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lunedì 9 giugno 2014

Che cosa è l’eutanasia (una volta per tutte)

“Choc” è il termine più ricorrente accanto a “eutanasia”. Cosa ci sia da sconvolgersi non è del tutto chiaro. Può però essere un’occasione per chiarire i termini e i concetti spesso usati con troppa disinvoltura.

Il 4 giugno Il Fatto Quotidiano titolava “Eutanasia, neurologo Gemelli: “I miei pazienti possono scegliere di morire”. I titolisti, si sa, puntano in alto, ma anche nel testo tornano manifestazioni di sorpresa per quanto è lecito e possibile da molti anni e non è eutanasia (propriamente intesa). “A parlare non è un medico svizzero”. “È perfettamente consapevole che le sue parole rischiano di rialzare un putiferio intorno a un tema”. “Ma poi Sabatelli fa un passo in più: poiché nessuno può immaginare cosa significhi vivere con un tubo in gola e una macchina che pompa aria nei polmoni, per quanto un medico si sforzi di descriverne la condizione, “il piano terapeutico deve essere flessibile”.”

Ovviamente la risposta di Mario Sabatelli, neurologo e responsabile del Centro malattie del motoneurone (SLA) del Policlinico Gemelli, non è rivoluzionaria, provocatoria, scioccante o da “medico svizzero”. Sabatelli risponde tenendo conto delle leggi esistenti e della buona pratica medica: “Che quello che è proporzionato oggi, può essere sproporzionato tra sei mesi, quando la malattia sarà drammaticamente avanzata. E allora un paziente ha tutto il diritto di dire: ok, basta. Nessuno dietro a una scrivania può decidere per me, che sono a letto tracheostomizzato.”

L’intervista completa è qui, e chi ha la pazienza di ascoltarla non ci troverà nulla di scioccante (dal minuto 6 Sabatelli risponde alla domanda sul rifiuto alla trachestomia; la sua risposta può valere anche per tutti gli altri trattamenti e uno dei passaggi cruciali è il seguente: “dipende dalle scelte esistenziali […] della persona che decide di vivere in questa maniera; quindi si passa dal piano strettamente medico (efficacia, appropriatezza) a un piano di scelta di valori”). Le parti più importanti sono, poi, quelle sulla SLA, sulle condizioni di vita delle persone affette da una patologia oggi incurabile, sulle carenze “logistiche” e sullo stato della ricerca.

Wired.

mercoledì 19 marzo 2014

Fine vita e testamento biologico, la situazione oggi in Italia

2006: “Raccolgo il suo messaggio di tragica sofferenza con sincera comprensione e solidarietà. Esso può rappresentare un’occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi, di particolare complessità sul piano etico, che richiedono un confronto sensibile e approfondito, qualunque possa essere in definitiva la conclusione approvata dai più”.

2014: “Ritengo che il Parlamento non dovrebbe ignorare il problema delle scelte di fine vita ed eludere ‘un sereno e approfondito confronto di idee’ su questa materia. 
Richiamerò su tale esigenza, anche attraverso la diffusione di questa mia lettera, l’attenzione del Parlamento”.


A scrivere è sempre Giorgio Napolitano. Nel 2006 rispondendo alla lettera di Piergiorgio Welby, ieri alla richiesta dell’Associazione Luca Coscioni. In questi 8 anni il confronto non è stato sereno, né approfondito (sensibile è uno strano aggettivo per un confronto, ma prendendolo alla larga possiamo dire che no, non è stato nemmeno sensibile, soprattutto alla razionalità del confronto stesso).

Prima di “confrontarci” dobbiamo ricordare qual è il panorama normativo delineato dalla Costituzione e dalle leggi già esistenti. I cardini sono costituiti dalla nostra autonomia e dalla possibilità di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario. Il paternalismo medico (“ti obbligo per il tuo bene”) è stato sostituito – seppure non ancora del tutto e non ancora perfettamente – dall’autodeterminazione (“ti dico qual è il tuo quadro clinico e i possibili scenari, tu decidi cosa fare”). E non potrebbe essere altrimenti: chi altri dovrebbe decidere della mia esistenza?

Il nostro consenso è necessario e nessun medico può decidere al posto nostro. Ci sono alcune eccezioni, giustificabili nel caso di assenza o significativa riduzione della capacità di intendere e di volere oppure di pericolosità verso gli altri. Sono i casi previsti dal trattamento sanitario obbligatorio (TSO): non essere in grado di decidere o essere affetti da una malattia infettiva. Anche i casi di urgenza costituiscono un’eccezione: se arrivo incosciente al pronto soccorso, i medici mi soccorrono.

Eliminate le situazioni eccezionali, se sono cosciente e non costituisco un pericolo per gli altri, posso decidere se e come curarmi senza che vi sia la possibilità di impedirmelo.

Per illustrare il punto spesso si fa l’esempio del Testimone di Geova che ha più di 18 anni e che rifiuta le trasfusioni: molti di noi possono considerare questo rifiuto come dissennato ma il nostro parere – per fortuna – non è sufficiente per imporre a un adulto qualcosa che secondo noi è giusto (che poi non esiste, sarà al più giusto per noi). È una pessima abitudine trasformare il legittimo “io farei così” in “tutti devono fare così”.

Ci sono molti altri esempi: come quello della donna che non ha voluto farsi amputare pur sapendo che sarebbe morta. Lo stesso Welby non ha chiesto altro che interrompere un macchinario che lo teneva in vita. Un macchinario al cui uso liberamente aveva acconsentito e al quale, altrettanto liberamente, avrebbe dovuto poter rinunciare. Così come possiamo decidere di cominciare una chemioterapia e decidere di smettere – anche se non facendola moriremo con un’altissima probabilità.

