano esercitate sotto coercizione.

Alberto Gambino ha detto...

A DiegoPig: perchè nel secondo caso non abbiamo certezza.

A De Gregorio: non tutte le aspirazioni sono assecondate dallo Stato. Ad esempio un'aspirazione suicidaria in Italia non lo è. E ciò discende proprio dal fatto che l'ordinamento e chi lo vota si rifanno a certi valori etici.

L'ultimo commento di De Gregorio fa trasparire l'idea che il nostro ordinamento debba ritenere "assoluta" la volontà dei consociati, salvo che questa non si scontri con altre libertà e che giammai possa cozzare contro valori che lo stesso ordinamento ritiene superiori. Ma non è così. Faccio un altro esempio meno pregno di conflittualità:
anche se un lavoratore volesse lavorare ventiquattro ore al giorno ciò non è consentito dall'ordinamento in quanto va contro la dignità e l'integrità fisica della persona. Qui non c'è conflitto - per usare le Sue espressioni - "tra libertà contrapposte". Eppure - ripeto - ove il lavoratore volesse lavorare oltre i limiti temporali legali con tutte le sue forze e con tutta la sua volontà e libertà, ciò non sarebbe considerato legittimo dall'ordinamento.

AG

Alberto Gambino ha detto...

Sempre a De Gregorio:

mi pare di avere spiegato che il termine indisponibilità non significa divieto di esercizio della propria libertà ma preclusione a cedere a terzi quella libertà. L'indisponibilità del diritto alla vita significa che nessuno può uccidere un altro essere umano, neanche su delega di questo. Se, dunque, l'eliminazione di un presidio vitale porta a questo, ciò non può compiersi attraverso l'atto di un terzo. Attenzione, non stiamo parlando di casi di accanimento terapeutico, dove invece è doveroso anche da parte di un terzo interrompere il trattamento.

AG

Paolo C ha detto...

@Alberto Gambino
c'e' da dire che questo limite vale per il lavoratore dipendente, che ha sottoscritto un contratto con un'altra parte. Il lavoratore autonomo in sostanza non ha vincoli di orario.
Una mia dichiarazione scritta di non volere, per esempio, essere sottoposto ad alimentazione se mi trovassi nella condizione della Englaro per n anni, violerebbe un contratto che ho sottoscritto con qualcuno?

paolo de gregorio ha detto...

@ AG

"non tutte le aspirazioni sono assecondate dallo Stato. Ad esempio un'aspirazione suicidaria in Italia non lo è"

Mi sa citare un caso in cui un tentato suicida sia stato per ciò vessato dallo Stato italiano, civilmente o penalmente? Posso anche garantire di avere la libertà, in Italia, di lavorare 24 ore su 24 quando voglio (casomai ad essere regolata è la mia posizione fiscale o retributiva). Forse non sono stato affatto chiaro e mi scuso se questo sia stato dovuto alla mia prolissità, sarò più conciso: la Costituzione italiana non prevede di sovrastare la libertà di scelta individuale sulla base dei principi etici di un suo citaddino, rispondendo alla domanda se siano o meno conformi a quelli graditi alla maggioranza dei concittadini. Questo Lei ha proposto, mi sembra: che il mio diritto sul mio corpo cesserebbe e passerebbe e Lei e ad altri, per esempio quando impossibilitato a difendermi da Lei o da altri, perché la mia morale dovrebbe essere riconosciuta, dallo Stato, come inferiore alla Sua (quella che ha precisato essere l'indisponibilità). Dalla lettura dei Suoi commenti mi aspetterei che Lei rivendicasse con fierezza questa mia ricostruzione, se non ho perso definitivamente familiarità con l'italiano.

Ma insisto nel dire che non è questo che prevede la nostra Costituzione, e che la non assecondazione non può farsi corrispondere con un divieto coatto per mero amor di retorica paradossale: perché sono due cose diverse (come diverso è desistere dall'assistere un suicida rispetto al reiterare un intervento su di un altro corpo).

DiegoPig ha detto...

Per Alberto Gambino, 5/7/10 21:18


"[Perciò la domanda resta: perchè per un cittadino cosciente la libertà di scelta è più importante della vita mentre per il cittadino in stato vegativo permanente no? n.d.DiegPig]
A DiegoPig: perchè nel secondo caso non abbiamo certezza."


La presenza di certezza è irrilevante, perchè è indifferente alla scelta che si opera per conto del paziente in stato vegetativo permanente.
Sia l'interruzione che la continuazione del trattamento, infatti, sono comportamenti che avvengono nell'incertezza.
Quindi la presenza dell'incertezza non giustifica una propensione alla continuazione del trattamento (piuttosto che una sua interruzione).

Oltre a questo, si può affermare che la certezza non esista mai, in nessun caso, nemmeno quando il paziente è cosciente.
Cosa ci impedisce, infatti, di pensare che il paziente non stia compiendo una scelta ponderata ma frutto di paura o disperazione momentanea?
E cosa ci impedisce di pensare che un paziente, dopo aver deciso di interrompere il trattameto, non cambi idea un attimo prima di perdere conoscenza?

La certezza è un requisito non soddisfabile nemmeno nel caso dei pazienti coscienti, quindi non può essere un requisito.




Inoltre la sua risposta non risponde alla mia domanda, che era relativa ai valori del paziente.




Quindi la mia domanda (anche se espressa in modo più completo) resta:



Perchè ritiene che, nel soli casi di stato vegetativo permanente, la continuazione del trattamento sia il comportamento che più probabilmente si avvicina alla volontà presunta del paziente?



Cordiali Saluti,
DiegoPig

Alberto Gambino ha detto...

Perchè trattandosi di un bene fondamentale come la vita, in caso di incertezza, prevale la sua tutela.

AG

DiegoPig ha detto...

Alberto Gambino, 6/7/10 12:20


"[Perchè ritiene che, nel soli casi di stato vegetativo permanente, la continuazione del trattamento sia il comportamento che più probabilmente si avvicina alla volontà presunta del paziente?, n.d.DiegoPig]

Perchè trattandosi di un bene fondamentale come la vita, in caso di incertezza, prevale la sua tutela."


Mi permetto di criticare la sua risposta in tre punti:

1) La sua risposta non risponde alla mia domanda


Io ho chiesto perchè mai lei ritenga che la continuazione del trattamento sia il comportamento che più probabilmente si avvicina alla volontà presunta del paziente.
Lei risponde che la vita è un bene fondamentale, ma questo non ha nulla a che fare con la volontà del paziente, poichè alcuni ritengono che esistano valori più importanti della vita (come la libertà di scelta, ad esempio).




2) Lei risponde che "... in caso di incertezza..."


Ma come le ho già scritto, l'incertezza esiste sempre e comunque, anche nel caso di pazienti coscienti.
Quindi non si capisce perchè lei ritenga l'incertezza un parametro importante per i pazienti in stato vegetativo permanente ma non per i pazienti coscienti.


3) Lei risponde che "la vita è un bene fondamentale".


Ma non è l'unico bene fondamentale, nè il più importante.
La nostra stessa costituzione riconosce che la libertà è più importante della vita, poichè riconosce il diritto di rifiutare i trattamenti anche a costo della vita.

Quindi non si capisce perchè, per un paziente in stato vegetativo permanete, la vita diventi il bene supremo (quando non lo è per i pazienti coscienti) la cui tutela giustifichi la violazioni di altri diritti (cosa che non avviene per i pazienti coscienti).




Cordiali Saluti,
DiegoPig

Alberto Gambino ha detto...

A DiegoPig


1) Ritengo che la continuazione del trattamento sia il comportamento più coerente con il nostro ordinamnto in quanto, nel dubbio, prevale come detto la tutela della vita. Peraltro è contraddittorio dare tanta importanza alla libertà di scelta proprio quando tale scelta non viene esercitata.

2) Parlo evidentemente di incertezza giuridica e nel caso dei pazienti coscienti non c'è incertezza giuridica

3) Confermo che "la vita è un bene fondamentale"; mentre quello che Lei chiama "il diritto di rifiutare i trattamenti anche a costo della vita" è piuttosto una libertà come ho rilevato in precedenza, con tutte le conseguenze giuridiche del caso.

AG

DiegoPig ha detto...

Alberto Gambino, 6/7/10 17:06 (PARTE 1)


"Ritengo che la continuazione del trattamento sia il comportamento più coerente con il nostro ordinamnto in quanto, nel dubbio, prevale come detto la tutela della vita."


Ma questo non risponde alla domanda: perchè tale comportamento è quello che più probabilmente si avvicina alla volontà del paziente?




"Peraltro è contraddittorio dare tanta importanza alla libertà di scelta proprio quando tale scelta non viene esercitata."


La libertà di scelta viene esercitata anche in modo anticipato, non necessariamente "all'istante".
Quindi non si capisce perchè una scelta esercitata in modo anticipato non debba aver valore.
Immaginiamo che io esprima chiaramente, davanti a testimoni, la mia volontà di interrompere ogni trattamento in caso di stato vegetativo permanente (S.V.P).
Se io esprimo questa mia volontà un anno prima del sopraggiungere dello S.V.P., questa espressione va considerata espressione di volontà?
E se la esprimo un mese prima? Oppure dieci minuti prima? Penso ad un incontro tra amici al bar dopo il quale vengo coinvolto in un grave incidente d'auto.

Non è chiaro, cioè, cosa tolga valore ad una volontà espressa precedentemente.





"Parlo evidentemente di incertezza giuridica e nel caso dei pazienti coscienti non c'è incertezza giuridica"


Il che ci porta ad una domanda: nel caso venga emanata una legge che permette le disposizioni anticipate di trattamento, vanno queste considerate come espressione affidabile di volontà?
Oppure se, invece di esprimere a voce le mie volontà, le esprimo davanti ad un notaio?
In nessuno di questi due casi ci sarebbe incertezza giuridica, quindi si ricadrebbe nel caso da lei considerato.

Vanno, questi casi, considerati espressione affidabile di volontà?

DiegoPig ha detto...

Alberto Gambino, 6/7/10 17:06 (PARTE 2)


"Confermo che "la vita è un bene fondamentale"; mentre quello che Lei chiama "il diritto di rifiutare i trattamenti anche a costo della vita" è piuttosto una libertà come ho rilevato in precedenza, con tutte le conseguenze giuridiche del caso."


Dal che deriva una ovvia considerazione: la nostra costituzione non difende il bene fondamentale della vita.
E' palese, infatti, che conferendo il diritto di rifiutare i trattamenti anche a costo della vita, la nostra costituzione riconosce che la vita non è meritevole di difesa oppure che la libertà di scelta è più meritevole di difesa della vita.


Il che ci riporta alla domanda principale: perchè nei casi di pazienti in S.V.P. dovremmo supporre che la vita sia il bene maggiormente meritevole di difesa?
Questa ipotesi non deriva certamente dalla costituzione che, come visto, implementa una diversa scala di priorità.



Cordiali Saluti,
DiegoPig

Alberto Gambino ha detto...

Caro DiegoPlig mi pare che il dialogo si stia facendo un pò circolare, nel senso di tornare sempre al punto di partenza. A questo punto nel confermare che la libertà di cui all'art. 32 non significhi affatto retrocedere il bene vita a bene disponibile, rinvio all'approfondito scritto di un altro collega, che ritengo meriti di essere letto: http://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0148_mangiameli.pdf

Con cordialità,

AG

DiegoPig ha detto...

Per Alberto Gambino, 7/7/10 13:25

Purtroppo il link non sembra funzionare, nel senso che ottengo solamente una pagina bianca.
Quindi sono costretto a risponderle senza aver letto lo scritto del suo collega (che spero di fare quanto prima).

Se ho compreso bene la sua posizione, lei afferma che esista uno "spartiacque" (cioè la presenza o meno di coscienza in un paziente) che determina se la volontà di detto paziente vada seguita o meno qualora si debba decidere se interrompere ogni trattamento, terapeutico o meno.

La mia contestazione in merito riguarda la giustificazione che lei dà dell'esistenza di tale "spartiacque".


Lei, finora, ha giustificato tale presenta con l'affermazione che la vita è un bene indisponbile.

Ma, nei casi di pazienti in S.V.P. quest'affermazione è applicabile tanto alla continuazione del trattamento quanto all'interruzione dello stesso (poichè necessariamente l'agire.
Quindi non è derivabile, dall'indisponibilità del bene vita, la conclusione che continuare il trattamento è la giusta scelta.



Lei ribatte che, poichè la vita è un bene fondamentale, allora nel dubbio è preferibile la sua protezione.

Ma io le ho contestato che proprio l'esistenza dell'art 32 della costituzione implica che la vita non è IL bene fondamentale, quel bene la cui protezione è imperativa.
Proprio l'art 32, infatti, afferma che un cittadino possa agire anche a discapito della propria vita.
Inoltre nemmeno l'esistenza del dubbio è un criterio valido per determinare l'agire, perchè l'incertezza esiste sempre e comunque, anche nei casi di pazienti coscienti.


In merito al dubbio, lei ribatte che si riferisce al dubbio giuridico.

Io le rispondo che il "dubbio giuridico" può essere sciolto con le forme (presenti e future) previste dalla legge.
Quindi, immaginando che la legge sulle D.A.T. entri in vigore, non ci sarebbe più alcun dubbio giuridico sulle volontà del paziente in S.V.P.




Per concludere, forse il nostro scambio sta diventando circolare perchè non (mi) è chiaro se la sua posizione possa essere riassunta in una critica di merito (cioè "interrompere il trattamento per i pazienti in S.V.P. è sempre e comunque sbagliato") oppure di metodo (cioè "attualmente l'interruzione del trattamento in pazienti in S.V.P. è sbagliato perchè non corrisponde ai criteri giuridici, ma qualora i criteri cambiassero le critiche cadrebbero").



