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domenica 13 aprile 2014

«La gravidanza è un dovere»


Il volto della coerenza in tutta la sua nitidezza. Prosegue Sgreccia:
«La vita è un bene primario. Come per le donne violentate, c’è il dovere di portare a termine la gravidanza». Fa esplicito riferimento al messaggio di Giovanni Paolo II alle bosniache stuprate in guerra il cardinale bioeticista Elio Sgreccia, già presidente della Pontificia Accademia per la Vita, direttore al «Gemelli» del Centro di Bioetica e dell’istituto creato all’Università Cattolica.

martedì 2 febbraio 2010

Concezione verginale da sesso orale?

Sta girando in questi giorni nella blogosfera di lingua inglese una storia apparentemente incredibile (il centro recente di questa diffusione sembra essere «True Story: How To Get Pregnant via Oral Sex», Standard Madness, 25 gennaio 2010; la storia ha preso le ali dopo essere stata riproposta il 1 febbraio da Discover, «NCBI ROFL: That’s one miraculous conception», che riporta gran parte della fonte originale, risalente in realtà al lontano 1988).
Una ragazza quindicenne del Lesotho viene ricoverata in ospedale dopo che il suo ex fidanzato ha accoltellato lei e il suo attuale boyfriend. La donna presenta due fori allo stomaco, che vengono prontamente medicati. Nove mesi dopo, la stessa ragazza torna in ospedale, questa volta per una gravidanza giunta ormai a termine. Il parto però, come scoprono presto i medici, si presenta complicato: la donna, infatti, è priva di vagina. Dopo il parto cesareo e la nascita di un bambino di 2,8 kilogrammi giunge inevitabilmente il momento di porre alcune domande. Con l’aiuto di un’infermiera e di un po’ di tatto la storia emerge gradualmente: la ragazza sapeva di essere priva di vagina e, dopo qualche tentativo assai insoddisfacente di portare a termine un rapporto di tipo tradizionale, aveva ripiegato sulla pratica del sesso orale. Ed è proprio nell’atto di compiere quest’ultimo che l’aveva colta il suo ex; ne era seguito l’accoltellamento. Una volta chiarita la dinamica dell’avventuroso concepimento, ha luogo il tradizionale scambio di bestiame e la donna va a vivere col padre del bambino. I medici intanto concludono che la fecondazione sarebbe stata causata dal seme dell’uomo, scivolato attraverso il foro dello stomaco fino a raggiungere gli organi riproduttivi.

Cosa pensare di questa storia? Diciamo subito che i fatti sono riportati in una comunicazione scientifica autentica, apparsa su una rivista peer-reviewed: Douwe A.A. Verkuyl, «Oral conception. Impregnation via the proximal gastrointestinal tract in a patient with an aplastic distal vagina. Case report», British Journal of Obstetrics and Gynaecology (ora BJOG: An International Journal of Obstetrics & Gynaecology) 95 (1988), pp. 933-34. L’articolo è accessibile solo agli abbonati, ma una copia è disponibile qui (o qui). Il tono generale dell’articolo, a parte alcuni passi comprensibilmente coloriti, è inappuntabilmente scientifico.
Questa però non è una prova conclusiva di autenticità. Non è chiaro se la rivista abbia effettuato dei controlli, resi peraltro difficili dalla lontananza geografica; si può supporre che abbiano contato le credenziali professionali di Verkuyl, all’epoca primario di ostetricia e ginecologia degli United Bulawayo Hospitals di Bulawayo, Zimbabwe, e autore di almeno altri due studi scientifici (da allora il curriculum dell’autore si è arricchito, e conta ora 38 titoli, molti dei quali in riviste di primo piano).
Dall’altro lato, però, ci viene chiesto di credere a una serie inaudita di improbabilità concatenate. Abbiamo a che fare, nell’ordine, con una malformazione di per sé rara; con spermatozoi che riescono a sopravvivere nell’ambiente acido dello stomaco per più di alcuni secondi (anche se l’autore propone alcuni possibili meccanismi per questa circostanza); con un accoltellamento che si verifica proprio attorno ai giorni dell’ovulazione; con una ferita che interessa con precisione lo stomaco. Come se non bastasse, l’autore ritiene, per certe ragioni, che l’evento si sia verificato proprio intorno alla prima ovulazione della ragazza!
In breve: su un piatto della bilancia abbiamo la probabilità abissalmente bassa di una concezione che possiamo ben definire miracolosa; sull’altro, la probabilità che un professionista metta a repentaglio la propria reputazione per ordire uno scherzo ai danni di una prestigiosa rivista. Il David Hume del saggio sui miracoli non avrebbe avuto molti dubbi nel giudicare... (Esistono anche due altre possibilità: 1) che Verkuyl non abbia riportato il caso di prima mano e che sia stato a sua volta vittima di un inganno; ma questo equivale di nuovo a mettere in questione la professionalità dell’autore, che andrebbe contro la prassi propria di un case study e che comunque non cita nessun altro nell’articolo; il fatto, a prima vista un po’ sospetto, che il Lesotho sia abbastanza distante dallo Zimbabwe può facilmente spiegarsi in altro modo; 2) che esista un’altra spiegazione per l’accaduto; ma questo – visto anche che la paziente era stata sottoposta in seguito a un tentativo di ricostruzione della vagina, descritto con dovizia di particolari nell’articolo, e che non ci si poteva dunque ingannare sul suo stato – sembra equivalere a un altro miracolo.)

