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mercoledì 24 settembre 2014

Quattro buone ragioni per la selezione dei donatori di gameti

È uno dei punti più controversi nel dibattito che si è sviluppato dopo la sentenza n. 162/2014, con cui la Corte Costituzionale ha fatto cadere il divieto di fecondazione eterologa: mi riferisco alla possibilità di selezionare (nei limiti del possibile) il donatore e/o la donatrice di gameti in base alla somiglianza fisica con il genitore o i genitori inabili a contribuire alla fecondazione con il proprio sperma o i propri ovociti (più sinteticamente, ma un po’ inesattamente, si parla spesso di garantire la compatibilità delle caratteristiche fisiche del nascituro con quelle della coppia che riceverà i gameti donati). Il Ministro della Sanità Beatrice Lorenzin dichiarava così alcune settimane fa (Mario Pappagallo, «Eterologa, la linea del ministro: “Non si sceglie il colore della pelle”», Corriere.it, 6 agosto 2014):

Il discorso della compatibilità se vuole farlo, lo introduca il Parlamento. Per quanto mi riguarda sono contraria: questa si chiama discriminazione razziale. Non se ne parla, sarebbe anticostituzionale. È come se chi adotta un bambino lo potesse scegliere. Lo impedisce la legge. Mica siamo al supermercato.
Con l’usuale grossolanità è intervenuta anche Eugenia Roccella, vicepresidente della commissione Affari Sociali della Camera:
Questa si chiama selezione della razza e dei canoni estetici. Insomma, c’è stato detto che, come per l’adozione, ricorrere all’eterologa era un gesto d’amore, e che al bambino serve solo l’amore dei genitori. Un amore, però, condizionato al colore della pelle: lo amiamo solo se è bianco, se è nero non lo vogliamo?
Questi sono due esempi molto chiari di una tendenza tipica dell’integralismo cattolico: quella di attribuire a chi la pensa diversamente le peggiori intenzioni possibili. Se qualcuno desidera che il proprio figlio abbia il suo stesso colore della pelle non può che essere perché disprezza le persone di colore diverso; ogni altra ipotesi non viene non dico esaminata, ma neppure nominata.
Eppure altre ragioni per desiderare la compatibilità delle caratteristiche fisiche esistono, e non sono neppure cattive ragioni. Vediamole.

1. Proteggere la privacy

L’Italia è un paese mediamente ancora molto conservatore, e la fecondazione eterologa non è una pratica medica ancora del tutto accettata. In particolari realtà sociali (si pensi a certa vita di provincia) o familiari (in cui per esempio sia presente una componente integralista) la forza dell’altrui disapprovazione può rendere la vita difficile. Ciò che ci protegge dalla pressione sociale è il diritto alla privacy, cioè a tenere nascosti quegli aspetti della nostra esistenza che riguardano soltanto noi e a delimitare perciò un cerchio intimo di vita riparato da sguardi indiscreti. Le nostre condizioni di salute, e quindi anche le terapie ricevute, rientrano sicuramente in questo ambito (tranne ovviamente quando non sia possibile in nessun modo occultarle allo sguardo del pubblico), tanto più quando a essere interessata è la sfera culturalmente cruciale della riproduzione. È evidente però che la nascita di un bambino dalle caratteristiche fisiche incompatibili con quelle dei genitori putativi tradirebbe immediatamente l’avvenuto ricorso alla fecondazione eterologa. Naturalmente, in questo come in altri campi il coming out è da lodare incondizionatamente: i costumi alla fine cambiano proprio grazie ai coraggiosi che vanno orgogliosi di quello che sono e di quello che fanno e non lo nascondono; ma il coraggio non si può prescrivere per legge.

2. Accogliere un figlio come proprio

Il problema principale della fecondazione eterologa è psicologico: il genitore che non ha potuto contribuire alla fecondazione con un suo gamete può avere in certi casi difficoltà a sentire il figlio come proprio, e può arrivare a forme di rifiuto più o meno dirette. La legge 40/2004, in una delle sue pochissime norme ragionevoli, ha reso impossibile il disconoscimento da parte del padre non biologico in caso di fecondazione eterologa (nell’art. 9 comma 1; ovviamente all’epoca ci si riferiva a casi di fecondazione effettuata all’estero o in violazione della legge); ma il problema psicologico rimane. La soluzione consiste principalmente in un’adeguata informazione e preparazione, ma sembra ragionevole supporre che la somiglianza fisica possa contribuire a rendere le cose più facili (anche eventualmente per i familiari meno prossimi del bambino).

3. Rivelarlo al momento giusto

Sembra che nel progetto di decreto del Ministro della Salute (poi abortito) fosse previsto l’obbligo di informare la persona nata in seguito all’applicazione di tecniche di fecondazione eterologa del modo del suo concepimento una volta raggiunta la maggiore età. Il Ministro non sembrava rendersi conto che con la proibizione di selezionare i donatori molti dei nati avrebbero indovinato le proprie origini ben prima della maggiore età, semplicemente guardandosi allo specchio e paragonandosi ai propri genitori. In questo modo si sottrarrebbe ai genitori la decisione sul momento più adatto per rivelare al figlio le sue origini (non esaminerò qui se questa rivelazione sia davvero sempre desiderabile). Naturalmente è del tutto possibile che questo momento arrivi anche molto precocemente senza problemi (in situazioni particolari del resto non ci sono alternative), ma non c’è dubbio che là dove si può la flessibilità possa rivelarsi utile per facilitare le cose.

