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venerdì 10 ottobre 2014

Brittany Maynard e il diritto di morire con dignità



“Io non voglio morire. Ma sto morendo. E voglio farlo alle mie condizioni. Non direi a nessun altro che dovrebbe scegliere di morire con dignità. La mia domanda è: chi ha il diritto di dirmi che non merito di fare una scelta del genere? Che merito di soffrire per settimane o mesi dolori tremendi, sia fisici sia mentali? Perché qualcun altro dovrebbe avere il diritto di prendere una decisione del genere per me?” (Brittany Maynard, My right to death with dignity at 29, Brittany Maynard, 9 ottobre 2014, CNN).

A gennaio 2014, dopo anni di insopportabili mal di testa, Brittany Maynard scopre di avere un tumore al cervello. Ha 29 anni.
Il glioblastoma è il più aggressivo e mortale dei tumori cerebrali, la prognosi è di 6 mesi di vita. Come ricorda il video, in cui Maynard racconta la sua storia e spiega la decisione di morire alle sue condizioni, sono pochissimi i pazienti che sopravvivono oltre i 3 anni nonostante i trattamenti.
“La mia famiglia ha sperato in un miracolo”, racconta.
“Magari la risonanza è sbagliata? Magari hanno sbagliato qualcosa?”, ricorda la madre di Maynard.
La realtà è indifferente però alle speranze e al rifiuto di una diagnosi tanto impietosa.

Maynard decide allora di andare in Oregon, dove dal 1997 è in vigore il Death with Dignity Act.
Le sue condizioni rientrano in quelle previste dalla legge. Il solo fatto di poter decidere quando interrompere la propria vita diventata insopportabile e senza prospettiva di miglioramento è rassicurante (“I could request and receive a prescription from a physician for medication that I could self-ingest to end my dying process if it becomes unbearable”) – è un dato comune in chi è malato in modo irreversibile e la cui prognosi indica sofferenze difficilmente trattabili.
Non è solo il dolore, è anche voler mantenere il proprio confine di dignità, forse anche recuperare – in modo insoddisfacente e parziale – il controllo sulla propria vita.
È un sollievo – dice Maynard – pensare di non dover morire nel modo in cui mi hanno detto che mi farebbe morire il tumore.
Aveva considerato di morire in un hospice, ma anche con le cure palliative avrebbe potuto soffrire, sviluppando una resistenza alla morfina e ritrovandosi a vivere cambiamenti motori, cognitivi, di personalità, nel linguaggio – insomma, un profondo e doloroso stravolgimento di un’esistenza comunque prossima alla fine.
La giovane età e il fatto che il suo corpo sia sano costituisce un ulteriore rischio: “Potrei sopravvivere a lungo anche se il tumore sta mangiando il mio cervello. Soffrire con molta probabilità per settimane in un hospice, forse per mesi. E la mia famiglia dovrebbe assistere a tutto questo. Non voglio questo scenario da incubo per loro”.

Wired, 9 ottobre 2014.

lunedì 9 giugno 2014

Che cosa è l’eutanasia (una volta per tutte)

“Choc” è il termine più ricorrente accanto a “eutanasia”. Cosa ci sia da sconvolgersi non è del tutto chiaro. Può però essere un’occasione per chiarire i termini e i concetti spesso usati con troppa disinvoltura.

Il 4 giugno Il Fatto Quotidiano titolava “Eutanasia, neurologo Gemelli: “I miei pazienti possono scegliere di morire”. I titolisti, si sa, puntano in alto, ma anche nel testo tornano manifestazioni di sorpresa per quanto è lecito e possibile da molti anni e non è eutanasia (propriamente intesa). “A parlare non è un medico svizzero”. “È perfettamente consapevole che le sue parole rischiano di rialzare un putiferio intorno a un tema”. “Ma poi Sabatelli fa un passo in più: poiché nessuno può immaginare cosa significhi vivere con un tubo in gola e una macchina che pompa aria nei polmoni, per quanto un medico si sforzi di descriverne la condizione, “il piano terapeutico deve essere flessibile”.”

Ovviamente la risposta di Mario Sabatelli, neurologo e responsabile del Centro malattie del motoneurone (SLA) del Policlinico Gemelli, non è rivoluzionaria, provocatoria, scioccante o da “medico svizzero”. Sabatelli risponde tenendo conto delle leggi esistenti e della buona pratica medica: “Che quello che è proporzionato oggi, può essere sproporzionato tra sei mesi, quando la malattia sarà drammaticamente avanzata. E allora un paziente ha tutto il diritto di dire: ok, basta. Nessuno dietro a una scrivania può decidere per me, che sono a letto tracheostomizzato.”

L’intervista completa è qui, e chi ha la pazienza di ascoltarla non ci troverà nulla di scioccante (dal minuto 6 Sabatelli risponde alla domanda sul rifiuto alla trachestomia; la sua risposta può valere anche per tutti gli altri trattamenti e uno dei passaggi cruciali è il seguente: “dipende dalle scelte esistenziali […] della persona che decide di vivere in questa maniera; quindi si passa dal piano strettamente medico (efficacia, appropriatezza) a un piano di scelta di valori”). Le parti più importanti sono, poi, quelle sulla SLA, sulle condizioni di vita delle persone affette da una patologia oggi incurabile, sulle carenze “logistiche” e sullo stato della ricerca.

Wired.

mercoledì 19 marzo 2014

Fine vita e testamento biologico, la situazione oggi in Italia

2006: “Raccolgo il suo messaggio di tragica sofferenza con sincera comprensione e solidarietà. Esso può rappresentare un’occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi, di particolare complessità sul piano etico, che richiedono un confronto sensibile e approfondito, qualunque possa essere in definitiva la conclusione approvata dai più”.

2014: “Ritengo che il Parlamento non dovrebbe ignorare il problema delle scelte di fine vita ed eludere ‘un sereno e approfondito confronto di idee’ su questa materia. 
Richiamerò su tale esigenza, anche attraverso la diffusione di questa mia lettera, l’attenzione del Parlamento”.


