venerdì 18 settembre 2009

Quando 48 ore fanno la differenza

Le doglie erano state un segno infausto per Sarah Capewell, una donna di 23 anni di Great Yarmouth, Norfolk, Inghilterra: a 21 settimane e 5 giorni di gestazione il parto era di gran lunga troppo in anticipo, tanto che i sanitari del James Paget Hospital di Gorleston le dissero che suo figlio sarebbe quasi certamente nato morto. A dispetto di questa previsione, però, il piccolo Jayden sopravvisse al parto; ma quando la madre chiese che il bambino venisse sottoposto a cure intensive, i medici rifiutarono. L’ospedale segue infatti le linee guide del Nuffield Council on Bioethics sul trattamento dei grandi prematuri, che sconsigliano di intraprendere qualsiasi trattamento prima delle 22 settimane compiute di età gestazionale (le linee guida della British Association of Perinatal Medicine, uscite nell’ottobre del 2008 pressoché contemporaneamente alla nascita di Jayden, alzano questo limite a 23 settimane). Nonostante le proteste di Sarah, dunque, al bambino non fu prestata nessuna cura, e il piccolo spirò due ore più tardi fra le braccia della madre.
La donna non ha accettato l’esito della vicenda, e ha lanciato una petizione per cambiare le linee guida, mettendo online un sito, Justice for Jayden, per sostenerla.

Ripresa da alcuni giornali britannici nei giorni scorsi, la vicenda ha inevitabilmente finito per attirare l’attenzione degli integralisti italiani. Gianfranco Amato le ha dedicato un articolo («Lasciato morire perchè nato 48 ore prima. L’incredibile storia del piccolo Jayden», 15 settembre 2009) su Sussidiario.net, quotidiano online nato nell’ambito dell’esperienza della Compagnia delle Opere, e riconducibile quindi ad ambienti in buona parte coincidenti con Comunione e Liberazione. La lettura che Amato fa della decisione dei medici è peculiare: la soglia delle 22 settimane sarebbe, per lui, di natura giuridica.

Di fronte al disperato appello di salvare il proprio figlio, quella giovane madre si è sentita rispondere dai medici del James Paget Hospital di Gorleston, Norfolk, che lei non aveva partorito un neonato ma, a termini di legge, aveva abortito un feto vivente. Con il tatto impietoso di chi ha ormai perso qualunque senso di umanità, i medici dell’ospedale hanno spiegato a Sarah Capewell, che quello che lei si ostinava a chiamare il suo bambino, era in realtà, sotto il profilo giuridico, semplicemente un feto, quindi un soggetto privo di alcun diritto. Il piccolo Jayden avrebbe dovuto nascere 48 ore più tardi perché, secondo regolamento, si potesse definirlo persona, e quindi riconoscergli il diritto a essere salvato [corsivi miei].
La verità, naturalmente, è del tutto diversa. Prima di tutto non esiste alcuna distinzione di status giuridico per i prematuri nati prima di 22 settimane – né si vede come un consiglio privato di bioetica, com’è il Nuffield Council, potrebbe mai emanare regolamenti giuridicamente vincolanti, o addirittura «leggi», per usare la parola impiegata da Amato. Le linee guida hanno in realtà un significato esclusivamente medico, e si fondano su una semplice osservazione: non esistono a oggi casi documentati di prematuri nati prima delle 22 settimane di gestazione sopravvissuti per più di pochi giorni. Il caso di Amillia Taylor, una bambina nata a 21 settimane e 6 giorni e sopravvissuta, che è citato dal Sussidiario e che avrebbe spinto Sarah Capewell a lanciare la sua petizione, sembra essere basato su un malinteso: l’età gestazionale si misura dall’ultima mestruazione, che precede di circa due settimane l’effettivo concepimento; nel caso di Amillia, concepita in vitro, l’età gestazionale sarebbe stata calcolata a partire dalla fecondazione, e sarebbe quindi inferiore di due settimane a quella calcolata tradizionalmente. A circa 24 settimane di età gestazionale equivalente, la sopravvivenza di Amillia, nonostante un peso alla nascita bassissimo, desta meno sorpresa.
L’unico caso finora non confutato di sopravvivenza di un bambino nato a meno di 22 settimane rimane pertanto quello di James Elgin Gill, nato nel 1987 a 21 settimane e 5 giorni; ma la fonte più autorevole a sostegno di questo primato rimane, a quanto ne so, il Guinness Book of Records, che con tutto il rispetto, non equivale certo a una pubblicazione scientifica.
In ogni caso, è chiaro che ci troviamo di fronte a probabilità infinitesimali di sopravvivenza. Sull’altro piatto della bilancia va posta la gravosità estrema degli interventi di rianimazione su un prematuro di quell’età: con vene che si rompono al contatto degli aghi, la pelle che viene via assieme all’adesivo usato per fissare tubi e fili, la tendenza a subire emorragie cerebrali, etc. Certo, la capacità di provare dolore in un bambino di 21 settimane è assai incerta; ma anche un dubbio conta, di fronte alla virtuale certezza dell’inutilità delle cure.
In altre parole, rianimare un prematuro minore di 22 settimane è forse l’esempio più chiaro di accanimento terapeutico, anche secondo l’accezione più stringente usata dal magistero cattolico: il ricorso a cure inutili e gravose su un malato terminale.
Serve una conferma? La possiamo trovare nella «Proposta di linee-guida per l’astensione dall’accanimento terapeutico nella pratica neonatologica» della Cattedra di Neonatologia dell’Istituto e Centro di Bioetica dell’Università Cattolica del S. Cuore, Facoltà di Medicina e chirurgia “A. Gemelli”, Roma: un nome che è una garanzia – e infatti queste linee guida sono assai più ‘interventiste’ di quelle proposte da istituzioni più laiche. Ma non abbastanza interventiste da dire una cosa diversa rispetto alle linee guida del Nuffield Council nel caso che ci interessa (pp. 3-4):
Neonati di età gestazionale ≤ 22 settimane compiute

