mercoledì 5 maggio 2010

Due paradossi per una sentenza /2

Dopo aver esaminato nel primo post di questa serie le contraddizioni relative alle unioni civili della sentenza 138/2010, con cui la Corte Costituzionale ha rifiutato di dichiarare incostituzionali le norme che limitano il matrimonio ai soli eterosessuali, passiamo adesso al secondo paradosso contenuto nella 138.

Pierre Menard, autore della Costituzione
Dopo aver stabilito che le unioni fra persone omosessuali costituiscono una delle formazioni sociali di cui parla l’art. 2 della Costituzione, la Corte è passata a spiegare perché a suo giudizio il Codice Civile non viola l’art. 29 della Costituzione (§. 9):

La questione sollevata con riferimento ai parametri individuati negli artt. 3 e 29 Cost. non è fondata.
Occorre prendere le mosse, per ragioni di ordine logico, da quest’ultima disposizione. Essa stabilisce, nel primo comma, che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», e nel secondo comma aggiunge che «Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare».
La norma, che ha dato luogo ad un vivace confronto dottrinale tuttora aperto, pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita “società naturale” (con tale espressione, come si desume dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente, si volle sottolineare che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere).
Ciò posto, è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata.
Infatti, come risulta dai citati lavori preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale.
Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa.
Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto.
Non è casuale, del resto, che la Carta costituzionale, dopo aver trattato del matrimonio, abbia ritenuto necessario occuparsi della tutela dei figli (art. 30), assicurando parità di trattamento anche a quelli nati fuori dal matrimonio, sia pur compatibilmente con i membri della famiglia legittima. La giusta e doverosa tutela, garantita ai figli naturali, nulla toglie al rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale.
In questo quadro, con riferimento all’art. 3 Cost., la censurata normativa del codice civile che, per quanto sopra detto, contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima sul piano costituzionale. Ciò sia perché essa trova fondamento nel citato art. 29 Cost., sia perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio.
Un aspetto importante di questa parte della sentenza riguarda la sua incidenza su una possibile futura legge che estendesse il matrimonio alle coppie di persone dello stesso sesso. Com’è noto, la Corte si è pronunciata sulla costituzionalità delle norme che limitano l’istituto matrimoniale agli eterosessuali, e non quindi direttamente sulla costituzionalità del matrimonio omosessuale; ma nel momento in cui afferma che i Padri Costituenti hanno inteso limitare il matrimonio alle coppie formate da un uomo e da una donna, è difficile vedere in che modo potrebbe in avvenire ammettere la costituzionalità del matrimonio omosessuale, qualora fosse chiamata a pronunciarsi in proposito.
La pensa così Andrea Pugiotto, che dichiara all’Unità (Delia Vaccarello, «“Così la Consulta conferma l’ipocrisia”», 19 aprile, p. 37):
Dato il suo «nucleo», una legge che introducesse le nozze omosessuali sarebbe incostituzionale. In Italia non si potrebbe fare ciò che è stato possibile, ad esempio, in Spagna e in Portogallo e che né la Convenzione europea dei diritti Umani (Cedu) né la Carta di Nizza vietano.
L’avvocato Luigi D’Angelo ribadisce il concetto – non senza, par di capire, una certa soddisfazione – in un contributo per il Forum di Quaderni CostituzionaliLa Consulta al legislatore: questo matrimonio “nun s’ha da fare», 16 aprile 2010):
sembrerebbe potersi affermare alla luce della decisione de qua, in particolare, che mentre il legislatore non incontrerebbe limiti nel disciplinare detta unione come destinataria di un espresso riconoscimento giuridico (coppia di fatto, stabile convivenza, ecc.), lo stesso rimarrebbe tuttavia impossibilitato nel sancire l’ammissibilità del matrimonio tra omosessuali, pena l’incostituzionalità della relativa disciplina. […]
Se dunque è lo stesso dato costituzionale ad imporre una simile conclusione ovvero quella della diversità di sesso tra i coniugi – non potendo peraltro “il precetto costituzionale … essere superato per via ermeneutica” –, non si vede come un intervento del legislatore possa mutare “orientamento” al proposito.
Alle medesime conclusioni dovrebbe vieppiù pervenirsi se si dovesse ritenere che l’art. 29, comma 2, Cost. costituisce norma attuativa dell’art. 3 Cost. – nella parte in cui vieta discriminazioni basate sul sesso o di genere – come sembra peraltro potersi desumere altresì dalle parole della Consulta che inquadra proprio nell’ambito di un rapporto di genere il principio di parità di trattamento ex art. 29, comma 2.
Nella stessa sede, ma più sinteticamente, Marco Croce nota che «la lettura che è stata data dell’art. 29 C. esclude la possibilità di estensione dell’istituto matrimoniale» («Diritti fondamentali programmatici, limiti all’interpretazione evolutiva e finalità procreativa del matrimonio: dalla Corte un deciso stop al matrimonio omosessuale», 23 aprile 2010).
L’unico ottimista, ancora una volta, è Luca Simonetti («Che cosa ha VERAMENTE detto la sentenza n. 138/2010 della Corte Costituzionale?», Karl Kraus, 22 aprile):
Notate quindi che la Corte NON sta dicendo […] che un eventuale matrimonio omosessuale sarebbe incostituzionale (ammesso e non concesso che un’affermazione ipotetica del genere potesse avere un valore giuridico qualunque)
(All’inciso di Simonetti si può rispondere dicendo che il punto non è il valore giuridico attuale della sentenza, ma il principio affermato, che domani – a giurisprudenza immutata, si intende – potrebbe verosimilmente essere applicato di nuovo.)
Anche ammesso che la sentenza abbia queste conseguenze negative su ogni progetto futuro di estensione del matrimonio agli omosessuali, si potrebbe comunque osservare che al momento parlare di norme tanto avanzate è del tutto utopistico nel nostro paese. Ma, al di là degli effetti giuridici più o meno futuribili, il pronunciamento dei giudici costituzionali ha anche effetti culturali e sociali immediati, e vale dunque la pena esaminare quanto sia fondato.