4. Evitare i razzismi inconsapevoli

Dire che esistono buone ragioni perché una persona cerchi di ottenere un figlio simile a sé non significa negare che possano esisterne anche di cattive e pessime. Se fosse imposta la proibizione di selezionare i donatori, è probabile che chi sottoscrive un’ideologia razzista sarebbe dissuaso dal tentare in caso di bisogno la fecondazione eterologa – ma va detto che questo genere di individui ha quasi sempre idee estremamente conservatrici sull’importanza della «stirpe», tale da renderlo comunque contrario a questa tecnica. Ma cosa succederebbe ai razzisti meno consapevoli, a chi proclama sinceramente di non disprezzare le persone di etnia diversa, salvo poi mostrare nei fatti dei pregiudizi inconsci ben radicati? Nel caso dell’adozione si perviene inevitabilmente al momento della verità, quando alla coppia viene presentato un bambino di un colore diverso dal suo; un momento dal quale si può fare vergognosamente marcia indietro. Ma nel caso della fecondazione eterologa – complici la bassissima probabilità di incappare in Italia nei gameti di persone di altra razza, il desiderio ardente di genitorialità e appunto la non consapevolezza dei propri pregiudizi – il momento della verità può arrivare quando ormai non si può più tornare indietro. Per i più l’esperienza di allevare un bambino basterebbe probabilmente a guarire da ogni pregiudizio; per altri le cose possono andare diversamente, e a rimetterci sarebbe in primo luogo chi non ha colpe. Con la selezione dei gameti il problema non si pone. Si può restare perplessi di fronte a una soluzione che alla fine asseconda un pregiudizio; ma trattandosi di un pregiudizio pressoché invisibile (persino a chi lo nutre) e quindi non identificabile con sicurezza in anticipo, non vedo alternative a questa.

Conclusione

Queste dunque le buone ragioni a favore della possibilità – non dell’obbligo, ovviamente – di assicurare un fenotipo simile a quello del genitore non biologico. Non so se chi si oppone le abbia mai prese in considerazione; ma viene spontaneo sospettare che qui non si tratti soltanto dell’abitudine inveterata degli integralisti a giudicare e condannare il prossimo con la massima ferocia possibile, ma anche di un tentativo estremo, sorto nell’ambiente dei consulenti del Ministro, di creare difficoltà e di perpetuare de facto la situazione precedente, pur mutata de jure, costringendo ancora le coppie a onerosi viaggi all’estero.
L’accordo tra le Regioni siglato a Roma il 4 settembre prevede che ogni «centro deve ragionevolmente assicurare la compatibilità delle principali caratteristiche fenotipiche del donatore con quelle della coppia ricevente». Speriamo che nessuno cambi questa disposizione ragionevole.

mercoledì 5 marzo 2014

giovedì 20 dicembre 2012

Roccella & Pannella

Eugenia Roccella ha scritto oggi una lettera al Corriere della Sera:

Pannella forse è in pericolo di vita. C’è chi lo prega di smettere lo sciopero della sete, chi accusa i politici di indifferenza, chi invoca alimentazione e idratazione forzate.
Tutti vogliamo che Marco viva, e non per la causa che difende (su cui posso essere d’accordo, ma non è essenziale), non perché lui è un protagonista della nostra storia (se fosse uno sconosciuto non cambierebbe nulla) ma soltanto perché è un uomo, e ogni esistenza umana è unica.
La sua battaglia, però, rivela una contraddizione profonda, un estremo paradosso. I radicali sono i portabandiera dell’assoluta autodeterminazione, fino a decidere della propria morte. Ma se così fosse, perché mai dovremmo preoccuparci per Marco? Pannella è libero, perfettamente consapevole dei rischi che corre; perché dovremmo sentirci coinvolti? Si dirà che il suo non è un desiderio di morte, ma un metodo di lotta. Ma se non ci fosse una cultura condivisa della vita a cui appellarsi, se un uomo che si lascia morire non fosse considerato uno scandalo che sollecita un sentimento collettivo di pietà e insieme di ribellione, Pannella potrebbe spegnersi nell’indifferenza generale. Insomma, se il favor vitae diventa secondario rispetto all’autodeterminazione individuale, ne segue che Pannella fa della sua vita quello che vuole, e il fatto di metterla a repentaglio riguarda solo lui.
Eluana Englaro è morta disidratata perché lo ha stabilito un tribunale. In quel caso ha prevalso il criterio dell’autodeterminazione, benché utilizzato in modo ambiguo, visto che Eluana non era più in grado di esprimere la sua volontà, e non aveva mai lasciato nulla di scritto. Anche Stefano Cucchi è morto di fame e di sete, ma per lui, invece, si è sollevato un unanime coro di giuste proteste. Eppure pare che Stefano rifiutasse acqua e cibo, e i medici accusati di averlo lasciato privo di assistenza si difendono proprio con questo argomento.
Forse dobbiamo ammettere che se distruggiamo il principio del favor vitae mettiamo in crisi il laico sentimento di fratellanza umana su cui si fonda una comunità solidale. Saremo magari più autodeterminati, ma indifferenti l’uno al destino dell’altro.
Ma davvero preoccuparsi per la sorte di Pannella significa automaticamente mettere il favor vitae davanti al principio di autodeterminazione? Vediamo. Pannella sta dicendo: se non viene concessa l’amnistia, allora preferisco morire (qui e nel seguito do per ammesso, per amore di discussione, che Pannella sia sincero; qualcuno non è d’accordo, ma non entro nel merito). Questo vuol dire che Pannella vuole assolutamente morire? Ovviamente no: sembra chiaro che Pannella preferisca vivere piuttosto che morire; ma – per così dire – preferisce ancora di più che ci sia l’amnistia. Supponiamo che questa venga concessa e che, di conseguenza, Pannella continui a vivere: avremmo con ciò attentato alla sua autodeterminazione? Tutto il contrario: avremmo esaudito completamente le sue preferenze – di vedere svuotate le carceri e di continuare a vivere. Ma perché dovremmo sentirci coinvolti? Perché dovremmo preoccuparci «per Marco»? Ci sentiamo coinvolti perché Pannella stesso ci coinvolge: concedete l’amnistia, fate pressione per far concedere l’amnistia, ci dice, o io mi ammazzo (e qui viene da chiedersi quanto il leader radicale stia rispettando la nostra, di autodeterminazione, costringendoci con quello che sembra proprio un ricatto a fare qualcosa che altrimenti non vorremmo fare). Ci preoccupiamo non perché consideriamo la vita un valore assoluto, ma perché la morte di Pannella sembra evitabile, perché lui stesso non vuole – ripetiamolo – assolutamente morire; perché Pannella tiene alla sua vita, anche se non sopra a tutto il resto. In altre parole, ci preoccupiamo perché rispettiamo la sua libertà.
La controprova si ottiene facilmente: supponiamo che l’amnistia non venga concessa, e che Pannella coerentemente decida di lasciarsi morire di fame e di sete. A questo punto si può davvero pensare che chi è a favore dell’autodeterminazione chiederebbe di procedere con l’alimentazione e l’idratazione forzate? Questa sì che sarebbe una contraddizione; ma è facile pronosticare che a insistere per una simile violenza sarebbero solo la Roccella e quanti la pensano come lei.