Allo stato attuale delle conoscenze scientifiche e delle tecnologie disponibili la sopravvivenza di neonati di età gestazionale ≤ 22 settimane (età gestazionale che corrisponde a metà del periodo canalicolare dello sviluppo del sistema respiratorio) è condizionata negativamente dall’assenza delle aree di scambio dei gas (alveoli).

Procedure indicate:
  1. Valutazione obiettiva del neonato (conferma dell’EG).
  2. Astensione dall’intubazione endotracheale e dalla ventilazione.
  3. Permettere alla madre di vedere il neonato, se lo richiede.
  4. Trasferimento del neonato in ambiente riservato (terapia intensiva o unità di osservazione neonatale) che consenta di prendersi adeguatamente cura del neonato e della famiglia, procedendo con le cure palliative che in questa situazione consistono nel:
    • evitare la grave ipotermia cui sono esposti i neonati
    • contenere le stimolazioni d’ambiente (luci e rumori)
    • evitare qualsiasi tipo di stimolazione che possa indurre dolore
    • non intraprendere controlli cruenti (prelievi)
    • effettuare, se necessario, monitoraggi incruenti
    • incannulare la vena ombelicale per infusione di farmaci analgesici (da somministrare secondo protocolli specifici)
L’assistenza ai genitori prevede che
  • siano accolti i desideri in ordine ad aspetti religiosi, culturali e tradizionali
  • si consenta ai genitori di vedere e stare vicino al neonato, se richiesto
  • si offra disponibilità all’ascolto ed alla informazione
Si parla, come si vede, esclusivamente di cure palliative.
Quanto all’esiguità delle 48 ore necessarie per far cambiare atteggiamento ai sanitari, essa è solo apparente: ogni giorno, intorno a questa età gestazionale, avvicina sensibilmente il raggiungimento della capacità respiratoria necessaria alla sopravvivenza.