Cordiali Saluti,
DiegoPig

DiegoPig ha detto...

Errata corrige:

La frase:

"Ma, nei casi di pazienti in S.V.P. quest'affermazione è applicabile tanto alla continuazione del trattamento quanto all'interruzione dello stesso (poichè necessariamente l'agire."


Va intesa come:

"Ma, nei casi di pazienti in S.V.P. quest'affermazione è applicabile tanto alla continuazione del trattamento quanto all'interruzione dello stesso (poichè necessariamente l'agire avviene da parte di soggetti diversi dal paziente).


Cordiali Saluti,
DiegoPig

Alberto Gambino ha detto...

Per il link, in effetti, si può fare un taglia e cuci...

La mia critica è certamente di metodo: allo stato in assenza di una legge non vedo appigli normativi per legittimare testamenti biologici.

Nel merito mi pare che le nostre posizioni ripercorrano due solchi inconciliabili. L’una fa proprie le ragioni della lezione lapiriana sull’art. 2 della Costituzione, dove la Repubblica “si inchina” alla persona, come "bene giuridico in sè"; l’altra ritiene che i diritti di libertà abbiano natura di pretese giuridiche e, dunque, necessità di una loro attuazione da parte delle amministrazioni o della comunità, pena la loro giuridica inesistenza.

Due visioni che, con tutti i limiti delle esemplificazioni, potremmo definire, rispettivamente, “personalista” e “individualista” (quest’ultima con accentuazioni liberiste, ove si faccia leva sulla sovranità dell’autodeterminazione).

Ritengo che la nostra Carta costituzionale abbia sposato la prima visione (in questo senso riguardo alla portata dell'art. 3, faccio mie le considerazioni svolte da Mangiameli in quel saggio che ho linkato). Perciò anche nel merito non condivido una legge sul testamento biologico che legittimi l'attuazione di desideri individuali eutanasici.

AG

DiegoPig ha detto...

Per Alberto Gambino, 7/7/10 18:01


"Per il link, in effetti, si può fare un taglia e cuci.."

Purtroppo prima avevo un problema di browser, che tagliava il link a "http://www.forumcostituzionale.it/site/images"
Ora finalmente vedo il paper e lo leggerò quanto prima.



Mi permetto, però, di criticare ora una parte della sua risposta.
(Si noti, ovviamente, che tale mia critica è espressa nell'ignoranza del saggio da lei linkato).





"Ritengo che la nostra Carta costituzionale abbia sposato la prima visione...
...
Perciò anche nel merito non condivido una legge sul testamento biologico che legittimi l'attuazione di desideri individuali eutanasici."



Il punto su qui verteva la mia precedente critica era esattamente questo: che lei ritiene accettabile l'attuazione di desideri individuali eutanasici solamente per i pazienti coscienti.

A quanto comprendo, lei non mette in dubbio il diritto di rifiutare ogni trattamento da parte di pazienti coscienti, nonostante questo diritto sia in contrasto con la visione "personalistica" della costituzione.

In sostanza, il problema che sollevo in merito alla sua posizione non è tanto il rifiuto di assecondare i desideri eutanasici dell'individuo, ma la limitazione di tale rifiuto ai pazienti non coscienti.


Lei si è spesso riferito al "dubbio" sulla presunta scelta del paziente non cosciente, ma nel suo ultimo commento non v'è riferimento al dubbio come parametro di giudizio.
Anzi, per come la comprendo io, l'interpretazione "personalistica" (da lei brevemente descritta) pone in secondo piano i diritti di libertà rispetto alla persona come bene giuridico indipendentemente dalla condizione di tale persona.

Questa mia interpretazione sembra venir confermata dalla sua affermazione che lei non condivide una eventuale legge sul testamento biologico (che annullerebbe di fatto l'esistenza dell'incertezza giuridica).



Ecco perchè secondo me la sua posizione continua ad essere incoerente indipendentemente dall'interpretazione che si da della costituzione: perchè afferma che, al contrario di un paziente cosciente, un paziente non cosciente non gode del diritto di rifiutare i trattamenti (indipendentemente dall'esistenza o meno del "dubbio giuridico").



Cordiali saluti,
DiegoPig

DiegoPig ha detto...

Per Alberto Gambino: il paper


Ho appena finito di leggere il paper da lei linkato, ma sinceramente non ho trovato risposta alla mia domanda e cioè: perchè mai vi dovrebbe essere un differente trattamento tra pazienti coscienti e pazienti non coscienti?


L'unica parte che potrebbe avvicinarsi alla questione da me posta è a pag. 20, quando si scrive:

"certamente non esiste un diritto alla morte e, in particolare, alla morte per mano pubblica, come ci rammenta l’art. 27, comma 4, Cost., che afferma 'non è ammessa la pena di morte'"


Come scriveva lei, la posizione espressa dal paper in questione è del tipo personalistica.
Questo spiega, in parte, perchè si sembra presumere che l'innegabile "diritto alla vita" implichi un "dovere alla vita".

A pag. 18, infatti, si scrive:

"A tal riguardo si sostiene che nel principio secondo cui 'nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario' bisogna riconoscere un diritto all’autodeterminazione in ordine al rifiuto della cura, alla scelta del fine vita, alla legittimità dell’eutanasia, come forma di
salvaguardia della dignità umana, ecc.

È bene dire subito che queste pretese così formulate non hanno fondamento costituzionale e non si possono basare su questa disposizione della Carta, né su altre, che anzi il sistema costituzionale sembra porsi in una diversa direzione. "


Il che mi pare in constrasto con la sua posizione, secondo cui il diritto a rifiutare ogni trattamento è indiscutibile.






In conclusione, il paper da lei linkato abbraccia una visione che implica la continuazione del trattamento nei pazienti in S.V.P. come logica conseguenza del fatto che nemmeno per i pazienti coscienti è accettabile interrompere il trattamento.
Posizione condivisibile o meno, questa è comunque una posizione coerente.


Incoerente, invece, è la sua posizione (per come l'ho intesa io) secondo cui è accettabile interrompere i trattamenti nei pazienti coscienti ma non nei pazienti in S.V.P.




Cordiali Saluti,
DiegoPig

Alberto Gambino ha detto...

Insisto: la libertà di rifiutare una cura non coincide con l'assegnazione di un diritto di rifiuto di cura; dunque si può esercitare soltanto in stato di coscienza.

AG

DiegoPig ha detto...

Per Alberto Gambino, 8/7/10 13:40

"Insisto: la libertà di rifiutare una cura non coincide con l'assegnazione di un diritto di rifiuto di cura; dunque si può esercitare soltanto in stato di coscienza."


Mi spiace, ma non capisco questo suo ultimo intervento.
Anche ammettendo che "la libertà di rifiutare una cura non coincide con l'assegnazione di un diritto di rifiuto di cura", non capisco perchè tale libertà s possa esercitare solamente in stato di coscienza.

E' proprio il "dunque si può esercitare soltanto..." che le chiedovo di giustificare nei miei interventi precedenti.

In particolare, è il "soltanto" che ritengo sia la fonte dell'incoerenza.

Cordiali Saluti,
DiegoPig

paolo de gregorio ha detto...

@ AG

"la libertà di rifiutare una cura non coincide con l'assegnazione di un diritto di rifiuto di cura"

Quando la Costituzione dice "può" (rifiutare una cura) in realtà intende dire che "non ha diritto" (di rifiutare una cura)? Interessantissimo. Da par mio dico che non mi sorprende affatto come scandaloso che di norma i giudici non sposino questo nuovo sillogismo.

Alberto Gambino ha detto...

Caro De Gregorio, il diritto non è un'opinone come pare trapeli dall'ultimo post.
La Costituzione non dice da nessuna parte che il paziente "può rifiutare una cura", ma si esprime in questo modo assai diverso: "nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario"; il che appunto significa che a nessuno può essere imposto coattivamente un trattamento. Di qui a dire che il paziente avrebbe un diritto (che dunque obbliga il medico ad eseguirlo) a chiedere la sua compartecipazione attiva ad attuare procedure eutanasiche davvero ce ne corre.
A DiegoPig, confermo che chi è in stato di incoscienza non "può", direi ontologicamente, esercitare la libertà di rifiuto di cura; al limite la si può giuridicamente (non fenomenologicamente) presupporre: ma appunto questo sarebbe l'oggetto di un eventuale intervento normativo.

AG

DiegoPig ha detto...

Per Alberto Gambino, 8/7/10 15:12

"A DiegoPig, confermo che chi è in stato di incoscienza non "può", direi ontologicamente, esercitare la libertà di rifiuto di cura; al limite la si può giuridicamente (non fenomenologicamente) presupporre: ma appunto questo sarebbe l'oggetto di un eventuale intervento normativo."


Mi permetta, ma questo è l'argomento (già affrontato) dell'assenza di certezza.

Come avevo già scritto, la certezza non è presente nemmeno nel caso di pazienti coscienti perchè anche un paziente cosciente potrebbe cambiare idea un attimo prima di perdere coscienza.
Quindi, ogni qualvolta il paziente diviene incosciente, cade la certezza.

Il che porterebbe al paradosso che un paziente è libero di rifiutare il trattamento solo finchè è cosciente ma, appena scivola nell'incoscienza, il medico è obbligato a riprendere immediatamente il trattamento.


Quanto alla "volontà giuridica", lei ha già affermato che non la ritiene accettabile (come criterio decisionale), quindi è irrilevante ai fini della questione che le pongo.




Ecco perchè continuo a non comprendere su quale base lei giustifica la disparità di trattamento tra paziente cosciente ed incosciente.





Cordiali Saluti,
DiegoPig

Luca Simonetti ha detto...

Gambino, scusi la pedanteria, ma la sua teoria ("La Costituzione non dice da nessuna parte che il paziente "può rifiutare una cura", ma si esprime in questo modo assai diverso: "nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario"; il che appunto significa che a nessuno può essere imposto coattivamente un trattamento") è veramente bizzarra: poter rifiutare una cura e non poter essere obbligati a subire una cura sono esattamente LA STESSA COSA, e sinceramente farebbe un favore a tutti quanti, e a se stesso per primo, se lo ammettesse una buona volta. Anche perché quel che segue ("Di qui a dire che il paziente avrebbe un diritto (che dunque obbliga il medico ad eseguirlo) a chiedere la sua compartecipazione attiva ad attuare procedure eutanasiche davvero ce ne corre"), che secondo me è in gran parte giusto almeno a diritto vigente, non c'entra nulla col diritto a rifiutare la cura.

paolo de gregorio ha detto...

@ AG

Non ho mai fatto riferimento a "compartecipazione attiva ad attuare procedure eutanasiche", legga con più attenzione. Il tema peraltro lo ha proposto lei, non io, quindi lo conosce bene ed è meglio che non divaghiamo. Mi riferivo al fatto che Lei sostiene che non esiste il diritto di rifiutare una cura, nonostante la libertà personale sia "inviolabile" e nonostante "nessuno possa essere obbligato" a ricevere una cura (vede, mi sono anche corretto). Insisto che a parte l'esercizio linguistico la tesi è giuridicamente non consequenziale, perché priva di ogni efficacia (come di fatto rimarcato da DiegoPig): che Lei lo chiami diritto oppure non diritto, permane il divieto sostanziale di coercire qualcuno alla cura. Ci deve dire finalmente in base a quale superiore principio costituzionale (non suo personale né gusto maggioritario) esso può essere superato in una determinata situazione e fatto così proprio da un giudice.

Ps:: ma se nessuno può obbligarmi a ricevere una cura, ma al tempo stesso io non ho diritto di rifiutarla, nel caso che io sia desideroso di rifiutarla in un caso particolare un giudice a chi dovrebbe dare ragione? A cosa dare la precedenza? Al fatto che io non ho mai acquisito questo diritto, e quindi acconsentire che la cura mi sia somministrata contro i miei desideri, oppure al fatto che io non posso essere obbligato, e quindi acconsentire alla soddisfazione della mia volontà?

paolo de gregorio ha detto...

DP dice:

"la certezza non è presente nemmeno nel caso di pazienti coscienti perché anche un paziente cosciente potrebbe cambiare idea un attimo prima di perdere coscienza"

Non solo, potrebbe cambiarla persino senza mai perdere coscienza, entrando in conflitto con se stessa nella medesima persona: ci fu quel famoso caso di una donna che rifiutò l'amputazione della gamba che le avrebbe slavato la vita. Ipoteticamente, la donna avrebbe benissimo potuto cambiare idea da viva e cosciente (ma solo) in un secondo momento, quando l'infezione fosse arrivata al punto di non ritorno: eppure si è ugualmente considerato che non le potesse essere tolta la gamba con la forza, nemmeno se per salvarle la vita e seppur stante la possibilità non nulla di un successivo ripensamento. La dichiarazione di "volontà" fa sempre testo nel momento in cui essa viene espressa e può venire espressa, altrimenti si potrebbe sostenere che la volontà dell'individuo è sempre ipoteticamente e arbitrariamente superabile e quindi annullabile da un disposto liberticida.

Alberto Gambino ha detto...

Per quanto Vi ostiniate a non cogliere la sostanziale differenza tra il rifiuto cosciente ed uno pseudo e presunto rifiuto di paziente incosciente, Vi rammento che tale distinzione è esattamente quella della giurisprudenza di legittimità italiana che afferma
che la validità di un consenso preventivo ad un trattamento sanitario è esclusa in assenza
della doverosa, completa, analitica informazione sul trattamento stesso, e, d’altro canto,l’efficacia di uno speculare dissenso 'ex ante', privo di qualsiasi informazione medico
terapeutica “deve ritenersi altrettanto impredicabile sia in astratto che in concreto, qualora
il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo pienamente''.

AG

AG ha detto...