A scrivere è sempre Giorgio Napolitano. Nel 2006 rispondendo alla lettera di Piergiorgio Welby, ieri alla richiesta dell’Associazione Luca Coscioni. In questi 8 anni il confronto non è stato sereno, né approfondito (sensibile è uno strano aggettivo per un confronto, ma prendendolo alla larga possiamo dire che no, non è stato nemmeno sensibile, soprattutto alla razionalità del confronto stesso).

Prima di “confrontarci” dobbiamo ricordare qual è il panorama normativo delineato dalla Costituzione e dalle leggi già esistenti. I cardini sono costituiti dalla nostra autonomia e dalla possibilità di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario. Il paternalismo medico (“ti obbligo per il tuo bene”) è stato sostituito – seppure non ancora del tutto e non ancora perfettamente – dall’autodeterminazione (“ti dico qual è il tuo quadro clinico e i possibili scenari, tu decidi cosa fare”). E non potrebbe essere altrimenti: chi altri dovrebbe decidere della mia esistenza?

Il nostro consenso è necessario e nessun medico può decidere al posto nostro. Ci sono alcune eccezioni, giustificabili nel caso di assenza o significativa riduzione della capacità di intendere e di volere oppure di pericolosità verso gli altri. Sono i casi previsti dal trattamento sanitario obbligatorio (TSO): non essere in grado di decidere o essere affetti da una malattia infettiva. Anche i casi di urgenza costituiscono un’eccezione: se arrivo incosciente al pronto soccorso, i medici mi soccorrono.

Eliminate le situazioni eccezionali, se sono cosciente e non costituisco un pericolo per gli altri, posso decidere se e come curarmi senza che vi sia la possibilità di impedirmelo.

Per illustrare il punto spesso si fa l’esempio del Testimone di Geova che ha più di 18 anni e che rifiuta le trasfusioni: molti di noi possono considerare questo rifiuto come dissennato ma il nostro parere – per fortuna – non è sufficiente per imporre a un adulto qualcosa che secondo noi è giusto (che poi non esiste, sarà al più giusto per noi). È una pessima abitudine trasformare il legittimo “io farei così” in “tutti devono fare così”.

Ci sono molti altri esempi: come quello della donna che non ha voluto farsi amputare pur sapendo che sarebbe morta. Lo stesso Welby non ha chiesto altro che interrompere un macchinario che lo teneva in vita. Un macchinario al cui uso liberamente aveva acconsentito e al quale, altrettanto liberamente, avrebbe dovuto poter rinunciare. Così come possiamo decidere di cominciare una chemioterapia e decidere di smettere – anche se non facendola moriremo con un’altissima probabilità.

mercoledì 26 febbraio 2014

La vita secondo il ministro Madia (Pd): “La dà e la toglie Dio, noi non abbiamo diritto di farlo”

Era il 2008 quando Marianna Madia fu intervistata da Piero Vietti su aborto, eutanasia e famiglia. Madia era allora capolista PD e rilasciò alcune dichiarazioni che in questi giorni, com’era facilmente prevedibile, stanno tornando in superficie.

“L’aborto è il fallimento della politica […] un fallimento etico, economico, sociale e culturale”. Madia è per la libera scelta della donna, “ma sono certa che se si offrisse loro il giusto sostegno, le donne sceglierebbero tutte per la vita”. Dice che ogni vita umana che non nasce è un fallimento, per questo la politica deve fare in modo che la scelta per la vita sia sempre possibile.”

Un fallimento totale, dunque. In nome di tutte le donne al mondo che hanno abortito e che abortiranno. Deve essere un peso enorme essere portavoce di così tanti esseri umani con cui non ci si è mai intrattenuti e dei quali si ignora tutto. Si decide, nonostante questo, di metter loro addosso risoluzioni e scelte che sono le proprie. Questa è la radice più primitiva e genuina del paternalismo, quell’istinto primordiale che ci fa sentire non solo al centro dell’universo, ma unità di misura unica e assoluta. “Io farei così” diventa “tutti farebbero così”, e poi “tutti devono fare così”.

Inutile perdere tempo a elencare dati e ricerche sulle motivazioni – eterogenee e irriducibili alla visione compatta che emerge dalle parole di Madia e di molti che la pensano come lei (qui per esempio) – che spingono le donne a interrompere una gravidanza. Perché sprecare tempo quando si è certi di come stiano le cose? È un peccato ignorare perfino quell’ingenuità induttiva di cui dovremmo essere consapevoli più o meno dagli anni del liceo.
Un fallimento che sarebbe evitabile se le donne – meschine – fossero aiutate.

È troppo impopolare dire esplicitamente di essere contro la libera scelta e a favore della coercizione, ma ci sono molti modi per dirlo implicitamente. Uno di questi è ridurre la decisione di interrompere una gravidanza a “impedimenti” esterni. Ovvero, nessuna donna può scegliere di abortire. Nessuna donna abortisce se non per difficoltà economiche, lavorative, familiari. Nessuna donna può decidere che non vuole portare avanti la gravidanza, non vuole un figlio o non ne vuole un altro (lo si ricorda di rado, ma molte donne che abortiscono hanno già uno o più figli).

Continua.

giovedì 20 dicembre 2012

Roccella & Pannella

Eugenia Roccella ha scritto oggi una lettera al Corriere della Sera:

