Considerazioni estremamente condivisibili (e molto eloquenti) in margine al caso di Rom Houben, l’uomo belga vittima di un incidente 23 anni fa e rimasto da allora paralizzato e incapace di comunicare con il mondo esterno (Ann Neumann, «Why The Case of Rom Houben Resonates», Otherspoon, 5 dicembre 2009):
Ieri ho ricordato al mio rappresentante fiduciario per le decisioni sui trattamenti sanitari il luogo in cui conservo le mie direttive anticipate. Prego – sì, lo faccio anch’io – che se dovessi rimanere vittima di un incidente d’auto, come lo è stato Houben tanti anni fa, io possa essere sottratta ad ogni sostegno vitale artificiale. Non mantenuta in vita per essere accudita dalla mia famiglia e dai miei amici, non rinchiusa artificialmente in un corpo deforme, in isolamento per 23 anni, non catechizzata dai medici o dalla Chiesa o dallo Stato sul modo in cui dovrei vivere.
Questa non è una dimostrazione dei miei «pregiudizi sulla qualità della vita», non è depressione o odio di sé, non è discriminazione nei confronti di Houben o di altri membri disabili della società, non è adesione alla «cultura della morte», o negazione dell’onnipotenza divina, o compiacenza per l’allontanamento della medicina dal modello ippocratico (una colossale sciocchezza); non è paura di essere un peso o paura che un’infermiera mi pulisca il culo, non è nulla di ciò che quelli che lavorano per imporre la propria virtuosa pietà sui malati chiamano «disprezzo della vita». È un mio diritto morale. E non amo per questo di meno la vita, ogni vita.
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