Su che cosa si basa la ricostruzione fuorviante – a questo punto lo possiamo dire – del Sussidiario? Sembra che la fonte sia una singola frase di un articolo del Daily Telegraph: «After asking doctors to consider his human right to life, she claims she was told: “He hasn’t got a human right, he is a foetus”» («Dopo aver chiesto ai medici di considerare il diritto alla vita del bambino, la donna sostiene che le sia stato risposto: “non ha diritti umani, è un feto”»; Laura Donnelly, «Premature baby dies as guidelines say he was born too early to save», 9 settembre). Si paragoni la circospezione del Telegraph («la donna sostiene») con la sicurezza ostentata del Sussidiario, che costruisce l’intero articolo attorno a una frase riportata, che potrebbe essere stata male interpretata e che in ogni caso non può cambiare la realtà medica. Inoltre il Telegraph riporta correttamente, benché forse troppo sinteticamente, la motivazione delle linee guida:
Medical guidance for NHS hospitals says the low chance of survival for babies born below 23 weeks means they should not be given interventions which could cause suffering.
Nel pezzo di Gianfranco Amato non riesco invece a trovare il minimo riferimento all’obiettivo di non infliggere sofferenze. Si trova in compenso l’immancabile, frusto paragone con i nazisti; e si trovano anche particolari della vicenda assenti da tutti i resoconti della stampa britannica a me disponibili: quello citato del Telegraph e quello del Daily Mail (Vanessa Allen e Andrew Levy, «“Doctors told me it was against the rules to save my premature baby”», 10 settembre). Ecco cosa scrive Amato:
Così, l’agonia del piccolo Jayden è durata due ore, sotto gli sguardi gelidi e indifferenti del personale sanitario. Neppure la più piccola assistenza è stata prestata durante quelle lunghissime ore, così come è stata recisamente respinta la supplica della madre per poter celebrare il funerale del bimbo.
Gli «sguardi gelidi e indifferenti» sembrano una nota di colore aggiunta lì per lì; non è affatto chiaro che non sia stata prestata la minima assistenza, nemmeno palliativa: il Mail dice invece esplicitamente che era presente un’infermiera, che avrebbe potuto offrire le semplici cure necessarie; la supplica «recisamente respinta» di celebrare il funerale si riduce sempre sul Mail a una discussione con alcuni funzionari sui certificati necessari (e l’impressione, a leggere il giornale inglese, è che i funerali ci siano alla fine stati).
Non voglio dire che il comportamento dei medici inglesi sia stato sicuramente al di sopra di ogni biasimo: chiunque sia mai entrato in un ospedale sa che non sempre gli atteggiamenti sono del tutto improntati a una calda comprensione, e nel caso specifico c’è stata certamente una insufficiente comunicazione con la madre. Ma sembra proprio che la voglia irrefrenabile di giudicare e condannare il prossimo – sempre leggermente sorprendente in un cristiano – abbia indotto l’autore (e chi ne ha ripreso acriticamente il pezzo) a colmare un po’ affrettatamente alcune lacune della storia.

17 commenti:

paolo de gregorio ha detto...

Ma sul serio i cattolici integralisti prendono come esempio di riferimento la sopravviveza di un bambino concepito artificialmente? E non mi riferisco tanto allo sballamento sul conteggio delle date, quanto al fatto che quel bambino secondo loro non avrebbe dovuto avere nessuna opportunità di venire al mondo (altro che sopravvivere). Evidentemente Dio ha in serbo dei miracoli (li chiamano così loro in casi come questo) proprio per i bambini che si presume siano meno benedetti.

Comunque, a parte le solite storture cronacistiche di una certa cricca, per quel che riguarda l'episodio in sé io nutro qualche dubbio. Le linee guida sono linee guida appunto; il parere (se deciso e insistente) della madre avrebbe dovuto (o potuto) avere un'influenza sull'applicazione delle stesse. Forse it was her call anche (pur sbagliata che fosse).

Giuseppe Regalzi ha detto...

Paolo: penso che i cattolici non sappiano in quali circostanze fosse stata concepita quella bambina.

Sul caso in esame, mi pare discutibile assegnare a qualcuno, foss'anche la madre, il potere di decidere cure del tutto inutili. Pensiamo anche al fatto che i posti nelle unità intensive non sono infiniti, e che da un momento all'altro poteva arrivare un bambino che ne aveva bisogno e che ne poteva trarre, a differenza del povero Jayden, un beneficio reale.

paolo de gregorio ha detto...

