L’intervista risale al febbraio 2007. Non l’avevo postata non so per quale ragione; per pudore, forse. Ma oggi può essere una risposta ai soliti commenti presuntuosi, ignoranti e idioti (come questo) alla sentenza di Cagliari.
La storia di XXX
Come è cominciata la vostra storia?
Io e mio marito siamo una coppia infertile e per avere un figlio abbiamo dovuto ricorrere alla procreazione medicalmente assistita. Siamo anche portatori sani di anemia mediterranea. Abbiamo deciso purtroppo dopo l’entrata in vigore della legge 40. Io mi sono sottoposta a molte visite, e speravo che non ci fossero impedimenti per avere un figlio.
In che modo la legge 40 vi creava problemi?
Quando siamo andati all’Ospedale Microcitemico ho chiesto se durante la fecondazione in vitro potevamo sapere se l’embrione fosse sano o malato. Ma non potevamo, perché la legge 40 non permetteva la Diagnosi Genetica di Preimpianto che a noi serviva per sapere se l’embrione aveva ereditato la talassemia.
Che cosa avete deciso di fare?
Di tentare comunque: non si poteva fare altro, desideravamo così tanto un figlio.
Nel maggio 2004 sono rimasta incinta; eravamo felicissimi. Poi all’undicesima settimana ho fatto la villocentesi, e ho scoperto che l’embrione era malato. È stato come se ci fosse caduto il mondo addosso.
Com’è vivere con la talassemia?
Ho visto tanti malati da vicino, e quando vedo quei ragazzi al Microcitemico, solo a guardarli negli occhi penso: “Come posso mettere al mondo un bambino destinato a una vita del genere?”. È una sofferenza dalla nascita fino alla morte; morte precoce perché hanno una vita più breve del normale. E soprattutto è una vita disgraziata, bruttissima, non possono fare dello sport agonistico, non possono mangiare molti cibi, hanno difficoltà a studiare perché non riescono ad apprendere facilmente, vanno a letto con delle pompe d’infusione perché devono fare delle terapie particolari (che a lungo andare danneggiano gli altri organi del corpo). I talassemici devono sottoporsi a trasfusioni continue (circa una al mese), con tutti i problemi medici che ne conseguono.
Quale decisione avete preso dopo la villocentesi?
Ho deciso di abortire perché non volevo condannare mio figlio a questa tortura. Io non la posso chiamare vita; e non sono io a distruggere una vita abortendo. Sto risparmiando ad un essere umano una esistenza sciagurata.
Con la Diagnosi Genetica di Preimpianto avremmo potuto avere una speranza.
Dopo la decisione di abortire cosa è successo?
Da una emozione di fiducia, in cui non esisteva la malattia, sono passata alla brutale consapevolezza. Ero talmente felice della gravidanza che ho voluto andare avanti. Ma poi la diagnosi infausta mi ha costretta a fare i conti con la drammatica realtà.
Ho dovuto abortire, sono stata ricoverata alla dodicesima settimana. In questi casi l’intervento non consisterebbe in un raschiamento, ma sono passati altri sei giorni e quindi ero andata oltre la dodicesima settimana, in quanto nell’ospedale dove mi ero ricoverata i medici erano tutti obiettori di coscienza. Chiedevo aiuto ai medici ma mi rispondevano: “Mi dispiace, lei la vedrà il primario, purtroppo lei deve aspettare, noi siamo obiettori”. E nei loro sguardi c’era una condanna senza appello.
Mi sentivo morire. Chi non ha capito la mia decisione evidentemente non ha mai visto un bimbo talassemico, un bimbo condannato a soffrire e destinato a una morte prematura.
Anche i magistrati sono senza cuore. È impossibile vietare ad una donna di essere madre.
L’esperienza dell’aborto ha condizionato il vostro desiderio di avere un figlio?