A Luca:

quanto alla bizzarria della distinzione tra rifiuto di cura e divieto di terapie imposte lo vada a raccontare ai Nostri Costituenti che quando scrissero l'art. 32 avevano davanti agli occhi vaccinazioni e terapie sperimentali imposte dall'autorità e non certo il rapporto individuale medico-paziente, dal quale si può liberamente uscire, senza alcuna necessità di rivendicare diritti. Si risparmi pure il sarcasmo, se non vuole far scadere questo dialogo in una sterile contrapposizione.

AG

paolo de gregorio ha detto...

L'ostinazione secondo me non è nostra, perché lei afferma dei principi ma non li giustifica: qui siamo invece abituati ad argomentare secondo logica. DiegoPig con tutti noi è in attesa da giorni di una risposta sul perché una persona perderebbe il diritto di rifiutare un trattamento nel momento in cui perdesse conoscenza.

Allora le pongo un quesito facile facile: io sono un medico che voglio con ogni ostinazione praticare un intervento su un paziente, mettiamo anche salvavita, ma lui si rifiuta: lo porto allora in sala operatoria mentre dorme oppure se è sedato. Secondo lei mi pare di capire che posso farlo, perché la volontà ex ante non è assecondabile in stato di incoscienza. Non le pare la mia deduzione ineccepibile, seguendo il suo filo logico?

Peraltro con il suo ultimo virgolettato si spinge persino oltre: per sottoporre un paziente ad un trattamento obbligatorio non mi servirebbe altro che sottacergli i particolari di tale intervento, perché se egli non ne conoscesse le modalità allora non sarebbe in grado di opporre un "rifiuto informato".

DiegoPig ha detto...

Per Alberto Gambino, 8/7/10 23:35

"Per quanto Vi ostiniate a non cogliere la sostanziale differenza tra il rifiuto cosciente ed uno pseudo e presunto rifiuto di paziente incosciente, Vi rammento che tale distinzione è esattamente quella della giurisprudenza di legittimità italiana ..."


Ma questa è solamente una questione giuridica, che può essere risolta da una legge dello stato (come quella eventuale sul testamento biologico).

Si tratta, cioè, dell' argomento della "certezza giuridica", che mi pare di capire lei non considera comunque accettabile nemmeno qualora venisse risolto dalla legge.


Lei fa l'esempio del consenso informato, ma (pur non conoscendo la legge in merito) dubito che venga richiesta al paziente una laurea in medicina.
Non viene richiesta, cioè, l'unica condizione che possa assicurare che il paziente comprende appieno i rischi ed in benefici di un determinato trattamento.

E' ovvio che tale richiesta sarebbe assurda perchè impraticabile, quindi il legislatore (dovendo necessariamente agire) ha scelto ciò che più vi si avvicina.
Dubito che lei (nonostante esista la reale possibilità che il paziente non abbia compreso appieno le conseguenze delle sue scelte) sia dell'opinione che questa scelta sia insufficiente a garantire un vero "consenso informato" e che, quindi, al paziente non dovrebbe essere data la possibilità di scegliere quale terapia seguire.

Credo, perciò, che sia questo il nodo d'incoerenza del suo argomento: che solo ed esclusivamente nel caso di pazienti in S.V.P. esista un dubbio irrisolvibile che, perciò, diventa criterio sufficiente a derivare sempre e comunque la prosecuzione del trattamento.


Io ritengo che questa posizione sia ingistificabile, perchè come già detto:
1) Il dubbio irrisolvibile esiste sempre e comunque
2) la vita non è il bene più prezioso nè per la costituzione nè per le leggi dello stato (quindi non v'è giustificazione per una scelta univoca della prosecuzione del trattamento).




E' necessario, però, che chiarisca che nella mia opinione la libertà di rifiutare un trattamento non si traduce, ovviamente, in una disposizione del tipo "nel caso X il medico deve fare Y".
Nella mia opinione, tale libertà si deve poter tradurre in disposizioni del tipo "nel caso X il medico *non* deve fare Y".

Questo esclude disposizioni del tipo eutanasico (iniezioni letali o dosi letali di morfina, per essere chiari), mentre non esclude disposizioni di astensione di trattamento (astenersi dall'effettuare operazioni chirurgiche oppure trattamenti antibiotici).

Come già detto, possiamo tranquillamente escludere idratazione e nutrizione dai trattamenti interrompibili perchè, come già detto, sono irrilevanti ai fini pratici.



Cordiali Saluti,
DiegoPig

Luca Simonetti ha detto...

Gambino, scusi, ma io non stavo facendo del sarcasmo, stavo solo cercando di capire perché secondo lei "poter rifiutare X" e "non poter essere obbligato a X" sarebbero due frasi con diverso significato. E continuo a non capirlo. L'art. 32 Cost. non contrappone "cure" a "terapie sanitarie", che rimangono la medesima cosa. Né capisco cosa c'entri dire che
"i Nostri Costituenti ... quando scrissero l'art. 32 avevano davanti agli occhi vaccinazioni e terapie sperimentali imposte dall'autorità e non certo il rapporto individuale medico-paziente, dal quale si può liberamente uscire, senza alcuna necessità di rivendicare diritti." L'obbligo di cura può esistere tuttora, purché in base a disposizione di legge, come recita appunto la Costituzione; in tutti gli altri casi no, e quindi il diritto di rifiutare la cura esiste eccome, ed è appunto sancito dalla medesima norma. Non c'è bisogno di "rivendicare" alcun diritto, dato che il diritto di rifiutare la cura già esiste (ed è snacito anche in parecchie altre norme, oltre che nell'art. 32). Oppure secondo lei se arriva un medico che mi vuole fare un'iniezione contro la mia volontà io non avrei il diritto di impedirglielo, perché si tratta di un mero "rapporto individuale medico-paziente, dal quale si può liberamente uscire, senza alcuna necessità di rivendicare diritti"?

DiegoPig ha detto...

Per Luca, 9/7/10 11:29

"stavo solo cercando di capire perché secondo lei "poter rifiutare X" e "non poter essere obbligato a X" sarebbero due frasi con diverso significato."

Mi permetto di dare un'interpretazione del pensiero del Sig. Gambino.
Se ho ben compreso la posizione del Sig. Gambino, egli afferma che esiste la libertà (ma non il diritto) di rifiutare un trattamento.

La differenza, mi pare di capire, è che un diritto implica che lo stato deve agire attivamente al fine di assicurare al cittadino il godimento di tale diritto (invece di limitarsi ad agire quando qualcuno tenta di impedire al cittadino di esercitare la propria libertà).

E' più o meno la stessa differenza che c'è tra "la libertà di andare a Roma" e "il diritto di andare a Roma".
Mentre il primo caso limita l'azione dello stato ad assicurare che nessuno mi impedisca di andare a Roma, nel secondo caso si presuppone che lo stato sia obbligato ad assicurare un mezzo che permetta al cittadino "di andare a Roma"

Per fare un esempio meno "geografico", la libertà di parola non è un diritto nel senso che lo stato non è obbligato ad assicurare che ogni cittadino abbia i mezzi per esprimere la propria opinione (mentre è obbligato ad agire qualora qualcuno tenti di limitare questa libertà).


Questa differenza viene invocata (secondo me giustamente) per affermare che il medico non è obbligato ad agire attivamente al fine di assicurare alcuni comportamenti eutanasici.
La libertà di rifiutare il trattamento non implica, cioè, che il medico debba porre in essere azioni atte a terminare la vita del paziente (come l'iniezione letale o l'interruzione di idratazione e nutrizione).


E' però vero che la libertà di rifiutare il trattamento implica, invece, che il medico deve astenersi dal porre in atto trattamenti terapeutici (come, ad esempio, le cure antibiotiche oppure interventi chirurgici).
Se non lo facesse, si ricadrebbe nel caso in cui qualcuno (il medico) impedisce al cittadino di esercitare la propria libertà.


In sostanza, credo che la confusione nasca dal voler accomunare alcune azioni che il medico è sempre obbligato (come assicurare idratazione e nutrizione) ad altre che il medico può attuare solamente dietro consenso del paziente (cure antibiotiche, interventi chirurgici, etc. etc.)

Una volta riconosciuto che questi due tipi d'azione ricadono in diverse categorie, la confusione cade.



La distinzione fra le due tipologie di azione è particolarmente importante per i pazienti non autosufficienti, perchè il loro agire deve essere necessariamente delegato al medico.
In questo caso Gambino afferma (secondo me giustamente) che il medico non possa assecondare richieste del tipo "fammi un'iniezione letale" espresse dal paziente.
Ma cosa diversa (e qui, secondo me, la posizione di Gambino è incoerente o poco chiara) è affermare che il medico è obbligato ad azioni terapeutiche (invece di limitarsi ad idratazione, nutrizione e ventilazione).

Nel caso di pazienti, autosufficienti, invece, la questione non si pone.



Cordiali Saluti,
DiegoPig

paolo de gregorio ha detto...

@ Luca

Del sarcasmo allora lo faccio io: l'articolo in questione è sotto la voce "diritti e doveri dei cittadini". Se non è un diritto, quindi, deve essere un dovere: pertanto se nessuno può obbligarmi ad un trattamento starebbe a significare che io ho il dovere di farlo.

P.S.: in effetti in quell'articolo potrebbe anche pensarsi enunciato un "dovere": quello del medico, o di Gambino, di non obbligare nessuno ad un trattamento non voluto. La sostanza non cambierebbe anche senza invocare la parola "diritto". Gambino vuole un emendamento speciale a questo dovere in una situazione specifica.

paolo de gregorio ha detto...

@ DiegoPig

Sulle tua ultima distinzione tra idratazione/nutrizione e cura antibiotica (e simili): se io non ho perso conoscenza, se sono vigile, c'è una qualche distinzione tra il rifiuto dell'una o dell'altra forma di assistenza? Perché interverrebbe questa distinzione solo in una situazione di non coscienza?

Trovo che sia giusto evidenziare i diritti libertari dal medico, ma non può perdersi di vista il soggetto attore, quello sul cui corpo e sul cui presente e futuro si sta agendo, nel bene primario: cioè il paziente. Quindi secondo me deve esistere una distinzione: il medico non può avanzare il suo diritto/dovere a nutrirmi quando io non volessi che ciò venga fatto, e non per altro, ma perché non eserciterebbe le sue priorità o necessità morali o professionali sul suo corpo ma sul mio e di questo va tenuto conto.

Luca Simonetti ha detto...

La distinzione che dici tu, Diegopig, esiste ed ha certamente molta importanza. Ad es., io sono certamente libero di suicidarmi (nel senso che nessuna nroma lo vieta), ma non posso obbligare nessuno ad aiutarmi nel suicidio (anzi la cooperazione può essa stessa integrare un reato). Ne segue che nel nostro ordinamento non esiste un diritto al suicidio.
Ma questo discorso non si applica (se non in casi limite, in cui per l'appunto interrompere una cura implica la morte certa del paziente e quest'ultimo non può provvedere da sé) al rifiuto di cura, che viceversa è appunto un diritto e mi conferisce una pretesa nei confronti altrui (cioè nei confronti del terzo che mi vorrebbe obbligare a subirela cura, e nei confronti del pubblico potere al quale chiedo di tutelare questo mio diritto).
Non capisco come faccia Gambino a negarlo, ed è in questo senso che la sua teoria mi incuriosisce. tanto più in quanto, come ho già scritto, si può benissimo sostenere che in casi come quello di EE il diritto al rifiuto di cura non può essere validamente esercitato, senz aalcun bisogno di negare (secondo me, assurdamente) che il diritto al rifiuto di cura esista.

DiegoPig ha detto...

Per Paolo de gregorio, 9/7/10 12:46

"Sulle tua ultima distinzione tra idratazione/nutrizione e cura antibiotica (e simili): se io non ho perso conoscenza, se sono vigile, c'è una qualche distinzione tra il rifiuto dell'una o dell'altra forma di assistenza?"

Assolutamente nessuna.



"Perché interverrebbe questa distinzione solo in una situazione di non coscienza?"

Perchè in questo caso (come nel caso dei pazienti non autosufficienti) è il medico a dover agire attivamente al fine di interrompere idratazione e nutrizione.
Il che si potrebbe (dico potrebbe, perchè ce la si più litigare) equiparare ad un'atto eutanasico.
E questo ci riporterebbe al distinguo tra libertà e diritto fatta dal Sig. Gambino: se c'è un diritto, allora lo stato (in questo caso il medico) deve agire attivamente per assicurare il godimento di questo diritto, anche quando questo agire contrasta con le convinzioni etiche del medico stesso.

Tra l'altro, si ricadrebbe nella stessa situazione qualora si pretenda che il medico attui terapie "sbagliate" dietro richiesta del paziente.
In quel caso il medico non può attuare una terapia diversa (in contrasto con la volontà del paziente) ma può rifiutarsi di attuare la terapia sbagliata.

C'è accordo, invece, sul fatto che cure antibiotiche et simili siano terapie e, quindi, il medico debba interromperle dietro richiesta del paziente.



Però vorrei rimarcare il fatto che, secondo me, la questione di interrompibilità di idratazione e nutrizione è assolutamente secondaria.
Anche accettando la non interrompibilità, il paziente in S.V.P. morirebbe comunque per infezione batterica o altra condizione che richiede terapia per essere risolta.
Io non dubito che anche il corpo di Eluana Englaro, nei 17 anni di S.V.P, sia stato sottoposto molte volte a cure antibiotiche.
Se queste fossero state interrotte, avremo comunque un "caso Englaro".


Quindi, per come la vedo io, l'interrompibilità di idratazione e nutrizione è puramente una questione di principio, senza alcun effetto pratico.



Cordiali Saluti,
DiegoPig

AG ha detto...

