Stavo leggendo l’articolo di Flavia Amabile sulla pillola abortiva comparso ieri sulla Stampa («Test psicologico per la Ru486», 2 agosto 2009, p. 9), quando mi sono imbattuto in un passo piuttosto allarmante:
L’unica strada da percorrere per il governo per rendere più forte l’obbligo a rimanere in ospedale potrebbe essere la minaccia di denunce penali per le donne che dovessero abortire fuori dagli ospedali dopo aver preso la Ru486 in quanto si tratterebbe di un’interruzione di gravidanza illegale, avvenuta senza rispettare l’articolo 8 della legge 194. «Ma in questo caso – replica Viale – significherebbe tornare indietro di quasi quarant’anni, l’aborto diventerebbe di nuovo una pratica illegale».Purtroppo non si capisce dal testo se l’ipotesi cui si fa riferimento sia stata proposta da qualche esponente governativo, oppure se sia solo una congettura della stessa giornalista; non trovo riscontri altrove, ma è del tutto possibile che l’idea venga in mente prima o poi a qualcuno in grado di darle seguito, e vale quindi la pena di discuterne brevemente.
L’art. 19 della legge 194/1978 recita:
Chiunque cagiona l’interruzione volontaria della gravidanza senza l’osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 o 8, è punito con la reclusione sino a tre anni. La donna è punita con la multa fino a lire centomila.L’art. 8, a sua volta, elenca in quali strutture sanitarie è consentito praticare l’interruzione della gravidanza a «un medico del servizio ostetrico-ginecologico». Come abbiamo già detto qui su Bioetica, nessuna persona dotata di un minimo di onestà mentale potrebbe ravvisare nell’espulsione dell’embrione avvenuta fuori dalle pareti ospedaliere a causa dell’assunzione della pillola abortiva una violazione dello spirito o finanche della lettera della 194; ma l’onestà mentale non è esattamente la dote in cambio della quale certi personaggi hanno assunto responsabilità di governo.
Cosa succederebbe dunque se prevalesse questa interpretazione? Le conseguenze sembrerebbero analoghe a quelle della prima versione del decreto sicurezza, che obbligava medici e infermieri a denunciare i clandestini che avessero fatto ricorso a cure mediche: il sanitario, in quanto pubblico ufficiale oppure incaricato di pubblico servizio, sarebbe verosimilmente obbligato a denunciare la donna all’autorità giudiziaria, a norma degli artt. 361 e 362 del Codice Penale (non parrebbe valere l’esimente del secondo commma dell’art. 365 C.P., che si applica ai delitti e non ai reati puniti solo con una contravvenzione). Suppongo che a loro volta le autorità giudiziarie e di pubblica sicurezza dovrebbero accertarsi se il «reato» si sia già compiuto, e riaccompagnare in caso negativo la colpevole in ospedale, dove rimarrebbe piantonata fino al compimento del processo abortivo...
Questa mostruosità verrebbe perpetrata presumibilmente in nome della salute della donna (ufficialmente è questo il bene che secondo gli avversari della RU-486 sarebbe messo in pericolo dalla «violazione» dell’art. 8 della legge 194). Un magistrato coscienzioso non potrebbe non notare la flagrante contraddizione con l’art. 32 della Costituzione, e decreterebbe inevitabilmente che il fatto non costituisce reato. Da quel momento in poi, gli eventi acquisterebbero senza dubbio un inconfondibile aspetto di déjà vu...
In questioni del genere non possiamo certo sperare che vinca il buon senso; speriamo almeno, allora, che vinca il desiderio di evitarsi grane.
8 commenti:
Eppure forse basterebbe studiare il vocabolario: voce del verbo cagionare. Inoltre, senza invocare la Costituzione, per ipotizzare il reato caso per caso si dovrebbe prima identificare scientificamente chi abbia cagionato l'interruzione e che non sia anche "un medico del servizio ostetrico-ginecologico".
Paolo, mi par di capire che il problema sarebbe dove ha luogo l'IVG cagionata dal medico, e quindi la mancata osservanza delle modalità prescritte dall'art. 8 della legge. Il quale recita: "L'interruzione della gravidanza è praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale generale tra quelli indicati nell'articolo 20... " etc.
Una procedura che viene avviata in un ospedale, e termina poi in un'abitazione privata, dove è stata "praticata"?
Magar, questo lo avevo capito. Ma per esserci un reato deve pur esserci un colpevole. Se il medico somministra la pillola e l'aborto definitvo avviene in casa successivamente, chi sarà ad essere incriminato? Quale sarebbe la notizia di reato ipotizzata? Una linea guida può dire ciò che vuole, ma poi per restringere la libertà individuale un giudice deve pur emettere una qualche ordinanza, dietro la quale ravvisare almeno un'ipotesi di reato. Sto dicendo, forse sbaglio, che una cosa del genere nemmeno ci arriverebbe in Cassazione: dubito che ci siano molti magistrati anche ordinari così stolti (a meno forse che un procuratore non avalasse che un qualche reparto d'assalto speciale decidesse di irromppere a casa di qualcuna).
Ma se una donna va in ospedale per abortire con la RU486, poi dopo non può essere trattenuta contro la sua volontà, giusto? Quindi l'eventuale obbligo per la donna di rimanere fino all'espulsione dell'embrione mi sembra una stupidaggine, inapplicabile. Sbaglio?
Magar e Paolo: in un post precedente avevo proposto il paragone con un intervento di radioterapia. Se un operatore autorizzato in un centro abilitato mette il paziente sotto l'emettitore del fascio di radiazioni, diremmo che ha praticato l'intervento, no?, anche se le conseguenze - remissione del tumore - si verificano altrove (per esempio tre giorni dopo a casa del paziente).
DF1989: una donna non può essere trattenuta, è vero, a meno che il governo non stabilisca una norma apposita. La norma sarebbe incostituzionale, ma nel frattempo dovrebbe essere applicata. Ci ricordiamo tutti di quello che stava per succedere con Eluana, no?
Non voglio fare il Di Pietro della situazione, ma un decreto così palesemente incostituzionale non credo possa essere firmato dal Presidente della Repubblica: stando alla Costituzione e agli orientamenti del nostro ordinamento, violerebbe chiaramente "i limiti imposti dal rispetto della persona umana", dal momento che i trattamenti obbligatori esistono solo laddove vi siano pericoli per terzi o per la collettività. Inoltre non esistono i requisiti di necessità ed urgenza, essendoci già una legge che regola l'aborto. Ovviamente, tutto ciò non implica che Roccella non faccia il decreto...
Simone: e perché un decreto? Potrebbero ricorrere a una leggina, o addirittura a un atto amministrativo, come già nel caso di Eluana. Questa è gente che non va tanto per il sottile...
Eh, hai ragione, non vanno tanto per il sottile...non credo si presentino con la leggina, perché dovrebbero affrontare il dibattito parlamentare, che allungherebbe i tempi. L'atto amministrativo è una soluzione possibile: ovviamente il primo intervento del Tar lo cancellerebbe, anche se, come dici giustamente tu, nel frattempo produrrebbe i suoi danni. Roccella, però, mi sembra abbia parlato più volte di linee guida e, ragionandoci, visti i suoi apprezzamenti espressi per quelle della Lombardia (a loro volta poi annullate), potrebbe permetterle di affrontare alcuni temi rimasti in gola ai cattolici. Come il famoso limite delle 23 settimane e, a ruota, la rianimazione dei prematuri estremi.
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