Pannella forse è in pericolo di vita. C’è chi lo prega di smettere lo sciopero della sete, chi accusa i politici di indifferenza, chi invoca alimentazione e idratazione forzate.
Tutti vogliamo che Marco viva, e non per la causa che difende (su cui posso essere d’accordo, ma non è essenziale), non perché lui è un protagonista della nostra storia (se fosse uno sconosciuto non cambierebbe nulla) ma soltanto perché è un uomo, e ogni esistenza umana è unica.
La sua battaglia, però, rivela una contraddizione profonda, un estremo paradosso. I radicali sono i portabandiera dell’assoluta autodeterminazione, fino a decidere della propria morte. Ma se così fosse, perché mai dovremmo preoccuparci per Marco? Pannella è libero, perfettamente consapevole dei rischi che corre; perché dovremmo sentirci coinvolti? Si dirà che il suo non è un desiderio di morte, ma un metodo di lotta. Ma se non ci fosse una cultura condivisa della vita a cui appellarsi, se un uomo che si lascia morire non fosse considerato uno scandalo che sollecita un sentimento collettivo di pietà e insieme di ribellione, Pannella potrebbe spegnersi nell’indifferenza generale. Insomma, se il favor vitae diventa secondario rispetto all’autodeterminazione individuale, ne segue che Pannella fa della sua vita quello che vuole, e il fatto di metterla a repentaglio riguarda solo lui.
Eluana Englaro è morta disidratata perché lo ha stabilito un tribunale. In quel caso ha prevalso il criterio dell’autodeterminazione, benché utilizzato in modo ambiguo, visto che Eluana non era più in grado di esprimere la sua volontà, e non aveva mai lasciato nulla di scritto. Anche Stefano Cucchi è morto di fame e di sete, ma per lui, invece, si è sollevato un unanime coro di giuste proteste. Eppure pare che Stefano rifiutasse acqua e cibo, e i medici accusati di averlo lasciato privo di assistenza si difendono proprio con questo argomento.
Forse dobbiamo ammettere che se distruggiamo il principio del favor vitae mettiamo in crisi il laico sentimento di fratellanza umana su cui si fonda una comunità solidale. Saremo magari più autodeterminati, ma indifferenti l’uno al destino dell’altro.
Ma davvero preoccuparsi per la sorte di Pannella significa automaticamente mettere il favor vitae davanti al principio di autodeterminazione? Vediamo. Pannella sta dicendo: se non viene concessa l’amnistia, allora preferisco morire (qui e nel seguito do per ammesso, per amore di discussione, che Pannella sia sincero; qualcuno non è d’accordo, ma non entro nel merito). Questo vuol dire che Pannella vuole assolutamente morire? Ovviamente no: sembra chiaro che Pannella preferisca vivere piuttosto che morire; ma – per così dire – preferisce ancora di più che ci sia l’amnistia. Supponiamo che questa venga concessa e che, di conseguenza, Pannella continui a vivere: avremmo con ciò attentato alla sua autodeterminazione? Tutto il contrario: avremmo esaudito completamente le sue preferenze – di vedere svuotate le carceri e di continuare a vivere. Ma perché dovremmo sentirci coinvolti? Perché dovremmo preoccuparci «per Marco»? Ci sentiamo coinvolti perché Pannella stesso ci coinvolge: concedete l’amnistia, fate pressione per far concedere l’amnistia, ci dice, o io mi ammazzo (e qui viene da chiedersi quanto il leader radicale stia rispettando la nostra, di autodeterminazione, costringendoci con quello che sembra proprio un ricatto a fare qualcosa che altrimenti non vorremmo fare). Ci preoccupiamo non perché consideriamo la vita un valore assoluto, ma perché la morte di Pannella sembra evitabile, perché lui stesso non vuole – ripetiamolo – assolutamente morire; perché Pannella tiene alla sua vita, anche se non sopra a tutto il resto. In altre parole, ci preoccupiamo perché rispettiamo la sua libertà.
La controprova si ottiene facilmente: supponiamo che l’amnistia non venga concessa, e che Pannella coerentemente decida di lasciarsi morire di fame e di sete. A questo punto si può davvero pensare che chi è a favore dell’autodeterminazione chiederebbe di procedere con l’alimentazione e l’idratazione forzate? Questa sì che sarebbe una contraddizione; ma è facile pronosticare che a insistere per una simile violenza sarebbero solo la Roccella e quanti la pensano come lei.

Non conosco abbastanza il caso di Stefano Cucchi per dirne qualcosa di certo, ma mi sembra chiaro che anche qui il rifiuto di mangiare e bere fosse condizionato: fatemi uscire di qui, fatemi parlare con il mio avvocato, trattatemi umanamente, altrimenti non voglio più né mangiare né bere, possiamo immaginare che abbia detto. Non certo di lasciarlo morire e basta.
Naturalmente, ogni richiesta di essere lasciati morire è in un certo senso condizionata: preferisco morire se non mi potrò mai più risvegliare dallo stato vegetativo, se non posso recuperare l’uso delle gambe, se non posso essere mai più autonomo. Ma queste sono condizioni impossibili da soddisfare; concedere un’amnistia (giusta o sbagliata che sia), invece, rientra nel campo delle possibilità, e ancor più offrire un po’ di conforto a un ragazzo spaventato – e in questo caso ci troviamo anche nel campo del dovere. Il rispetto della vita e il rispetto dell’autodeterminazione qui coincidono, sono la stessa identica cosa.

martedì 30 ottobre 2012

A Boston si vota sul suicidio assistito


Il prossimo 6 novembre i cittadini del Massachusetts voteranno sul suicidio assistito. Se la maggior parte di loro sceglierà per la legalizzazione sarà il terzo Stato degli Usa, dopo l’Oregon e Washington, a permettere ai medici di prescrivere un farmaco letale.
Il Massachusetts Death With Dignity Act consentirebbe ai residenti di scegliere di morire in caso di malattia terminale - o meglio di scegliere come morire nel caso in cui l’aspettativa di sopravvivenza sia inferiore ai sei mesi, le condizioni di vita siano diventate insopportabili o il dolore sia intrattabile.

Il Corriere della Sera, La Lettura #50, 28 ottobre 2012.

martedì 12 giugno 2012

L’AIED sezione di Roma a difesa della legge 194 #Save194

Ancora una volta torniamo a discutere della legge 194 e ancora una volta, tra polemiche e confusione, si cerca di minare un diritto conquistato con fatica ben 34 anni fa.
Pare proprio che l’Italia, invece di progredire lungo un cammino di crescita ed evoluzione culturale, soprattutto negli ultimi tempi, stia scivolando in una buia crisi dei valori sociali.

Si sta cercando di riaprire vecchi dibattiti e tentare in tutti i modi di cancellarla, con attenzione nulla nei confronti della donna e della sua salute, malgrado, dopo la sua entrata in vigore, gli aborti in Italia si siano ampiamente ridotti.

Il prossimo 20 giugno l’articolo 4 sarà all’esame della Corte Costituzionale, che dovrà esaminarne nuovamente la legittimità. Ciò che si valuterà è se va contro i diritti inviolabili dell’uomo e la tutela della salute, se pregiudica il diritto alla vita dell’embrione, in quanto uomo in divenire.