Ringrazio DiegoPig per un’interpretazione in gran parte corretta di quanto sostengo e mi scuso per la laconicità con la quale intervengo, legata alla dinamica del blog, che non mi consente di essere sempre esaustivo e comprensibile. Limitatamente alla differenza tra volontà dei pazienti coscienti e quelli in stato di incoscienza, mi preme spiegare meglio che il discrimine giuridico tra le due situazioni non è il trovarsi in situazione di stato di coscienza piena nel momento in cui viene effettuato il trattamento, ma esserlo nel momento in cui viene rappresentato, dopo il verificarsi del trauma, il tipo o i tipi di trattamenti più appropriati. E’ in questa fase che il paziente può liberamente e consapevolmente rifiutare la terapia. Cosa che evidentemente non si può liberamente e consapevolmente fare prima del verificarsi del trauma e delle ipotetiche terapie, sempre legate alla situazione contingente e allo stato fisiologico del paziente. In questo senso considero giuridicamente un non senso parlare di "libertà" di rifiuto per i pazienti in stato di incoscienza, che non abbiamo potuto liberamente esprimere il rifiuto dopo il vericarsi del trauma e la prospettazione delle cure. Per essere più chiari possibile si tratta di quelle che la giurisprudenza distingue tra situazioni di “giudizio”, scelte libere e consapevoli del paziente davanti al trauma e alle sue possibili cure, e situazioni di “precomprensione”, in cui si simula cosa avrebbe effettivamente voluto il paziente caduto in stato di incoscienza se avesse saputo di trovarsi davanti ad un certo evento traumatico e a certe correlate terapie. Secondo la giurisprudenza di legittimità, la prima situazione è legittima, mentre la seconda – in assenza di una legge sulle direttive anticipate di trattamento – non è percorribile e dunque non può obbligare i medici a dare seguito a scelte presunte del paziente in ordine a ipotetici rifiuti di cure. In questi casi, dunque, prevalendo lo stato di necessità, davanti ad un ricovero urgente per una vicenda traumatica, il medico deve intervenire.

AG

paolo de gregorio ha detto...

Ancora DiegoPig

Vediamo se l'esempio della "libertà di andare a Roma", che non è un "diritto di andare a Roma", si applichi al Nostro caso; l'ipotetico articolo andrebbe meglio reso con: "nessuno può essere obbligato ad andare a Roma". A questo punto non avrebbe molto senso sottolineare o dedurre che lo Stato non riconosca un diritto dacché esso non fornisce esplicitamente i mezzi per non trasferirsi a Roma. Non ha bisogno lo Stato di prevedere queste formule, perché l'enunciazione di questa libertà (nessuno può obbligarmi a trasferirmi a Roma) esaurisce le possibilità e gli eventuali diritti. È importante qui sottolineare che il trattamento è un intervento attivo sulla persona: è esso che deve essere giustificato, in condizioni speciali, poiché in condizioni normali è già previsto che la libertà personale sia inviolabile. Non avrebbe avuto alcun senso scrivere una cosa del tipo: "lo Stato forisce al cittadino i mezzi per non subire un trattamento non voluto", poiché enunciare la tale libertà esaurisce la questione e non non c'è necessità di alcun mezzo per garantirla.

paolo de gregorio ha detto...

@ DiegoPig

"Perchè in questo caso (come nel caso dei pazienti non autosufficienti) è il medico a dover agire attivamente al fine di interrompere idratazione e nutrizione. Il che si potrebbe (dico potrebbe, perchè ce la si più litigare) equiparare ad un'atto eutanasico".

Il medico deve agire attivamente anche se io fossi cosciente e rifiutassi ad un certo punto l'alimentazione. Vuoi dire che se io sono cosciente, e mi viene messo un sondino col mio consenso (oppure per scelta di qualcun altro contro la mia volontà), questo consenso diventa eternamente irrevocabile? Cioè se io decido in un secondo momento di rifiutarlo, il medico non potrebbe smettere di alimentarmi senza che si ritenga che commetta un'eutanasia?

Ma poi dove starebbe questo "intervento attivo"? Come ha già precisato Regalzi, basterebbe cessare di fornire gli alimenti.

DiegoPig ha detto...

Per AG, 9/7/10 13:16

"Secondo la giurisprudenza di legittimità, la prima situazione è legittima, mentre la seconda – in assenza di una legge sulle direttive anticipate di trattamento – non è percorribile e dunque non può obbligare i medici a dare seguito a scelte presunte del paziente in ordine a ipotetici rifiuti di cure."


Questo, però, è ancora l'argomento della certezza giuridica.
Per come avevo compreso la sua posizione, lei non riterrebbe sufficiente nemmeno la certezza giuridica quale criterio per determinare l'interruzione dei trattamenti.
Ho compreso male?




" In questi casi, dunque, prevalendo lo stato di necessità, davanti ad un ricovero urgente per una vicenda traumatica, il medico deve intervenire."

Su questo credo si sia tutti d'accordo, ma non penso fossero queste le situazioni di cui si discuteva.
Credo si discutesse più di situazioni del tipo di Eluana Englaro (dove non c'è urgenza di trattamento).



Cordiali Saluti,
DiegoPig

DiegoPig ha detto...

Per Luca, 9/7/10 12:54


"Ne segue che nel nostro ordinamento non esiste un diritto al suicidio.
Ma questo discorso non si applica (se non in casi limite, in cui per l'appunto interrompere una cura implica la morte certa del paziente e quest'ultimo non può provvedere da sé) al rifiuto di cura"


Secondo me la discriminante non è tanto il risultato dell'azione, ma il coinvolgimento di altri nell'agire.
Mi spiego: come scrive lei, non esiste il diritto di suicidio ma solo la libertà.
Quindi nessuno può impedirmi di suicidarmi ma, nel contempo, non posso obbligare nessuno ad aiutarmi nel farlo.

Ora, c'è una differenza sostanziale tra un'azione atta a procurare la morte (come un'iniezione letale) ed una ad impedirla (come continuare una terapia).



Penso che si sia tutti d'accordo (Gambino compreso) sulle seguenti affermazioni:
1) Il medico deve astenersi dall' attuare trattamenti atti ad impedire la morte qualora tale agire sia contrario alla volontà del paziente.
2) Il medico non può mai, in nessuna situazione, assecondare la richiesta di compiere un'azione atta a procurare la morte.


Quello su cui c'è divergenza di opinioni è se il caso 1) sia valido anche per i pazienti incoscienti (o in S.V.P.)


Gambino afferma che no, non è valido perchè manca la certezza sulla volontà del paziente.
Egli afferma, cioè, proprio quello che anche lei gli contesta: che nei casi come quello di Eluana Englaro non si può validamente esercitare la libertà di rifiuto delle terapie.

La mia opinione, invece, è che invece il caso 1) rimanga valido per i motivi che ho già esposto.


Quindi la posizione di Gambino non è incoerente perchè afferma che 1) non è valido per i pazienti incoscienti.
La posizione di Gambino è incoerente perchè non giustifica il motivo per cui 1) non è valido in quei casi.


Inutile dire che io sono di opinione diversa.


Cordiali Saluti,
DiegoPig

DiegoPig ha detto...

Per Paolo de gregorio, 9/7/10 13:36

"Il medico deve agire attivamente anche se io fossi cosciente e rifiutassi ad un certo punto l'alimentazione."

Purtroppo non conosco abbastanza le leggi per poter fare affermazioni certe, ma credo che in questo caso il medico potrebbe rifiutarsi di interrompere l'alimentazione.




"Vuoi dire che se io sono cosciente, e mi viene messo un sondino col mio consenso (oppure per scelta di qualcun altro contro la mia volontà), questo consenso diventa eternamente irrevocabile?"

Non necessariamente. Lei può chiedere che venga rimosso il sondino e qualche altro medico, oppure un suo amico, può rimuoverlo.
In questo caso il medico non può impedire la rimozione (perchè limiterebbe la sua libertà), ma non può nemmeno essere obbligato a rimuoverlo.



"Cioè se io decido in un secondo momento di rifiutarlo, il medico non potrebbe smettere di alimentarmi senza che si ritenga che commetta un'eutanasia?"

Il medico potrebbe tranquillamente decidere di toglierle il sondino, ma potrebbe anche decidere di non toglierlo.
Non lo si può, in sostanza, obbligare ad agire. Si può, però, obbligarlo a mettersi da parte mentre qualcun'altro agisce secondo le sue (del paziente) volontà.



"Ma poi dove starebbe questo "intervento attivo"? Come ha già precisato Regalzi, basterebbe cessare di fornire gli alimenti."

Ammetto che la questione di alimentazione e nutrizione è tutt'altro che semplice da derimere.
Ma vorrei ripetere che, secondo me, è del tutto irrilevante ai fini pratici.



Cordiali Saluti,
DiegoPig

DiegoPig ha detto...

Per Paolo de gregorio, 9/7/10 13:29


"Vediamo se l'esempio della libertà di andare a Roma, che non è un diritto di andare a Roma, si applichi al Nostro caso...
È importante qui sottolineare che il trattamento è un intervento attivo sulla persona"


Ed infatti si ricade nella situazione in cui vi è un'interferenza con la libertà del cittadino.
Appunto per questo il paziente cosciente può rifiutare il trattamento ed il medico è obbligato ad interromperlo.

Come ho già scritto in un altro mio commento (non ancora pubblicato, quindi chiedo venia della ripetizione):

Penso che si sia tutti d'accordo (Gambino compreso) sulle seguenti affermazioni:
1) Il medico deve astenersi dall' attuare trattamenti atti ad impedire la morte qualora tale agire sia contrario alla volontà del paziente.
2) Il medico non può mai, in nessuna situazione, assecondare la richiesta di compiere un'azione atta a procurare la morte.

Quello su cui c'è divergenza di opinioni è se il caso 1) sia valido anche per i pazienti incoscienti (o in S.V.P.)


Io proporrei anche di concordare sul fatto che idratazione e nutrizione non siano interrompibili, in modo da sgombrare ogni possibile confusione tra "interruzione della terapia" ed "eutanasia"




Cordiali Saluti,
DiegoPig

AG ha detto...

Per DiegoPig che ha detto:

"Secondo la giurisprudenza di legittimità, la prima situazione è legittima, mentre la seconda – in assenza di una legge sulle direttive anticipate di trattamento – non è percorribile e dunque non può obbligare i medici a dare seguito a scelte presunte del paziente in ordine a ipotetici rifiuti di cure." "Questo, però, è ancora l'argomento della certezza giuridica. Per come avevo compreso la sua posizione, lei non riterrebbe sufficiente nemmeno la certezza giuridica quale criterio per determinare l'interruzione dei trattamenti.
Ho compreso male?"


Rispondo: non condividerei una legge in tal senso, in quanto ancorchè potrebbe fingere che ci sia certezza circa la volontà del paziente incosciente, in realtà si rifarebbe ad una volontà espressa ancor prima del manifestarsi dell'evento traumatico, dunque collegata ad un'infinità di variabili, che è impossibile definire analiticamente.

AG

paolo de gregorio ha detto...

@ Alberto Gambino

"In questi casi, dunque, prevalendo lo stato di necessità, davanti ad un ricovero urgente per una vicenda traumatica, il medico deve intervenire".

Siamo comunque passati dal richiamo ad un improbabile principio etico dello Stato, o da un primato della volontà della maggioranza sulle cure al singolo, all'invocazione di uno stato di necessità, il che non è poco.

È facile rispondere a questa sottolineatura: se in caso di necessità e urgenza si decide di intervenire non è né perché la volontà del paziente è resa nulla, né secondaria al diritto del medico di esercitare la propria professione, né subordinata ai gusti morali della maggioranza: in una situazione in cui secondi o minuti possono essere determinanti si fa una presunzione di volontà del paziente, nella contemporanea impossibilità in quel frangente di riunire collegi giudicanti o leggersi qualche articolato documento autografo ed interpretarlo seduta stante senza contraddittorio. Va aggiunto che parliamo di due fasi ben distinte, operate da medici diversi e in strutture diversificate: l'intervento d'urgenza e la terapia di sostentamento. Due fasi spesso anche interpretate diversamente dal paziente: molti possono essere (e sono) favorevoli a che si proceda d'urgenza se la loro vita è in pericolo, ma contrari all'instaurazione o mantenimento di una determinata fase medica successiva.

Va da sé che quando la presunzione di volontà del paziente è stata dedotta erroneamente si è comunque operato contro le sue libertà, seppur in buonafede e rispondendo alle necessità prodotte dallo stato particolare di urgenza. Dedurre da questo errore ineliminabile, che è comunque una violazione di libertà, una definitiva soppressione della volontà di cui sopra si configurerebbe come un perpetrare un danno in seguito alla beffa. Come a dire: "ti ho fatto una cosa che non volevi? Ed ora te ne devi tenere tutte le conseguenze!". A me pare insostenibile.

Per quanto concerne la presunta necessità di attendere la presentazione del trauma per poter esprimere un giudizio informato: fuor di dubbio che da ogni dichiarazione anticipata, come da ogni ricostruzione di volontà, vada chiaramente dedotta una conoscenza sufficientemente accurata della situazione che potrebbe prospettarsi, pari cioè a quella di un paziente che abbia subito un trauma e sia cosciente. Stante questa premessa, l'equiparazione tra la dichiarazione in contingenza del trauma con quella anticipata è di fatto immediatamente deducibile: in entrambi i casi può esistere un margine secondario di dubbio residuo ed in entrambi i casi questa incertezza può venire ritenuta insufficiente per decretare l'annullamento di una libertà esplicitamente riconosciuta dalla costituzione.

paolo de gregorio ha detto...

@ DiegoPig

Faccio un po' fatica a seguire alcuni tuoi ragionamenti. Cosa vorrebbe dire che un medico può non interrompere la nutrizione, ma l'azione può essere non eseguita da un altro medico? Se il primo medico ha un imprecisato diritto di svegliarsi la mattina, recarsi dal paziente X e sostituire la sacca dell'alimentazione, questo diritto non decadrebbe anche se - nel contempo - a tutti gli altri medici fosse disposto di non intervenire per fornire nutrizione al paziente.