Sì, mi rendo conto che la situazione è controversa. Però anche l'aderenza ortodossa alle linee può essere un po' una stortura (parlandosi comunque di qualche giorno, e di procedure al confine delle nostre capacità e conoscenze); del resto non si sarebbe mai avanzati a ritroso sulla sopravvivenza degli ultra prematuri procedendo per esclusione dell'improbabile. Allora visto che c'era una madre che lo voleva a tutti i costi e voleva prendersi questo macigno irrazionale di ressponsabilità, allora forse si poteva anche tentare di spingere la pratica medica oltre l'ostacolo proprio in tale occasione. Anche se, preciso il mio pensiero, non riterrei che quella donna stesse facendo un'opera proprio meritoria verso quella creatura. E come al solito viene il sospetto che dietro la sua protesta via sia la mancanza di conoscenza (e forse anche qualche fomentazione).

Giuseppe Regalzi ha detto...

Questa è un'osservazione giusta, ma le linee guida del Nuffield Coucil prevedono di fatto il caso (pp. 74-75):

"While experimental studies are important to advance practice, it is our view that attempts to prolong life following birth before 22 weeks of gestation should be carried out only as part of a research study that has previously been assessed and approved by a research ethics committee. For such a study, the parents would need to consent in advance to the resuscitation and active treatment of their baby".

Mi sembra corretta l'indicazione di inserire il tentativo in uno studio sperimentale rigoroso.

giosby ha detto...

Ci sono limiti e limiti ...

Problemi di un tipo e problemi di un altro tipo ...

Veramente difficile trovare una giusta misura.

http://www.giosby.it/2009/09/05/con-dolore-partorirai-figli-il-caso-di-simona/

Anche se a volte il buon senso è il miglior consigliere, qualcuno comunque fa le leggi e nelle leggi le eccezioni non sono previste!
Purtroppo !

Paolo C ha detto...

Comunque, da quel che dice la madre al Daily, c'e' stata una carenza nell'assistenza alla madre. Non solo per la frase riportata: di sicuro in questi casi e' opportuno dare tutte le spiegazioni con la massima delicatezza.
Sono anche dell'idea che, insistendo la madre dopo aver ricevuto le necessarie informazioni, dovrebbero essere prestate anche cure giudicate inutili. L'ultima parola spetta al paziente o a chi per lui.
Anche la faccenda dei funerali andrebbe chiarita.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Paolo C:

"Comunque, da quel che dice la madre al Daily, c'e' stata una carenza nell'assistenza alla madre. Non solo per la frase riportata: di sicuro in questi casi e' opportuno dare tutte le spiegazioni con la massima delicatezza".

E' quello che ho scritto anch'io.

"Sono anche dell'idea che, insistendo la madre dopo aver ricevuto le necessarie informazioni, dovrebbero essere prestate anche cure giudicate inutili. L'ultima parola spetta al paziente o a chi per lui".

Questo implica però azzerare ogni interesse del bambino - il che potrebbe anche essere possibile, se fossimo sicuri che non sente alcun dolore; e azzerare anche l'autonomia dei medici, che in genere però è tutelata - come in Italia - dai codici deontologici. Per non parlare dello spreco di risorse, che potrebbero essere vitali per altri pazienti.

Paolo C ha detto...

G.: sulla prima parte mi sono reso conto di aver ripetuto quel che avevi scritto ancora prima di aver letto la tua risposta. E' che umanamente quest'aspetto che mi ha colpito di piu' della fantasie integraliste.

Seconda parte: se c'e' carenza di risorse ovviamente vanno usate secondo priorita' ragionevoli. Ma se non c'e' questo problema, ripeto, l'ultima parola deve averla il paziente, perche' o ce l'ha lui o il medico. Possiamo fare tutti i distinguo del mondo, ma a un certo punto e' logicamente cosi'.
Cio' non significa azzerare ogni interesse del bambino, significa decidere che l'interesse del bambino e' espresso dalla madre - che deve essere aiutata a decidere quale esso sia, pur essendo cio' molto difficile in una situazione cosi' drammatica.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Paolo C:
"l'ultima parola deve averla il paziente, perche' o ce l'ha lui o il medico. Possiamo fare tutti i distinguo del mondo, ma a un certo punto e' logicamente cosi'."

