Le doglie erano state un segno infausto per Sarah Capewell, una donna di 23 anni di Great Yarmouth, Norfolk, Inghilterra: a 21 settimane e 5 giorni di gestazione il parto era di gran lunga troppo in anticipo, tanto che i sanitari del James Paget Hospital di Gorleston le dissero che suo figlio sarebbe quasi certamente nato morto. A dispetto di questa previsione, però, il piccolo Jayden sopravvisse al parto; ma quando la madre chiese che il bambino venisse sottoposto a cure intensive, i medici rifiutarono. L’ospedale segue infatti le linee guide del Nuffield Council on Bioethics sul trattamento dei grandi prematuri, che sconsigliano di intraprendere qualsiasi trattamento prima delle 22 settimane compiute di età gestazionale (le linee guida della British Association of Perinatal Medicine, uscite nell’ottobre del 2008 pressoché contemporaneamente alla nascita di Jayden, alzano questo limite a 23 settimane). Nonostante le proteste di Sarah, dunque, al bambino non fu prestata nessuna cura, e il piccolo spirò due ore più tardi fra le braccia della madre.
La donna non ha accettato l’esito della vicenda, e ha lanciato una petizione per cambiare le linee guida, mettendo online un sito, Justice for Jayden, per sostenerla.
Ripresa da alcuni giornali britannici nei giorni scorsi, la vicenda ha inevitabilmente finito per attirare l’attenzione degli integralisti italiani. Gianfranco Amato le ha dedicato un articolo («Lasciato morire perchè nato 48 ore prima. L’incredibile storia del piccolo Jayden», 15 settembre 2009) su Sussidiario.net, quotidiano online nato nell’ambito dell’esperienza della Compagnia delle Opere, e riconducibile quindi ad ambienti in buona parte coincidenti con Comunione e Liberazione. La lettura che Amato fa della decisione dei medici è peculiare: la soglia delle 22 settimane sarebbe, per lui, di natura giuridica.
Di fronte al disperato appello di salvare il proprio figlio, quella giovane madre si è sentita rispondere dai medici del James Paget Hospital di Gorleston, Norfolk, che lei non aveva partorito un neonato ma, a termini di legge, aveva abortito un feto vivente. Con il tatto impietoso di chi ha ormai perso qualunque senso di umanità, i medici dell’ospedale hanno spiegato a Sarah Capewell, che quello che lei si ostinava a chiamare il suo bambino, era in realtà, sotto il profilo giuridico, semplicemente un feto, quindi un soggetto privo di alcun diritto. Il piccolo Jayden avrebbe dovuto nascere 48 ore più tardi perché, secondo regolamento, si potesse definirlo persona, e quindi riconoscergli il diritto a essere salvato [corsivi miei].La verità, naturalmente, è del tutto diversa. Prima di tutto non esiste alcuna distinzione di status giuridico per i prematuri nati prima di 22 settimane – né si vede come un consiglio privato di bioetica, com’è il Nuffield Council, potrebbe mai emanare regolamenti giuridicamente vincolanti, o addirittura «leggi», per usare la parola impiegata da Amato. Le linee guida hanno in realtà un significato esclusivamente medico, e si fondano su una semplice osservazione: non esistono a oggi casi documentati di prematuri nati prima delle 22 settimane di gestazione sopravvissuti per più di pochi giorni. Il caso di Amillia Taylor, una bambina nata a 21 settimane e 6 giorni e sopravvissuta, che è citato dal Sussidiario e che avrebbe spinto Sarah Capewell a lanciare la sua petizione, sembra essere basato su un malinteso: l’età gestazionale si misura dall’ultima mestruazione, che precede di circa due settimane l’effettivo concepimento; nel caso di Amillia, concepita in vitro, l’età gestazionale sarebbe stata calcolata a partire dalla fecondazione, e sarebbe quindi inferiore di due settimane a quella calcolata tradizionalmente. A circa 24 settimane di età gestazionale equivalente, la sopravvivenza di Amillia, nonostante un peso alla nascita bassissimo, desta meno sorpresa.
L’unico caso finora non confutato di sopravvivenza di un bambino nato a meno di 22 settimane rimane pertanto quello di James Elgin Gill, nato nel 1987 a 21 settimane e 5 giorni; ma la fonte più autorevole a sostegno di questo primato rimane, a quanto ne so, il Guinness Book of Records, che con tutto il rispetto, non equivale certo a una pubblicazione scientifica.
In ogni caso, è chiaro che ci troviamo di fronte a probabilità infinitesimali di sopravvivenza. Sull’altro piatto della bilancia va posta la gravosità estrema degli interventi di rianimazione su un prematuro di quell’età: con vene che si rompono al contatto degli aghi, la pelle che viene via assieme all’adesivo usato per fissare tubi e fili, la tendenza a subire emorragie cerebrali, etc. Certo, la capacità di provare dolore in un bambino di 21 settimane è assai incerta; ma anche un dubbio conta, di fronte alla virtuale certezza dell’inutilità delle cure.
In altre parole, rianimare un prematuro minore di 22 settimane è forse l’esempio più chiaro di accanimento terapeutico, anche secondo l’accezione più stringente usata dal magistero cattolico: il ricorso a cure inutili e gravose su un malato terminale.