Se invece il primo medico può essere sostituito dal secondo medico allora mi pare che mi stai dicendo che questo diritto (dovere?) da medico non esista: deve rassegnarsi che non è un suo diritto quello di andare a nutrire comunque il paziente. Se proprio ti urge, facciamo pure realizzare questo passaggio attraverso una riassegnazione del paziente sotto le responsabilità di un altro medico disposto a assecondarne la volontà. Trovo tuttavia che la sostanza non cambi, e al primo medico non verrà più consentito di svegliarsi, recarsi dal paziente ad una certa ora eccetera eccetera.

Il medico opera in una struttura pubblica, lo Stato in cui opera ha una Cotituzione, questa prescrive delle libertà, tutte cose di cui il medico ha il dovere di essere a conoscenza e deve aver (esplicitamente o implicitamente) sottoscritto: quindi perché mai il medico dovrebbe poter appellarsi ad una sua libertà di sostituire la sacca del cibo tutte le volte che vuole, in opposizione alla volontà e alla libertà del suo paziente?

Sul discorso dell'eutanasia apriremmo un capitolo sconfinato. Ma siamo ben lontani dalla trattazione dei confini di libertà del medico: qualche anno fa ad una donna in fortissima sofferenza e prossima al decesso lo Stato francese negò la possibilità di acquistare dei farmaci che le avrebbero consentito di morire senza soffrire: in quel caso sarebbe stata la donna stessa a procurarsi la morte, eppure questa possibilità le fu negata. Qualora le cose stessero diversamente, con un ipotetico diritto all'eutanasia, il discorso sarebbe articolato: in linea di principio ritengo inattaccabile il principio che nessuno potrebbe obbligare me, libero cittadino, a procurare direttamente la morte a qualcuno. Tuttavia, in un caso limite in cui nessuno (nessun medico per esempio) in tutto il paese fosse disposto ad operare, cosa si farebbe? Come nel caso delle forze armate, queste situazioni vengono evitate prevedendo all'origine che alcune funzioni pubbliche portino con sé in origine tutti i doveri annessi, anche quelli "scomodi" se non "repellenti" (avere l'obbligo di sparare a qualcuno, che stesse attendando alla vita di alcune persone, se in assenza di alternative praticabili). Ma non essendo prevista l'eutanasia, non essendo un diritto, alla fonte questo problema non si pone.

DiegoPig ha detto...

Per AG, 9/7/10 14:47


"Rispondo: non condividerei una legge in tal senso, in quanto ancorchè potrebbe fingere che ci sia certezza circa la volontà del paziente incosciente, in realtà si rifarebbe ad una volontà espressa ancor prima del manifestarsi dell'evento traumatico, dunque collegata ad un'infinità di variabili, che è impossibile definire analiticamente."


Il che ci riporta al problema della certezza reale (contrapposta a quella giuridica), che come abbiamo già visto non può esistere nemmeno nei pazienti coscienti (e, quindi, non può essere invocata quale requisito).
Inoltre la stessa obiezione si può avanzare nei confronti di altre situazioni, come il consenso informato.

Anche nel caso del consenso informato non si può essere sicuri che il paziente abbia compreso correttamente costi e benefici delle varie opzioni e che abbia agito in modo razionale.
Anzi, proprio perchè è malato (spesso gravemente) possiamo supporre che il suo stato mentale non sia completamente lucido.
Eppure in queste situazione accettiamo una certezza giuridica come valido sostituto della certezza reale.

Altro esempio è la condanna penale, che avviene a seguito di certezza giuridica (e non reale, come dimostrano alcuni casi di innocenti condannati).
Anche in questo caso accettiamo la certezza giuridica come requisito sufficiente per privare una persona della libertà.



Oltre a questo, la mancanza di certezza reale non ha come ovvia conseguenza la scelta di continuare il trattamento terapeutico.

Come non v'è certezza che il paziente volesse veramente interrompere il trattamento, non può esservi certezza che il paziente ne volesse la prosecuzione.
La semplice esistenza delle diverse opinioni in merito espresse su questo blog dimostrano che non per tutti la vita è IL bene assoluto, il bene primario, quello per cui ogni altro passa in secondo piano.
Quindi non è nè ovvio nè logico supporre che, dovendo agire nel dubbio, la continuazione del trattamento sarebbe l'agire che più si avvicina al volere del paziente.


C'è, infine, il problema che potremmo chiamare "della scadenza".
Dopo quanto tempo, infatti, un'espressione di volontà perde affidabilità?
Mi spiego: se ora io dichiaro di voler interrompere ogni trattamento e fra dieci minuti rimango vittima di un incidente stradale, la mia dichiarazione vale ancora al fine della decisione su come agire da parte dei medici?
E se, invece di dieci minuti, ne trascorrono sessanta? Oppure due giorni? Oppure un anno?



Secondo me non è sensato richiedere l'esistenza della certezza assoluta come requisito per interrompere il trattamento, perchè tale requisito è sempre insoddisfabile.
Ecco perchè non riesco a considerare coerente la sua posizione in merito a questo particolare aspetto.


Cordiali Saluti,
DiegoPig

DiegoPig ha detto...

Per Paolo de gregorio, 9/7/10 15:39

"Faccio un po' fatica a seguire alcuni tuoi ragionamenti"

Non fatico a crederle.
In effetti l'argomento, sul particolare punto di idratazione e nutrizione, è particolarmente complesso proprio perchè si vuole escluderle dalla classificazione di "terapie" per assegnare loro lo status di "non interrompibilità".

Addirittura, la situazione è più complicata di come la descrive lei.
Nel suo esempio lei si limita a considerare i medici, ma poichè idratazione e nutrizione non sono terapie, chiunque può interferire.
Quindi potremmo avere il medico che va a cambiare la sacca, poi la moglie del paziente che la toglie, solo per vederla rimessa dall'infermiera etc. etc. che al mercato mio padre comprò.

E' per questo motivo che suggerivo di accordarci, ai fini della discussione, sulla non interrompibilità di idratazione e nutrizione.
In questo modo eviteremo gli innumerevoli problemi dovuto al "non è terapia" senza perdere di vista il problema principale (cioè se la volontà espressa precedentemente da un paziente non cosciente debba essere soddisfatta o meno).

Eviteremmo, inoltre, ogni possibile confusione tra interruzione della terapia ed eutanasia (che, proprio come lei scrive, porterebbe ad aprire un capitolo sconfinato).






Cordiali Saluti,
DiegoPig

paolo de gregorio ha detto...

@ DiegoPig

"E' per questo motivo che suggerivo di accordarci, ai fini della discussione, sulla non interrompibilità di idratazione e nutrizione".

Passo anche io al lei, anche se mi pare che in precedenti eravamo al tu. Da par mio, posso dire che la cosa non mi farebbe grandissima differenza stanti le altre possibilità (puramente circostanziali però) di dar seguito alla volontà del paziente (ora stiamo parlando del caso in cui egli sia eventualmente anche cosciente). Tuttavia io rispondo alla logica, non ad un mio gusto o a considerazioni di convenienza o di quieto vivere: ed a rigor di logica, se non c'è una legge (che giudicherei di dubbia costituzionalità) che imponga l'idratazione e l'alimentazione obtorto collo sempre e comunque, allora non mi resta che notificare che il paziente non può essere obbligato a subire la nutrizione in opposizione ad una volontà chiara, netta, informata, lucida e ben ponderata.

Proprio le eccezioni che evidenziava lei, a me ovviamente note, tra le possibili azioni e reazioni di medico, familiare e infermiere rinforzano questa mia deduzione: in ogni caso una libertà riconosciuta non può venire sequestrata, e se vogliamo sono proprio queste infinite possibilità a doverci illuminare sul fattore primario (il desiderio del paziente rispetto alla propria vita e al proprio corpo, da antecedere all'arbitrarietà delle preferenze di tutti gli altri attori presenti).

Facciamo anche un caso limite (ma neanche troppo): ho un tumore terminale e non posso più nutrirmi da solo, ma mi era già stato in precedenza immesso un sondino quando ancora si riteneva che potessi salvarmi e si riteneva che esso potesse tornarmi utile. Vorrei a quel punto che mi si interrompesse la terapia nutritiva, o che non si iniziasse nemmeno (se non era ancora iniziata). Questa benaugurata infezione potrebbe anche non presentarsi mai nei pochi giorni o mesi di vita rimasti e quindi, se si insistesse con la sua proposta di mediazione, io finirei con una certa probabilità per morire di tumore in mezzo a sofferenze che avevo espresso il desiderio di evitare (o moderare/mitigare) semplicemente interrompendo la nutrizione.

DiegoPig ha detto...

Per Paolo de gregorio, 9/7/10 16:58

"Passo anche io al lei, anche se mi pare che in precedenti eravamo al tu"

Non si preoccupi. Uso il lei solo per darmi un tono :D



"Questa benaugurata infezione potrebbe anche non presentarsi mai nei pochi giorni o mesi di vita rimasti e quindi, se si insistesse con la sua proposta di mediazione, io finirei con una certa probabilità per morire di tumore in mezzo a sofferenze che avevo espresso il desiderio di evitare (o moderare/mitigare) semplicemente interrompendo la nutrizione."



Capisco benissimo la sua posizione, ma mi permetto di dire che lei in questo caso sta commettendo lo stesso errore di fondo che commette il Sig. Gambino: pretendere che esista una soluzione perfetta.
Come il Sig. Gambino pretende (o meglio, a me sembra pretendere) la certezza assoluta sulla volontà del paziente di interrompere la terapia, lei sembra pretendere la certezza assoluta che la sua volontà verrà sempre e comunque rispettata.

Purtroppo questo non è possibile, perchè viviamo in un mondo in cui le informazioni sono incomplete (da qui l'incertezza sulla volontà del paziente) ed logicamente incoerente (cioè vi sono dei contrasti di diritti che generano paradossi).


Perciò lei solleva un problema tanto reale quanto quello sollevato dal Sig. Gambino.
Ma è un problema irrilevante alla questione fondamentale perchè è un problema risolvibile solamente con un accordo sociale.



E' questo il motivo per cui proponevo l'accordo sulla questione di idratazione e nutrizione: perché non esiste alternativa.
E' sicuramente una questione fondamentale, foriera di enormi conseguenze, ma secondo me dal punto di vista pratico non pone maggiori problemi di quelli di basare le decisioni terapeutiche sulla volontà espressa in una DAT.



Cordiali Saluti,
DiegoPig

paolo de gregorio ha detto...

@ DP

"lei sembra pretendere la certezza assoluta che la sua volontà verrà sempre e comunque rispettata".

No, anche io sono consapevole che questo non sia sempre possibile, ma ritengo che si debba perseguire la migliore approssimazione dell'azione più giusta, in questo caso il volere del paziente, e che solo gravi e insuperabili ostacoli, di necessità o altro, dovrebbero precludere al cittadino la possibilità di far valere una propria libertà espressamente riconosciuta.

Stiamo parlando di situazioni in cui stiamo presumendo che tutti gli attori abbiano tempo e modo di ponderare a dovere la situazione e quindi a mio giudizio affermazioni di principio contrarie sono arbitrarie e non giustificate. Stiamo anche parlando dell'ipotesi in cui, mettiamo, fosse chiamato un giudice ad esprimersi: quindi situazioni valutabili con calma e con tutti i crismi; riterrei che se si deliberasse che il parere del paziente sulla nutrizione (mi spiegherebbe però in base a quale principio lo si farebbe?) debba essere ritenuto irrilevante lo troverei in contraddizione palese con tutte le libertà di cui siamo stati a parlare fino ad ora.

Ripeto: un accordo di massima su un compromesso parzialmente soddisfacente sarebbe emotivamente e socialmente anche più congruo, ma non mi sarebbe possibile giustificarlo razionalmente: sarebbe totalmente scorrelato dai principi, diritti e libertà reali che vengono teorizzati e formulati in altre sedi.

Ho fatto un esempio specifico proprio per mostrare che ci sarebbero situazioni in cui solo la pura contingenza priverebbe di fatto il malcapitato, suo malgrado, di una libertà che pure è riconosciuta, e che pure è riconosciuta ai fortunati che fossero incorsi in circostanze accidentalmente differenti. A me parrebbe una discriminazione, tutto qua: se hai la fortuna di beccarti un'infezione allora tutti felici e contenti, altrimenti ti devi beccare quello che lo Stato ti ha propinato.

Precisazione: non sono contrario per partito preso alla proposizione che la nutrizione debba diventare obbligatoria. Però voglio un'argomentazione logica e chiara, non un richiamo a irrilevanti imperfezioni o improbabili compromessi tra posizioni divergenti: il fatto che non esista una soluzione perfetta non è un argomento che dimostri che la nutrizione debba conseguentemente ritenersi obbligatoria.

P.S.: anche dandosi del tu ci si può dare un tono.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Direi che dalla discussione fin qui svoltasi emergano alcuni punti abbastanza fermi che vorrei sintetizzare, integrandoli con alcune mie vedute personali.
Per prima cosa, possiamo convenire che nel nostro sistema giuridico esistano nell'ordine:

1. libertà (o facoltà) semplici, cioè comportamenti che la legge ammette come leciti, ma che non protegge dalle interferenze altrui e che non obbliga nessun terzo a favorire attivamente. Un esempio potrebbe essere costituito dal suicidio, anche se si tratta probabilmente di un caso unico (visto l'obbligo giuridico di non collaborare a realizzarlo).