Non conosco abbastanza il caso di Stefano Cucchi per dirne qualcosa di certo, ma mi sembra chiaro che anche qui il rifiuto di mangiare e bere fosse condizionato: fatemi uscire di qui, fatemi parlare con il mio avvocato, trattatemi umanamente, altrimenti non voglio più né mangiare né bere, possiamo immaginare che abbia detto. Non certo di lasciarlo morire e basta.
Naturalmente, ogni richiesta di essere lasciati morire è in un certo senso condizionata: preferisco morire se non mi potrò mai più risvegliare dallo stato vegetativo, se non posso recuperare l’uso delle gambe, se non posso essere mai più autonomo. Ma queste sono condizioni impossibili da soddisfare; concedere un’amnistia (giusta o sbagliata che sia), invece, rientra nel campo delle possibilità, e ancor più offrire un po’ di conforto a un ragazzo spaventato – e in questo caso ci troviamo anche nel campo del dovere. Il rispetto della vita e il rispetto dell’autodeterminazione qui coincidono, sono la stessa identica cosa.

martedì 8 marzo 2011

Dopo di che, onorevole Roccella?

Eugenia Roccella torna per l’ennesima volta sulla legge in discussione alla Camera e in particolare sul consenso informato («Non spetta a un tribunale decidere dove finisce la vita», Il Giornale, 7 marzo 2011, p. 12):

un consenso informato, per essere tale, deve rispondere a due condizioni: ci deve essere il consenso, dunque una firma, e l’informazione, dunque un colloquio con un medico. Se il paziente a cui, alla vigilia di un’operazione chirurgica, fosse sottoposta l’informativa da firmare, si rifiutasse, sostenendo di averne già parlato con i genitori, il medico non lo giudicherebbe sufficiente. Non può bastare un’informazione casuale, approssimativa, non aggiornata, priva di basi scientifiche.
D’accordo, supponiamo che il medico non lo giudichi sufficiente; dopo di che, caro sottosegretario, cosa potrebbe succedere, secondo Lei? Ci sono varie possibilità:
  • il medico chiama due infermieri nerboruti, che legano il paziente con le cinghie di contenzione a una sedia e lo obbligano ad ascoltare l’intera informativa;
  • il medico chiama i suddetti infermieri, che sedano il paziente per poter procedere all’operazione in assenza del prescritto dissenso informato;
  • il medico denuncia il paziente alla magistratura (sperando di non incappare in giudici comunisti), perché gli sia irrogata una pena esemplare e gli scappi la voglia di reiterare il suo crimine orrendo.
Oppure, ipotesi forse più realistica,
  • il medico si tiene per sé la propria frustrazione e lascia andare il paziente, visto che – si regga forte, onorevole – il consenso informato è necessario per procedere a un trattamento sanitario ma non per rifiutarlo.
Forse Lei, onorevole, riterrà questa idea frutto dell’odierno relativismo e dell’imperante cultura-di-morte; però, strano a dirsi, essa sembra essere presente persino nella legge sulle DAT da Lei così caldamente sostenuta, che all’art. 2 comma 4 recita:
È fatto salvo il diritto del paziente di rifiutare in tutto o in parte le informazioni che gli competono. Il rifiuto può intervenire in qualunque momento e deve essere esplicitato in un documento sottoscritto dal soggetto interessato che diventa parte integrante della cartella clinica.
La vita è piena di sorprese, vero onorevole?

mercoledì 2 marzo 2011

La delega alla Roccella

Intervistata da Francesco Ognibene a proposito della legge sul testamento biologico, così risponde a un certo punto Eugenia Roccella («“Questa legge sulle Dat scioglie ogni dubbio”», Avvenire, 1 marzo 2011, p. 12):