Ma noi dell’AIED sezione di Roma ci chiediamo: se non ci fosse più la legge 194 i diritti umani e alla salute sarebbero invece tutelati o si verificherebbe un grande passo indietro che riporterebbe agli aborti clandestini, ai ricorsi all’estero, alla clinica privata, al mercato nero delle pillole abortive? All'esasperazione di donne che vivono sulla loro pelle le storie più diverse e che vedrebbero negata la libertà di scelta, già in parte messa in discussione dall’altissimo numero di medici obiettori.

L’AIED – Associazione Italiana per l’Educazione Demografica, in prima linea nelle battaglie politiche e giudiziarie da quasi 60 anni, ribadisce l’importanza della legge 194 e si pone ancora una volta a difesa dei fondamentali diritti civili della donna e della coppia, confermando l’impegno per la modernizzazione e lo sviluppo sociale, civile e culturale del nostro Paese.

L’AIED non è un’Associazione abortista e proprio con tale finalità promuove la contraccezione, ma riteniamo che le donne debbano essere libere di fare le proprie scelte nella legalità, senza alcun tipo di ostacolo o giudizio.

(Il corsivo è mio).

sabato 26 maggio 2012

Aborto, cosa significa obiezione di coscienza?


A 34 anni dalla promulgazione della legge 194 sulla interruzione volontaria di gravidanza (era il 22 maggio 1978), i dati del Ministero della Salute mettono bene in evidenza quanto la norma sia disattesa: la media nazionale di ginecologi obiettori supera il 70%, arriva in alcune regioni al 90, e rende estremamente difficile la garanzia del servizio.
In questi giorni, peraltro, in Parlamento si discute un testo ambiguo e pericoloso, un testo che gioca sull’ambiguità dei significati: che cosa intendiamo infatti per obiezione di coscienza e cosa c’entra con la libertà individuale e con la libertà di coscienza? Se ne è parlato durante il convegno “Obiezione di coscienza in Italia. Proposte giuridiche a garanzia della piena applicazione della legge 194 sullaborto” organizzato il 22 maggio a Roma dall’Associazione Luca Coscioni e l’Aied.
Nell’estate 2010 Christine McCafferty, parlamentare del partito laburista inglese, ha presentato al Consiglio dEuropa un report sulla regolamentazione dell’obiezione di coscienza, “Women’s access to lawful medical care: the problem of unregulated use of conscientious objection”. Il report fotografa la situazione europea e propone alcune linee guida per limitare i danni di un esercizio illegittimo dell’obiezione di coscienza. McCafferty non abbraccia una posizione estrema, non critica cioè la possibilità di ricorrere alla obiezione, ma sottolinea che i diritti delle donne e dei pazienti vengono prima della coscienza del personale medico. È necessario un bilanciamento tra la coscienza personale e la responsabilità professionale altrimenti si finisce per ledere lo stesso diritto dei pazienti di ricevere cure e assistenza, sostituite da una predica moralistica.

Quali sarebbero le condizioni per l’esercizio legittimo della obiezione di coscienza? Possono ricorrervi i singoli direttamente coinvolti nella procedura medica e non le strutture sanitarie. Il personale sanitario ha l’obbligo di fornire tutte le informazioni sui trattamenti previsti dalla legge, di informare tempestivamente il paziente della propria obiezione di coscienza, di metterlo in contatto con un altro medico e di assicurarsi che riceva il trattamento richiesto. Se è impossibile trovare un altro medico o in caso di emergenza non c’è coscienza che tenga: il personale sanitario è obbligato a eseguire il trattamento richiesto o necessario nonostante le proprie posizioni personali. Il documento si sofferma spesso sugli effetti discriminatori soprattutto per le donne più in difficoltà, perché vivono in condizioni economiche difficili o in aree isolate o per altre ragioni.

Le condizioni indicate da McCafferty sono in linea con l’articolo 9 della 194 - ma l’articolo 9 spesso rimane solo sulla carta. L’Italia è infatti tra i Paesi che regolamentano in modo inadeguato l’esercizio della obiezione di coscienza, avverte McCafferty, insieme alla Polonia e alla Slovacchia. Il report poi sottolinea che l’obiezione non può essere esercitata dal personale non medico, come amministrativi o portantini, e che l’assistenza precedente e successiva non possono essere oggetto di obiezione. Anche questo è in linea con l’articolo della legge italiana ed è utile per le discussioni sull’ampliamento dell’esercizio della obiezione ai farmacisti. A questo proposito ricordo il caso Pichon and Sapious vs. France (Corte europea dei diritti umani, 7 giugno 1999): la Corte stabilì che un farmacista che rifiuta di vendere i contraccettivi non può imporre la propria visione del mondo agli altri e che il diritto alla libertà religiosa - diritto individuale sacrosanto e strettamente intrecciato alla coscienza - non garantisce il diritto di comportarsi pubblicamente secondo le proprie credenze. Quando decido di fare il farmacista, o il medico o l’avvocato, la mia coscienza individuale non può essere quella cui tutti gli altri dovrebbero sottostare o conformarsi. La scelta di una professione implica dei doveri e la garanzia di un servizio.

Galileo, 25 maggio 2012.

venerdì 3 febbraio 2012

Eluana Englaro. Tra volontà e libertà


Il 14 febbraio 2012 si svolgerà la conferenza Il caso Eluana Englaro: tra volontà e libertà, dalle 16 alle 19, presso la Sala Principi D’Acaja del Rettorato dell’Università di Torino in Via Po 17 (piano terra). Interverranno Beppino Englaro, Maurizio Mori, Cinzia Gori, Amato De Monte, Eleonora Artesio, modera Elena Nave.

lunedì 21 novembre 2011

What Would Artificial Blood Mean for Jehovah’s Witnesses?

Would permitting artificial blood, should it become scalable in the future, be a good compromise? I’m no Jehovah’s Witness, so I can’t speculate too much, but it seems that it could be a workable loophole that would allow them to adhere to their faith while catching up with modern medicine.
Slate, Future Tense, november 17, 2011.

mercoledì 27 aprile 2011

La legge truffa

Il premier invia una lettera in vista dell’arrivo in Aula alla Camera del disegno di legge sul testamento biologico. Il testo, scrive il presidente del Consiglio, è “un risultato largamente condivisibile di sintesi e di mediazione alta”.
No, il testo è una mostruosità ripugnante.