2. diritti negativi, cioè interessi che la legge protegge dalle interferenze, sanzionando queste ultime, e nulla più. Un esempio è il diritto di movimento: non posso imporre a nessuno di aiutarmi ad andare a Roma (anche se poi lo Stato, sovvenzionando il sistema dei trasporti pubblici, fa in pratica proprio questo), ma è ovvio che nessuno in generale può impedirmi impunemente di raggiungere la mia meta, per esempio con un blocco stradale, tagliandomi le gomme dell'auto, etc. Non ci può essere dubbio che il rifiuto delle terapie sia un diritto di questo genere, visto che il medico che ignori la mancanza di consenso del proprio paziente e proceda con la forza a praticare un trattamento si rende colpevole di violenza privata e di sequestro di persona, con tutte le conseguenze del caso.

3. diritti positivi, cioè interessi miei che gli altri sono obbligati dalla legge a realizzare con le loro risorse o con le loro azioni. Un esempio è l'obbligo di prestare soccorso a una persona esanime (o di avvertire comunque le autorità). In questo senso l'eutanasia - o per essere più precisi l'eutanasia attiva - cioè la somministrazione di una sostanza atta a causare una morte indolore, è un'azione che non solo il nostro codice non prescrive a nessuno, ma che anzi proibisce di compiere; non è quindi attualmente un diritto (a mio parere comunque le opportune modifiche al Codice Penale che la renderebbero possibile sarebbero del tutto coerenti con la Costituzione). Ripeto: parliamo solo di eutanasia attraverso l'azione, non anche attraverso l'omissione di cure che il paziente rifiuta esercitando un suo diritto (negativo).

Quali sono i diritti negativi per quanto riguarda la sfera corporea? Per la dottrina liberale - che, pur con qualche compromesso o inquinamento, bene o male informa la nostra norma fondamentale - devono essere i più ampi possibile: un trattamento senza consenso è permesso solo quando il paziente non sia in grado di intendere o di volere, o quando siano in gioco diritti di pari rango di altre persone (è il caso delle malattie infettive).
Qui bisogna sgombrare il campo da un equivoco diffuso: il rifiuto di trattamenti invasivi della sfera corporea non riguarda affatto solo i trattamenti sanitari. Se io immobilizzo una persona o approfitto della sua immobilità per inciderle un tatuaggio sulla pelle (magari "per il suo bene", disegnandole addosso i suoi dati personali in modo che sia sempre identificabile in caso di bisogno), compio un reato. Qui in caso di dubbio non si invocherà l'art. 32 della Costituzione ma il 13, sulla libertà personale. A mio parere rientra qui anche la proibizione di alimentare artificialmente qualcuno senza il suo consenso (ricordo che la pratica è espressamente vietata dal Codice di Deontologia medica, all'art. 53).

Giuseppe Regalzi ha detto...

Sgombriamo il campo anche da un altro possibile equivoco, sebbene più sottile. Sospendere l'alimentazione a un paziente non è un atto ma un'omissione (non aggiungere più cibo alla sacca dell'alimentatore). Ma anche se lo fosse - si pensi p.es. a cosa si diceva di Welby, che spegnere il respiratore artificiale sarebbe stata un'azione, e come tale vietata dall'art. 579 del Codice Penale (omicidio del consenziente) - sarebbe ugualmente obbligatorio compierla. Esistono alcune azioni, infatti, che semplicemente pongono fine agli effetti di un'altra azione e non sono separabili da quella. Se accendo un fuoco nei boschi per un picnic ho poi il dovere di controllarlo ed eventualmente spegnerlo se si estende troppo; non posso cavarmela sostendendo che si richiede da me, che non sono una guardia forestale, un'azione che mi pone a rischio di scottarmi. Questo sarà forse vero per il passante che non ha acceso nessun fuoco, ma nel mio caso ho semplicemente il dovere di porre termine a quello che ho iniziato. Allo stesso modo se ho infilato un sondino ho anche il dovere di ritirarlo; non posso isolare questa azione dalla prima e lamentarmi che mi si chiede di praticare un "atto eutanasico". Se poi mi rendo irreperibile sarà compito della struttura sanitaria - su cui ricade la responsabilità ultima - di provvedere affinché sia salvaguardato il diritto del paziente.

Un ultimo equivoco da chiarire, sul consenso informato. Più sopra si è detto molto bene che anche per i pazienti coscienti non v'è sempre certezza sulla loro volontà e sulla qualità del loro consenso informato. Si può aggiungere che il consenso informato è un obbligo solo per il medico, che deve sempre offrire prima di un trattamento tutte le informazioni pertinenti. Ma il paziente non ha nessun obbligo corrispondente: ha infatti tutto il diritto di non ascoltare nessuna spiegazione e di rifiutare le cure senza sapere a cosa va incontro (finché non è troppo tardi per farci qualcosa). A questo punto mi pare che sia difficile giustificare la proibizione del testamento biologico con l'argomento che il paziente, non essendo malato, non è ben consapevole della situazione.

DiegoPig ha detto...

Per Paolo de gregorio,9/7/10 18:54

Ok, diamoci del tu :D



"Un accordo di massima su un compromesso parzialmente soddisfacente sarebbe emotivamente e socialmente anche più congruo, ma non mi sarebbe possibile giustificarlo razionalmente"


Secondo me, invece, lo hai già razionalizzato quando hai scritto:

"No, anche io sono consapevole che questo non sia sempre possibile, ma ritengo che si debba perseguire la migliore approssimazione dell'azione più giusta"


E' ovvio che quella che è la migliore approssimazione per te può non esserlo per qualcun'altro.

E poichè si sta discutendo proprio di una situazione (il paziente non autonomo) in cui vi sono necessariamente coinvolte più persone, è razionale scendere a compromessi.



Comunque è necessario fare una precisazione: quando ho proposto di accordarci in merito alla non interrompibilità di idratazione e nutrizione, non l'ho fatto perchè ritengo che siano non interrompibili.
L'ho fatto perchè la discussione su questo particolare aspetto distoglie dalla discussione più generale relativa all'attuazione delle volontà del paziente non cosciente.


Personalmente ritengo che idratazione e nutrizione dovrebbero essere interrompibili, ma ritengo anche che sarebbe un costo minore dover abbandonare questa posizione qualora si giunga ad un compromesso equo circa le modalità generali di accettazione della volontà presunta del paziente non cosciente.


Cordiali Saluti,
DiegoPig

DiegoPig ha detto...

Per Giuseppe Regalzi, 9/7/10 20:21



"...la proibizione di alimentare artificialmente qualcuno senza il suo consenso (ricordo che la pratica è espressamente vietata dal Codice di Deontologia medica, all'art. 53)."


Questo non lo sapevo (ed, in effetti, avrei dovuto legger il codice deontologico).





"Esistono alcune azioni, infatti, che semplicemente pongono fine agli effetti di un'altra azione e non sono separabili da quella"



Questo è un buon argomento, che in effetti non avevo considerato.
Però credo che questa posizione ponga un problema di interferenza tra azioni presenti e future abbastanza grave da produrre un contrasto insanabile tra diritti e doveri del medico.

Se accettiamo questo argomento, ti troviamo nella situazione in cui il medico che inserisce un sondino in un paziente incosciente si trova obbligato, in futuro, a rimuovere quel sondino dietro richiesta del paziente.
Ma questa rimozione potrebbe essere contraria alle convinzioni etiche del medico.
Perciò il medico potrebbe difendere queste sue convinzioni solo rifiutandosi di inserire il sondino.
Ma questo rifiuto sarebbe contrario ai suoi doveri di medico.

Naturalmente si può risolvere questo contrasto affermando che le convinzioni etiche del medico sono secondarie sia ai suoi doveri che al volere del paziente (il che, in generale, è certamente vero).

Ma personalmente sono a disagio nel giustificare una situazione che toglie ogni possibilità di scelta al medico (anche se, onestamente, non sono in grado di giustificare razionalmente questo mio disagio).




"Si può aggiungere che il consenso informato è un obbligo solo per il medico.
Ma il paziente non ha nessun obbligo corrispondente: ha infatti tutto il diritto di non ascoltare nessuna spiegazione e di rifiutare le cure senza sapere a cosa va incontro (finché non è troppo tardi per farci qualcosa)"


Nemmeno questo sapevo.
In effetti questo è un ottimo argomento che annulla, proprio come scrive lei, la critica "di consapevolezza" delle D.A.T.


Cordiali Saluti,
DiegoPig

paolo de gregorio ha detto...

@ Giuseppe

Aplausi!

@ DiegoPig

"E poichè si sta discutendo proprio di una situazione [...] in cui vi sono necessariamente coinvolte più persone, è razionale scendere a compromessi".

A me non sembra razionale, semplicemente perché l'interesse non è un interesse parimenti condiviso: permetterai, lo spero, che sul destino mio e del mio corpo possa avere un peso un'anticchia maggiore il mio punto di vista rispetto a quello degli altri, soprattutto qualora il destino della mia persona e del mio corpo sia in un dato frangente l'unico interesse diretto che essi stanno difendendo?

Quando parlavo di migliore approssimazione all'azione più giusta da intraprendere non intendevo dire che qualunque approssimazione diverrebbe accettabile. È una migliore approssimazione anche quella che consente di rifiutare l'accanimento terapeutico, ed anche in quel caso potrei citare un certo numero di persone, compreso eventualmente un medico, che potrebbero avere un intertesse personale alla sua sopravvivenza in contrapposizione a quello del paziente. La migliore approssimazione può essere più vicina all'esattezza in un caso che in un altro, che è cosa ben diversa da dire che essendo un'approssimazione allora va ignorata e sostituita da un compromesso, o dall'arbitrio o dalla dittatura della maggioranza.

Non mi trovo per niente d'accordo su questo approccio che proponi, tramite il quale una libertà è negoziabile, a spese del primo titolare di essa, semplicemente perché qualcuno non gradisce quella forma specifica di libertà. Dovresti, e secondo me ancora non lo hai fatto, proporre un argomento stringente che mostri che la libertà del medico, dell'amico, del familiare, dello sconosciuto, della maggioranza, di prolungare indefinitamente la nutrizione artificiale di un paziente sia un bene primario da difendere che debba essere garantito tassativamente anche contro la volontà di quel paziente.

Se cominciamo a negare delle libertà per scendere a compromessi poi le smantelliamo una ad una. Perché mai, poi, vi dovrebbero essere individui che loro malgrado dovrebbero vedere scippata una loro libertà (di rifiutare l'alimentazione forzosa) cosicché altre persone possano andare più d'amore e d'accordo?

DiegoPig ha detto...

Per Paolo de gregorio, 10/7/10 00:22

"Non mi trovo per niente d'accordo su questo approccio che proponi, tramite il quale una libertà è negoziabile, a spese del primo titolare di essa, semplicemente perché qualcuno non gradisce quella forma specifica di libertà."


Probabilmente non mi sono spiegato a dovere.
La mia proposta non era affatto quella di rendere negoziabile la libertà.
La mia proposta era tesa all'implementazione delle modalità di godimento di quella libertà.

Facciamo l'esempio della condanna penale.
Essa avviene a seguito di certezza giuridica, cioè quando un tribunale giunge alla conclusione che il sospetto è colpevole.
Questo, ovviamente, non significa che il sospetto abbia effettivamente commesso il reato (come dimostrano i casi di innocenti condannati).

Cosa dovremmo concludere dall'esistenza di questi "errori di condanna"?

Se affrontassimo la questione dal punto di vista del principio, dovremmo concludere che l'innocenza di un individuo è un principio non negoziabile e, quindi, il nostro sistema giuridico è illeggitimo perchè non fornisce la certezza della colpevolezza.

Se invece affrontiamo la questione dal punto di vista dell'implementazione, ci rendiamo conto che gli errori possono capitare. Quindi tali errori si accettano.
Si può discutere sul modo di implementare il sistema giudiziario e sul modo per ridurre gli errori.

Ma è impensabile pretendere che non vi siano errori, perchè è una condizione umanamente irrealizzabile.




In merito alla questione di cui si sta discutendo, ci si trova nella stessa situazione di dover accettare dei compromessi.
Questo sia a causa degli ineliminabili errori che, soprattutto, a causa della non-coerenza logica del nostro sistema di diritti.

Il nostro sistema di diritti non è un sistema logico coerente, ma è composto in modo tale da creare contrasti tra diritti di pari valore.


Tu scrivi:

"sul destino mio e del mio corpo possa avere un peso un'anticchia maggiore il mio punto di vista rispetto a quello degli altri"


ma io posso risponderti:

"sulle questioni etiche e morali, permetterai che il mio giudizio possa avere maggior peso del tuo".



Un esempio lampante di questa situazione è l'interruzione di gravidanza, in cui il diritto dei medici ad agire secondo la propria morale è assicurata dall'obiezione di coscienza.


Ce la si può litigare su quale sia il miglior compromesso, ma secondo me è indubitabile che debba esistare un compromesso.
Un compromesso, si noti, non sul principio ma sull'agire.


Se così non fosse allora cadrebbe anche il divieto (che mi pare tu accetti) da parte dei medici di praticare iniezioni letali.
Al di là della giurisprudenza, questo divieto l'hai accettato, credo, perchè hai detto che le azioni attive volte a procurare la morte possono essere escluse.

Ma questo è un compromesso che hai fatto tu, che non deriva assolutamente dal principio che "sul destino del mio corpo ha maggior valore il mio punto di vista".




Concludo ripetendo che la mia proposta di accordo non era volta ad un accordo sulla questione, ma ad una tregua sulla questione, in modo da poter discutere dell'argomento generale senza perderci nei dettagli di idratazione e nutrizione.



Cordiali Saluti,
DiegoPig

paolo de gregorio ha detto...