sabato 22 ottobre 2011

Accanimenti

Accanimento terapeutico: il sostantivo e l’aggettivo attraversano dolorosamente le nebbie in cui, dopo il buon senso, la politica italiana ha smarrito anche l’ultimo residuo di decenza. E non si intende, qui, la pervicacia con cui un intero gruppo dirigente si ostina a tenere in vita un assetto di potere in cui interessi personali, corruzione, insipienza, prepotenza e volgarità danno il peggio di sé. L’accanimento terapeutico è da intendere piuttosto nel suo significato stretto: applicazione insistita oltre ogni ragionevolezza e ogni pietà di tecniche mediche che impediscano a un uomo o a una donna di chiudere con dignità la propria vita.
In realtà, le due tragiche «cocciutaggini» hanno più d’un punto in comune. Anzi, vanno di pari passo da almeno tre anni, cioè dal 17 settembre del 2008. Quel giorno la Camera dei deputati e il Senato sollevarono un conflitto di attribuzione nei confronti della Cassazione e della Corte d’appello di Milano, ree d’aver «creato una disciplina innovativa […], fondata su presupposti non ricavabili dall’ordinamento vigente con alcuno dei criteri ermeneutici utilizzabili dall’autorità giudiziaria». In sostanza, con la sentenza 21748 del 2007 la prima aveva riconosciuto il diritto di Eluana Englaro a morire in pace. E il 25 giugno di quello stesso 2008 un decreto della seconda aveva accolto «l’istanza di autorizzazione all’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale».
E però, dopo sedici anni e più di coma vegetativo, alla povera Englaro le maggioranze di Camera e Senato proprio non volevano concedere tregua. Così fu necessaria una nuova decisione, questa volta della Corte costituzionale. E la Corte costituzionale, appunto, l’8 ottobre 2008 dichiarò insussistente il «requisito oggettivo dei conflitti sollevati», e dunque inammissibile il ricorso. Quel che seguì è o dovrebbe essere a tutti tristemente noto: in una macabra corsa contro il tempo, la destra – sostenuta da più d’un transfuga del centrosinistra – tentò in ogni modo di vanificare le pronunce di Cassazione, Tribunale di Milano e Corte costituzionale.
Per lunghe settimane tutto il Paese fu costretto a soffrire lo spettacolo di parlamentari che tenevano in spregio non solo la magistratura, ma anche e soprattutto un diritto che la magistratura aveva riconosciuto a una cittadina. Qualcuno sproloquiava, paragonando l’interruzione della respirazione e della nutrizione forzate alla (cosiddetta) eutanasia nazista. Altri blateravano di indisponibilità della vita, e intanto si accingevano a sequestrare per legge quella di una donna. Ci fu anche uno – il primus super pares, come all’incirca in quel periodo amava essere definito – che giurò agli italiani che non di un corpo straziato e vegetante si trattava, ma di una giovane con normali cicli mestruali, che avrebbe potuto avere un figlio. Disse proprio così, quel primus, e senza vergognarsene. Quando poi giunse in aula la notizia della morte della Englaro, rivolti verso i banchi dell’opposizione e del pari senza vergogna, i suoi deputati gridarono «assassini, assassini».
Questo accadde in Italia, su per giù tre anni fa. A ricordarlo, quasi non ci si crede. Come è mai possibile che un gruppo di eletti dai cittadini incrudelisca in questo modo? Come è mai possibile che un capo di governo dia «notizie» sulle mestruazioni di una donna in coma? Come è mai possibile che nessuna pietà suggerisca di accogliere con il silenzio la fine tormentata di un’esistenza? Ma così accadde. E subito dopo gli stessi che avevano combinato lo scempio del diritto e dell’umanità promisero che per il futuro nessuno più avrebbe goduto del privilegio di decidere della propria morte. Nacque così quello che fu poi detto disegno di legge Calabrò, dal suo relatore Raffaele Calabrò, e che si proponeva di regolamentare la fine delle nostre vite. O almeno la fine delle nostre vite nel caso in cui ci tocchi di arrivarci senza possibilità di manifestare direttamente la nostra volontà.
Questo è il centro della questione, infatti: non in generale il diritto di rifiutare le cure e di lasciarsi morire – sancito dalla Costituzione, come si legge anche nella sentenza citata della Cassazione –, ma quello stesso diritto nei casi di coma irreversibile, pur in presenza di un «testamento biologico», ossia di una dichiarazione scritta esplicita e preventiva. È qui, in questo momento di massima debolezza del singolo, che l’ordinamento giuridico dovrebbe tutelarne la volontà: così verrebbe da dire. E invece Calabrò & C. opinavano (e opinano) che non la volontà del cittadino debba essere tutelata, ma la prepotenza di una morale confessionale e di uno stato illiberale che vorrebbero padroni assoluti dei nostri corpi, oltre che delle nostre anime, come se fossimo sudditi.
Roberto Escobar, su Il Mulino 5/2011.

Continua qui. Letto stamattina a Pagina 3, Radio 3.

martedì 19 aprile 2011

Leggere prima di commentare

Dicevamo su questo blog, poco più di una settimana fa, come la sentenza pronunciata dalla Quarta Sezione Penale della Cassazione il 13 gennaio scorso fosse molto diversa da quanto andavano raccontando all’unanimità giornali e altri media, che si erano inventati dal nulla un solenne pronunciamento contro l’accanimento terapeutico. Adesso la verità emerge anche altrove; ecco cosa scriveva ieri Mario Pirani, come sempre inappuntabile («Chirurghi sotto accusa con sentenza inventata», La Repubblica, 19 aprile 2011, p. 26):

La seconda citazione è tratta dall’editoriale del Corriere Medico, a firma del presidente dell’Ordine dei medici di Roma Mario Falconi […]: «Suggerisco un’Authority contro i media che manipolano la realtà... Persino una recente sentenza della Cassazione è stata stravolta con palese alterazione della verità». Come, del resto, sostiene la terza citazione, un comunicato a firma di Giovanni Hermanin, già assessore della giunta Veltroni ed oggi responsabile Sanità dell’Api (Alleanza per l’Italia), secondo cui «non esiste nessuna sentenza della Cassazione che affermi quanto riportato su tutti i giornali in merito agli interventi chirurgici su pazienti in condizioni estreme». Il comunicato si riferisce, appunto, alla notizia riportata con grande rilievo, su una condanna, sancita dalla Cassazione, nei confronti di tre chirurghi […] i quali avrebbero operato, suffragati dal consenso informato della paziente e dei familiari, una giovane donna, con due figli, al fine di prolungarne almeno per qualche tempo la vita. Il tentativo però fallì, ma la famiglia, consapevole del suo impegno, si guardò bene dal denunciare gli operatori. Questi furono egualmente condannati e ricorsero fino alla Cassazione per rivendicare la giustezza del loro operato. Sulla base però di una interpretazione erronea diffusa dalle agenzie, la notizia venne data come se la Suprema Corte avesse condannato i chirurghi e stabilito «in modo perentorio il principio secondo cui gli interventi chirurgici senza speranza (chi può definirli in anticipo? ndr) non devono essere tentati anche se esiste il consenso informato del paziente». Per capirne di più ho letto integralmente la sentenza la quale, in buona sostanza, non ha condannato nessuno né emesso alcun principio, ma, preso atto del decorso del termine di prescrizione, si è limitata a dichiarare estinto il reato, rifiutando di entrare nel merito. Resta da chiedersi perché sia stata fatta circolare una versione così ingannevole. […]
La coscienziosità di Pirani, che è andato a leggersi la sentenza, può utilmente essere messa a confronto con quella di Massimo Gandolfini, che su AvvenireOttimi princìpi ribaditi [e legge benvenuta]», 16 aprile, p. 2), ancora tre giorni fa, adoperava la versione di fantasia del pronunciamento della Cassazione per giustificare la legge sulle DAT in discussione alla Camera, pur dichiarando – molto candidamente, almeno in apparenza – di non conoscere gli atti del «caso specifico»! A merito di Gandolfini va comunque ascritto di averci fatto capire quale sia la risposta alla domanda di Pirani: perché è stata fatta circolare una versione così ingannevole della sentenza? Il motivo, a questo punto, è evidente...