La Consulta si è basata, come abbiamo visto, non sulla lettera della Costituzione ma sull’intenzione di chi l’ha scritta. Questo modo di procedere ha sollevato gravi perplessità; ecco cosa scrive Luca Simonetti:
Per quanto sia un testo intellettualmente e culturalmente di pregio eccelso, e per i suoi tempi estremamente avanzato, la Costituzione non può e non deve essere interpretata solo con riferimento all’intenzione del costituente, pena la sua irrimediabile cristallizzazione: mentre il pregio di una Costituzione valida (cioè la sua duratura attualità) deve essere accompagnato dalla flessibilità con cui il suo testo letterale può essere ‘adattato’ al mutare delle circostanze e dei costumi. La stessa Consulta questo processo adattativo l’ha adoperato innumerevoli volte senza grandi difficoltà. […] Se un fenomeno, naturale, economico o sociale che sia, pur sconosciuto ai costituenti e emerso solo recentemente, è funzionalmente simile ad istituti già presi esplicitamente in considerazione nel testo costituzionale, allora può benissimo essere meritevole della stessa tutela degli altri istituti costituzionalmente tutelati, anche se il legislatore dell’epoca non ci aveva mai pensato o non si sarebbe mai nemmeno lontanamente immaginato di doverci pensare. D’altronde non è molto coerente, a poche righe di distanza, dire prima che le unioni omosessuali rientrano tra le formazioni sociali dell’art 2 Cost. e poi che la famiglia dell’art. 29 Cost. non si può riferire alle unioni omosessuali: il test “letterale” usato per l’art. 29 Cost. avrebbe portato a risultati identici anche per l’art. 2!
Per Marco Croce, con il criterio adottato dalla Consulta
l’interpretazione evolutiva si risolverebbe nell’original intent e tutti o quasi i diritti di ‘II e III generazione’ riconosciuti dal giudice delle leggi nella sua più che cinquantennale giurisprudenza non avrebbero dunque cittadinanza alcuna nell’ordinamento costituzionale.
Da parte mia, mi limiterò a evidenziare quello che mi appare il secondo paradosso della sentenza. Supponiamo che in futuro il Parlamento, per superare l’obiezione della Corte, sia costretto a modificare l’art. 29 della Costituzione; ebbene, essendo l’intenzione del legislatore mutata, il Parlamento potrebbe riproporre un testo del tutto identico a quello originario, visto che nella lettera dell’art. 29 nulla contrasta col matrimonio fra omosessuali, e anzi il riferimento ai «coniugi» anziché a «l’uomo e la donna» sembra quasi un evidente esempio di linguaggio inclusivo!
Si avrebbe così una situazione simile a quella immaginata da Borges nel racconto «Pierre Menard, autore del Chisciotte», in cui uno scrittore contemporaneo riscrive alla lettera alcuni capitoli del Don Chisciotte, ma con un’intenzione diversa da quella dell’autore originale (Finzioni, trad. di Franco Lucentini):
Il raffronto tra la pagina di Cervantes e quella di Menard è senz’altro rivelatore. Il primo, per esempio, scrisse (Don Chisciotte, parte I, capitolo IX):
…la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire.
Scritta nel secolo XVII, scritta dall’ingenio lego Cervantes, quest’enumerazione è un mero elogio retorico della storia. Menard, per contro, scrive:
…la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire.
La storia, madre della verità; l’idea è meravigliosa. Menard, contemporaneo di William James, non vede nella storia l’indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica, per lui, non è ciò che avvenne, ma ciò che noi giudichiamo che avvenne. Le clausole finali – esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire – sono sfacciatamente pragmatiche.
Ma forse il paradosso è solo apparente, e potrebbe essere superato per mezzo di una legge costituzionale che proponga una sorta di interpretazione autentica della Carta.