Ma esiste forse un modo per risolvere il caso, senza ricorrere a principi generali. Nel 1989 la stessa rivista (vol. 96, p. 501) pubblicava una lettera del dottor D.A. Hicks, a proposito dell’articolo di Verkuyl. Il testo non mi è accessibile (e sarò grato a chiunque me lo vorrà inviare), ma da alcuni accenni trovati altrove appare che Hicks avesse fatto notare le somiglianze del caso con un altro avvenuto durante la guerra civile americana, narrato da un certo L.G. Capers («Notes from the Diary of a Field and Hospital Surgeon, C.S.A.», The American Medical Weekly 1, 1874, pp. 233-34). Ecco la storia.
Siamo nel 1863. Una brigata dell’esercito confederato sta sostenendo l’urto dell’esercito nordista presso un villaggio, non lontano da un’abitazione la cui padrona di casa, assieme alle due giovani figlie, serve da infermiera. Nel corso dello scontro un soldato del sud cade improvvisamente, colpito da una palla vagante; quasi nello stesso istante, si ode un grido provenire dalla direzione della casa. Il chirurgo, autore dell’articolo, soccorre subito il giovane ferito. Il proiettile ha colpito la tibia e, rimbalzando, ha trapassato lo scroto portando via con sé il testicolo sinistro. Il medico ha appena finito di medicare la ferita, quando ecco giunge la padrona di casa: pochi minuti prima una delle sue figlie è rimasta gravemente ferita, trapassata al ventre da una pallottola che è rimasta nella cavità addominale. Nonostante la gravità delle lesioni, la ragazza riesce a sopravvivere e a riprendersi.
Il chirurgo, ripassando dallo stesso villaggio otto mesi dopo l’accaduto, trova la giovane in ottime condizioni, salvo per un inspiegabile ingrossamento del ventre. Un mese dopo, con grande costernazione della famiglia, nasce un bel bambino. La giovane protesta la propria virtù, ma il chirurgo non le crede, nonostante il fatto che durante il travaglio le abbia trovato l’imene ancora intatto.
Passano tre settimane, e il chirurgo viene chiamato dalla nonna del bambino: c’è qualcosa che non va nei genitali del neonato. Nello scroto è presente un corpo estraneo; e grande è la meraviglia del medico quando, estrattolo, si rende conto che si tratta di una pallottola, deformata per aver urtato contro qualche materiale solido. Lentamente la verità si fa strada nella mente del medico: una stessa pallottola, passando per lo scroto del soldato, aveva trascinato con sé il seme, per depositarlo nell’utero della ragazza, che era rimasta in questo modo incinta. Si rintraccia il giovane che, inizialmente scettico, acconsente a rendere visita alla ragazza; dopo qualche tempo, convinto o meno che sia dell’accaduto, la sposa.