lunedì 11 aprile 2011

Una sentenza immaginaria

E così, la Corte di Cassazione avrebbe solennemente stabilito il principio che non basta il consenso informato per dare legittimità all’azione del medico; che i chirurghi che sottopongono i pazienti a interventi inutili tradiscono il giuramento di Ippocrate; che le operazioni senza speranza non devono essere nemmeno tentate. Questo abbiamo letto sui giornali nei giorni scorsi. Secondo Assuntina Morresi («Cassazione doppia. Chiarezza urgente», Avvenire, 10 aprile 2011, p. 2), quella pronunciata dalla Quarta Sezione Penale della Cassazione il 13 gennaio scorso sarebbe in più

una sentenza, insomma, in accordo con la legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) in discussione in Parlamento, per la quale il medico deve tenere conto delle volontà espresse dal paziente quando ancora era in grado di farlo, ma non è obbligato a eseguirle, perché non può trasformarsi in un mero esecutore delle sue richieste. E un alibi in meno a chi sostiene che la legge sulle Dat è incostituzionale perché le indicazioni contenute non sono vincolanti. Ancora una volta si conferma che l’autodeterminazione del paziente non è assoluta, perché non basta il suo consenso a rendere legittimo qualsiasi intervento medico: il professionista non può scaricare sul malato la responsabilità che gli compete, quella cioè del giudizio ultimo sulla terapia da intraprendere, sospendere, o non iniziare affatto.
È un vero peccato che tutte queste interpretazioni abbiano poco – e in qualche caso, nulla – a che fare con la vera sentenza.

Partiamo dai fatti. Il 10 dicembre 2001, all’Ospedale S. Giovanni di Roma, tre chirurghi sottopongono una paziente affetta da un tumore con metastasi diffuse a un intervento chirurgico. A una laparoscopia iniziale fa seguito una laparotomia, con cui vengono asportate le ovaie e una parte della massa neoplastica. Durante la notte la paziente si sente male e, nonostante i tentativi di rianimazione, muore all’una del giorno dopo. L’esame autoptico identificherà la causa della morte in una grave emorragia interna. L’accusa che viene formulata contro i tre medici è, in primo luogo, di aver causato lesioni alla milza e al legamento falciforme della donna, che sarebbero la causa del sanguinamento fatale. I tre sostengono invece che l’emorragia sarebbe stata causata dal cedimento fortuito e imprevedibile dei punti metallici usati per suturare i vasi sezionati, dovuto alle cattive condizioni dei tessuti operati.
In secondo luogo, si accusano gli imputati di aver violato le
disposizioni dettate dalla scienza e dalla coscienza dell’operatore. Nel caso concreto, attese le condizioni indiscusse ed indiscutibili della paziente (affetta da neoplasia pancreatica con diffusione generalizzata, alla quale restavano pochi mesi di vita e come tale da ritenersi “inoperabile”) non era possibile fondatamente attendersi dall’intervento (pur eseguito in presenza di consenso informato della donna quarantaquattrenne, madre di due bambine e dunque disposta a tutto pur di ottenere un sia pur breve prolungamento della vita) un beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita. I chirurghi pertanto avevano agito in dispregio al codice deontologico che fa divieto di trattamenti informati a forme di inutile accanimento diagnostico terapeutico.
Va notato che, contrariamente a quanto sostenuto da quasi tutte le fonti giornalistiche, queste non sono parole della Cassazione ma bensì della Corte d’Appello (i tre imputati, condannati in primo e secondo grado per omicidio colposo, avevano fatto ricorso alla Suprema Corte). Ma questo è in fondo solo un dettaglio. Il punto fondamentale è che, nel loro ricorso, i tre chirurghi non hanno mai messo in discussione il principio che non si devono praticare interventi inutili. Non hanno legittimato le proprie azioni invocando il consenso informato ottenuto dalla paziente; meno che mai nessuno di loro ha cercato di «scaricare sul malato la responsabilità che gli competeva». Come avrebbero potuto, del resto? La Corte d’Appello non aveva introdotto nessuna novità, ma solo ricordato un articolo del Codice deontologico dei medici, il n. 16, che recita:
Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita.
(Nel linguaggio del Codice «anche tenendo conto» va interpretato come «neppure tenendo conto».) Questo è un principio di banale buon senso, che nessun medico ha mai messo o metterebbe in discussione (anche se non tutti i medici, purtroppo, operano poi in conformità ad esso). Dovrebbe anche essere evidente che il principio secondo cui il paziente non può pretendere che il medico compia qualsiasi azione non inficia per nulla – anzi a ben vedere conferma – il principio complementare secondo cui neppure il medico può pretendere che il paziente subisca qualsiasi azione.
I tre imputati si sono invece difesi asserendo che l’operazione non appariva in partenza così disperata, essendo in quel momento l’origine del tumore ancora incerta: se fosse stato un tumore ovarico, la donna avrebbe potuto sopravvivere anche tre anni in più (le analisi successive hanno confermato che si trattava invece di un tumore del pancreas). I tre hanno anche lamentato il fatto che l’addebito di aver voluto effettuare l’intervento chirurgico non era stato contestato nel capo di imputazione, pregiudicando così la loro piena possibilità di difendersi; e questo è tutto.
La Cassazione ha annullato la condanna della Corte d’Appello per l’intervenuta prescrizione; ha giudicato che le prove addotte contro gli imputati non fossero contraddittorie o insufficienti, e che non si potesse quindi proscioglierli nel merito. Ha giudicato infine di non poter rilevare eventuali vizi di motivazione o analizzare questioni di nullità, a causa dell’avvenuta estinzione del reato. Non ha affermato o ribadito e neppure soltanto nominato nessun principio giuridico a proposito del consenso informato – cosa naturale, dato che nessun principio del genere, come abbiamo visto, era stato messo in questione dai tre ricorrenti.
Questo, almeno, nella sentenza reale; in una sentenza immaginaria, com’è noto, si può leggere qualsiasi cosa – soprattutto, qualsiasi cosa confacente ai propri scopi.

lunedì 24 novembre 2008

Il beniamino di Bioetica si schiera coraggiosamente a favore dell’accanimento terapeutico

Con un’uggiosa uniformità di giudizi, quasi tutti i commentatori sono concordi nel ritenere del tutto legittima l’interruzione delle terapie nel caso del bambino di Treviso (un neonato di cinque giorni cui, nell’imminenza della morte ormai inevitabile, i medici avevano sospeso la somministrazione di pesanti medicazioni): si tratta di accanimento terapeutico, anche secondo la più ristretta e arcigna delle definizioni. Fa parziale eccezione il vescovo emerito di Treviso e commissario Cei per la Dottrina della fede, che in una dichiarazione alla Stampa si dice addolorato dall’episodio, ma poi in un soprassalto di prudenza aggiunge che bisogna capire cos’è successo veramente.
Nessun cedimento invece a queste ubbie da parte del beniamino di Bioetica, l’On. Luca Volontè, che virilmente non conosce dubbi, e parla di «introduzione di una eugenetica soft» e aggiunge: «il peggior nazicomunismo della selezione della specie è tutt’altro che scomparso». Si converrà che aver risparmiato una o due ore di atroci sofferenze a un bambino ormai condannato è un delitto efferato, degno dei peggiori totalitarismi. Un grazie sincero all’On. Volontè per averci ricordato che, checché se ne dica, l’accanimento terapeutico è una santa cosa, soprattutto se praticato sui più fragili e indifesi di noi.