Per la verità, la Consulta sembra aver proposto, seppur debolmente, anche due argomenti di natura letterale. Nel primo sostiene che «il secondo comma della disposizione […], affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale». Ma ovviamente è facile trovare situazioni in cui il coniuge debole sia invece l’uomo, e quindi il comma non ha implicazioni strette sul sesso dei coniugi. Il secondo argomento è il seguente:
Non è casuale, del resto, che la Carta costituzionale, dopo aver trattato del matrimonio, abbia ritenuto necessario occuparsi della tutela dei figli (art. 30), assicurando parità di trattamento anche a quelli nati fuori dal matrimonio, sia pur compatibilmente con i membri della famiglia legittima. La giusta e doverosa tutela, garantita ai figli naturali, nulla toglie al rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale.
Quello della finalità procreativa del matrimonio è il frusto luogo comune della più sciocca propaganda integralista, che si può confutare senza possibilità di risposta con il semplice richiamo ai matrimoni – in tutto e per tutto legittimi e legali – in cui la donna sia più che cinquantenne, e quindi anche potenzialmente incapace di generare un figlio. Trovare una simile, risibile insensatezza in una sentenza della Corte Costituzionale è ciò che più genera sgomento nell’occasione odierna.

(2. Fine.)

7 commenti:

Luca Simonetti ha detto...

Molto interessante (anche se mi sa che siamo in due a pensarla così :))
Continuo però a non essere d'accordo: l'unico modo per sostenere che la sentenza impedisca future leggi che estendano il matrimonio anche alle coppie omosessuali sarebbe quello di utilizzare l'argomento dell'intenzione del legislatore, che però non regge ed è contraddetto da chili di altre sentenze della stessa Corte. In realtà, e a ben vedere, è lo stesso dettato dell'art. 29, I co., Cost. che - col suo rinvio alla 'naturalità' pregiuridica della societas familiare - che preclude ogni tentativo di 'fissare' una volta per tutte la struttura della famiglia.
Ripeto, a me sembra una preoccupazione del tutto infondata. Resta comunque il rammarico per quel richiamo all'intenzione del legislatore che è veramente una cosa senza senso.

Giuseppe Regalzi ha detto...

"l'unico modo per sostenere che la sentenza impedisca future leggi che estendano il matrimonio anche alle coppie omosessuali sarebbe quello di utilizzare l'argomento dell'intenzione del legislatore"

Certo; però è la Corte stessa ad aver usato questo argomento nell'occasione in esame, e se non si vorrà contraddire platealmente lo dovrà usare di nuovo se la questione si riproporrà.