Poi presogue:
Questa legge sancisce per la prima volta il principio laico di 'consenso informato' per cui nessun trattamento sanitario può essere compiuto sul paziente senza che questi abbia espresso il proprio consenso assicurando così la libertà di cura.
Cosa dice? Per la prima volta? Cosa dice? (Per esasperazione incollo il link a questo).

giovedì 14 aprile 2011

Feticidio

Bei Bei è quasi alla fine della gravidanza. Il compagno la lascia e le rivela che ha già una famiglia. Bei Bei tenta il suicidio ingerendo del veleno per topi. Non si sente subito male, è un amico cui confida cosa ha fatto a portarla in ospedale. Angel nasce il 31 dicembre, ma muore un paio di giorni dopo.
Bei Bei è accusata di omicidio e feticidio e dovrà affrontare un processo. Comunque la si pensi, la vicenda è sintomatica di un clima inferocito e presenta molti nodi difficili da sciogliere. La legalità della interruzione di gravidanza, l’attribuzione di diritti all’embrione, i diritti della donna, la possibilità di scegliere su se stesse e il proprio corpo (tenendo a mente Judith Jarvis Thomson), la considerazione delle condizioni psicologiche di Bei Bei, l’uso politico di casi umani, la legge federale Unborn Victims of Violence Act (e la simpatia verso questa legge soprattutto da parte di alcuni Stati ultraconservatori, come l’Indiana) - tutto questo e molto altro si intreccia in questa vicenda di cronaca. Come al solito, l’unica reazione da evitare è quella di fare finta di niente.

martedì 8 marzo 2011

Bentornato paternalismo!


Nia è l’acronimo per nutrizione e idratazioni artificiali. È qualcosa di cui puoi avere bisogno quando non puoi alimentarti per via fisiologica. Per una patologia o per una condizione di incoscienza. Può essere un ricorso temporaneo o permanente.
Hai bisogno di firmare un consenso informato, che è quel foglio che bisogna firmare ogni volta che ti sottoponi a un intervento chirurgico o medico.
In quel foglio si dovrebbe sintetizzare la seguente idea: che tu come paziente sei stato informato correttamente ed esaustivamente dei rischi della tua condizione, della prognosi, delle alternative terapeutiche e assistenziali (se esistono alternative, se non esistono sarai informato che la tua scelta è tra la proposta per cui si richiede il consenso informato e l’astenerti dal fare alcunché). In quel foglio dichiari che sei stato informato e che accetti il determinato trattamento. Ogni consenso, ovviamente, può essere tale solo se è espresso in modo consapevole. La condizione necessaria per la consapevolezza è l’informazione. Non possiamo entrare qui nel merito delle difficoltà intrinseche e di tutti i possibili modi in cui l’accertamento della corretta informazione e della consapevolezza del paziente presenti ostacoli e faglie.
Ciò che ci interessa è ricordare il principio e il meccanismo che caratterizza ogni intervento medico. L’importante è ricordare che puoi scegliere. Puoi anche rifiutare. Nessuno può obbligarti: questo è il cuore dell’autodeterminazione, questo è quanto affermato nella carta costituzionale. Questo è quanto avrebbe dovuto decretare la fine del paternalismo, secondo cui il medico è colui che decide della vita del paziente e prende per lui le decisioni. Invece il paternalismo è un’abitudine ancora radicata e una tentazione spesso irresistibile. A volte per buone ragioni: perché si pensa davvero che stai facendo la scelta sbagliata, proprio com’è difficile non cercare di imporre il nostro punto di vista all’amico che ha scelta l’ennesima fidanzata sbagliata. Soprattutto se siamo convinti che il nostro amico non sia davvero consapevole. A volte per ragioni meschine e presuntuose. Qualsiasi siano queste ragioni il paternalismo è moralmente condannabile e legalmente messo da parte, perché la decisione è affidata al paziente, a parte eccezioni in cui vi sia l’impossibilità di esprimere un consenso per l’urgenza o quando si delinea la necessità di un trattamento sanitario obbligatorio. In tutti gli altri casi un adulto ha il diritto di scegliere se e come curarsi.
Le direttive anticipate possono essere considerate una estensione temporale del consenso informato.
In fondo già accade: firmo oggi per un intervento che si farà più tardi o domani, per esempio. Le direttive anticipate mi darebbero la possibilità di decidere oggi per un futuro possibile in cui non posso più farlo perché sarò incosciente: per una patologia o per un incidente. Oggi io potrei decidere senza delegare nessuno a farlo in una condizione in cui la mia volontà non può essere espressa.
Ed eccoci alla Nia e alla discussione del disegno di legge sulle direttive anticipate di trattamento che esclude che si possa decidere al riguardo. La Nia è un obbligo, una imposizione, nonostante le si indichi con espressioni come “diritto imprescindibile”. Secondo i difensori di questo legge ripugnante non siamo in grado di decidere se vogliamo essere nutriti e idratati artificialmente, siamo fantocci nelle mani dei vari burocrati: da Eugenia Roccella a Maurizio Sacconi, tutti preoccupati di imporci un bel tubo nello stomaco.
I punti dolenti sono molti.
A cominciare dal negare statuto medico alla Nia, contro il parere delle associazioni di categoria. E contro ogni ragionevolezza. Basterebbe infatti sapere di cosa si parla per evitare di rendersi ridicoli. La sostanza nutritiva è un preparato farmaceutico che viene somministrato per via enterale o parenterale, cioè attraverso una sonda nasogastrica o ipercutanea nel primo caso, oppure tramite un catetere venoso nel secondo caso. Infilare un catetere in una vena comporta rischi settici e metabolici.
Se questa legge verrà approvata, i suoi fautori dovranno sbrigarsi a eliminare la necessità del consenso informato al riguardo.
Ma poi c’è il punto più bizzarro e più inutile: se anche non fossero trattamenti medici, ma forme assistenziali, il passaggio dallo statuto non medico all’obbligo è assolutamente illegittimo. Posso rifiutare anche trattamenti assistenziali! Posso rifiutare la compagnia di persone a me non gradite. Perché non potrei scegliere liberamente sulla nutrizione e idratazione artificiali?
Nessuno osa ancora imporle alle persone coscienti - considerando che serve un intervento chirurgico per inserirti la valvola e considerando quanto sia invasivo il sondino nasogastrico. Entrambe pratiche su cui il consenso è necessario. Nessuno può impormi un tubo nel naso o una PEG.
E allora ecco lo scenario che questa legge delinea: se siamo coscienti possiamo rifiutare, se non lo siamo no. E letteralmente è vero, perché se sono incosciente non posso esprimere alcuna preferenze né rifiutare (nemmeno consentire, ovviamente). Ma è per questo che servono le direttive anticipate. Perché io possa oggi anticipatamente dire cosa voglio per domani in cui mi troverò in condizione di incoscienza.
O le direttive sono anticipate o non lo sono. Se non lo sono non serve alcuna legge. In caso contrario come si può minare l’anticipazione segnando questa discriminazione tra una persona cosciente e una che non lo è?
È vero che questa anticipazione solleva un problema filosofico complesso che riguarda l’identità personale e la possibilità di esprimere oggi una preferenza su una condizione che non sto vivendo e posso solo immaginare.
Ma è vero anche che questo problema filosofico ci si pone in molte altre circostanze e non si rivela una condizione sufficiente per minare quell’anticipazione. Ogni forma contrattuale, ogni appuntamento, ogni richiesta per l’indomani mattina presente un problema di anticipazione. Ti dico oggi che domani vorrei essere svegliata da te alle 7. E come possiamo sapere che nel sonno io non cambi idea? Che io non voglia più essere svegliata alle 7 ma alle 10? Che fareste voi, mi svegliereste o mi lascereste dormire?
Per fare un’analogia più vicina alla Nia: durante l’anestesia necessaria per un intervento chirurgico, perdo forse il diritto che ho espresso prima della sedazione? Oppure dovrei essere continuamente essere risvegliata per accertare che il consenso sia ancora attuale?
La strategia dello statuto non medico, insomma, non è solo evidentemente costruita su fondamenti marci, ma è anche fallimentare allo scopo prefissato. Le direttive anticipate disegnate dal disegno di legge in discussione sono intrise del più bieco e sciocco paternalismo. Mantengono solo il nome e l’apparenza di uno strumento per dichiarare anticipatamente le nostre volontà. Sono un corpo imbalsamato presentato come l’ospite d’onore.