Serve una conferma? La possiamo trovare nella «Proposta di linee-guida per l’astensione dall’accanimento terapeutico nella pratica neonatologica» della Cattedra di Neonatologia dell’Istituto e Centro di Bioetica dell’Università Cattolica del S. Cuore, Facoltà di Medicina e chirurgia “A. Gemelli”, Roma: un nome che è una garanzia – e infatti queste linee guida sono assai più ‘interventiste’ di quelle proposte da istituzioni più laiche. Ma non abbastanza interventiste da dire una cosa diversa rispetto alle linee guida del Nuffield Council nel caso che ci interessa (pp. 3-4):
Neonati di età gestazionale ≤ 22 settimane compiuteSi parla, come si vede, esclusivamente di cure palliative.
Allo stato attuale delle conoscenze scientifiche e delle tecnologie disponibili la sopravvivenza di neonati di età gestazionale ≤ 22 settimane (età gestazionale che corrisponde a metà del periodo canalicolare dello sviluppo del sistema respiratorio) è condizionata negativamente dall’assenza delle aree di scambio dei gas (alveoli).
Procedure indicate:L’assistenza ai genitori prevede che
- Valutazione obiettiva del neonato (conferma dell’EG).
- Astensione dall’intubazione endotracheale e dalla ventilazione.
- Permettere alla madre di vedere il neonato, se lo richiede.
- Trasferimento del neonato in ambiente riservato (terapia intensiva o unità di osservazione neonatale) che consenta di prendersi adeguatamente cura del neonato e della famiglia, procedendo con le cure palliative che in questa situazione consistono nel:
- evitare la grave ipotermia cui sono esposti i neonati
- contenere le stimolazioni d’ambiente (luci e rumori)
- evitare qualsiasi tipo di stimolazione che possa indurre dolore
- non intraprendere controlli cruenti (prelievi)
- effettuare, se necessario, monitoraggi incruenti
- incannulare la vena ombelicale per infusione di farmaci analgesici (da somministrare secondo protocolli specifici)
- siano accolti i desideri in ordine ad aspetti religiosi, culturali e tradizionali
- si consenta ai genitori di vedere e stare vicino al neonato, se richiesto
- si offra disponibilità all’ascolto ed alla informazione
Quanto all’esiguità delle 48 ore necessarie per far cambiare atteggiamento ai sanitari, essa è solo apparente: ogni giorno, intorno a questa età gestazionale, avvicina sensibilmente il raggiungimento della capacità respiratoria necessaria alla sopravvivenza.
Su che cosa si basa la ricostruzione fuorviante – a questo punto lo possiamo dire – del Sussidiario? Sembra che la fonte sia una singola frase di un articolo del Daily Telegraph: «After asking doctors to consider his human right to life, she claims she was told: “He hasn’t got a human right, he is a foetus”» («Dopo aver chiesto ai medici di considerare il diritto alla vita del bambino, la donna sostiene che le sia stato risposto: “non ha diritti umani, è un feto”»; Laura Donnelly, «Premature baby dies as guidelines say he was born too early to save», 9 settembre). Si paragoni la circospezione del Telegraph («la donna sostiene») con la sicurezza ostentata del Sussidiario, che costruisce l’intero articolo attorno a una frase riportata, che potrebbe essere stata male interpretata e che in ogni caso non può cambiare la realtà medica. Inoltre il Telegraph riporta correttamente, benché forse troppo sinteticamente, la motivazione delle linee guida:
Medical guidance for NHS hospitals says the low chance of survival for babies born below 23 weeks means they should not be given interventions which could cause suffering.Nel pezzo di Gianfranco Amato non riesco invece a trovare il minimo riferimento all’obiettivo di non infliggere sofferenze. Si trova in compenso l’immancabile, frusto paragone con i nazisti; e si trovano anche particolari della vicenda assenti da tutti i resoconti della stampa britannica a me disponibili: quello citato del Telegraph e quello del Daily Mail (Vanessa Allen e Andrew Levy, «“Doctors told me it was against the rules to save my premature baby”», 10 settembre). Ecco cosa scrive Amato:
Così, l’agonia del piccolo Jayden è durata due ore, sotto gli sguardi gelidi e indifferenti del personale sanitario. Neppure la più piccola assistenza è stata prestata durante quelle lunghissime ore, così come è stata recisamente respinta la supplica della madre per poter celebrare il funerale del bimbo.Gli «sguardi gelidi e indifferenti» sembrano una nota di colore aggiunta lì per lì; non è affatto chiaro che non sia stata prestata la minima assistenza, nemmeno palliativa: il Mail dice invece esplicitamente che era presente un’infermiera, che avrebbe potuto offrire le semplici cure necessarie; la supplica «recisamente respinta» di celebrare il funerale si riduce sempre sul Mail a una discussione con alcuni funzionari sui certificati necessari (e l’impressione, a leggere il giornale inglese, è che i funerali ci siano alla fine stati).
Non voglio dire che il comportamento dei medici inglesi sia stato sicuramente al di sopra di ogni biasimo: chiunque sia mai entrato in un ospedale sa che non sempre gli atteggiamenti sono del tutto improntati a una calda comprensione, e nel caso specifico c’è stata certamente una insufficiente comunicazione con la madre. Ma sembra proprio che la voglia irrefrenabile di giudicare e condannare il prossimo – sempre leggermente sorprendente in un cristiano – abbia indotto l’autore (e chi ne ha ripreso acriticamente il pezzo) a colmare un po’ affrettatamente alcune lacune della storia.