giovedì 20 novembre 2008

Tra «probabilmente» e «certamente»

Sul Foglio di ieri si leggeva questo editoriale («Eluana, probabilmente», 19 novembre 2008, p. 3):

Il professor Carlo Alberto Defanti è il neurologo che segue da anni Eluana Englaro e che chiede senza esitazioni di staccarle il sondino attraverso il quale la donna si nutre e si disseta. Eppure è proprio lui che rispondeva così a chi, due giorni fa, gli chiedeva se la condizione di Eluana è sicuramente irreversibile: “Se si vuole una risposta apodittica del tipo ‘non c’è alcuna possibilità in assoluto’, non posso darla. D’altronde in medicina sfido a trovare una singola affermazione che corrisponda a un criterio assoluto di questo tipo. Noi sappiamo in base a un’osservazione che ormai sta avvicinandosi ai diciassette anni, che su base probabilistica Eluana ha una possibilità di ripresa minima di coscienza che si avvicina a zero”. Se poi si chiede al professor Defanti se Eluana può provare sofferenza, è sempre lui a rispondere così: “Da un punto di vista teorico non è possibile dire se nonostante i danni devastanti al cervello possa avere qualche forma di sensazione, questo in linea assoluta non si può escluderlo”. Per questo, a Eluana saranno somministrati sedativi dopo il distacco del sondino. E comunque, aggiunge Defanti, nel caso della donna “probabilmente c’è una disconnessione fra la corteccia cerebrale e gli stimoli che arrivano dal mondo esterno e dal mondo interno”. Troppi “probabilmente” e nessun “certamente”, a premessa della morte di Eluana Englaro. Le parole non hanno davvero più senso, se non si riesce a misurare la distanza immensa tra “probabilmente” e “certamente”.
Che esista una distanza immensa tra «probabilmente» e «certamente» è qualcosa che fa piacere credere. Eliminare la possibilità stessa del rischio, per quanto remoto, elimina anche l’angoscia di chi si sente esposto all’aleatorietà. Ma è anche possibile? E soprattutto, quanto dev’essere bassa quella probabilità per meritare di essere eliminata? Che mondo sarebbe quello in cui nessun rischio fosse ammesso, in cui la distanza tra «probabilmente» e «certamente» fosse presa sul serio?
Rimaniamo nell’ambito della medicina, e consideriamo l’accanimento terapeutico. Non nell’accezione comune di «trattamenti medici insopportabili per il paziente», ma in quella arcigna e inflessibile del magistero ecclesiastico:
[È legittima] la rinuncia «all’accanimento terapeutico», cioè all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo.
«Ragionevole speranza» non è la stessa cosa di «assoluta certezza»; qui il professor Defanti ha ragione (e del resto Il Foglio su questo punto non lo contesta): in medicina non esiste un criterio assoluto di questo tipo. Vogliamo la certezza? Allora la Chiesa ha torto, e l’accanimento terapeutico non deve essere proibito ma imposto: nessun sondino dev’essere mai ritirato (neppure a un papa morente), nessuna chemioterapia sospesa. Si irraggi ogni tumore ad oltranza, col paziente morente legato al lettino, ogni rianimazione cardiaca si estenda fino a quando il corpo diventa freddo. Perché le probabilità che qualcosa accada all’ultimo secondo non sono nulle, e sono spesso maggiori della probabilità che dopo diciassette anni ci si svegli dallo stato vegetativo: nella letteratura medica non si trova un caso che sia uno di un paziente uscito da questa condizione dopo tre anni, ma di remissioni spontanee dal cancro quando tutto sembrava perduto una manciata di casi se ne trova. Presto, il sottosegretario Roccella convochi un apposito gruppo di lavoro, il Parlamento emani un’apposita legge!
E che dire della vita quotidiana? Le probabilità di rimanere colpiti da un cornicione sono infime, ma non nulle: anche qui la distanza è immensa tra «probabilmente» e «certamente»... Tutti con un’adeguata protezione quindi; Giuliano Ferrara organizzi una raccolta di caschi protettivi sul sagrato del Duomo. E le famigliole che partono per le vacanze in automobile? Le probabilità di un incidente sono di vari ordini di grandezza superiori al risveglio di Eluana, non importa quanto grande sia la perizia del babbo guidatore. Il genitore snaturato che mette in questo modo a repentaglio la vita dei propri figli è un omicida potenziale, sia pure colposo. Tutti a casa: passare la vita senza vacanze non è certo peggio che passare diciassette anni in un letto d’ospedale...

giovedì 9 ottobre 2008

Testamento biologico: intervista col vampiro

Quando e come farlo, cosa fare nei casi “controversi”. Staccare la spina secondo Soro, rappresentante di una delle due fazioni che attualmente si battono all’interno del PD.

Antonello Soro, medico, cattolico (viene precisato) e presidente dei deputati del PD, si lascia intervistare da Stefano Brusadelli (Panorama, 3 ottobre 2008) in tema di testamento biologico. Ai più distratti ricordiamo di che si tratta: “Il testamento biologico (detto anche: testamento di vita, dichiarazione anticipata di trattamento) è l’espressione della volontà da parte di una persona (testatore), fornita in condizioni di lucidità mentale, in merito alle terapie che intende o non intende accettare nell’eventualità in cui dovesse trovarsi nella condizione di incapacità di esprimere il proprio diritto di acconsentire o non acconsentire alle cure proposte (consenso informato) per malattie o lesioni traumatiche cerebrali irreversibili o invalidanti, malattie che costringano a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione.” Su Panorama si parla della validità, ma anche delle dispute all’interno del PD sulla questione che vedono contrapposto fronte cattolico e fronte “laico”. Soro risponde in modo preoccupante e insoddisfacente, ma Brusadelli perde diverse occasioni di porre le domande giuste. Magari poteva evitarne di inutili, come “A che punto è il dibattito dentro il Pd?” superata però dalla risposta, “Abbiamo costituito un comitato ristretto che deve varare un testo unificato da presentare poi agli altri gruppi. Ne fanno parte Umberto Veronesi, Ignazio Marino, Livia Turco, Paola Binetti, Daniele Bosone e Maria Antonietta Farina Coscioni. Come vede, ci sono sensibilità e culture diverse.”. Un inutile spreco di inchiostro al posto del quale avrebbe tranquillamente potuto campeggiare la parola “malissimo”.