iMille, 8 marzo 2011.

martedì 13 luglio 2010

Tu chiamalo, se vuoi, ricovero coatto

Suonano come monito alle Regioni le linee guida per la pillola abortiva da ieri sul tavolo di assessorati e governatori. Il sottosegretario al ministero della Salute, Eugenia Roccella, è stata chiara: «Rispettiamo l’autonomia delle amministrazioni. Noi segnaliamo però che chi dovesse applicare protocolli clinici che ammettono le dimissioni volontarie della donna dopo l’assunzione della prima pillola vanno incontro a irregolarità».
«ABORTO A DOMICILIO» - Il messaggio non può essere interpretato che come un richiamo. Il timore di fondo, infatti, è «lo scivolamento verso l’aborto a domicilio». Dunque l’impegno delle Asl dovrebbe essere quello di seguire le indicazioni del documento dove viene ribadito un principio: la Ru486 ha lo stesso livello di sicurezza dell’aborto chirurgico se viene somministrata in ospedale, in regime di ricovero ordinario (tre giorni) e sotto controllo sanitario, in accordo con la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza.
Continua qui.

martedì 9 febbraio 2010

Eluana, la vita non è solo respiro

Una rosa per Eluana Englaro
È passato un anno dalla morte di Eluana Englaro. Diciotto anni dall’incidente mortale. Due morti diverse, spesso coincidenti: quella della coscienza, la morte mentale o biografica; quella che ti fa smettere di pensare e capire e sentire. E quella del corpo, assoluta e totale. Due morti diverse se si accoglie la premessa che la vita biologica è una condizione necessaria ma non sufficiente per la vita personale. Due morti diverse: una fortuita e accidentale; l’altra voluta, rivendicata come libertà e diritto di scegliere. E il volere la morte è qualcosa che non si perdona. Perché la vita è sacra e sono tutti bravi a dirti che non te ne puoi liberare, salvo poi magari ripensarci qualora si sia direttamente coinvolti. Perché la vita è sacra e il tuo volere non conta nulla.

Continua su Giornalettismo, 9 febbraio 2010.

mercoledì 15 aprile 2009

Scivolando lungo il piano inclinato

Francesco D’Agostino ritorna, dopo la pausa dovuta al terremoto abruzzese, sul disegno di legge Calabrò e più in generale sui problemi dell’autodeterminazione («Pendio scivoloso senza stop ragionevoli», Avvenire, 15 aprile 2009, p. 1). Ecco come conclude il suo articolo:

Il principio dell’autodeterminazione ha una sua intrinseca forza espansiva: se posso autodeterminarmi nel dire di no a una terapia, perché non posso autodeterminarmi nel dire sì al suicidio assistito? E perché la mia autodeterminazione andrebbe riconosciuta valida solo in contesti patologici estremi e non in ogni qualsiasi situazione, in cui a mia discrezione io voglia porre fine alla mia vita? Non sono domande esagerate o provocatorie: se ne discute con tutta serietà in diversi Paesi europei, in particolare in Svizzera, da quando Ludwig Minnelli ha dichiarato che «Dignitas», l’organizzazione da lui fondata, ritiene che sia una «possibilità meravigliosa» quella di aiutare le coppie che siano desiderose di «morire assieme» e quella di favorire la morte del partner sano di un malato terminale. È su pretese del genere, su un «pendio scivoloso» di questo tipo che vorremmo che i fautori nostrani dell’autodeterminazione esprimessero un’opinione, non solo chiara, ma soprattutto motivata; che ci dicessero perché le condividono (se le condividono) e – se non le condividono – come pensano, nel contesto di un’autodeterminazione rivendicata come diritto della persona, che le si possa rifiutare, esplicitamente e senza alcuna ambiguità.
In quanto «fautore nostrano dell’autodeterminazione» mi sento chiamato in causa da D’Agostino; e rispondo: sì, condivido quelle che lui chiama «pretese». Quanto al perché, la risposta è duplice.
Per prima cosa, immaginiamo di vivere in una società che si trovi all’estremità liberale (in senso classico, non libertario) del pendio scivoloso. Qui l’autodeterminazione è pienamente rispettata, anche per quello che riguarda la scelta di morire. Quale sarebbe l’aspetto di questa società? Cosa direbbero le sue leggi? Diamo un’occhiata.