"è lo stesso dettato dell'art. 29, I co., Cost. che - col suo rinvio alla 'naturalità' pregiuridica della societas familiare - che preclude ogni tentativo di 'fissare' una volta per tutte la struttura della famiglia"

Interessante: mi sa che me lo rivendo! ;-)

Luca Simonetti ha detto...

OK, però elimina almeno il secondo 'che'
:)

Paolo C ha detto...

Personalmente non posso aggiungere nulla a un posto cosi' tecnico. Posso solo dire che mi pare convincente.
La solo azzeccatissima citazione del Pierre Menard vale una standing ovation ^__^

Anonimo ha detto...

Insomma sono riusciti a dare una risposta retriva a un problema attuale. Tuttavia se il matrimonio omosessuale sarà incostituzionale o no, solo una prova reale potrà dirlo; converrà aspettare una decina d'anni, sperando che gli attuali componenti della consulta campino e possibilmente siano svecchiati, per tentare a promuovere una leggere in tal senso, dopo che ovviamente già mezza Europa l'avrà adottata, per vedere se non cambieranno l'interpretazione.

paolo de gregorio ha detto...

Qualcuno si lamentava che i post difficili facciano scappare i commentatori. Condenso tutto qui in un unico commento nel tentativo di mostrare sufficiente coraggio.

Mi unisco all'elogio per il paradosso ideato da Regalzi: il Parlamento che riscrive lo stesso articolo identico per includere il matrimonio omosessuale è un'uscita fantastica. Anche se, lo spiegherò, esco dal coro e non sono convinto la Corte volesse dire questo, pur restando il fatto che l'accusa di ambiguità sta tutta in piedi anche per me.

Tremendamente squalificante del collegio, condivido in pieno, il riferimento infondato alla potenzialità di avere figli. Qui, poi, usando lo stesso metro usato altrove dai medesimi giudici, chiari erano i fatti ai costituenti: o si vuol per caso sostenere che, oltre alla realtà delle convivenze omosessuali, essi non sapessero nemmeno che le coppie eterosessuali potessero fare figli? E allora perché non scrissero questa specifica "qualità" (potenzialità di filiazione) per motivare la valenza "pregiuridica" dell'istituto matrimoniale?

Sottoscrivo il lungo commento si Simonetti su lettera e intenzione: cavallo di battaglia di molti giuristi e giudici costituzionali in giro per il mondo.

Sono più dalla parte di Simonetti anche sul versante ottimismo. Ecco come nel mio piccolo traduco tutta questa confusione proposta dalla Corte: l'articolo 29 non contraddirebbe una legge ordinaria che prevedesse il matrimonio omosessuale, ma questo non vuole dire che esso sia univocamente vincolante, per la sua lettera, a che un tale riconoscimento vada accordato con la forza della giurisdizione. Il richiamo alle legge del '42 crea certamente grande disordine, ma credo che il giudice tentasse (disperatamente?) di spiegare il senso positivo in cui il matrimonio tra eterosessuali, già da solo, garantisca a suo avviso il rispetto della lettera della Costituzione (come a dire: se fossero stati un uomo a una donna a ricorrere in un ipotetico Stato italiano che avesse abolito il matrimonio, allora il giudice avrebbe guardato all'articolo di legge del '42, per essere sicuro di cosa intendessero dire i costituenti con la parola "coniuge" e avrebbe immediatamente ordinato la rimozione del divieto anticostituzionale per la coppia).

Passando invece al primo commento, dei giorni scorsi: pur stante la confusione, ritengo che quando si dica che io sono chiamato a scegliere "a mia discrezione" le "modalità" di esecuzione di un lavoro è già del tutto implicito il fatto che si ritenga assodato che eseguire quel lavoro è un mio compito non derogabile. Vero è che sarebbe stato più giusto e coraggioso dirlo molto esplicitamente (cosa che forse sarebbe stata se fosse stato l'articolo 3 l'unico chiamato in causa, e non un appello al 29).

paolo de gregorio ha detto...

Ma sai che alla quarta o quinta rilettura del testo, quando fa riferimento in particolare (ma anche prima e dopo) alla rilettura creativa invece che interpretativa, mi insospettisco sempre di più di non essere d'accordo col mio precedente commento?