Finché so­no cosciente posso compiere autonoma­mente gesti che portano alla morte, come non mangiare, ma se non sono più cosciente e se il rifiuto di alimentazione e idratazione è in­serito nelle Dat finisco con il delegare ad altri la decisione sul lasciarmi morire, magari affi­dandola al Servizio sanitario nazionale: sia­mo ai confini dell’eutanasia passiva e del sui­cidio assistito, vietati dalla nostra legge.
Se le Dat fossero quello che dovrebbero essere, cioè Direttive Anticipate di Trattamento, non ci sarebbe nessuna delega ad altri della decisione di lasciarsi morire: la decisione sarebbe presa dal paziente, e il Servizio sanitario nazionale sarebbe solo chiamato a rispettarla. Il testamento biologico dovrebbe servire proprio a questo, a non delegare decisioni vitali. La delega si ha con la parodia che ne stanno facendo la Roccella e i suoi amici: sono loro a decidere per noi. La Roccella – la Roccella! – decide per me e per te e per tutti.

giovedì 4 novembre 2010

Ognuno ha l’imbarazzo che si merita



Francesco Belletti, responsabile del Forum delle famiglie, è imbarazzato da Silvio Berlusconi. Eugenia Roccella è imbarazzata da Francesco Belletti. Qualsiasi persona ragionante è imbarazzata da Eugenia Roccella. Arrampicandosi sugli specchi per l’ennesima volta il funambolico sottosegretario alla salute dichiara: “l’unica cosa che può imbarazzare chi sostiene la famiglia sono le prese di posizione e gli attivismi dei politici contro l’accoglienza della vita, a favore dei matrimoni omosessuali e delle adozioni da parte di coppie gay, per la fecondazione eterologa, le pillole abortive e l’introduzione dell’eutanasia, ovvero tutti i provvedimenti che indeboliscono la cultura della vita e la famiglia descritta dalla nostra Costituzione”.
Manca solo il terrorizzante omino Michelin di Ghostbusters per avere un elenco completo degli attentati alla cultura della vita. Peccato che Roccella non sia una promoter di Scientology perché farebbe una carriera fulminante, magari riuscirebbe addirittura a scalzare la memoria di Ron Hubbard. Nel frattempo a Eugenia Roccella si adatta perfettamente una delle regole principali di Scientology: “Le sue capacità sono illimitate, anche se non attualmente conosciute”. Si sa che ogni religione che si rispetti aspira alla eternità e che il presente aspira all’imperituro, perciò non disperiamo.

Giornalettismo.

giovedì 7 ottobre 2010

L’irragionevole Roccella

L’aspettavamo fiduciosi, ed Eugenia Roccella, sottosegretario alla salute, non ci ha delusi. Ecco cosa ha dichiarato, commentando l’ordinanza con cui il Tribunale di Firenze ha chiesto alla Corte Costituzionale di pronunciarsi sulla costituzionalità dell’art. 4 della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita: «Le motivazioni sembrano anche poco significative, perché dire che la norma è irragionevole non è una questione di diritto» («Fecondazione, la legge 40 torna alla Corte costituzionale», Corriere della Sera, 6 ottobre 2010).
Che l’eventuale irragionevolezza di una norma non sia affare dei giudici – e dei giudici costituzionali, per giunta! – è già un pensiero che difficilmente si presenterebbe alla mente anche del cittadino più digiuno di cultura giuridica. Una breve ricerca fra le sentenze della Consulta, poi, riserverebbe alla Roccella più di una sorpresa: per esempio cercando l’espressione «principio di ragionevolezza», o meglio ancora «principio costituzionale di ragionevolezza», o «sindacato di ragionevolezza», etc.

Ma con tutti i laureati in legge che ci sono in Italia, perché lo staff della Roccella non assume qualcuno che ne filtri preventivamente le dichiarazioni alla stampa, e le eviti figure miserabili come queste?

(Hat tip: Aioros.)

martedì 13 luglio 2010

Tu chiamalo, se vuoi, ricovero coatto

Suonano come monito alle Regioni le linee guida per la pillola abortiva da ieri sul tavolo di assessorati e governatori. Il sottosegretario al ministero della Salute, Eugenia Roccella, è stata chiara: «Rispettiamo l’autonomia delle amministrazioni. Noi segnaliamo però che chi dovesse applicare protocolli clinici che ammettono le dimissioni volontarie della donna dopo l’assunzione della prima pillola vanno incontro a irregolarità».
«ABORTO A DOMICILIO» - Il messaggio non può essere interpretato che come un richiamo. Il timore di fondo, infatti, è «lo scivolamento verso l’aborto a domicilio». Dunque l’impegno delle Asl dovrebbe essere quello di seguire le indicazioni del documento dove viene ribadito un principio: la Ru486 ha lo stesso livello di sicurezza dell’aborto chirurgico se viene somministrata in ospedale, in regime di ricovero ordinario (tre giorni) e sotto controllo sanitario, in accordo con la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza.
Continua qui.

sabato 22 maggio 2010

Meglio la certezza del divieto

Sì, certo, ha ragione Eugenia Roccella. Se vai all'estero chissà cosa può succedere, meglio restare il Italia così hai la certezza di non poter avere un figlio. Non fa una piega.

giovedì 18 febbraio 2010

A rene donato non si guarda in...

Nei mesi scorsi tre persone, due in Lombardia e una in Piemonte, si sono offerte di donare un rene a uno sconosciuto che ne avesse bisogno. A quanto affermano le agenzie di stampa, «il Centro nazionale trapianti ha riunito ieri i rappresentanti delle tre reti interregionali dei trapianti per verificare la possibilità legale di questa modalità utilizzata già in altri paesi ma ancora mai in Italia. La legge nazionale regola infatti la donazione da vivente fra consanguinei o persone con legame affettivo, oltre a vietare ogni forma di vendita» (Ansa, 17 febbraio 2010, 18:20). E oggi si annuncia che «il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, chiederà al Comitato nazionale di Bioetica (CNB) un parere urgente sull’offerta di donazione di organi da parte dei donatori cosiddetti samaritani» (Ansa, 18 febbraio, 12:14).