Questa storia è, ovviamente, una bufala, come è dimostrato sul sito Snopes.comSon of a Gun»). A parte la somma improbabilità degli eventi, il ritrovamento del proiettile nello scroto del neonato è una chiara impossibilità medica; inoltre, in una «Editor’s Note» apparsa poco tempo dopo sullo stesso volume dello stesso giornale (pp. 263-64), si prendono le distanze dal racconto. Nonostante ciò la storia ha continuato a circolare, venendo presentata talvolta come un resoconto di un caso realmente accaduto.
Le analogie generali con i fatti del Lesotho sono evidenti; ma esistono almeno due collegamenti più specifici. Il primo è l’insistenza che si fa in entrambi i racconti sulla somiglianza del bambino con il padre: «I may mention having received a letter during the past year, reporting a happy married state and three children, but neither resembling, to the same marked degree, as the first – our hero – Pater familias!» (1874); «the son looked very much like the legal father», «The fact that the son resembled the father excludes an even more miraculous conception» (1988). Si potrebbe sostenere che si tratta di un espediente – a dire il vero più retorico che scientifico – per assicurare il lettore della realtà di quella peculiare paternità, e che come tale sia suscettibile di sviluppi paralleli ma autonomi. Più interessante un’altra coincidenza sospetta (segnalata già da qualche commentatore). Quand’è che le due ragazze partoriscono? «Just two hundred and seventy-eight days from the date of the receipt of the wound» l’americana; l’africana «Precisely 278 days later», anche se il termine di riferimento sembra essere qui non l’incidente ma le prime dimissioni dall’ospedale, 10 giorni dopo la ferita.
Dobbiamo chiederci a questo punto cosa ci sia di particolare in questa cifra. Fin da Aristotele la durata media della gravidanza umana è ritenuta ammontare a 280 giorni. Nella seconda metà del XIX secolo si era diffusa per qualche tempo la media alternativa di 278 (cfr. James Matthews Duncan, Fecundity, fertility, sterility, and allied topics, Edinburgh, Black, 1866, p. 337), ma ai giorni nostri si è tornati alla vecchia media di 280 (278 giorni sembra essere la gravidanza media delle donne giapponesi; per le africane la durata sembra ancora inferiore, mentre per le primipare è leggermente superiore), che casomai dovrebbe essere riveduta all’insù. Ecco spiegata la notazione dell’autore del 1874 («Just 278 days»), che avrà usato per la sua finzione la media ritenuta esatta all’epoca. Ma come spiegare la coincidenza con il resoconto del 1988? La si potrebbe addebitare all’ennesimo caso: in fondo, si potrebbe dire, la durata media di una gravidanza è più o meno quella, giorno più giorno meno. È vero che in questo caso ai 278 giorni vanno sommati, come abbiamo visto, i 10 del primo ricovero; ma 288 giorni sono ancora una durata nella media. Qui, però, il proverbiale asino fa un capitombolo. Quando si dice che una gravidanza dura in media 280 giorni, si intende che il computo inizia dall’ultima mestruazione. La fecondazione vera e propria si verifica in realtà in media 14 giorni dopo, intorno al momento dell’ovulazione (la cosa era ancora relativamente oscura nel XIX secolo). Ma nel caso in esame la ferita corrisponderebbe proprio alla fecondazione; la gravidanza quindi sarebbe equivalente a una di 278 + 10 + 14 = 302 giorni, che non è impossibile ma è assai inusuale (e molto pericolosa per la madre). Anche ammettendo che lo sperma sia sopravvissuto per qualche tempo nel corpo della donna, il totale si può abbassare non più di 4-5 giorni. Avremmo insomma altre due ulteriori improbabilità da aggiungere alla nostra già cospicua lista: una gravidanza di durata anomala, e un autore che comunica una cifra «casualmente» analoga (e arbitraria: qui 278 giorni sono solo il periodo intercorso tra un ricovero e l’altro) a quella presente nell’unico resoconto analogo presente (abusivamente) nella storia della medicina.