Io credo che si possa trovare un equilibrio. Il medico non può far subire al paziente nessun atto contro la sua volontà; il paziente non può imporre al medico di compiere nessuna azione contraria alla sua deontologia (anche se il medico rimane tenuto a obbedire alle clausole contrattuali della sua organizzazione sanitaria: nessuna obiezione di coscienza personale, per intenderci).

Naturalmente nel caso in esame la situazione è più complicata, perché il paziente non aveva una sua volontà. Mi sembra inevitabile che subentri il criterio del best interest, ma per il resto le cose non cambiano molto.

filippo ha detto...

"...l'interesse del bambino e' espresso dalla madre - che deve essere aiutata a decidere quale esso sia..."
I medici pongono l'indicazione ad un determinato trattamento se ne ravvedono l'utilità o la necessità, sia esso somministrare un farmaco od eseguire un intervento chirurgico, oppure non pongono l'indicazione ad un determinato trattamento se lo considerano inutile o non necessario. E, di buona norma, spiegano al paziente e/o ai parenti il motivo della loro condotta, motivo sempre legato a considerazioni di carattere esclusivamente tecnico.
Poichè rivolgersi ad un medico non ha la stessa valenza del recarsi dal droghiere, non è pensabile di pretendere dal medico un trattamento che il medico stesso ritenga inutile o non necessario.
La questione, come nel caso descritto, ha rilevanza esclusivamente tecnica, ed ogni altra considerazione in merito costituisce solo un'illazione priva di fondamento.

Paolo C ha detto...

ovviamente non si puo' pretendere che il medico faccia qualunque cosa gli venga chiesto; io voglio dire che in situazioni limite, in cui il best interest non e' ovvio (non dico che fosse questo il caso), e' giusto tenere conto anche della volonta' del paziente o chi per lui.

Stefano Vaj ha detto...

Bizzarramente, anche se il mio background dovrebbe dettare diversamente, su queste cose mi ritrovo sempre dalla parte che negli US verrebbe definita "libertarian", ovvero: perché diavolo mai qualcuno dovrebbe essere soggetto a guidelines "amministrative", abbiano o meno valore regolamentare, relativamente alle sue scelte in materia di salute o sopravvivenza o terapia?

E in effetti esiste un'abbondante soluzione di continuità tra l'idea che prassi di accanimento terapeutico (o anche solo di terapia e nutrizione) dovrebbero essere obbligatorie e quella secondo cui dovrebbero essere vietate,o quanto meno rese "non disponibili" alla scelta del paziente o di chi lo rappresenta legalmente.

Certo, entra in gioco un'ulteriore questione quando parliamo in fondo di ricorso ad un'assistenza pagata dalla comunità con risorse finite.

Ma il concetto di "medicina sostenibile" è difficilmente conciliabile con altri postulati, di segno anche diverso tra loro, che continuano ad avere corso.

Il primo, quello dell'etica medica tradizionale, secondo cui si fa qualsiasi cosa per il primo paziente come se fosse l'unico al mondo. Cosa tra l'altro che ha da un punto di vista transumanista un significato essenziale, perché se invece fosse stato applicato sinora un utilitarismo coerente, come "nella maggior felicità del maggior numero", saremmo ancora all'età della pietra, dato che il costo di un singolo trapianto cardiaco potrebbe salvare decine e decine di vite fosse anche solo dalla denutrizione.

Il secondo, quello che le comunità umane non avrebbero alcuna voce in capitolo sulla vita dei loro membri.

Il terzo, il fatto che come nota James Hughes in Citizen Cyborg, persino la pretesa fondamentalista di veder trattati *sistematicamente* come bambini ammalati di tre anni feti abortiti di 21 settimane comporta opportunità di indagine e di progresso che in prospettiva, insieme con le tecniche di produzione e mantenimento in vitro degli embrioni, sono destinate ad avvicinarci alla prospettiva dell'ectogenesi, rispetto a cui viceversa ogni sperimentazione "ufficiale" risulta ovviamente esclusa.

Stefano Vaj ha detto...

No, io tendo invece ad avvicinarmi abbastanza all'idea che il medico debba proprio fare "tutto ciò che gli viene chiesto".

Tale affermazione va qualificata, beninteso, ma né più né meno come va qualificata per ciò che riguarda l'avvocato o l'ingegnere.