Continua su Giornalettismo.

giovedì 7 agosto 2008

L’accanimento terapeutico e l’uso delle congiunzioni

Sembra che sui temi della fine della vita ci sia un’unica cosa su cui tutti – laici e integralisti, scienziati e politici, atei clericali e cattolici liberali – si ritrovano d’accordo: il rifiuto dell’accanimento terapeutico. Tutti, senza eccezione, lo condannano, anche se poi litigano furiosamente su tutto il resto, dal testamento biologico all’eutanasia, alla sospensione della nutrizione artificiale, etc.
Ma cosa significa «accanimento terapeutico»? Riusciamo a intuire, più o meno, a che cosa si riferisca l’espressione; ma definirla con esattezza richiede un certo sforzo. Dopo averci pensato un po’, potremmo uscircene con questa definizione: «l’accanimento terapeutico consiste in quei trattamenti medici, in assenza dei quali un paziente è destinato in breve tempo a morte certa, ma che sono inutili a prolungarne la vita, o la prolungano troppo poco per giustificare i loro altri effetti, o addirittura comportano un alto rischio di abbreviarla; oppure che risultano insopportabili al paziente, o causano il prolungamento di una condizione per lui insopportabile».
Cosa pensare di questo sforzo definitorio? Il risultato non sembra disprezzabile, visto che coincide abbastanza con la definizione data dal Codice di deontologia medica, che all’art. 16 parla dell’«Accanimento diagnostico-terapeutico» in questi termini:

Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita.
È una definizione più sintetica e anche più generale (si applica infatti anche al di fuori delle situazioni di fine vita), ma per il resto coincide esattamente con la nostra. Se pensiamo poi ai casi che in questi ultimi tempi hanno fatto scalpore, e che molti hanno etichettato come esempi di accanimento, ci accorgiamo che ricadono in effetti abbastanza bene nella nostra definizione, in particolare nella seconda parte: Eluana Englaro, Piergiorgio Welby, Giovanni Nuvoli, hanno tutti rifiutato (sia pure con modalità diverse) dei trattamenti per loro insopportabili.
Ma allora, se tutti si dicono contrari all’accanimento terapeutico, perché alcuni si sono affrettati a negare che in quei tre casi si potesse parlare di accanimento terapeutico? Per quanto riguarda Eluana Englaro, è vero, la loro strategia è stata di negare che i trattamenti a cui la ragazza è sottoposta si possano definire terapeutici (ci si può accanire su di lei, sembrano dire, purché non terapeuticamente...); ma nel caso della ventilazione artificiale – Welby e Nuvoli – è davvero difficile sostenere che non siamo di fronte a un trattamento terapeutico (anche se qualcuno ci ha provato); bisognerebbe allora negare questa qualifica anche all’installazione di un pacemaker... Non sarà allora che la loro definizione di accanimento è diversa dalla nostra?
Andiamo a vedere una delle fonti che ispirano chi è contrario per principio a «staccare la spina». Ma nel Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 ci attende una sorpresa; ecco infatti come definisce l’accanimento terapeutico (§ 2278):
L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’“accanimento terapeutico”. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente.
Questa, però, con pochissime differenze, è praticamente la nostra stessa definizione! Una delle ipotesi in cui la sospensione delle cure è consentita, infatti, è proprio l’eccessiva onerosità per il paziente; non è un caso che alcuni cattolici difensori del diritto a rifiutare le cure invochino l’autorità del loro Catechismo. L’interpretazione ‘autentica’, ovviamente, sarà tutt’altra, ma intanto la lettera quello dice.
Qualcuno però dev’essersi accorto che il testo lasciava una via di uscita; ed è corso – per quello che era possibile – a chiuderla. Nel 2005 è stato pubblicato un Compendio al Catechismo; il paragrafo dedicato alle cure mediche, però, più che compendiare emenda (§ 471):
Le cure che d’ordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte. Sono legittimi invece l’uso di analgesici, non finalizzati alla morte, e la rinuncia «all’accanimento terapeutico», cioè all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo.
Qui sono successe due cose: innanzi tutto di cure onerose non si parla più, ma solo di cure sproporzionate – dizione alquanto più restrittiva; inoltre, cosa più importante, non abbiamo più una serie di casi disgiunti («procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate»; nella nostra definizione anche noi avevamo usato «oppure», e nel Codice deontologico si legge «e/o»). I casi adesso sono diventati congiunti: «procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo»; le due condizioni devono essere valide contemporaneamente. Il ventilatore artificiale è troppo gravoso? Spiacenti, si dà il caso che esso sia comunque utile – prolunga la vita di mesi o anni – e il paziente è obbligato dunque a sopportarlo con rassegnazione.
Questa accorta definizione è diventata quella corrente usata negli ambienti integralisti e ateo-clericali; essa ha un precedente in un documento prodotto nel 1996 dal Comitato Nazionale per la Bioetica, Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana, in cui così si definisce l’accanimento:
Trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulti chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica [corsivo mio].
È proprio vero che per evitare di essere raggirati bisogna stare attenti alle più piccole minuzie...

(Per una dimostrazione della superfluità del concetto di accanimento terapeutico, anche a causa delle ambiguità definitorie che abbiamo qui esaminato, rimando all’articolo di Carlo Alberto Defanti che Bioetica ha avuto l’onore di pubblicare alla fine del 2006.)

domenica 13 luglio 2008

Cosa non è il caso di Eluana Englaro

Non è un caso di eutanasia. La parola «eutanasia» è usata quasi sempre per indicare la cosiddetta eutanasia attiva, cioè un’azione (che in genere consiste nella somministrazione di un farmaco adatto) volta a causare la morte il più possibile indolore di un’altra persona. Nel caso di Eluana Englaro, invece, quello che è stato chiesto e che la corte ha concesso è il permesso di sospendere un’azione, in particolare la somministrazione di nutrimento per mezzo di un sondino; un permesso dunque non di fare ma di smettere di fare.
Si può obiettare che in realtà non c’è alcuna differenza: che si tratti di un’azione o di un’omissione, in ogni caso si sta provocando la morte di un essere umano. E indubbiamente dal punto di vista morale è così – anzi in questo caso la somministrazione attiva di un farmaco potrebbe apparire addirittura più accettabile ed umana della sospensione del nutrimento. Ma dal punto di vista giuridico le cose cambiano: tra fare ed omettere c’è una grande differenza. Supponiamo che io mi rechi in un paese africano e ne irrori le coltivazioni con diserbanti, e faccia saltare in aria i magazzini di generi alimentari e le vie di comunicazione. Della carestia e delle morti per fame che ne seguiranno sarò penalmente responsabile (e sarò fortunato se me la caverò con un ergastolo). Ma se la carestia è già in corso e io, pur avendone i mezzi, non invio un contributo in denaro capace di limitare i danni a quelle popolazioni, e causo con questa omissione delle morti che altrimenti non ci sarebbero state, sarò moralmente responsabile – forse addirittura quanto nell’altro caso; ma è difficile immaginare che io possa essere anche responsabile penalmente.
Parlando in generale, la legge non ci obbliga ad agire a beneficio di altre persone, neanche quando in gioco c’è la loro vita. Ci sono delle eccezioni, naturalmente, che riguardano per esempio i tutori della legge, o i genitori di un minore (che implicitamente, riconoscendolo alla nascita, assumono l’obbligo di averne cura), o tutti noi nel caso che l’azione che ci viene richiesta non sia onerosa (è il caso che riguarda l’omissione di soccorso). Ma il principio generale non cambia; e sicuramente non si può aggiungere alle eccezioni quella di obbligare qualcuno a ‘beneficiare’ persone, come Eluana, che hanno espresso la chiara volontà di non ricevere quel tipo di benefici.
Viceversa, la legge in generale ci obbliga a non causare intenzionalmente con una nostra azione la morte di altre persone. Anche qui ci sono eccezioni: legittima difesa e stato di guerra sono quelle che vengono subito alla mente. Nell’ordinamento giuridico italiano non c’è fra le eccezioni l’omicidio del consenziente, neppure nella forma particolare dell’eutanasia volontaria. Ci sono molte ed ottime ragioni per ritenere che l’eutanasia dovrebbe venire ammessa fra quelle eccezioni; ma al momento non lo è, e praticarla legalmente sarebbe impossibile.

