sabato 22 ottobre 2011

Accanimenti

Accanimento terapeutico: il sostantivo e l’aggettivo attraversano dolorosamente le nebbie in cui, dopo il buon senso, la politica italiana ha smarrito anche l’ultimo residuo di decenza. E non si intende, qui, la pervicacia con cui un intero gruppo dirigente si ostina a tenere in vita un assetto di potere in cui interessi personali, corruzione, insipienza, prepotenza e volgarità danno il peggio di sé. L’accanimento terapeutico è da intendere piuttosto nel suo significato stretto: applicazione insistita oltre ogni ragionevolezza e ogni pietà di tecniche mediche che impediscano a un uomo o a una donna di chiudere con dignità la propria vita.
In realtà, le due tragiche «cocciutaggini» hanno più d’un punto in comune. Anzi, vanno di pari passo da almeno tre anni, cioè dal 17 settembre del 2008. Quel giorno la Camera dei deputati e il Senato sollevarono un conflitto di attribuzione nei confronti della Cassazione e della Corte d’appello di Milano, ree d’aver «creato una disciplina innovativa […], fondata su presupposti non ricavabili dall’ordinamento vigente con alcuno dei criteri ermeneutici utilizzabili dall’autorità giudiziaria». In sostanza, con la sentenza 21748 del 2007 la prima aveva riconosciuto il diritto di Eluana Englaro a morire in pace. E il 25 giugno di quello stesso 2008 un decreto della seconda aveva accolto «l’istanza di autorizzazione all’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale».
E però, dopo sedici anni e più di coma vegetativo, alla povera Englaro le maggioranze di Camera e Senato proprio non volevano concedere tregua. Così fu necessaria una nuova decisione, questa volta della Corte costituzionale. E la Corte costituzionale, appunto, l’8 ottobre 2008 dichiarò insussistente il «requisito oggettivo dei conflitti sollevati», e dunque inammissibile il ricorso. Quel che seguì è o dovrebbe essere a tutti tristemente noto: in una macabra corsa contro il tempo, la destra – sostenuta da più d’un transfuga del centrosinistra – tentò in ogni modo di vanificare le pronunce di Cassazione, Tribunale di Milano e Corte costituzionale.
Per lunghe settimane tutto il Paese fu costretto a soffrire lo spettacolo di parlamentari che tenevano in spregio non solo la magistratura, ma anche e soprattutto un diritto che la magistratura aveva riconosciuto a una cittadina. Qualcuno sproloquiava, paragonando l’interruzione della respirazione e della nutrizione forzate alla (cosiddetta) eutanasia nazista. Altri blateravano di indisponibilità della vita, e intanto si accingevano a sequestrare per legge quella di una donna. Ci fu anche uno – il primus super pares, come all’incirca in quel periodo amava essere definito – che giurò agli italiani che non di un corpo straziato e vegetante si trattava, ma di una giovane con normali cicli mestruali, che avrebbe potuto avere un figlio. Disse proprio così, quel primus, e senza vergognarsene. Quando poi giunse in aula la notizia della morte della Englaro, rivolti verso i banchi dell’opposizione e del pari senza vergogna, i suoi deputati gridarono «assassini, assassini».
Questo accadde in Italia, su per giù tre anni fa. A ricordarlo, quasi non ci si crede. Come è mai possibile che un gruppo di eletti dai cittadini incrudelisca in questo modo? Come è mai possibile che un capo di governo dia «notizie» sulle mestruazioni di una donna in coma? Come è mai possibile che nessuna pietà suggerisca di accogliere con il silenzio la fine tormentata di un’esistenza? Ma così accadde. E subito dopo gli stessi che avevano combinato lo scempio del diritto e dell’umanità promisero che per il futuro nessuno più avrebbe goduto del privilegio di decidere della propria morte. Nacque così quello che fu poi detto disegno di legge Calabrò, dal suo relatore Raffaele Calabrò, e che si proponeva di regolamentare la fine delle nostre vite. O almeno la fine delle nostre vite nel caso in cui ci tocchi di arrivarci senza possibilità di manifestare direttamente la nostra volontà.
Questo è il centro della questione, infatti: non in generale il diritto di rifiutare le cure e di lasciarsi morire – sancito dalla Costituzione, come si legge anche nella sentenza citata della Cassazione –, ma quello stesso diritto nei casi di coma irreversibile, pur in presenza di un «testamento biologico», ossia di una dichiarazione scritta esplicita e preventiva. È qui, in questo momento di massima debolezza del singolo, che l’ordinamento giuridico dovrebbe tutelarne la volontà: così verrebbe da dire. E invece Calabrò & C. opinavano (e opinano) che non la volontà del cittadino debba essere tutelata, ma la prepotenza di una morale confessionale e di uno stato illiberale che vorrebbero padroni assoluti dei nostri corpi, oltre che delle nostre anime, come se fossimo sudditi.
Roberto Escobar, su Il Mulino 5/2011.

Continua qui. Letto stamattina a Pagina 3, Radio 3.

7 commenti:

Paolo Garbet ha detto...

Vorrei commentare, ma mi vengono in mente solo parolacce e bestemmie.

Anonimo ha detto...

Se dovesse passare le legge catto-talebana,vorrà dire che si dovrà ricorrere alla Corte Costituzionale per decretarne l'incostituzionalità o, al limite, indire un referendum per la sua abolizione,sono gli unici strumenti che abbiamo a disposizione per contrastare tale legge catto-talebana.