Che si tratti di eutanasia o accanimento terapeutico o body modification o sperimentazione umana o uso "ricreativo" di sostanze psicotrope non faccio nessuna differenza particolare, per tanto che il suo "cliente" sia consapevole, correttamente informato, ed esprima una volontà ragionevolmente attendibile.

Giuseppe Regalzi ha detto...

Stefano:

«perché diavolo mai qualcuno dovrebbe essere soggetto a guidelines "amministrative", abbiano o meno valore regolamentare, relativamente alle sue scelte in materia di salute o sopravvivenza o terapia?».

La risposta la dai tu stesso più avanti: «entra in gioco un'ulteriore questione quando parliamo in fondo di ricorso ad un'assistenza pagata dalla comunità con risorse finite». In questo caso i costi dell'assistenza non possono eccedere la somma dei contributi versati, e mi sembra equo che vengano impiegati secondo criteri che massimizzino l'utilità collettiva di chi li ha versati; criteri che notoriamente è difficile stabilire nel dettaglio, ma che difficilmente possono contemplare cure che si sanno già in partenza virtualmente inefficaci. Ovviamente il discorso è molto diverso nell'ambito della sanità privata.

«se invece fosse stato applicato sinora un utilitarismo coerente, come "nella maggior felicità del maggior numero", saremmo ancora all'età della pietra, dato che il costo di un singolo trapianto cardiaco potrebbe salvare decine e decine di vite fosse anche solo dalla denutrizione».

Questo è vero, ma che fare di fronte a una platea di aventi uguali diritti? Salvarne il numero più alto possibile (o qualcosa del genere) non sembra tanto sbagliato. Mi pare significativo che nel tuo esempio tu stia in realtà mescolando ambiti diversi: cure mediche - presumibilmente destinate ai contribuenti nazionali - e aiuti allo sviluppo - suppongo per popolazioni di altri paesi. Se rendi uniforme il riferimento il discorso non è più tanto paradossale: in un paese in cui la maggior parte delle persone muore di malattie infettive è davvero una buona opzione - anche in una prospettiva transumanista di sopravvivenza prolungata - spendere enormi cifre in trapianti di cui si avvantaggiano solo in pochi?

«Il secondo, quello che le comunità umane non avrebbero alcuna voce in capitolo sulla vita dei loro membri».

Qui i nostri background sono irrimediabilmente diversi, temo... :-)

«persino la pretesa fondamentalista di veder trattati *sistematicamente* come bambini ammalati di tre anni feti abortiti di 21 settimane comporta opportunità di indagine e di progresso che in prospettiva, insieme con le tecniche di produzione e mantenimento in vitro degli embrioni, sono destinate ad avvicinarci alla prospettiva dell'ectogenesi, rispetto a cui viceversa ogni sperimentazione "ufficiale" risulta ovviamente esclusa».

Questo è giusto, ma per essere produttivo - come dicevo in un commento precedente - va inquadrato in una sperimentazione coerente, come prevedono anche le linee guida del Nuffield Council. Aggiungerei che prima di pensare a salvare gli infanti di 21 settimane sarebbe opportuno risolvere il problema di quelli di 22-24, che ancora muoiono come mosche (in uno studio sistematico, EPICURE, la sopravvivenza a 6 anni dei prematuri fra 22+0 e 22+5 settimane è stata dell'1%, con disabilità moderate o gravi).

«No, io tendo invece ad avvicinarmi abbastanza all'idea che il medico debba proprio fare "tutto ciò che gli viene chiesto".
Tale affermazione va qualificata, beninteso, ma né più né meno come va qualificata per ciò che riguarda l'avvocato o l'ingegnere».

Non saprei. Immagino che anche avvocati e ingegneri siano abbastanza liberi di declinare la richiesta di un cliente (specie i secondi), o di rifiutarsi di seguirlo quando quello pretende di dettare strategie legali o di stabilire il carico di rottura di una trave portante. D'altronde in un libero mercato non ci dovrebbero essere difficoltà a trovare un difensore per O.J. Simpson, a costruire una casa identica a quella di Hansel e Gretel, o a impiantare sensi ultrasonici in un avventuroso paziente...

Stefano Vaj ha detto...