Tanta prudenza è sorprendente. La donazione di rene da vivente è regolata in Italia dalla legge 26 giugno 1967, n. 458 (G.U. 27 giugno 1967, n. 160), che all’art. 1 recita:

In deroga al divieto di cui all’articolo 5 del Codice civile, è ammesso disporre a titolo gratuito del rene al fine del trapianto tra persone viventi.
La deroga è consentita ai genitori, ai figli, ai fratelli germani o non germani del paziente che siano maggiorenni, purché siano rispettate le modalità previste dalla presente legge.
Solo nel caso che il paziente non abbia i consanguinei di cui al precedente comma o nessuno di essi sia idoneo o disponibile, la deroga può essere consentita anche per altri parenti e per donatori estranei [corsivo mio].
Questa possibilità è stata estesa dalla legge 16 dicembre 1999, n. 483, al trapianto parziale di fegato, con le stesse modalità della 458/67.
È vero che esistono delle «Linee guida per il trapianto renale da donatore vivente e da cadavere» (G.U. 21 giugno 2002, n. 144), frutto di un accordo fra il Ministro della Salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, che nella parte relativa alla donazione da vivente, all’art. 6, sembrano più restrittive:
Sul donatore viene effettuato anche un accertamento che verifichi le motivazioni della donazione, la conoscenza di potenziali fattori di rischio e delle reali possibilità del trapianto in termini di sopravvivenza dell’organo e del paziente, l’esistenza di un legame affettivo con il ricevente (in assenza di consanguineità o di legame di legge) e la reale disponibilità di un consenso libero ed informato.
Fatto abbastanza stupefacente, nella parte introduttiva del provvedimento la legge 458/67 non viene nominata; eppure essa è sicuramente ancora in vigore, tant’è vero che la si considera espressamente tale nel decreto Milleproroghe approvato dal Senato il 12 febbraio scorso! Come che sia, un provvedimento amministrativo, quale sono queste linee guida, non può modificare una norma di legge; la situazione legislativa è dunque chiara. Ne prendeva atto lo stesso CNB, seppure a malincuore, quando il 17 ottobre 1997 consegnava un parere sul «problema bioetico del trapianto di rene da vivente non consanguineo», in cui auspicava una revisione della normativa vigente, limitando il prelievo da vivente non consanguineo a chi si trovi a essere «“affettivamente vicino” al ricevente (ad esempio il coniuge, il convivente stabile o un amico)» (fortunatamente neppure i pareri del CNB possono modificare le leggi esistenti).

Le prese di posizione odierne non sono tuttavia molto incoraggianti. La stessa Roccella dichiara, con la solita esibizione di spietatezza (Enrico Negrotti, «Reni in dono, ma la legge non lo prevede», Avvenire, 18 febbraio, inserto «È vita», p. 3; dal titolo e dal testo si vede che il giornale della CEI ignora la legge vigente, ma nel suo caso l’ignoranza ha cessato da tempo di sorprenderci):
Siamo molto cauti, perché sono possibili strumentalizzazioni di tutti i tipi. La nostra idea in ogni caso è che il corpo non è un bene a disposizione, e quindi non può neanche essere un bene da regalare. Valuteremo questi casi specifici, ma la questione è complessa.
Il sottosegretario non rinuncia per l’occasione a una delle sue consuete uscite stralunate: come riporta la succitata agenzia Ansa di oggi, «Personalmente sono molto cauta – ha concluso Roccella – perché credo che il corpo sia la persona». Non chiedetemi cosa voglia dire (suppongo che la Roccella conservi religiosamente tutte le unghie che si taglia, parte integrante della propria persona...).
Fa eco alla Roccella, sempre dalle colonne di Avvenire, il professor Francesco D’Agostino, non a caso presidente del CNB all’epoca del parere sul trapianto da vivente:
«Poiché il trapianto di rene da vivente implica una grave lesione al corpo del donatore e poiché esiste il dovere etico di tutelare la salute di ogni vivente, sono contrario alla possibilità di donatori samaritani». Tale lesione è giustificata nella donazione a un parente stretto, ma «non in casi diversi».
Dopo aver teorizzato l’espropriazione brutale del corpo altrui, D’Agostino prosegue, secondo la tecnica argomentativa che gli è propria, con il dubbio gettato sulla libertà del volere dell’espropriato:
Occorre inoltre investigare le motivazioni di chi intende donare il proprio organo, che possono essere sbagliate: «Ad esempio da una sorta di narcisismo o autoesaltazione del soggetto, non dunque pienamente consapevole della scelta fatta».
Ricordiamo i termini della vicenda: quelle tre persone si sono dette pronte a donare i loro organi senza condizioni, senza conoscere nemmeno chi beneficerà del loro atto. Ipotizzare a priori «strumentalizzazioni» o forme di «narcisismo» è un insulto a sangue freddo che colpisce chi meno di tutti lo merita. L’arroganza dell’integralismo non arretra evidentemente di fronte a nulla, pur di non deflettere dal proprio principio supremo: che l’uomo non è padrone del proprio corpo. Che dei malati possano essere sottratti grazie a quei donatori a una esistenza di tormenti o addirittura a una morte dolorosa è evidentemente per Roccella e D’Agostino irrilevante: l’ideologia trionfa sulla vita.