Non è un caso di accanimento terapeutico. Il concetto di accanimento terapeutico, come ci ricorda Anna Meldolesi in un intervento di questi giorni, è praticamente un’esclusiva del dibattito bioetico italiano, mentre altrove è ignoto. Comunemente viene inteso come l’applicazione a malati terminali di trattamenti medici pesanti e incapaci di apportare benefici di nessun tipo ai pazienti; in pratica, condannando l’accanimento terapeutico si condannano le cure inutili – cosa che dovrebbe essere scontata, e che non è molto utile ribadire. Nel caso di Eluana Englaro non siamo ovviamente di fronte a questa accezione di accanimento terapeutico: la paziente non è terminale, e la nutrizione artificiale è essenziale per tenerla in vita. La cosa tuttavia è irrilevante: per il principio del consenso informato tutti i trattamenti medici, anche quelli indispensabili a tenere in vita una persona, anche quelli sopportabilissimi e niente affatto pesanti, possono essere praticati soltanto se chi li subisce li ha accettati. È questo che è in gioco nel caso Englaro e in tutti i casi analoghi (anche se la sentenza della Cassazione, sulla quale si fonda quella di questi giorni della Corte d’Appello, su questo punto non è completamente coerente). E si può anche andare oltre: il dibattito interminabile sulla natura dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali – si tratta di trattamenti medici o no? – è del tutto inutile (anche se effettivamente essi sono trattamenti medici). Il principio generalissimo che vale è questo: nessuno può mettere le mani sul mio corpo contro la mia volontà, per nessun motivo. Il corpo è la mia proprietà più intima e inalienabile, di cui io solo posso decidere.

Non è un caso di discriminazione. Contrariamente a quanto alcuni insinuano, nel caso di Eluana Englaro non è stato stabilito che la vita di ogni paziente in Stato Vegetativo Persistente è priva di valore. Quello che in realtà è stato provato è che vivere in queste condizioni era privo di valore per Eluana. Molti di noi sono portati a commentare, a proposito di casi come questo, «è vero, una vita come quella non è degna di essere vissuta». Ma questa affermazione può avere un senso solo in quanto costituisce in realtà una forma abbreviata del giudizio «una vita come quella non la riterrei degna neppure per me di essere vissuta». Non si tratta soltanto di concedere a chi riduce la vita umana al brutale dato biologico di vivere e morire in accordo con le proprie credenze; anche chi non la pensa come costoro può ritrovarsi a preferire di non essere lasciato morire. Per esempio, uno può ritenere che la sua vita personale si arresti con la perdita definitiva della coscienza, e che tutto ciò che accade in seguito al suo corpo non lo riguardi più; e di conseguenza può disporre che il sostegno vitale non venga interrotto se ciò può risultare di beneficio ai suoi familiari, che magari trarrebbero conforto da quel simulacro di presenza continua del loro caro. Ogni vita è degna di essere vissuta, se è degna per chi la vive.

sabato 16 giugno 2007

Renato Laviola sulla futilità

Il Gip Renato Laviola si sente in dovere di specificare che il respiratore è un sostegno vitale e non una terapia (come se un sostegno vitale potesse essere imposto!) e che non si poteva trattare di accanimento terapeutico perché il respiratore non era futile (“se io stacco il respiratore il paziente muore”, ma anche se non somministro dei farmaci il paziente muore). Futile = utile alla sopravvivenza. Tutto questo per negare che si potesse trattare, per Piergiorgio Welby, di accanimento terapeutico. Non è condivisibile il criterio della futilità come condizione per riscontrare un accanimento terapeutico, in quanto è centrale la volontà del paziente al riguardo (ah, vana speranza di oggettività!). Se un paziente ha espresso volontà contraria, qualunque sia l’oggetto della sua volontà, qualora venga costretto siamo di fronte ad un caso di accanimento terapeutico.
Ma il problema non è nemmeno questo, quanto piuttosto: posso o non posso decidere riguardo alla mia cura? Posso o non posso rifiutare trattamenti medici (o assistenziali)? Che cosa diventa un atto di carità quando viene imposto?

venerdì 23 febbraio 2007

Il tema drammatico dell’imposizione

Il paziente rifiuta la cura? Il medico può andare avanti, Quotidiano.net, 23 febbraio 2007:
Il paziente rifiuta le cure? Il medico può andare avanti se il quadro clinico è talmente cambiato “con imminente pericolo di vita” per il paziente stesso. Lo sottolinea la Corte di Cassazione (Terza sezione civile) che, intervenendo “nell’attuale vivace dibattito sul tema drammatico della morte”, ricorda come anche i ddl sul ‘testamento biologico’ vadano in questa direzione.
Scrivono gli ‘ermellini’ che “nei vari disegni di legge sul ‘testamento biologico’, contenente le anticipate direttive di un soggetto sano con riguardo alle terapie consentite in caso si trovi in stato di incoscienza, spesso è previsto che tali prescrizioni non siano vincolanti per il medico, che può decidere di non rispettarle motivando le sue ragioni nella cartella clinica”.
In particolare, i supremi giudici si sono espressi in questi termini affrontando il caso di un Testimone di Geova di Trento, T. S., che in seguito ad un grave incidente stradale era stato ricoverato presso il pronto soccorso dell’ospedale Santa Chiara e trasferito nel reparto di rianimazione perché affetto da rotture multiple e rottura dell’arteria principale con emorragia in atto.
Nel corso di un successivo intervento chirurgico, si legge nelle motivazioni della sentenza 4211, “veniva sottoposto a trasfusione sanguigna nonostante avesse dichiarato che, in ossequio al proprio credo religioso, non voleva gli venisse praticato tale trattamento”. Da qui la richiesta, peraltro rifiutata anche dalla Cassazione oltre che dal Tribunale e dalla Corte d’appello di Trento, di risarcimento dei danni morali patiti per essere stato costretto a subire la trasfusione rifiutata.
Secondo la Cassazione, che ha respinto il ricorso del paziente, bene hanno fatto i giudici di merito a negare il risarcimento richiesto in quanto “il giudice ha ritenuto che il dissenso originario, con una valutazione altamente probabilistica, non dovesse più considerarsi operante in un momento successivo, davanti ad un quadro clinico fortemente mutato e con imminente pericolo di vita e senza la possibilità di un ulteriore interpello del paziente ormai anestetizzato”.
Del resto, viene ancora annotato, T. S. aveva chiesto, qualora fosse stato indispensabile ricorrere ad una trasfusione, di essere trasferito presso un ospedale attrezzato per l’autotrasfusione, “così manifestando implicitamente il desiderio di essere curato e non certo di morire”.
In definitiva, dice la Suprema Corte, la motivazione dei colleghi di merito «si fonda su argomenti congrui e logici certamente aderenti ad un diffuso sentire in questo tempo di così vivo ed ampio dibattito sui problemi esistenziali della vita e della morte, delle terapie e del dolore», insomma, “delle varie situazioni configurabili nell’attuale vivace dibattito sul tema drammatico della morte, situazioni – osserva la Suprema Corte – da tenere ben distinte per evitare sovrapposizioni fuorvianti (accanimento terapeutico, rifiuto di cure, testamento biologico, suicidio assistito)”.
In altre parole, il comportamento dei medici che hanno praticato la trasfusione anche dopo l’ok ricevuto dalla Procura, è “legittimo” perché essi “hanno praticato nel ragionevole convincimento che il primitivo rifiuto del paziente non fosse più valido ed operante”.