@ DP

"Un esempio lampante di questa situazione è l'interruzione di gravidanza"

Prima del non obbligo di operare da parte di un singolo operatore, che qui si è detto da qualcuno essere una libertà ma certamente non un diritto, viene sancito il diritto della donna che deve essere comunque garantito dalla struttura. Quindi l'esempio non calza perché anche in questo caso il soggetto precede le preferenze degli altri. Non calzerebbe comunque, perché fare derivare la legge direttamente e alla lettera dai diritti e doveri costituzionali sarebbe più complesso, almeno nei casi in cui il rischio per la salute fisica non fosse più che conclamato.

"Se così non fosse allora cadrebbe anche il divieto (che mi pare tu accetti) da parte dei medici di praticare iniezioni letali".

Rileggi il commento di Giuseppe, che forse riesce a sintetizzare meglio di tutti. La differenza sta più semplicemente nel fatto che questo tipo di diritto, o libertà che dir si voglia, non è garantito nel medesimo modo dal dettato costituzionale. Non è un compromesso, affatto.

"Al di là della giurisprudenza, questo divieto l'hai accettato, credo, perchè hai detto che le azioni attive volte a procurare la morte possono essere escluse."

Non "al di là della giurisprudenza", ho constatato che non è immediatamente deducibile dalla nostra Costituzione per far parte della giurisprudenza con gli stessi identici argomenti che stiamo usando qui. Vuole semplicemente dire che sono problematiche questioni affini ma distinte. E quando dicevo delle esclusioni nette di quelle azioni dicevo semplicemente che è da escludere l'obbligo di praticare l'eutanasia. E quando ho detto che sul destino del mio corpo decido io, ho specificato che contrapponevo la mia volontà a quella di altri quando il mio copro è l'interesse conteso. Nel caso dell'eutanasia non è così: nessuno sta usando il mio corpo come palestra. Abbiamo già chiarito che il suicidio non è reato, quindi quanto detto resta vero: il discorso dell'eutanasia quindi riguarda la partecipazione attiva di altri. È una questione distinita e secondo me andrebbe affrontata in altra sede.

"senza perderci nei dettagli di idratazione e nutrizione".

È qui che non concordiamo: è un dettaglio solo perché io e te in questo momento abbiamo il privilegio di non essere sottoposti a questo trattamento eventualmente contro la nostra volontà. Per qualcuno più che un dettaglio può essere tutto.

DiegoPig ha detto...

Per Paolo de Gregorio, 10/7/10 12:18


"Prima del non obbligo di operare da parte di un singolo operatore...viene sancito il diritto della donna che deve essere comunque garantito dalla struttura"


Ma "la struttura" non è la stessa entità de "il singolo operatore".
Nel caso in cui una struttura si trovi nella situazione di avere solo operatori obiettori e la donna richieda di abortire, dubito sia richiesto dalla legge che qualcuno di questi operatori debba obbligatoriamente assecondare la richiesta della donna (ad esclusione dei casi urgenti, ovvio).

Il problema della garanzia del servizio è un problema della struttura, non del singolo operatore.




"È qui che non concordiamo: è un dettaglio solo perché io e te in questo momento abbiamo il privilegio di non essere sottoposti a questo trattamento eventualmente contro la nostra volontà. Per qualcuno più che un dettaglio può essere tutto."

Questo è vero.
Ma con "dettaglio" io mi riferivo "in relazione alla discussione sul trattamento a pazienti incoscienti", non un dettaglio in sè.



Cordiali Saluti,
DiegoPig

paolo de gregorio ha detto...

@ DP

Il problema della struttura nel caso degli aborti è spinoso, e infatti anche io sono tra quelli che ritiene che, essendo passati parecchi anni dall'introduzione della legge, sarebbe sensato ripensare alcune formule in relazione ad essa, perché l'obiezione può anche essere prevista ma non può in alcun modo essere pagata dal titolare di un diritto, casomai deve essere l'obiettore a dover rinunciare a qualcosa. Resta il fatto che, nel caso che ipotizzi, la struttura sarebbe illegale e la donna potrebbe far partire una bella denuncia. Siamo stati per un bel po' a fare le pulci al termine "diritto": e allora il "non obbligo" del ginecologo, non essendo un diritto, non può determinare l'annullamento di un diritto della donna: pensi la struttura a come evitare che si crei questa situazione. È una situazione paradossale che si crea a mio avviso a causa di una formula normativa che ritengo in parte errata e che quindi non mi sento di avere il dovere di difenderla.

AG ha detto...

A Regalzi che dice:

"...Ma il paziente non ha nessun obbligo corrispondente: ha infatti tutto il diritto di non ascoltare nessuna spiegazione e di rifiutare le cure senza sapere a cosa va incontro (finché non è troppo tardi per farci qualcosa). A questo punto mi pare che sia difficile giustificare la proibizione del testamento biologico con l'argomento che il paziente, non essendo malato, non è ben consapevole della situazione"

Sì ma il paziente cosciente rifiuta nell'attualità del trauma, con la piena percezione delle possibili cure e in dialettica con i suoi cari che, agendo anche loro nella sfera della libertà, potrebbero cercare di dissuaderlo. Il cittadino che esprime ora per allora le sue scelte non si trova in alcuna di queste condizioni.

AG

DiegoPig ha detto...

Per Paolo de Gregorio, 10/7/10 13:03

"perché l'obiezione può anche essere prevista ma non può in alcun modo essere pagata dal titolare di un diritto, casomai deve essere l'obiettore a dover rinunciare a qualcosa."


Sono d'accordo sul fatto che l'obiezione non può essere pagata dal titolare del diritto ma non che l'obiettore deve rinunciare a qualcosa.

Questo particolare caso è un problema della struttura, che si troverebbe in una situazione illegale (come scrivi tu).
Ma questo non ha alcun effetto sui diritti dell'obiettore.





"È una situazione paradossale che si crea a mio avviso a causa di una formula normativa che ritengo in parte errata e che quindi non mi sento di avere il dovere di difenderla."


Io non ti chiedevo di difendere questa norma, ma semplicemente di notare che questa norma esiste.
Il fatto che, per produrre questa norma, si sia dovuto trovare un compromesso dimostra che il compromesso è necessario quando i diritti delle n persone coinvolte entrano in contrasto tra loro.


Questo non risolve il problema di principio di "come assicuriamo il godimento di un certo diritto o libertà?".
Però risolve il problema pratico di "come dev'essere la norma che assicuri il miglior risultato con il minor costo?".

Quello che, nel secondo caso, può essere oggetto di discussione è il "miglior risultato" e il "minor costo", non l'esistenza dei costi, perchè è inevitabile che ci saranno dei costi.


Cordiali Saluti,
DiegoPig

paolo de gregorio ha detto...

@ DiegoPig

"Io [...] ti chiedevo [...] di notare che questa norma esiste.
Il fatto che, per produrre questa norma, si sia dovuto trovare un compromesso dimostra che ...
"

Scusa, ma ribadisco che non puoi convincermi che un compromesso è necessario portando ad esempio un caso in cui il compromesso adottato io lo ritenessi errato.

"non [sono d'accordo] che l'obiettore deve rinunciare a qualcosa."

In via generale, la situazione ideale è quella in cui nessuno debba rinunciare a niente, e su questo possiamo essere serenamente d'accordo. Ma nel momento in cui esistessero conflitti tra gli interessi coinvolti, non altrimenti districabili, questa dovrebbe essere un'opzione che sarebbe doveroso valutare.
Chi una volta faceva obiezione di coscienza per non fare la leva militare poi non poteva fare concorsi pubblici per entrare nei corpi di polizia, spiegando che si sarebbe limitato a fare lavori d'ufficio. Ribadisci che l'obiettore "non deve rinunciare a qualcosa"?

Senza entrare nel filosofico (un'obiezione è resa più e non meno credibile da una rinuncia scontata in proprio piuttosto che scaricata su terzi), sei stato tu a paventare una situazione di potenziale conflitto tra l'interesse dell'obiettore e quello del titolare del diritto, non risolvibile in quel momento dalla struttura. A mio avviso questo sarebbe il prodotto di una legge contraddittoria, che enunciasse un diritto e poi non prevedesse gli strumenti migliori per garantirlo. Infatti secondo me nella legge ci sono dei buchi ed essa si regge in piedi solo per via di fortuite contingenze. Se qualcosa mi dimostra, questo esempio accresce in me la convinzione che i compromessi approssimativi non siano la via maestra da seguire.

DiegoPig ha detto...

Per Paolo de Gregorio, 10/7/10 23:47

"Scusa, ma ribadisco che non puoi convincermi che un compromesso è necessario portando ad esempio un caso in cui il compromesso adottato io lo ritenessi errato."

Non è una questione di giudizio sul compromesso adottato, ma il fatto che sia inevitabile che vi sia un compromesso.

Ed infatti scrivi "il compromesso adottato io lo ritenessi errato", il che significa che il problema è che il compromesso è errato, non che c'è compromesso.




"Ribadisci che l'obiettore non deve rinunciare a qualcosa?"

Nel caso di cui si parlava (l'interruzione di gravidanza) sì, perchè è la struttura che deve assicurare il servizio, non l'obiettore.



"A mio avviso questo sarebbe il prodotto di una legge contraddittoria
...
Se qualcosa mi dimostra, questo esempio accresce in me la convinzione che i compromessi approssimativi non siano la via maestra da seguire"

Il che significa che il problema è l'approssimazione del compromesso, non la necessità del compromesso.


Ora, che l'interrompibilità di idratazione e nutrizione rientri in questi casi ce la si può litigare.
Ma il mio punto era proprio questo: siccome non abbiamo ancora raggiunto un accordo sulle modalità di attuazione delle volontà di un paziente non coscienze, è prematuro discutere su quali siano le volontà ammesse e quali no.


Cordiali Saluti,
DiegoPi

Giuseppe Regalzi ha detto...

@Alberto Gambino:

"il paziente cosciente rifiuta nell'attualità del trauma, con la piena percezione delle possibili cure e in dialettica con i suoi cari che, agendo anche loro nella sfera della libertà, potrebbero cercare di dissuaderlo. Il cittadino che esprime ora per allora le sue scelte non si trova in alcuna di queste condizioni."

Non è affatto detto che il paziente cosciente si trovi in queste condizioni. Prendiamo il fumatore che rifiuta la terapia con cerotti alla nicotina proposta dal suo medico: non è affatto nell'attualità del trauma, dato che sta bene, e conosce bene da sempre cosa lo aspetta se continua a fumare, ma ugualmente prende (e ha tutto il diritto di prendere) una decisione che potrà avere conseguenze importanti sul suo futuro stato di salute, come quella che prende chi redige un testamento biologico.

Un paziente non deve neppure necessariamente avere "piena percezione delle possibili cure": come ho già scritto, può tranquillamente rifiutarsi di ascoltare cosa gli dice il medico, e nessuno lo obbliga a consultare testi di medicina; esiste un chiaro diritto all'ignoranza. Per converso, assolutamente nulla vieta che chi redige il proprio testamento biologico abbia una cognizione approfondita delle cure che gli toccherebbero se accettasse di essere sottoposto a trattamenti in stato di incoscienza.

Infine, nessuno ha l'obbligo di informare i propri parenti del proprio stato di salute (anzi credo che il medico che spifferi al coniuge di un malato notizie sullo stato di salute di quest'ultimo senza il suo consenso rischi grosso). Di nuovo, nulla vieta all'opposto che chi compili un testamento biologico ne parli con i propri cari.

Senza polemica: a me pare che la differenza decisiva tra le due situazioni sia solo una, e cioè che per costringere il paziente conscio a un trattamento sanitario bisogna obbligarlo con la forza, usandogli una violenza manifesta, stringendolo in una camicia di forza, sedandolo, ignorando le sue grida; nel caso del paziente inconscio la violenza sembra assente, e ci sentiamo per questo autorizzati a procedere violando la sua libertà.

DiegoPig ha detto...

Per Giuseppe Regalzi, 11/7/10 12:36

"A me pare che la differenza decisiva tra le due situazioni sia solo una, e cioè che per costringere il paziente conscio a un trattamento sanitario bisogna obbligarlo con la forza, usandogli una violenza manifesta, stringendolo in una camicia di forza, sedandolo, ignorando le sue grida; nel caso del paziente inconscio la violenza sembra assente, e ci sentiamo per questo autorizzati a procedere violando la sua libertà."


Sono di quest'opinione anche io.


Cordiali Saluti,
DiegoPig

AG ha detto...

A Regalzi e DiegoPig che condividono:"A me pare che la differenza decisiva tra le due situazioni sia solo una, e cioè che per costringere il paziente conscio a un trattamento sanitario bisogna obbligarlo con la forza, usandogli una violenza manifesta, stringendolo in una camicia di forza, sedandolo, ignorando le sue grida; nel caso del paziente inconscio la violenza sembra assente, e ci sentiamo per questo autorizzati a procedere violando la sua libertà."


Ma no, ma no.
Intanto stiamo parlando di "interventi terapeutici", non di generiche cure (dunque il tema del fumo mi pare esuli del tutto); poi non si tratta di forzare nessuno, ma di decidere se nell'imminenza di un intervento terapeutico valgano i desideri espressi quando l'evento ancora non si era verificato e dunque in una situazione del tutto decontestualizzata. Mi pare talmente ovvio che siano due situzioni distinte che mi sorprende questa pervicacia nel volerle trattare giuidicamente in modo eguale come se nulla fosse. Certmente i desideri espressi ora per allora potranno avere una qualche valenza per il medico, ma che si ritenga che abbiano giuridicamente lo stesso peso dei desideri espressi in piena coscienza una volta che il trauma si è realizzato e dopo che sono state prospettate le possibili terapie, mi pare davvero - anche da parte mia senza polemica - voler a tutti i costi forzare la realtà.

AG

Giuseppe Regalzi ha detto...

@Alberto Gambino:

a me pare che le cure costituiscano un sottoinsieme degli interventi terapeutici (sono gli interventi efficaci), ma forse usiamo definizioni diverse.

