Mentre si avvicina il giudizio della Consulta sulla costituzionalità degli articoli del Codice Civile che impediscono il matrimonio fra persone dello stesso sesso, si moltiplicano gli interventi dei giuristi sul tema, come questo di Roberto Bin, «Per una lettura non svalutativa dell’art. 29» (Forum di Quaderni Costituzionali, 8 marzo 2010):
il divieto (non esplicito) di coniugarsi imposto alle coppie omosessuali incappa […] in uno dei divieti di discriminazione espressi dalla Costituzione e crea una tensione assai forte tra l’art. 29.1 e l’art. 3.1: il primo non si può interpretare senza sciogliere la difficile contraddizione con il secondo.Da leggere, sullo stesso forum, anche «L’altra faccia dell’eguaglianza (e dell’amore)», di Andrea Pugiotto.
Proprio l’argomento “originalista” – i costituenti certo non pensavano, scrivendo la parola ‘matrimonio’, all’ipotesi che i coniugi potessero essere anche persone dello stesso sesso – si rivolge contro il superamento di questa contraddizione: siccome i costituenti neppure immaginavano che un giorno coppie omosessuali avrebbero avanzato la pretesa che il diritto riconosca in qualche modo la loro relazione, non si può neppure sostenere che l’art. 29.1 Cost. sia stato scritto proprio per impedire che le coppie omosessuali forzino il divieto di discriminare in base al sesso sino al punto di pretendere di contrarre matrimonio allo stesso modo in cui lo contraggono le coppie eterosessuali.
Nella misura in cui i diritti degli omosessuali a non subire discriminazioni che ne degradino la dignità umana o impediscano il pieno sviluppo della loro personalità acquistano peso nell’interpretazione costituzionale (per l’evoluzione dei costumi, per la maturazione della giurisprudenza costituzionale, per la pressione delle organizzazioni sovranazionali o per la “circolazione dei modelli giuridici”), è evidente che l’art. 29.1 Cost. diviene un argine sempre meno robusto. Anzi, per un verso, l’enfasi posta sulla “naturalità” della famiglia sembra suffragare una lettura della disposizione costituzionale – fatta propria dalle ordinanze di remissione – che pone il diritto a formarsi una famiglia tra i fattori determinanti dello sviluppo della personalità degli esseri umani. Il problema è allora se il riconoscimento di questi diritti possa imporsi per via giudiziaria, o se sia indispensabile l’intervento del legislatore.
Questo quesito è parte di un problema più generale, che investe tutti i c.d. nuovi diritti. È chiaro che spetta al legislatore percepire, interpretare e tradurre in nuove regole giuridiche i mutamenti che intervengono nella società: questo è un potere – dovere degli organi rappresentativi. Ma non è meno chiaro che, se i nuovi diritti possono vantare un fondamento costituzionale, il loro riconoscimento non può dipendere esclusivamente dalla volontà del legislatore: in caso di inerzia di questi, alla fine si imporranno per via giudiziaria. Benché il legislatore italiano mostri spesso di considerare il riconoscimento giudiziario dei diritti un vulnus alle sue prerogative, ciò dipende esclusivamente dalla sua scarsa consapevolezza di quali siano i limiti “negativi” e “positivi” che la legislazione ordinaria deve incontrare in un sistema costituzionale e del ruolo che la Costituzione assegna ai giudici e alla Corte costituzionale nel far valere tali limiti. La difesa dei diritti costituzionali delle persone deve prevalere sulla gelosa inerzia del legislatore.
1 commento:
A scrivere decreti interpretativi, però, sono velocissimi
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