giovedì 18 gennaio 2007

Dr. Joseph Ratzinger, specialista in Anestesia e Rianimazione

Zenit, Il mondo visto da Roma, ha intervistato la dottoressa Angela Gioia, specialista in Anestesia e Rianimazione dell’Unità Operativa (U.O.) di Terapia Antalgica, dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana (AOUP) (Tra l’accanimento terapeutico e lo spettro dell’eutanasia all’olandese, 17 gennaio 2007):

Alla domanda se quanto accaduto al signor Welby si possa prefigurare come rinuncia all’accanimento terapeutico, la dottoressa Angela Gioia ha risposto: “Potremmo qui fare alcune considerazioni ricordando quanto detto da Ratzinger: ‘Da essa (ossia dall’eutanasia, n.d.r.) va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto “accanimento terapeutico”, ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare’”.
Il ricordo delle parole di Ratzinger mi sembra centrale: specializzato in Anestesia e Rianimazione è da anni impegnato in problemi medici di cui non è assolutamente competente. È come se un meccanico per decidere quale bullone usare si richiamasse ai consigli di un cercatore di funghi.
“Perciò – ha precisato la specialista – la terapia ventilatoria in un paziente con polmone sano risulta essere una terapia adeguata ai risultati attesi perché indirizzata e di supporto ad un organo funzionante, infatti noi tutti accettiamo la dialisi in un paziente con insufficienza renale come terapia sostitutiva di quell’organo malato (il rene) e di supporto ad altri importanti organi, ad esempio il fegato, che altrimenti ne sarebbero danneggiati”.
Ammesso anche che “noi tutti” accettassimo la dialisi o altri interventi, qualcuno si è preso la briga di considerare la volontà del dializzato? Oppure è solo una decisione di opinione pubblica?

venerdì 29 dicembre 2006

Welby, una vicenda personale

Anna Serafini («All’integralismo non si risponde col laicismo», Il Riformista, 28 dicembre 2006):

Le parole di Welby andavano ascoltate, ma non mi piace il risvolto politico e ideologico che ha preso questa vicenda personale. Quello che prevale in me è un sentimento di umana pietà.
E dopo averle ascoltate, gentile signora, che cosa si sarebbe dovuto fare? Girarsi dall’altra parte e proseguire la propria vita? Magari lesinando un po’ di pietà, quella non si nega a nessuno. Ci risiamo: pietà (pietismo), e poi l’immobilità di un silenzio codino. “Ho pietà di te, questo ti basta?”. D’altra parte cosa si pretenderebbe, un diritto? Un rispetto? Suvvia. Che ti basti la pietà, Welby, accontentati.
E ancora:
Il confine tra eutanasia e accanimento terapeutico può esser labile, ma invece è forte. Abbiamo bisogno di una legge che consenta a ciascuno di dichiarare anticipatamente la propria volontà di non essere più curato quando non sussiste alcuna possibilità di recupero.
Sul confine forte non vi è dubbio. Ma è il confine che esiste tra accanimento terapeutico e terapia, e chiamasi libertà individuale: è il paziente (la persona, il cittadino) a stabilire se un determinato trattamento è una terapia adeguata o eccessiva.
Quanto al muro che ci sarebbe tra eutanasia e accanimento terapeutico, di grazia, da dove origina tale sicurezza? E perché non tentare qualche dimostrazione di quanto si sostiene?
Vanno benissimo, poi, le direttive anticipate, che siano benvenute. Ma mi sfugge qualcosa, lo sento. E credo sia un atroce dubbio temporale. Se posso dichiarare anticipatamente la mia volontà (dichiaro oggi: non voglio il trattamento x domani), posso anche dichiarare attualmente la mia volontà (dichiaro oggi: non voglio il trattamento x oggi)? Se concordiamo nel rispondere “sì”, allora tenetevi la vostra pietà. A Welby bastava la risposta affermativa alla domanda suddetta.

sabato 25 novembre 2006

Accanimento terapeutico verso uno Stato laico

Trovare intese e regole condivise con la Chiesa cattolica sui temi della bioetica. Lo auspica il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in una celebrazione al Quirinale in occasione della giornata per la ricerca sul cancro. «Occorre trovare soluzioni ponderate e condivise sulla libertà di ricerca, sui suoi codici, sulle regole e i più complessi temi bioetici», ha detto il capo dello Stato. «Confido che il riconoscimento, anche da parte delle più alte autorità religiose, della conoscenza scientifica e del progresso tecnologico come “autentici valori della cultura del nostro tempo”, consentirà di dare soluzioni ponderate e condivise ai problemi della libertà della ricerca, con il suo codice e le sue regole, e ai più complessi temi bioetici».
Il Quirinale ha poi precisato in una nota che le soluzioni spettano al Parlamento: «La ricerca di soluzioni ponderate e condivise, auspicate dal Presidente Napolitano, può avvenire nella sede propria del Parlamento» si legge nel comunicato.
Bioetica, «servono intese condivise», Il Corriere della Sera, 24 novembre 2006.

Non esistono soluzioni condivise sulla questione dello statuto morale dell’embrione (e dunque: procreazione medicalmente assistita, interruzione volontaria di gravidanza, sperimentazione embrionale) e sulla sacralità della vita (e dunque: decisioni di fine vita, soprattutto nella forma che tanta paura fa agli ipocriti, pardon, ai “prudenti” – l’eutanasia attiva).
Non ci possono essere soluzione condivise quando una delle parti (o tutte?) accoglie tra le premesse valori assoluti e affermazioni apodittiche.
Non ci possono essere soluzioni condivise se qualcuno crede che la tua vita non ti appartenga e che tu non ne possa disporre, condannato a subire un dono meraviglioso.
Ma soprattutto: per quale diavolo di ragione bisognerebbe sforzarsi di cercare una soluzione condivisa con la Chiesa cattolica? In uno Stato laico? In uno Stato che ancora non ha dichiarato di essere confessionale? E poi che cosa né è delle altre chiese? Non meriterebbero anche loro di entrare nel tavolo di discussione?
Ho paura che “confidare nel riconoscimento, anche da parte delle più alte autorità religiose, della conoscenza scientifica e del progresso tecnologico” non sia assolutamente sufficiente. Ma poi perché dovremmo sperare che la ricerca scientifica sia tollerata dalla Chiesa cattolica? Perché? Perché dovremmo chiedere il permesso a uno vestito di bianco?
Spesso sul punto di morte si accettano le tentazioni della credenza nella vita eterna. Che sia sul punto di morte lo Stato italiano? Che stia spirando l’ultimo respiro la laicità? In questo caso, meglio sperare nella vita eterna, perché di eutanasia non se ne parla. Non è una soluzione condivisa.

