Esiste una contraddizione nell’opporsi al disegno di legge attualmente all’esame del Parlamento sulle direttive di fine vita e nel lodare invece contemporaneamente la sentenza con cui la Consulta ha dichiarato in parte incostituzionale la legge 40 sulla procreazione assistita? È quanto sostiene Assuntina Morresi in un articolo apparso oggi su Avvenire («Ma il medico decisivo all’alba può diventare irrilevante al tramonto?», 10 maggio 2009, p. 2). Ecco la sua argomentazione:
C’è un punto però in cui siamo d’accordo con la Consulta, come ha notato ieri il senatore Quagliariello, ed è che «la regola di fondo deve essere l’autonomia e la responsabilità del medico» per le sue scelte professionali. Ma allora, cosa ne facciamo di tutte le proteste sulla legge Calabrò sul fine vita? Qualcuno dovrà pur spiegare perché il medico debba avere l’ultima parola per decidere in scienza e coscienza qual è il numero di embrioni «strettamente necessario» da creare in provetta, e invece dovrebbe attenersi obbligatoriamente alla volontà del paziente per le dichiarazioni anticipate di trattamento: curiosamente, gran parte di chi condivide la sentenza della Consulta, e quindi la centralità del medico nelle decisioni sulla fecondazione in vitro, sostiene invece che questa non sia più valida nel fine vita. D’altra parte è anche evidente che nessun medico accetterebbe che fosse la coppia infertile a decidere il numero di embrioni da creare in laboratorio e trasferire in utero: dare il proprio consenso a cure e terapie non può significare imporre al medico di effettuare trattamenti sanitari inappropriati o addirittura dannosi.A quest’ultima domanda la Morresi cerca di dare una risposta nel seguito dell’articolo, chiamando in causa un po’ confusamente il «desiderio che diventa esigenza, e quindi diritto esigibile». Ma la risposta corretta è un’altra; e la contraddizione che la Morresi pretende di evidenziare semplicemente non esiste.
Ma questa semplice evidenza non sembra valere sempre. Perché gli stessi che per la procreazione assistita si affidano fiduciosamente al medico – per procedure estremamente invasive – potrebbero farsi improvvisamente diffidenti se si parla del fine vita, e il parere dell’esperto diventa secondario?
Quando si chiede che il medico si attenga «obbligatoriamente alla volontà del paziente per le dichiarazioni anticipate di trattamento» non gli si sta affatto imponendo «di effettuare trattamenti sanitari» di sorta. Quello che gli si chiede, eventualmente, è di non effettuare trattamenti sanitari. Io non posso costringere il medico con il mio testamento biologico a effettuarmi mentre sto in coma un salasso, o la cura Di Bella, o a somministrarmi pilloline omeopatiche (e neppure un antibiotico, se non è convinto che sia necessario nel mio caso). Ma neppure lui, simmetricamente, può costringermi a una rianimazione col defibrillatore, o a tenermi attaccato a un tubo per vent’anni, neppure se lo ritiene necessario per la mia guarigione. Quello di cui si chiede il rispetto, insomma, è un diritto negativo: il diritto a essere lasciati in pace, a non subire interferenze non volute. Non è un diritto positivo, che è invece il diritto a esigere qualcosa da un altro (fatti salvi, ovviamente, gli obblighi professionali e contrattuali che quello ha assunto).
È importante notare che, in generale, questo non significa affatto far diventare secondario «il parere dell’esperto». Quando si chiede a un medico di astenersi dal praticarci un qualche trattamento sanitario non è perché si vogliono mettere in dubbio le sue competenze tecniche (anche se naturalmente può succedere anche questo). Il sapere medico riguarda tipicamente i mezzi: dato il fine, il medico decide degli strumenti più adeguati per raggiungerlo. Ma decidere quale sia quel fine – vivere con una gamba di meno o morire in pace con tutt’e due; sopravvivere in stato vegetativo per diciassette anni o spegnersi senza soffrire in due giorni – non spetta al medico; spetta all’unica persona veramente competente su che cosa sia bene per me: spetta a me stesso.
È diversa la situazione, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, per quanto riguarda la procreazione assistita? Non mi pare proprio. Se il medico decide che la cosa migliore per una donna è di ricevere l’impianto simultaneo di quattro (o tre, o cinque, o due) ovociti fecondati, la donna – che magari per ragioni religiose non vuole mettere a repentaglio più embrioni dello stretto necessario – è per questo obbligata ad accettare l’impianto? No, affatto. Se la donna chiede al medico di impiantarle simultaneamente cinque (o due, o quattro, o tre) embrioni, il medico è tenuto ad ubbidirle? No, se ritiene per fondati motivi medici che ne basti uno.
In realtà l’incoerenza è tutta degli integralisti. Se non si accetta che l’impianto degli embrioni sia coercibile su una donna cosciente, perché allora si pretende che sia coercibile una qualsiasi terapia su una donna in stato vegetativo? Il disegno di legge Calabrò, impedendo che le dichiarazioni anticipate di trattamento siano obbligatorie per il medico, porta esattamente a questo. A volte si risponde, più o meno esplicitamente, che costringere un paziente cosciente implica un atto di violenza fisica, mentre questo non accadrebbe con un paziente che cosciente non è. Come dire che lo stupro su una donna in coma è meno grave dello stupro su una donna vigile... O si ricorre a qualche sofisma sull’attualità della volontà del paziente: come dire che il mancato consenso a una data operazione diventa carta straccia se il paziente che l’aveva espresso due giorni prima finisce per un’altra ragione in anestesia...
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