È con una certa gratitudine che si trovano – ancora su Avvenire – parole diverse, e da una fonte che non ti aspetteresti. Afferma il vescovo Elio Sgreccia, presidente onorario della Pontificia Accademia per la vita: «Dal punto di vista bioetico, se è considerata lecita e meritoria la donazione di organi tra viventi quando si tratta di un fratello, un figlio o un coniuge, altrettanto si deve ritenere se la donazione avviene per una persona verso la quale non ci sono vincoli di parentela».
Ma la riconoscenza maggiore va naturalmente ai tre anonimi aspiranti donatori:
Voglio donare un rene, non voglio sapere a chi. Mi basta essere certa che si tratta di una persona che ne ha bisogno. Diceva così il fax ricevuto qualche tempo fa dal primario di un grande ospedale del nord-ovest. La mittente è una giovane donna che in cambio chiede solo l’anonimato e la cui identità è protetta dai sanitari che già sono in contatto con lei. «La solidarietà è un bene raro, lo voglio fare per questo», ha spiegato nel primo incontro con i medici, aggiungendo di non essere spinta a questo gesto da motivi religiosi ma solo umanitari e di solidarietà: «La vita è stata buona con me. Adesso voglio contribuire a fare del bene anche agli altri». Dello stesso tenore sarebbero le motivazioni degli altri due «samaritani» che hanno espresso simili intenzioni nell’arco di pochi mesi (Ansa, 17 febbraio, 20:52).

mercoledì 20 gennaio 2010

I trucchetti della Roccella

Eugenia Roccella torna, per rispondere ad alcuni critici, sulla vicenda della sentenza del Tribunale di Salerno, che ha consentito la diagnosi di preimpianto a una coppia portatrice di una gravissima patologia genetica («I finiani mi accusano senza conoscere la realtà», Il Giornale, 19 gennaio 2010, p. 4); e così facendo ricorre al suo consueto arsenale di trucchi volgari. Vediamo quali.

L’eugenetica è sempre stata introdotta «a fin di bene», motivandola con la pietà e con la necessità di eliminare il dolore. È qui che si inserisce la nuova utopia scientista che, sostituendosi alle grandi utopie sociali del secolo scorso, promette ancora un uomo nuovo, e ci illude che la sofferenza, la malattia, l’imperfezione, l’ingiustizia del caso, si possano sconfiggere e abolire. […] Ha fatto bene Giorgio Israel, sul Giornale di sabato scorso, a sottolineare come sia antiscientifico attribuire alla medicina uno statuto di scienza indiscutibile, in grado di offrire certezze.
È la vecchia tecnica dell’uomo di paglia: attribuire ai propri avversari idee che quelli non hanno mai avuto, al solo scopo di confutarli meglio. La diagnosi genetica di preimpianto – come tutte le tecniche biomediche – non offre certezze ma solo probabilità; non si propone di abolire la sofferenza ma di diminuirla. E nulla vieta di rivendicare un diritto anche se il suo godimento è soltanto probabile: il fatto che potrebbe in teoria morire prima di raggiungere l’età pensionabile non priva affatto un lavoratore del diritto alla pensione. Quanto all’articolo di Giorgio Israel citato dalla Roccella, consiste in un sermone sui massimi sistemi che non cita mai una volta la concreta malattia del caso in esame (l’atrofia muscolare spinale di tipo 1): solo così l’autore può far credere che essa ricada nel novero delle patologie genetiche di cui le cause non sono ben note e la prevenzione risulta aleatoria.
Per avere conferma sul piano pratico delle acute osservazioni di Israel, basta considerare alcuni studi recenti, assai poco rassicuranti: il tasso di disabilità tra i bimbi selezionati geneticamente sembra essere uguale o addirittura maggiore di quello esistente tra i bambini non selezionati.
Qui l’inganno si fa atroce, perché la Roccella – per colpa o per dolo – dà informazioni fuorvianti su un tema attinente alla salute; cosa già grave di per sé, ma doppiamente grave per chi come lei riveste un ruolo istituzionale.
La diagnosi genetica di preimpianto si effettua prelevando e analizzando una delle cellule dell’embrione, quando questo ne conta ancora molto poche (in genere otto o poco più). L’operazione sembra priva di conseguenze: statisticamente, le anomalie congenite sviluppate da embrioni sottoposti a questa diagnosi non eccedono quelle degli altri embrioni concepiti in vitro (che poi questi ultimi abbiano a loro volta più anomalie degli embrioni normali è un argomento dibattuto – ricordiamo comunque che l’alternativa per questi bambini è di non esistere – ma qui ci interessa solo la diagnosi preimpianto). Alcuni studi hanno rivelato un leggero aumento di anomalie, ma è chiaro che in ogni caso il gioco vale la candela: nel caso dell’atrofia muscolare spinale di tipo 1 la probabilità di due portatori sani di avere un bambino affetto da una malattia che lo porterà a una morte certa entro il primo anno di vita è del 25%, ben superiore in media a qualsiasi danno (magari lieve) possa derivare dalla diagnosi genetica, ammesso che ne produca.
Questi sono i fatti; ora vediamo che versione ne dà la Roccella. Se leggiamo attentamente le sue parole, scopriamo con stupore che in realtà non sta dicendo niente di diverso: «il tasso di disabilità tra i bimbi selezionati geneticamente sembra essere uguale o addirittura maggiore di quello esistente tra i bambini non selezionati». Ma allora perché mai questi dati dovrebbero essere «assai poco rassicuranti»? Se il tasso di disabilità è uguale a quello dei bambini non «selezionati» vuol dire che la selezione non presenta controindicazioni! L’equivoco in cui la Roccella è caduta – o cerca di farci cadere – consiste con ogni probabilità nel termine di paragone: per lei, i bambini non «selezionati» sono quelli concepiti da genitori portatori della malattia; in questo caso la diagnosi genetica sarebbe effettivamente inutile o dannosa. Come è ovvio, invece, gli studi paragonano i bambini sottoposti alla diagnosi a tutti gli altri bambini, concepiti da genitori mediamente sani. Un fraintendimento davvero colossale.
La Roccella passa poi a prendersela con Sofia Ventura, rea di averla criticata su FfWebMagazine, il periodico online della fondazione finiana FareFuturo («Quanto non ci piace la “destra paternalista”», 18 gennaio):
La Ventura conviene che il diritto al figlio sano non può esistere, ma che deve valere la libertà di ricorrere alle tecniche secondo i propri criteri soggettivi. La libertà, però, va regolata, e se non ci fossero norme e divieti, sarebbe possibile fare un figlio a 70 anni, vendere e comprare ovociti ed embrioni, affittare uteri. Perché no? Se deve valere il mio criterio soggettivo, perché mettere limiti?
Se qualcuno «conviene» in qualcosa con Eugenia Roccella, si può essere ragionevolmente sicuri che stia sbagliando. Dire, come fa la Ventura, che esiste «la “libertà” di fare ricorso alle applicazioni della scienza» è solo un altro modo di affermare un diritto alla maternità e un diritto ad avere figli sani. Che queste cose non possano essere garantite con certezza non esclude affatto, come abbiamo già visto, che esse costituiscano dei diritti, e precisamente dei diritti negativi alla non interferenza: se esiste un medico disposto ad applicare quelle tecniche, nessuno deve interferire senza fondato motivo nel libero rapporto che si instaura fra quello e il paziente. La Roccella ricorre a questo punto all’ennesimo trucco argomentativo, quello della falsa dicotomia: o esiste una libertà sregolata e «soggettiva», o non esistono diritti esigibili. Ma dal punto di vista liberale il limite ai miei diritti esiste, anche se è uno solo, cioè quello del rispetto dei diritti altrui. Nel caso della diagnosi preimpianto questo significherebbe come minimo riconoscere all’embrione diritti pari a quelli degli altri soggetti implicati – ammesso, naturalmente, che risparmiare al concepito una morte per lento soffocamento all’età di sei mesi significhi rispettarne i diritti. Ma l’attribuzione di questi diritti non può essere data per scontata, e di fatto il nostro ordinamento giuridico non la riconosce. La Roccella abolisca la legge sull’aborto e modifichi l’art. 1 del Codice Civile, se ci riesce, e poi ne riparliamo.
E perché, soprattutto, questa distinzione tra diritto e libertà non vale per il fine vita? Ognuno di noi ha la libertà di morire, di mettere a rischio la propria vita e la propria salute. Ma tutto questo non può essere codificato in diritti esigibili. Esistono norme che impongono la cintura di sicurezza e il casco, e che vietano la vendita dei propri organi o il suicidio assistito. Insomma, sono libero di suicidarmi, ma non posso pretendere che il medico, o il Servizio sanitario nazionale, siano obbligati a garantirmi questa possibilità.
Qui emerge la consueta propensione dell’integralista alla neolingua. «Libertà», per la Roccella, non significa libertà giuridica ma mera possibilità fisica di compiere un atto: il malato terminale è libero di suicidarsi solo nel senso di avere la capacità di buttarsi dal terrazzo se nessuno è presente, ma non può chiedere a nessuno di aiutarlo a porre fine in modo più umano alle proprie sofferenze e non può nemmeno impedire che qualcuno lo blocchi e lo faccia ricoverare in manicomio. «Diritti» sono solo quelli che possiamo costringere qualcun altro ad erogarci; il libero accordo fra individui resta fuori dall’orizzonte mentale della Roccella – assieme del resto a molte, molte altre cose.