Dopo quei giorni di attesa, il primario mi ha portato urgentemente in sala operatoria. Mi hanno fatto un raschiamento, e il giorno dopo avevo dei dolori allucinanti. Ero stata talmente scioccata che nonostante il dolore insopportabile sono tornata a casa. Ma una volta a casa i dolori continuavano ad aumentare e stavo sempre peggio; ma non volevo tornare in quell’ospedale, tanta era la paura di tornare lì, la paura di riaffrontare tutto quello che avevo passato in aggiunta al dolore di abortire.
Siamo andati in un altro ospedale e ho subito un altro raschiamento.
Un dolore fisico e morale. Stavo malissimo. Avevo paura, ero angosciata.
Passato un anno, ho deciso di riprovare, e ho deciso di cercare assistenza psicologica.
Ma dopo il prelievo degli ovociti mi è tornato in mente tutto quello che avevo vissuto e non ce l’ho più fatta. Ho rivissuto tutto, mi sono rivolta ad uno psichiatra, e anche se avevo firmato per l’impianto degli embrioni ho deciso di ricorrere al giudice per chiedere la possibilità di ricorrere alla Diagnosi Genetica di Preimpianto.
Che cosa vi hanno risposto i giudici e che cosa avete intenzione di fare oggi?
In ballo c’era la mia salute, oltre che quella dei figli che avremmo messo al mondo. Ho chiesto alla Corte Costituzionale se fosse possibile cambiare l’articolo 13 della legge 40. È possibile fare le analisi prenatali come la villocentesi o l’amniocentesi. Perché non avrei potuto fare ricorso ad una indagine preimpianto in modo da evitare un eventuale aborto? Invece purtroppo la Corte Costituzionale ci ha risposto di no.
Ora grazie all’aiuto di una coppia fuori dalla Sardegna, che è disposta ad aiutarci economicamente, abbiamo deciso di andare all’estero per poter ricorrere alla Diagnosi Genetica di Preimpianto.
Certo, pensare di essere costretti ad andare all’estero per avere un figlio mio mi fa rabbia, spendere tanti soldi, non è giusto che a noi italiani ci si vieti una cosa simile.
La legge 40 invoca la sacralità del concepito a scapito dei diritti di persone già indubitabilmente esistenti: il diritto alla salute, il diritto alle scelte terapeutiche e così via. Frustrando i desideri legittimi di genitorialità: che cosa risponderebbe a quanti condannano il presunto diritto di “pretendere un figlio a tutti i costi”?
Non è pretendere un figlio a tutti i costi. Io chiedo solo un figlio sano. Lo desideriamo. Io voglio una famiglia, chiedo soltanto questo. Una cosa bella, non cattiva, non brutta. Non c’entra niente la pretesa a tutti i costi. È possibile avere un figlio sano. Sono loro a renderla a tutti i costi una cosa impossibile mettendo sulla nostra pelle delle leggi ipocrite e contradittorie come la legge 40, che vieta la Diagnosi Genetica di Preimpianto per salvaguardare l’embrione (che poi non è un embrione ma sono solo otto cellule), ma poi ti permette di abortire (aborto terapeutico come viene chiamato nella legge 40) alla dodicesima settimana, uccidendo un feto già completamente formato che ha bisogno solo di crescere.
giovedì 27 settembre 2007
Magari può servire
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8 commenti:
Serve moltissimo. Visto che gli avversari sono ideologici, non c'è niente di meglio che rispondere loro con la vita reale. Auguri a Simona e al marito.
I ho l'impressione che, se la motivazione dell'aborto erano (come prevede la 194) gli eventuali danni alla salute psichica della signora che non poteva sopportare l'idea di un figlio malato ci sia qualcosa che non va: i problemi li ha avuti a causa dell'aborto e non dalla nascita di un figlio malato. Mi chiedo anche cosa possano pensare i malati di microcitemia a sentirsi descrivere come la signora fa: vite disgraziate, non possono studiare. Il guaio è che se a una mamma fai vedere solo le difficoltà e poi le dici che abortendo le può evitare le butti addosso la responsabilità di aver eliminato il proprio figlio. E il risultato è che la mamma sta peggio di quanto sarebbe stata ad accettare il suo bambino malato. La microcitemia, oggi, è curabile nella maggioranza dei casi:
questo è uno dei tanti esempi
http://www.l-arcadinoe.com/it/?p=171
Certo il sistema più semplice, se non si crede alla ricerca scientifica e alle sue possibilità di guarire, è elimeinare embrioni e feti malati...