@Giuseppe:
Sulla tanta carne che abbiamo messo al fuoco replico al momento solo su un punto:
"Questo è vero, ma che fare di fronte a una platea di aventi uguali diritti? Salvarne il numero più alto possibile (o qualcosa del genere) non sembra tanto sbagliato... Mi pare significativo che nel tuo esempio tu stia in realtà mescolando ambiti diversi: cure mediche - presumibilmente destinate ai contribuenti nazionali - e aiuti allo sviluppo - suppongo per popolazioni di altri paesi."

In realtà, il mio discorso non è necessariamente ristretto ad un discorso singeriano (es. "trapianti il cuore al tuo concittadino, o nutri il tuo gatto, intanto che all'altro capo del mondo..."), che al massimo pone un problema agli utilitaristi tra noi.

Sto parlando proprio di una prassi da ER: in realtà, ho l'impressione che l'etica medica tradizionale tenda a fare senza limiti tutto il possibile per il paziente sottomano, qualsiasi cosa succeda nella "società là fuori" - in cui le stesse risorse potrebbero essere investite in prevenzione, etc. -, se non addirittura a quelli letteralmente in sala d'aspetto...

Naturalmente, anche tradizionalmente, il medico tende ad astenersi da interventi che considera totalmente inutili - o magari eccessivamente rischiosi nel caso un esito fatale non sia diversamente scontato.

Ma, come accenni anche tu, dobbiamo davvero lasciarlo arbitro di scegliere quando c'è qualcuno che è disposto a farsi carico dei costi relativi, e che comunque preferisce "provarci"?

Giuseppe Regalzi ha detto...

Stefano:

«Sto parlando proprio di una prassi da ER: in realtà, ho l'impressione che l'etica medica tradizionale tenda a fare senza limiti tutto il possibile per il paziente sottomano, qualsiasi cosa succeda nella "società là fuori" - in cui le stesse risorse potrebbero essere investite in prevenzione, etc. -, se non addirittura a quelli letteralmente in sala d'aspetto...».

E' vero, un sistema sanitario come lo concepiamo oggi non può essere totalmente utilitaristico. Per vari motivi sarebbe pressoché impossibile buttare giù dal letto nel reparto di terapia intensiva il sessantenne infartuato per fare posto al ventenne che ha battuto la testa cadendo dal motorino, anche se il secondo rischia di perdere molto di più del primo. Il discorso vale più che altro per la ripartizione preventiva delle risorse, la stesura di protocolli e linee guida ("non trapiantiamo il fegato a un alcolista, ma a tutti gli altri sì"). Anche se poi tutti sappiamo (o possiamo facilmente immaginare) cosa succede nei reparti di terapia intensiva ai novantenni in coma per un ictus...

«Ma, come accenni anche tu, dobbiamo davvero lasciarlo arbitro di scegliere quando c'è qualcuno che è disposto a farsi carico dei costi relativi, e che comunque preferisce "provarci"?»

Io sono d'accordo sullo spirito della questione, ma l'immagine che mi si para davanti agli occhi leggendo le tue considerazioni è di qualcuno che afferra il dottor Bianchi e gli intima: "Adesso mi colleghi l'antenna per captare il canale SuperCalcio di Sky direttamente alla corteccia visiva, oppure sono guai!!".
Mi pare più opportuno assicurarsi che il senatore Rossi non promulghi una legge che, in base al suo credo Pastafariano, impedisca a chiunque di collegare antenne televisive alla corteccia visiva; per il resto, lasciamo che il dottor Bianchi faccia come gli pare - eventualmente con i giusti incentivi...

Stefano Vaj ha detto...

@Giuseppe Regalzi:
"Mi pare più opportuno assicurarsi che il senatore Rossi non promulghi una legge che, in base al suo credo Pastafariano, impedisca a chiunque di collegare antenne televisive alla corteccia visiva; per il resto, lasciamo che il dottor Bianchi faccia come gli pare - eventualmente con i giusti incentivi..."

OK, a parte che odio il calcio, e che non vado pazzo neppure per il Dio-Mercato, direi che su questo possiamo essere d'accordo.

Tanto più che appunto se non lo farà il Dr. Bianchi, nulla impedisce di rivolgersi al Dr. Rossi.