Tutto, naturalmente, è possibile; ma la sensazione è che il dottor Verkuyl abbia voluto indirizzare ai suoi lettori una poderosa, ancorché in tralice, strizzata d’occhio.

Aggiornamento 3/2/2010: nei commenti un lettore propone un’affascinante ipotesi alternativa.

martedì 12 maggio 2009

Legge 40: una soddisfazione amara

Astigmatismo

Ecco le motivazioni della sentenza che ha sancito la parziale incostituzionalità della controversa normativa sulla fecondazione assistita.

Lo scorso 9 maggio è stata depositata la sentenza che dichiara in parte incostituzionale l’articolo 14 della legge 40. L’obbligo di produrre al massimo 3 embrioni e di impiantarli contemporaneamente viola l’articolo 3 della Costituzione nel duplice profilo del principio di ragionevolezza e di quello diuguaglianza, in quanto il legislatore riserva il medesimo trattamento a situazioni dissimili. Viola inoltre l’articolo 32 per il pregiudizio alla salute della donna “ed eventualmente [...] del feto ad esso connesso”. Questa decisione riafferma principi fondamentali, conquistati nel corso degli anni. Non può non tornare alla memoria, infatti, la sentenza n. 27 del 1975, che ha preceduto la legge sulla interruzione volontaria di gravidanza (194/1978): “Non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”. Lo stesso bilanciamento di diritti viene affermato dalla legge 194: autorizzando una donna ad interrompere la gravidanza, la 194 sancisce che il diritto di non portare avanti la gravidanza è più forte del diritto dell’embrione a vivere e a nascere.

RISTABILIRE IL GIUSTO SENSO DI MARCIA - La Legge 40 ha tracciato una strada contromano: a cominciare dall’affermazione di principio dell’articolo 1, secondo cui devono essere assicurati i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito. Da questa affermazione di principio ha fatto derivare la maggior parte dei divieti contenuti negli articoli seguenti, incurante delle gravi violazioni conseguenti. Già tre procedimenti (del Tribunale di Firenze e del Tar Lazio) avevano anticipato la direzione di questa sentenza. La Corte ha riaffermato anche un principio di buon senso: non si può stabilire in modo tanto rigido il numero di embrioni da impiantare, perché questo dipende dalle condizioni di ogni singola donna. Proprio come sarebbe insensato stabilire come curare un mal di pancia in modo assoluto e aprioristico. Dipende dal mal di pancia, dalle ragioni della sua insorgenza e dalle condizioni generali del sofferente. L’obbligo di impiantare tutti e 3 gli embrioni ha causato un aumento delle gravidanze plurime: in seguito alla legge 40 in Italia esiste il 3,5% di rischio, mentre in Europa tale rischio è prossimo allo zero - proprio perché le modalità di impianto sono decise in base alla valutazione di ogni singolo caso. La conseguenza della bocciatura del comma 2 dell’articolo 14 è la “deroga al principio generale di divieto di crioconservazione”. Gli embrioni prodotti, ma non impiantati per ragioni mediche, potranno essere crioconservati e utilizzati per un successivo tentativo di impianto. La possibilità di crioconservare sottrae la donna alla necessità di sottoporsi inutilmente a più cicli di stimolazione ormonale e al prelievo chirurgico degli ovociti. Insomma i giudici costituzionali affermano che “in materia di pratica terapeutica la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali”.