giovedì 12 novembre 2009

Eugenia Roccella e il caso Cucchi

Cos’ha da dire il sottosegretario al Welfare, Eugenia Roccella, sul caso di Stefano Cucchi, il giovane massacrato di botte mentre si trovava in custodia cautelare e morto all’ospedale Pertini di Roma? Vuole forse spendere qualche parola contro i medici che hanno lasciato morire Cucchi senza intraprendere tutte le misure atte a salvarne la vita? In un certo senso sì; ma per la Roccella la colpa dei medici consisterebbe sorprendentemente nell’aver rispettato il consenso informato. Scrive infatti sul Riformista di ieri («Cucchi andava curato pure contro la sua volontà», 11 novembre 2009, p. 6):

Non è ancora chiaro se Cucchi abbia effettivamente firmato il foglio con cui negava l’autorizzazione a informare i parenti, ma non abbiamo motivo, a oggi, di dubitare delle dichiarazioni degli operatori sanitari circa il suo rifiuto delle cure, del cibo, dell’idratazione per endovena. Cucchi, dicono, ha mantenuto la sua lucidità per tutto il tempo, e fino alla fine, lucidamente, non ha voluto le terapie, mostrando disinteresse per la propria salute. Ma anche se così fosse, se Stefano avesse firmato tutti i consensi informati possibili, e davvero si fosse lasciato andare alla disperazione, basterebbe questo a giustificare umanamente, e non solo burocraticamente, la sua morte?
Dopo aver elencato alcuni casi controversi di rifiuto delle cure, compreso per ultimo quello di Eluana Englaro, scrive ancora:
Oggi c’è il caso, del tutto speculare, di Stefano, che forse ha rifiutato consapevolmente acqua e cibo. Ma di fronte a una persona sola e provata, a un ragazzo fragile, non era più giusto ribellarsi, intervenire, rischiare una solidarietà magari non voluta?
Lo scopo della Roccella sembra essere duplice: da un lato, sotto l’apparenza di far loro un rimprovero, si assolvono sostanzialmente i sanitari – ma anche si attenua, senza parere, la responsabilità di chi ha provocato le lesioni al giovane; Stefano Cucchi, per il sottosegretario, si è praticamente suicidato. Dall’altro lato, e soprattutto, si cerca di segnare un punto nella diatriba in corso sull’autodeterminazione del malato, facendo leva sull’emozione suscitata dal caso Cucchi proprio in coloro che sono favorevoli a lasciare al paziente la più ampia possibilità di scelta.