Naturalmente stiamo parlando di situazioni diverse, ma occorre vedere se la differenza è rilevante ai fini giuridici: una chemioterapia è enormemente diversa dall'asportazione di un piccolo ascesso, ma dal punto di vista del consenso informato i due trattamenti sono praticamente uguali.

Lei ha proposto alcune differenze rilevanti; io ho cercato di mostrare che queste differenze in realtà non esistono. Consideriamo un ennesimo caso: una persona nella cui famiglia sia presente una grave malattia ereditaria, trattabile se presa in tempo ma asintomatica all'inizio. Supponiamo che questo individuo - che sa dall'età della ragione di avere forse ereditato la malattia - rifiuti di eseguire i test genetici, e quindi anche di intraprendere un possibile cammino terapeutico. Questa persona non sta agendo una volta che il trauma si sia realizzato; sta rifiutando adesso possibili cure future (perché se è malato, allora quando avvertirà i primi sintomi sarà troppo tardi). Io non riesco a vedere differenze rilevanti rispetto al caso del testamento biologico.

DiegoPig ha detto...

Per Alberto Gambino, 11/07


"[A me pare che la differenza decisiva tra le due situazioni, n.d.DiegoPig e Regalzi]

Ma no, ma no.
Intanto stiamo parlando di "interventi terapeutici", non di generiche cure (dunque il tema del fumo mi pare esuli del tutto); poi non si tratta di forzare nessuno, ma di decidere se nell'imminenza di un intervento terapeutico valgano i desideri espressi quando l'evento ancora non si era verificato e dunque in una situazione del tutto decontestualizzata."


Io temo qui si sia introdotta un'ulteriore fonte di confusione, trattando l'imminenza di un intervento terapeutico.

E' ovvio che, se io ho una crisi che richiede un intervento, il medico è tenuto ad intervenire.
E' però altrettando ovvio che se tale crisi accade dopo che io ho esplicitamente espresso il mio volere ad interrompere ogni trattamento, il medico è tenuto a *non* intervenire.


Quindi, secondo me, l'imminenza dell'intervento ci distoglie dalla questione principale, che può essere espressa nel modo seguente:

In quali condizioni alle volontà espresse precedentemente da un paziente incosciente va attribuito lo stesso valore delle volontà espresse dal paziente cosciente al fine di decidere se continuare oppure interrompere ogni trattamento?

Se ho ben compreso, la posizione del Sig. Gambino è che mai, in nessun caso, questo possa avvenire.
E' corretto?
Se è corretto, se ne chiede giustificazione.


Cordiali Saluti,
DiegoPig

paolo de gregorio ha detto...

A Alberto Gambino e gli altri.

Sul fatto che le due situazioni - quella dell'attualità del trauma e quella dello stato di non coscienza al momento del trauma - siano diverse non penso che nessuno abbia dubbi. Tuttavia è del tutto inverosimile e ingiustificato sostenere che mentre un tot delle persone coscienti possono non essere disposte ad acconsentire alla nutrizione forzata, viceversa la totalità di quelle non coscienti sarebbero sempre e comunque favorevoli a questa opzione se potessero esprimersi nell'attualità del trauma. Non vedo nessuna argomentazione razionale per sostenere questa bizzarra ipotesi e gradirei che mi venisse fornita una.

Appurato ciò, allora resterebbe da stabilire chi e come debba decidere come procedersi al rappresentarsi di un trauma in stato di non coscienza, e allora sicuramente la ricostruzione della volontà del paziente dovrebbe giocare un ruolo come in tutte le altre situazioni. L'argomento di Giuseppe Regalzi che uno, nell'attualità o imminenza del trauma e in condizioni di presenza mentale, è anche eventualmente libero di non ascoltare le spiegazioni tecniche del medico pur rimanendo nelle sue facoltà quella di rinunciare alla terapia propostagli è di più delicata applicazione nella situazione di non coscienza: potremmo anche ipotizzare che in quest'ultima situazione vada richiesta una maggiore chiarezza in una dichiarazione anticipata, che scandisca con maggiore precisione le volontà dell'individuo a garanzia della corretta interpretazione da parte di chi dovrà dar corso a tale determinazione.

Tuttavia non vedrei nemmeno nulla di contraddittorio in una dichiarazione del tipo: "in nessun caso e in nessuna circostanza, a prescindere dalla patologia, potrà considerarsi dato il mio consenso alla nutrizione forzosa o artificiale". Anzi, questo tipo di dichiarazione non lascerebbe adito a dubbi. Altri potranno altresì specificare in maniera più circoscritta le condizioni di inattuabilità del meccanismo di cura: tanto per fare un esempio, sì nello stato di coma, no in uno stato vegetativo con indizi di permanenza prolungatosi per più di un periodo X specificato.

In sintesi: non apparirebbe illiberale ma a garanzia del paziente e del corretto operato del personale sanitario che una dichiarazione anticipata, proprio in quanto tale, racchiudesse un minimo di percezione e consapevolezza da parte del soggetto delle condizioni in cui egli potrebbe trovarsi che giustificassero un certo tipo di trattamento, diversamente dall'attualità del trauma in stato di vigilanza allorquando non è richiesta nessuna soglia di conoscenza ma occorre solo l'obbligo del medico. Se tale condizione fosse soddisfatta, allora non vedrei motivi per tradire la volontà del paziente e non parrebbero adeguati gli argomenti che presuppongono che mai in nessun caso un individuo rinuncerebbe alla nutrizione forzata se fosse privo di conoscenza.

AG ha detto...

A Paolo De Gregorio che ha detto:

"Tuttavia non vedrei nemmeno nulla di contraddittorio in una dichiarazione del tipo: "in nessun caso e in nessuna circostanza, a prescindere dalla patologia, potrà considerarsi dato il mio consenso alla nutrizione forzosa o artificiale". Anzi, questo tipo di dichiarazione non lascerebbe adito a dubbi."


E' proprio qui che volevo arrivare. Tale dichiarazione significherebbe richiesta di non ricovero, in quanto impedirebbe anche una flebo. Situazione oggi irrilevante in caso di urgenza, in quanto, come detto, prevale lo stato di necessità. Certamente non può significare ricovero e poi obbligo di non somministrare il sostentamento artificiale da parte del medico. Si tratterbbe di eutanasia.

AG

DiegoPig ha detto...

Per Alberto Gambino, 13/7/10 12:22

"E' proprio qui che volevo arrivare. Tale dichiarazione significherebbe richiesta di non ricovero, in quanto impedirebbe anche una flebo. Situazione oggi irrilevante in caso di urgenza, in quanto, come detto, prevale lo stato di necessità. "


Mi pare che il discorso non si limitasse ai casi d'urgenza, ma a tutti i casi in cui un paziente è incosciente e (probabilmente) lo rimarrà, come nel caso di Eluana Englaro.



Cordiali Saluti,
DiegoPig

AG ha detto...

A Regalzi:

il caso che descrive Lei - il rifiuto di terapie preventive oggi rispetto alla possibile insorgenza di una grave malattia ereditaria - non rientra nel caso del testamento biologico, che invece si riferirebbe al rifiuto di interventi terapeutici domani. Torna qui il ruolo e la natura della libertà di rifiuto di terapia (contestualizzata, attuale, personale...).

AG

Giuseppe Regalzi ha detto...

@Alberto Gambino:

certo che il caso di cui parlavo non rientra nel testamento biologico; quello che cercavo di mostrare è che non esistono differenze rilevanti, non che non esistono differenze. In entrambi i casi la persona opera adesso una decisione che riguarda possibili cure future.

paolo de gregorio ha detto...

@ Alberto Gambino

"Certamente non può significare ricovero e poi obbligo di non somministrare il sostentamento artificiale da parte del medico. Si tratterebbe di eutanasia".

Scusi se sarò brusco, ma nemmeno per idea: se io sono sono vigile, ho il diritto in ogni momento di rifiutare cure che non voglio mi vengano somministrate con la forza o la violenza privata, anche se in precedenza fossi stato trattato in condizioni di necessità e urgenza. Questo senza poi stare a sottilizzare nemmeno sul fatto che potrebbe rendersi necessario il passaggio da una flebo (usata nell'immediatezza dell'urgenza) ad un sondino, passaggio certamente rifiutabile e non presentabile come intervento in continuità di azione (che renda a suo giudizio non impossibile l'interruzione). Sorprende comunque come facilmente si faccia confusione con il termine eutanasia.

AG ha detto...

Caro De Gregorio, forse sarò brusco anch'io: le sfugge che se il paziente rifiuta il trattamento medico, viene dimesso.

AG

paolo de gregorio ha detto...

Caro Gambino,

Vediamo se ho capito correttamente il suo sillogismo: siccome il paziente che rifiuta un trattamento viene di norma dimesso dalla struttura, allora se le mie indicazioni di non venire nutrito forzosamente vengono eseguite possiamo chiamare il gesto eutanasia. Cos'è, una definizione operativa di eutanasia o una (a me sfuggente) deduzione logica?

Nota: anche se mi vengono prestate cure con successo vengo dimesso. Quindi se io lascio indicazioni di curare le eventuali infezioni che occorreranno durante stati di incoscienza e il medico esegue, anche in questo caso opererebbe una eutanasia?

AG ha detto...

Per De Gregorio:

no guardi io mi riferivo al fatto che Lei parla con una certa disinvoltura di pazienti che rifiutano flebo, sondini ecc., come se comunque fosse poi obbligatorio assisterli nelle strutture di ricovero. Questo come detto non avviene, in quanto i pazienti che si rifiutano, vengono dimessi. Altrimenti si attiverebbero veri e propri protocolli eutanasici, come è avvenunto nel caso Englaro (ricoverata in una casa di riposo comunale, fuori dal SSN).

AG

paolo de gregorio ha detto...

Gambino, siccome non comprendo la Sua obiezione, mi trovo costretto ad insistere: anche le persone che vengono guarite vengono dimesse dagli ospedali, ma questo fatto in sé non implica che la procedura seguita nel caso Englaro sia da definire eutanasica. Anche il fatto che una procedura sia eseguita in una struttura non del SSN non comporta conseguenze ontologiche: molte donne partoriscono in strutture non del SSN e questo chiaramente non rende i loro parti definibili come aborti. L'atto eutanasico è definito dalla sostanza ed essenza dell'azione eseguita e non dal luogo di esecuzione.

AG ha detto...

De Gragorio, ma è appunto questa la distinzione normativamente rilevante: l'eutanasia è espressamente vietata nelle strutture del SSN; invece fuori dal SSN c'è, specie dopo i casi Welby ed Englaro, un maggior grado di incertezza in quanto si tratta di vedere come i giudici applicano le norme penali.

paolo de gregorio ha detto...

Prendiamo l'espressione: "Se un intervento è di tipo eutanasico allora è vietato esegurlo in una struttura del SSN". Assumiamola adesso per vera. Lei pretende di far derivare da essa: "Se un intervento non è mai esguito nel SSN allora è eutanasico". Vede Gambino, da un numero di anni conosciamo l'erroneità di questa implicazione logica.

Non solo, avremmo casomai in questo caso indizi del contrario: l'eutanaisa è vietata per legge in Italia; nessuno è finito in galera per quelle operazioni.

Ed insisto ancora: la degenza che non necessiti di intervento o monitoraggio viene realizzata sempre fuori dalla strutture del SSN. Ciò in sé e per sé come dimostrerebbe che nei casi Welby o Englaro si sia operata un'eutanaisa?

Non si accorge che Lei sta tentando di far derivare l'essenza di un gesto dalle circostanze contingenti? Facciamo un esempio: sono uno studente tirocinante di medicina e vedo i medici affannarsi con esclamazioni del tipo: "codice rosso", "bisturi", "operiamo d'urgenza", "libera!", ecc. Deduco come lezione principale che in India non può esistere la medicina chirurgica d'emergenza, perché nella lingua del posto non esistono parole come "bisturi", "urgenza", eccetera. Starei facendo coincidere l'essenza della chirurgia non con la sostanza del gesto ma con altre circostanze contingenti.
Se riflette un attimo riconoscerà l'erroneità di questa deduzione, e si accorgerà che Lei sta operando un simile sillogismo: invece di spiegarci e dimostrarci perché secondo Lei in quei casi si sia trattato di eutanasia, Lei mette in evidenza il luogo geografico in cui tali interventi sono stati sostenuti.

AG ha detto...

Guardi De Gregorio che non ho mai sostenuto che un intervento terapeutico fuori del SSN sia automaticamente eutanasico... Che senso avrebbe?

AG

paolo de gregorio ha detto...

Allora, Gambino, per me è venuto il momento di ritirarmi definitivamente da questa discussione (molti diranno "era ora"): le sue obiezioni mi sono in certa misura non intellegibili (e ce l'ho messa tutta).

AG ha detto...

Anch'io credo di avercela messa tutta.

Cordialità a Lei, DiegoPig e l'ottimo moderatore del blog.

In fondo l'articolo e i primi commenti, con cui si apriva questo blog, erano nei miei confronti non certo teneri, mentre il confronto che poi si è aperto mi pare si sia svolto complessivamente con un discreto rispetto per le reciproche posizioni. Il che di questi tempi è già una conquista...

AG

DiegoPig ha detto...

"In fondo l'articolo e i primi commenti, con cui si apriva questo blog, erano nei miei confronti non certo teneri, mentre il confronto che poi si è aperto mi pare si sia svolto complessivamente con un discreto rispetto per le reciproche posizioni. Il che di questi tempi è già una conquista..."


E' stato un piacere anche per me discutere con voi.


Alla prossima.


Cordiali Saluti,
DiegoPig

Giuseppe Regalzi ha detto...

Grazie anche da parte mia al professor Gambino e a tutti i commentatori. Alla prossima!