LES JEUX SOINT FAIT - Inoltre, in linea con la sentenza del 1975, stabiliscono che la tutela “dell’embrione non è comunque assoluta, ma limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela della esigenza di procreazione”. I fautori della legge 40 si rassegnino: contro questa sentenza non si può nulla. Il parlamento non può legiferare in senso diverso. Le linee guida non hanno la forza, essendo amministrative, di contrastare la legge nella sua nuova veste. La soddisfazione per la decisione della Consulta ha un sapore bizzarro: assomiglia alla soddisfazione che avremmo se qualcuno ci avesse investito sulle strisce pedonali 5 anni fa causandoci molti danni e oggi ci chiedesse scusa per averci rovinato l’acconciatura e gli abiti. Pur concedendo che sia meglio di niente, le conseguenze più gravi di una legge insensata e coercitiva sono ancora in piedi. E condannano i cittadini italiani a essere discriminati in alcuni diritti fondamentali, come quello alla salute e all’equità di trattamenti, e a frustrare il legittimo desiderio di diventare genitori.

Su Giornalettismo, 11 maggio 2009.

giovedì 15 maggio 2008

Finalmente giustizia per Regina McKnight

La storia di Regina McKnight è una gran brutta storia cui finalmente da pochi giorni si è posto rimedio. Per quanto sia possibile rimediare ad un simile scempio.

Regina è una giovane donna senza casa, dipendente dalla cocaina e mentalmente ritardata; vive nel South Carolina ed è nera (il movimento per i diritti dell’embrione (unborn child) sta assumendo in questo Stato l’aspetto di una persecuzione condotta soprattutto verso donne povere e, nella maggior parte dei casi, nere. Su 167 procedimenti contro donne incinte fino al 1992, 87 sono nel South Carolina). Il 15 maggio 1989 partorisce all’ottavo mese e mezzo di gravidanza: il bambino nasce morto. Alla fine del maggio 2001 è dichiarata colpevole di omicidio e condannata a 12 anni di prigione.
Regina fumava crack durante la gravidanza: l’autopsia evidenzia alcune tracce di tale sostanza nel corpo del feto e il medico che esegue l’autopsia stabilisce che la morte del piccolo si possa collocare uno o due giorni prima del parto. I medici che intervengono al processo non concordano nel ritenere la tossicomania della madre la causa della morte del feto: determinare la causa del decesso nel caso di un parto di un bambino morto è spesso difficile, e a volte impossibile. In altre parole, non è possibile stabilire con certezza che la condotta di Regina abbia causato la morte del feto.
Nonostante questo, una giuria dichiara Regina colpevole di omicidio dopo aver deliberato per soli quindici minuti. Charles Condon, candidato repubblicano al governo, definisce questa condanna come una importante testimonianza della volontà del South Carolina di proteggere la vita innocente tanto delle persone born quanto delle persone unborn.
La legislazione del South Carolina considera persona il feto vitale: di conseguenza ogni comportamento potenzialmente dannoso per il feto è perseguibile come criminal child abuse. Nei procedimenti contro donne incinte viene spesso richiamato lo Statuto a difesi dei minori e addirittura invocato il reato di spaccio di sostanza stupefacenti. L’uso di sostanze stupefacenti è infatti il comportamento maggiormente sanzionato; seguono il fumo, gli alcolici, le droghe legali o la violazione delle prescrizioni mediche. È interessante sapere che il South Carolina, oltre ad essere la roccaforte della tutela degli embrioni, è anche uno degli Stati che stanzia meno fondi per i programmi di disintossicazione e la prevenzione delle tossicodipendenze; spenderà però circa 300.000 dollari per la lunga detenzione di Regina McKnight.
Nel maggio del 2003 la difesa di Regina McKnight chiede che la Corte Suprema degli Stati Uniti compia una revisione della decisione presa dalla Corte Suprema del South Carolina. La petizione (sostenuta da una trentina di organizzazioni mediche, tra cui l’American Nurses Association, il South Carolina Medical Association e l’American Public Health Association) afferma che la condanna della giovane per omicidio viola la Costituzione: l’Ottavo Emendamento (proibizione di crudeli e insolite pene) e il diritto di procreare. La petizione, inoltre, sottolinea che la Corte del South Carolina ha trasformato un parere medico (la cui verosimiglianza non è stata confermata) in una prova schiacciante di colpevolezza: in questo modo ha trattato una donna come una spietata assassina (“depraved heart” murderer) e ha infamato la tradizione legale americana. Nel giugno dello stesso anno la Drug Policy Alliance (vedi http://www.lindesmith.org) a sostegno della petizione afferma quanto segue: (1) non c’è alcuna evidenza scientifica e clinica per affermare che l’uso di droga da parte di Regina abbia causato la morte del feto; (2) il caso di Regina è pericoloso perché scoraggia tutte le donne incinte che fanno uso di droga a richiedere assistenza pre e postnatale per paura di essere incriminate; (3) trattare una donna che ha partorito un bambino morto come una criminale invalida i tentativi di aiutarla a superare una esperienza tanto traumatica. Il 6 ottobre del 2003 la Corte Suprema degli Stati Uniti rifiuta di ascoltare l’appello a favore di Regina McKnight.
Regina è il primo caso in cui una donna venga accusata di omicidio in tali circostanze: negli anni precedenti molte altre donne sono state coinvolte in processi a causa di un comportamento ritenuto dannoso per il feto.
La violazione dei diritti delle donne è una inevitabile conseguenza dell’equiparazione giuridica tra l’embrione e le persone; ma vi è un’altra conseguenza piuttosto allarmante. Le donne incinte il cui comportamento è giudicato, da loro stesse, trascurato verso l’unborn child e quindi condannabile, le donne che fanno uso di sostanze stupefacenti, sempre più spesso si guardano bene dall’andare in ospedale per sottoporsi a controlli durante la gravidanza, per evitare la prigione. Quando lo fanno, è per partorire, oppure è a causa di qualche complicazione a cui può essere tardi rimediare.
Ciò che è accaduto a Regina McKnight suscita una domanda: com’è possibile considerare una conseguenza non desiderata e forse non determinata dall’uso di crack come omicidio e, allo stesso tempo, affermare che è legale abortire? Causare quello stesso effetto (la morte) deliberatamente non può essere legittimo se si dichiara che è un crimine farlo involontariamente. La maggiore gravità di un omicidio intenzionale rispetto a un omicidio colposo sembra paradossalmente invertita in tale caso.