"La microcitemia, oggi, è curabile nella maggioranza dei casi".
Il problema, appunto, è nella minoranza rimanente...
Quindi sostiene che la vita di un malato di microcitemia non è degna di essere vissuta?
Niente affatto, e non capisco come tu mi possa attribuire un pensiero del genere. Un malato di anemia mediterranea può condurre una vita quasi normale; ma sempre comunque a costo di grandi sofferenze, che se possibile vanno evitate.
Voglio farti anch'io una domanda: se esistesse un sistema per identificare nei gameti la mutazione che dà origine alla microcitemia e per selezionare quindi quelli sani, tu ti opporresti? Se la risposta è no, cosa risponderesti a uno che ti accusasse di preferire eugeneticamente in questo modo una persona sana a una malata?
Quindi sostiene che la vita di un malato di microcitemia non è degna di essere vissuta?
Ci vorrebbe una sezione FAQ. :-) Non mi illudo che sarebbe sufficiente per evitare insinuazioni del genere, ma se non altro non si sarebbe costretti ripetersi, ogni volta, per rispondere ad attacchi di questo tipo.
Chiedevo aiuto ai medici ma mi rispondevano: “Mi dispiace, lei la vedrà il primario, purtroppo lei deve aspettare, noi siamo obiettori”. E nei loro sguardi c’era una condanna senza appello.
L'unico vero aspetto della 194 da considerare desueto e su cui porre mano: il persistere di una ormai immotivata disposizione relativa alla cosiddetta obiezione di coscienza, che in troppi ospedali e per troppe pazienti rende disperantemente complicato il poter usufruire della IVG, giungendo così a rendere inapplicabile la legge stessa.
Se poteva avere un senso all'atto del varo della legge, oggi tale misura non ha più motivo di esistere. Chi intende praticare l'Ostetricia deve sapere che il suo lavoro prevede anche le IVG. Se ha da obiettare, nessuno lo costringe a fare il ginecologo ospedaliero.
Sono reduce da un aborto terapeutico alla 14° settimana per diagnosi di trisomia 21 libera ed omogenea (esame diagnostico: villocentesi). Era la mia terza gravidanza, ho due bambine di sei e due anni, un mutuo trentennale alle spalle ed un lavoro, fortunatamente un marito, uomo, compagno che amo con il quale sto condividendo anche questo momento della nostra vita.
Presso la struttura ospedaliera in cui mi sono recata ho incontrato un "primario obiettore" che ha ostacolato il mio ricovero, se ne è lavato le mani e qualcun altro si è preso cura di me (accertamenti clinici - ecografia - e visita psichiatrica).
Oltre alla malattia, alla scelta, all'interruzione di gravidanza c'è stato un altro dolore "quello di qualcuno che ha leso la mia dignità non solo di donna ma di essere umano". Nessuno di noi può permettersi di giudicare che cosa è bene e che cosa è male, anche la "buona coscienza" può creare danni terribili agli altri e alla società. Ho scelto quello che ho ritenuto il male minore per lui, per me e per la nostra famiglia sulla base delle mie possibilità e della mia intelligenza. Se un giudizio ci sarà lasciatelo a Dio.
Non voglio permettere a nessun uomo di esprimere giudizi sulla mia scelta ma voglio e difendo il diritto "di poter scegliere".
Quel primario obiettore ha esercitato violenza e molta su di me. Condivido ciò che ha scritto Filippo riguardo ai limiti della legge 194 ed ho tremato quando, vivendola in prima persona, ho preso atto che pur essendoci la legge è complicato poter usufruire della legge presso le strutture sanitarie.
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