Negli ospedali di questa società l’eutanasia attiva e il suicidio assistito sono pratiche non solo depenalizzate ma del tutto legali; l’unica limitazione è la richiesta di un breve periodo di riflessione. I pazienti ammessi sono quelli che soffrono dolori non controllabili o che comunque percepiscono la propria condizione fisica come ormai priva di dignità (per i minori e gli incapaci di intendere e di volere può essere fatta valere solo la prima condizione, e anche questa più strettamente che per gli altri). I medici possono rifiutarsi di praticare l’eutanasia, ma devono comunque eseguire ciò che hanno liberamente accettato nei propri contratti di lavoro. Il rifiuto di ogni trattamento sanitario è ovviamente del tutto consentito, e in questo caso l’obiezione di coscienza non è neppure concepibile: il medico che impone un trattamento contro il volere del paziente si rende colpevole di violenza privata ed eventualmente di sequestro di persona, e passa guai giudiziari seri (oltre a perdere il lavoro; curiosamente, da quando è entrata in vigore, questa norma sembra aver fatto sparire d’incanto tutti i medici integralisti che giuravano che non l’avrebbero mai e poi mai rispettata...). Per mezzo del testamento biologico e/o tramite un fiduciario è possibile rifiutare o richiedere (per quando non si fosse più in grado di farlo) qualsiasi pratica che possa rifiutare o richiedere un paziente cosciente, e i medici hanno gli stessi obblighi che hanno nei confronti di quest’ultimo (l’unica, limitata eccezione vale se il progresso delle tecniche ha reso obsolete le preoccupazioni espresse a suo tempo).
I cittadini possono scegliere di non pagare con i loro contributi alcune pratiche sanitarie, e l’eutanasia e il suicidio asssistiti sono tra questi; chi alla fine ci ripensa paga le spese per intero (e se ci sono code d’attesa viene posto in fondo). In genere le persone che seguono la morale cattolica non pagano comunque di meno, perché anche le spese per il mantenimento dei pazienti in stato vegetativo permanente sono tra quelle per cui è facoltativo pagare i relativi contributi.
Lo Stato si tiene fuori da ogni decisione in cui sia assente una precisa patologia (compresi i casi di partner sani di malati terminali). Esistono associazioni private – rigorosamente senza fini di lucro, per evitare la tentazione di abusi – che aiutano al suicidio chi si sente semplicemente stanco di vivere; ma la necessità di documentare che i loro clienti siano perfettamente in grado di intendere e di volere e che non stiano cedendo a un impulso momentaneo, rende le pratiche relative piuttosto macchinose. I suicidi preferiscono dunque comprensibilmente fare da sé: sono del resto facilmente disponibili manuali sulla morte dignitosa (anche se nessuna farmacia è autorizzata a vendere il kit della buona morte a chi non è medico, sempre per evitare abusi). Non è un reato salvare un suicida, se si ignora il motivo del suo gesto e il suo stato d’animo; nei rari casi contrari, è applicabile anche qui la norma sulla violenza privata. Ovviamente nessuno punisce i tentativi di suicidio – a meno che non abbiate fatto saltare con il gas l’appartamento dei vicini...

Questa società così coerentemente liberale non è ancora realizzata in nessuna parte del mondo, anche se alcune società reali le si avvicinano notevolmente. Ma è per questo mostruosa, caotica, inaccettabile? Ovviamente essa sarà anatema per il professor D’Agostino e per chi la pensa come lui; chi ha invece a cuore il valore dell’autodeterminazione ne troverà forse un po’ indigesti alcuni aspetti, e magari sarà tentato di razionalizzare la propria opposizione ad essi; ma per il resto non dovrebbe notare nulla di veramente irragionevole (e sono sicuro che per qualcuno il quadro che ho delineato apparirà al contrario fin troppo regolato e illiberale...). Il pendio scivoloso termina in un paesaggio pianeggiante tutto sommato familiare.
Ma c’è anche un’altra considerazione da fare. L’argomento del piano inclinato, con la sua richiesta di esaminare le conseguenze di una piena coerenza di principi, vale ovviamente anche nell’altro senso. Non è come un pendio fisico, in cui si scende solo in una direzione; qui, paradossalmente, si può scivolare da una parte ma anche dall’altra. Se, per esempio, impediamo che una persona possa rifiutare oggi le cure per quando sarà incosciente, perché non dovremmo impedirglielo anche quando è cosciente? Non è una domanda esagerata o provocatoria: alcuni hanno invocato a questo proposito una «interpretazione autentica» dell’art. 32 della Costituzione, che stabilisca l’impossibilità per un malato di rifiutare le terapie salvavita. È su pretese del genere, su un «pendio scivoloso» di questo tipo che vorremmo che gli avversari nostrani dell’autodeterminazione esprimessero un’opinione, non solo chiara, ma soprattutto motivata...

sabato 28 marzo 2009

NIA* (Sostegno vitale obbligatorio per tutti)

NIA (Sostegno vitale obbligatorio per tutti)
*Ovvero nutrizione artificiale (a sinistra) e idratazione (a destra).
Ciò che non si vede è un buco nella spalla per far passare nella vena cava superiore i suddetti.

giovedì 26 marzo 2009

Se arriva un marziano come gli spieghiamo questo ddl Calabrò?