E finalmente
Today, we were thrilled to learn that after 8 long years, the South Carolina Supreme Court has finally reversed the 20-Year Homicide Conviction of Regina McKnight. The unanimous decision recognizes that research linking cocaine to stillbirths is based on "outdated" and inaccurate medical information. NAPW has been working on behalf of Ms. McKnight for nearly 10 years.

Specifically the South Carolina Supreme Court ruled that Regina McKnight did not have a fair trial when she was convicted in 2001 for homicide by child abuse. Through this conviction she became the first woman in South Carolina to be convicted of homicide by child abuse as a result of suffering an unintentional stillbirth.

McKnight was arrested in 1999, several months after she experienced a stillbirth at Conway Hospital. McKnight’s conviction was based on the jury’s acceptance of the scientifically unsupported claim that her cocaine use caused the stillbirth. McKnight had no prior arrest history and even prosecutors agreed that she had no intention of harming the fetus or losing the pregnancy. Nevertheless, upon conviction she was given a twenty-year sentence, suspended to twelve years in prison with no chance for parole. She was projected to be released in 2010.

The medical community has strongly opposed McKnight’s prosecution and conviction. From the beginning, leading South Carolina and national medical, public health, and child welfare organizations and experts have opposed the prosecution and conviction. These organizations — represented by us — the National Advocates for Pregnant Women and the Drug Policy Alliance, with South Carolina counsel Susan Dunn included the South Carolina Medical Association, the South Carolina Nurses Association, the South Carolina Association of Alcoholism and Drug Abuse Counselors, and the South Carolina Coalition for Healthy Families argued in an amicus (friend of the court) brief argued that women do not lose their rights to a fair trial upon becoming pregnant and challenged the state’s evidence that cocaine use or anything else that McKnight did or did not do caused the stillbirth.
(Continua).