SImone ha detto...

"applicazione insistita oltre ogni ragionevolezza e ogni pietà di tecniche mediche che impediscano a un uomo o a una donna di chiudere con dignità la propria vita."


Molto rischioso detto detta cosi. Che cosa e' la dignita'? La riposta di un qualsiasi cattolico (quindi una rarita' in Italia essendo a detta del cardinal Ruini non applicabile a chiunque ritiene di poter scegliere autonomamente sulla sua vita) sarebbe che la dignita' sta nel rispettare il volere di Dio e il volere di Dio sarebbe quello di stare attccato a un respiratore o a un sondino anche per l´eternita'.
Il punto non e´la dignita' ma la liberta' di decidere sul proprio corpo se questo non arreca danni ad altri.

Anonimo ha detto...

La lettura dell'articolo mi suggerisce due riflessioni. La prima, di tenore giuridico formale, e' questa. Il caso Englaro propose un dilemma: puo' un terzo, il tutore, decidere della vita del suo tutelato? Sappiamo tutti come ando' a finire... travolgendo ogni sorta di principio vigente, in tema di obbligo della forma scritta delle disposizioni di ultima volonta', i bravissimi e costosi avvocati del tutore, e padre, la spuntarono, arrampicandosi su argomentazioni.orali.. 'per sentito dire'. Non va sottaciuto il comportamento....discutibile (quasi addomesticato del protutore) ed ancora il mancato ascolto di testi... contrari, e della stessa madre. Ma tant'è...
La seconda riflessione e' di natura umana. Oggi assistiamo ad un paradosso: da una parte ci si accanisce sulla vita, e dall'altro sulla morte. Bel dilemma. Da una parte chi non accetta l'idea di dover morire, e dall'altra chi ...accellelerebbe la morte. Secondo me questo dualismo contrapposto ed esasperato e solo figlio di una bioetica ancora poco bio e poco etica. Una soluzione scaturira' solo accettando la morte come evento naturale, che puo' essere VISSUTO, con l'affetto di chi ci circonda, mai accelerato, o tanto meno ostinatamente ritardato, mai tralasciando il rispetto della dignita' e della volonta' dell'individuo. Ognuno e' libero di suicidarsi, in qualsiasi momento, ma non puo' ottenere il mio aiuto. Il mio conforto, la mia solidarieta' si.
francesco sirio, che conserva ancora la sua bottiglietta d'acqua per Eluana..

Simone ha detto...

"tanto meno ostinatamente ritardato"

Ci vuole della bella fantasia a dire che alimentare per 17 anni una persona in maniera rtificiale con un cervello ridotto a poltiglia non sia ostinatamente ritardare la morte.

Per inciso, se il suo ragionamento fosse coerente si dovrebbeper esempio costringere i testimoni di Geova a farsi trasfondere il sangue. Vuole sostenere questo?

L'Altruista ha detto...

Che meraviglioso ragionamento: chi è in grado di suicidarsi da solo ok, invece chi è troppo malato e troppo debole per farlo, che si arrangi e continui a soffrire, e sono tutti ca22i suoi.

Tipico esempio di carità e altruismo?

Mah.

paolo de gregorio ha detto...

Sul commento di Francesco Sirio:

"Oggi assistiamo ad un paradosso: da una parte ci si accanisce sulla vita, e dall'altro sulla morte. [...] Da una parte chi non accetta l'idea di dover morire, e dall'altra chi ...accellelerebbe la morte".

Si vede che reiterare le precisazioni su un ragionamento fino alla nausea non serve a niente, perché tanto le obiezioni rimarranno sempre le stesse, immutate e indifferenti all'esposizione della posizione opposta. Non ci sarebbe in effetti nessuna contrapposizione e nessuno scontro, come al contrario vi sono, se le persone che desiderano il massimo della tutela non protestassero che nessuno debba avere altra opzione che essere assistito sempre, senza se e senza ma, a prescindere dalla propria volontà.

Qui non siamo perciò in presenza di nessun "dualismo contrapposto" del tipo di quello enunciato: chi reclama la libertà di poter morire in pace, senza che vi sia accanimento, non chiede affatto che lasciar morire secondo le modalità fatte proprie debba essere anche la norma imposta obbligatoriamente a tutti. Al contrario di alcuni di quelli che sono convinti dell'opposto, che insistono nel dire che la loro scelta personale debba essere imposta (per un motivo incomprensibile) anche agli altri.

Dico di più: che una persona (e ce ne sono) può benissimo essere convinta di voler sempre e comunque ricevere tutte le cure e attenzioni del caso, facendo parte quindi della "fazione" di quelli che secondo Francesco Sirio si accaniscono sulla vita, professando poi che si debba avere in ogni caso il diritto di non ricevere per forza alcune cure e assistenza per imposizione di legge, facendo parte al contempo della fazione di quelli che secondo Francesco Sirio si accaniscono sulla morte (una contraddizione).

Il dualismo contrapposto, se c'è, è quindi tra chi ritiene che nel momento di optare una scelta personale egli stia usufruendo appieno della propria libertà, e chi ritiene che la propria libertà non sia soddisfatta sino a che la propria scelta e la propria preferenza non siano forzosamente estese e imposte anche a tutte le altre persone della comunità.