Robot
Se un marziano, arrivato da poco in Italia, venisse informato dei nostri principi costituzionali e del consenso informato, non riuscirebbe a capire il dibattito sul testamento biologico. Se si può chiamare dibattito un coacervo di voci che non si ascoltano l’un l’altra e che spesso sono contraddittorie e insensate.
Il nostro povero marziano non capirebbe per quale ragione uno strumento giuridicamente tanto semplice abbia sollevato tali reazioni smodate. Bisognerebbe spiegargli che il paternalismo seduce ancora molti animi; che le libertà individuali non sono considerate come diritti inviolabili; e che la libertà viene spesso malintesa e calpestata.
Questa spiegazione, tuttavia, non basterebbe a chiarire al malcapitato straniero alcuni aspetti del disegno di legge Calabrò.
Anche se ci mettessimo tutto il nostro impegno esplicativo dei costumi indigeni, egli non riuscirebbe a capacitarsi del perché noi umani (o meglio, noi italiani) non possiamo includere nel testamento biologico il nostro volere riguardo alla nutrizione e idratazione artificiali. Egli ci tormenterebbe con varie domande.
“Siete liberi di decidere se alimentarvi o no?”. Certo, dovremmo rispondere, il diritto a non mangiare o allo sciopero della fame sono garantiti.
“E allora forse non potreste rifiutare la nutrizione e idratazione artificiali?”. No, possiamo rifiutare se siamo coscienti.
“Magari non sono trattamenti invasivi…”. Spesso lo sono, perché richiedono un intervento chirurgico e anche il sondino nasogastrico è una operazione abbastanza cruenta. E comunque sono sempre invasivi se l’individuo non vuole essere nutrito e idratato!
“Allora magari si segue una procedura internazionale?”. No, le leggi e i trattati degli altri Paesi lasciano la libertà di decidere.
No, non capirebbe. E nemmeno noi. Come non capiamo come sia possibile che in Senato ieri 164 abbiano votato no all’emendamento che voleva rimediare a questo scempio; solo 105 a favore e 9 si sono astenuti. 173 dei nostri rappresentanti non ci considerano in grado di decidere, ma ci ritengono inetti e irresponsabili. Dei mentecatti cui dire come vivere e come morire. Non ci vuole un marziano per capirlo.

(DNews, 26 marzo 2009)

martedì 24 febbraio 2009

Il testamento biologico è un diritto

Mai make up fu più azzeccato...
Avrei dovuto essere a Bologna oggi, ad un convegno organizzato da Bologna Città Libera sul testamento biologico con Mina Welby, Adriana Scaramuzzino, Francesca Rescigno, Serafino D'Onofrio, Franco Motta e Massimiliano Panarari (i dettagli del programma).

Non ci sarò, ma parteciperò a distanza con un commento che incollo di seguito. Niente di nuovo per Bioetica. Quasi noioso, direi. Ma conosciamo i proverbi e ci adeguiamo...

Ho davvero difficoltà a scegliere cosa commentare. Ci sarebbe molto da dire sullo scempio che stanno facendo del testamento biologico.
Da lontano ci tengo a insistere su pochi punti.
Il primo riguarda la semplicità giuridica di una legge al riguardo, potendo considerare il testamento biologico come una estensione di diritti che già abbiamo: scegliere se e come curarci, rinunciare o rifiutare terapie. Potremmo considerarlo una estensione temporale del consenso informato (e dei tanto citati articoli 13 e 32 della nostra Costituzione; tanto citati e poco rispettati).
Nonostante questo sono anni che se ne discute, e male, e stiamo assistendo ad un pervertimento semantico e letterale di termini e concetti. Basterebbe il buon senso per capirlo, prima ancora di raffinate analisi razionali. Un solo esempio: perché dovrei redigere un TB se tale documento non è vincolante per il medico?

Il secondo riguarda lo statuto della nutrizione e idratazione artificiali (NIA): trattamento sanitario o mera assistenza?
Credo sia il dibattito più stupido e disonesto degli ultimi anni.
Stupido perché coloro che strepitano per il loro carattere assistenziale ignorano del tutto di cosa stiano parlando. Basti ricordare che la NIA richiede un consenso informato e che richiede una attenzione nella gestione molto diversa da quella necessaria per cucinare un pasto, anche il più complicato che si possa immaginare.
Inoltre è del tutto inutile percorrere questa strada: anche se concedessimo che la NIA non sia trattamento sanitario, non per questo sarebbe legittimo imporla a chi non la vuole.
La carità può forse essere imposta? Sarebbe una ben strana contraddizione. Nemmeno la compagnia può essere un dovere, una imposizione. Ed è bene non dimenticare che è possibile rifiutare l'alimentazione (lo sciopero della fame è garantito ai cittadini, fa parte delle nostre libertà; verrebbe da aggiungere: ancora fa parte). Stanno trasformando dei diritti in doveri.
Il cuore di tutto questo è proprio il tentativo di violare la nostra libertà, di contraddire il consenso informato e la deontologia medica, di svuotare la nostra autodeterminazione. Senza dirlo esplicitamente, però, perché sarebbe troppo impopolare. Un paternalismo celato e mascherato da “carità”. E che in realtà richiama il ricovero coatto - questi signori dovrebbero leggere la legge sul trattamento sanitario obbligatorio (TSO, cioè la legge 833/1978).
Il ddl Calabrò non è solo un disegno di legge che contraddice il testamento biologico (o disposizioni anticipate di volontà), ma che contraddice il principio sacrosanto secondo il quale ognuno di noi dovrebbe poter decidere circa la propria esistenza - morte compresa.
Il paradosso e l'oscenità di questi tentativi sono sotto agli occhi di tutti - almeno di quanti vogliono vedere. Il ddl di Calabrò ci tratta come mentecatti non in grado di prendere decisioni, offrendo una caricatura di democrazia liberale.

Il terzo e ultimo riguarda l'asimmetria della libertà rispetto alla coercizione - posso scegliere anche di essere schiavo e di delegare solo a condizione che la libertà sia garantita. In caso contrario devo subire la decisione di altri, un punto di vista trasformato in Verità Assoluta. La libertà è una condizione necessaria non solo della vita democratica e civile, ma della morale stessa. In assenza di possibilità di scelta, infatti, non ha nemmeno alcun senso parlare di cosa sia morale e di cosa sia immorale.