giovedì 23 novembre 2006

La morte e il senatore-professore

Massimo Adinolfi dedica oggi un post eccellente a un articolo di Gaetano Quagliarello sull’eutanasia («I comunisti non mangiano più i bambini, ma i vecchietti», Azioneparallela, 23 novembre 2006; l’articolo commentato è «Eutanasia. L’ideologia della morte», Il Giornale, 22 novembre, pp. 1.39):

Molto si discute di eutanasia. Ma nessuno era ancora arrivato a sospettare che […] il problema fosse il comunismo […] l’illustre senatore Gaetano Quagliariello, tra le tante cose che avrebbe potuto dire, sceglie di dedicare la sua verve intellettuale prima ai tempi di discussione (perché diavolo stanno tutti lì a parlarne, perché questa urgenza di legiferare? Meglio sopire, meglio tacere) poi a quel “residuo culturale” di “mentalità comunista”, “che vorrebbe imporci oggi felicità per altra via: se non possiamo esser felici perché tutti uguali, quanto meno cerchiamo di esserlo mettendo nelle mani dell’individuo [lo vedete il comunismo?] il diritto di agire senza limiti sull’origine e sulla fine della vita”.
Per parte mia, aggiungo un esempio prezioso di ciò che passa per la mente del senatore-professore (già consigliere – apprendo solo ora – per gli Affari Culturali del precedente Presidente del Senato della Repubblica: adesso capisco meglio certi exploit...):
Si sta edificando sotto i nostri occhi una nuova «presunzione fatale» non meno pericolosa di quella che è stata sconfitta nel 1989, perché proietta la stessa esigenza di onnipotenza a un livello, se è possibile, ancora più alto. Per questo, quanti lavorano all’intrapresa, non avvertono come contraddizione dirsi favorevoli, contemporaneamente, all’accanimento terapeutico e all’eutanasia. Entrambe queste pratiche auspicano, in un certo senso, l’abolizione della morte come fenomeno naturale.
Mi permetto di suggerire una spiegazione alternativa a Gaetano Quagliarello: «quanti lavorano all’intrapresa» non avvertono la contraddizione, perché nessuno di loro è favorevole all’accanimento terapeutico. Ci pensi, caro senatore-professore, compulsi gli archivi: oserei dire che finirà per darmi ragione.

lunedì 3 luglio 2006

La Corte d’appello di Milano ascolta alcuni testimoni sul caso di Eluana Englaro

Una piccola novità per Eluana Englaro, la ragazza da 14 anni in stato vegitativo (Caso Englaro, Corte d’appello di Milano si riserva di decidere su lista di testimoni, Vivere & Morire, 30 giugno 2006).

Oggi la sezione famiglia della Corte d’appello di Milano si è riservata di decidere in merito alla lista testimoni presentata dagli avvocati Vittorio Angiolini, Riccardo Maia e Franca Alessio, per dimostrare che la ragazza quando ancora era nelle sue piene facoltà aveva più volte ribadito di non voler essere mantenuta in vita da una macchina. Una decisione che la Englaro aveva maturato quando, esattamente un anno prima del suo, un incidente stradale ridusse in coma irreversibile uno dei suoi più cari amici. Quel ragazzo è deceduto un anno fa senza mai riprendersi. La Corte renderà nota la sua decisione sulla liste testimoni entro dieci giorni quando fisserà anche la data della prossima udienza. Si preannuncia un’istruttoria particolarmente lunga e che non si concluderà, probabilmente, prima dell’autunno prossimo.
La Corte deve decidere in merito al ricorso contro la decisione del Tribunale di Lecco che per l’ennesima volta aveva respinto la richiesta di “porre fine a questa straziante situazione” come la definisce Beppino Englaro, in una catena interminabile di corsi e ricorsi. Quello che chiede è “restituire la dignità umana e il diritto alla morte di mia figlia”.
[…] Tocca ora alle toghe milanesi valutare se il trattamento cui è sottoposta sia invasivo della sua personalità e se contrasta con la dignità umana. Una sentenza molto attesa non solo dalla famiglia Englaro, ma da tutti quanti si pongono una riflessione sull’eutanasia. In caso di accoglimento della richiesta del papà si creerebbe un importante precedente con inevitabile effetto di richieste a catena. Il concetto del ricorso ruota attorno all’utilizzo del sondino nasogastrico: chiunque può rifiutare questo trattamento, ma non chi è incapace di intendere e volere come, appunto, una persona in coma. È giusto, quindi, che tali pazienti debbano essere costretti, sostanzialmente, a sottoporsi a qualsiasi tipo di cura e forse anche a sperimentazione? Se la Corte d’appello di Milano dovesse dare risposta contraria a quella del Tribunale di Lecco, è evidente cosa ne potrà conseguire. In caso di ennesimo diniego, si andrà in Cassazione e poi forse anche alla Corte di Strasburgo. Ma nel caso di accoglimento del ricorso, sarà necessario stabilire, attraverso appunto le testimonianze degli amici della giovane, l’effettiva volontà di Eluana di non essere mantenuta in vita artificialmente. Se questa tesi, sostenuta dal padre, trovasse conferma, potrebbe portare al distacco della spina. “Spero che ancora una volta non vengano negati i diritti di mia figlia: su tutti quello espresso nelle sue piene capacità di intendere e di volere prima di quel maledetto incidente”, ha ribadito ancora oggi pomeriggio il papà. “Voglio troppo bene a mia figlia non mi si costringa ad atti di coraggio”.

domenica 5 febbraio 2006

Il diritto di rifiutare le cure: una battaglia di civiltà

Eluana Englaro è in stato vegetativo da 14 anni in seguito ad un incidente stradale. Da quasi altrettanti anni i genitori stanno combattendo una battaglia per rispettare il desiderio della propria figlia: ‘se dovessi finire in stato vegetativo, staccatemi la spina’, diceva sempre la ragazza.
Ma il tribunale di Lecco ha respinto ancora una volta la richiesta di sospendere la nutrizione e l’idratazione artificiali.
Il papà di Eluana non si capacita che le istituzioni si arroghino il diritto di decidere sulla vita o la morte di una persona. E domanda con comprensibile incredulità:

Fino a quando si continuerà a calpestare il diritto alla morte di mia figlia, oltre alle sue volontà espresse prima dell’incidente? Perché non si rispetta questa sua volontà? Mia figlia non ha alcuna percezione e l’unica cosa a tenerla in vita, se vogliamo definirla vita, sono le strumentazioni e il sondino nasogastrico per l’alimentazione.