Sfortunatamente per la Roccella, però, la vicenda di Stefano Cucchi è estremamente diversa da quella di un malato che sceglie di non proseguire i trattamenti sanitari per salvaguardare la propria visione di ciò che costituisce una vita degna di essere vissuta. Se si sfoglia la corposa documentazione clinica del caso (PDF, 12MB), meritoriamente raccolta e messa a disposizione da Luigi Manconi e dall’Associazione A buon diritto, ci si rende conto che il rifiuto delle terapie e dell’alimentazione non era altro che un mezzo disperato messo in opera da Stefano Cucchi per poter parlare con il proprio legale. A p. 27 del file troviamo infatti il diario clinico relativo al 21 ottobre, in cui un medico ha annotato di proprio pugno: «il paziente rifiuta perché vuole parlare prima con il suo avvocato e con l’assistente della comunità CEIS di Roma [una comunità di assistenza ai tossicodipendenti]». Lo stesso concetto è ripetuto in un fax inviato lo stesso giorno dall’ospedale al Tribunale di Roma (p. 30). (Un ulteriore motivo alla base del rifiuto sembra consistere in alcune informazioni errate che Stefano Cucchi aveva sulla celiachia di cui soffriva: il giovane, come nota il diario clinico alla stessa pagina 27, credeva di non poter mangiare riso, patate e carne.) Il dovere dei medici, dunque, era di attivarsi immediatamente per procurare un contatto del legale di Cucchi con il suo assistito, e non certo di sottoporre il giovane all’alimentazione forzata, atto vietato dal Codice di deontologia medica, mentre il codice di procedura penale (art. 104, c. 1) stabilisce che «L’imputato in stato di custodia cautelare ha diritto di conferire con il difensore fin dall’inizio dell’esecuzione della misura» (non mi risulta che sussistessero le «specifiche ed eccezionali ragioni di cautela», previste dallo stesso articolo, che sole possono far dilazionare l’esercizio del diritto di conferire con il difensore). Non so cosa abbiano fatto i medici, ma in ogni caso era troppo tardi, perché il giorno dopo Stefano Cucchi moriva per una crisi cardiaca.
È importante notare che il sottosegretario sembra conoscere questo diario clinico, visto che ne cita quasi alla lettera un passo: si confronti la frase «mostrando disinteresse per la propria salute» della Roccella con l’annotazione «il paziente tuttavia esprime verbalmente disinteresse per le proprie condizioni di salute» a p. 26 del file. E del resto del rifiuto delle terapie allo scopo di poter parlare con il proprio avvocato si era parlato nei giorni precedenti (si veda il pezzo dello stesso Riformista, 10 novembre, p. 7). Ma delle circostanze più scomode per la sua tesi Eugenia Roccella non fa parola...

Quello prefigurato dalla Roccella è una sorta di ciclo integrale della violenza di Stato: lo Stato che prima viola l’integrità corporea di chi si trova in sua balia, rompendogli (letteralmente) la schiena a furia di percosse, la dovrebbe violare poi una seconda volta cacciandogli nel naso un sondino per l’alimentazione forzata; alla violazione delle libertà fondamentali (che la Roccella ovviamente condanna) si risponde non ripristinandole, ma procedendo a un’ulteriore violazione (che la Roccella loda). I diritti dileguano; il linguaggio dello Stato rimane unicamente quello del puro dominio, declinato ora nella forma più brutale delle legnate, ora in quella più ipocrita delle cure obbligatorie.

domenica 2 agosto 2009

Intanto la Roccella...

... elabora le strategie future:

(ANSA) - ROMA, 1 AGO - Per l’intervento di aborto farmacologico con l’utilizzo della pillola abortiva Ru486 «sarà fondamentale il consenso informato da parte della donne» e, nell’ambito del consenso informato, «è possibile pensare anche ad un questionario, sul modello di quelli già in uso in altri paesi, per appurare l’esistenza di requisiti minimi di sicurezza ai fini dell’attuazione dell’intervento stesso». A spiegarlo è il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella. Per il ricorso all’aborto farmacologico, «le condizioni saranno previste proprio nell’ambito del consenso informato, a partire dal ricovero». Tra le ipotesi, ha affermato Roccella, «anche l’utilizzo di un questionario per appurare l’esistenza di alcune condizioni essenziali perchè l’intervento risulti sicuro per la donna, come ad esempio la vicinanza di un ospedale alla abitazione o il fatto che non sia sola». L’eventuale decisione da parte della paziente che richiede l’intervento di firmare per la dimissione dalla struttura ospedaliera dopo l’assunzione della pillola Ru486, ha concluso Roccella, «dovrà essere scoraggiata dagli operatori sanitari e, comunque, risulterà appunto fondamentale il consenso informato».
Altri particolari su Repubblica (Carmelo Lopapa, «“Non ci sarà un altro caso Englaro”: il governo prepara la contromossa», 1 agosto, p. 3):
Due le condizioni allo studio per arginare una liberalizzazione tout court dell’utilizzo della pillola abortiva. “Si tratta di misure da concordare con le Regioni, sia chiaro – spiega il sottosegretario Roccella – che potrebbero essere inserite in un provvedimento più ampio finalizzato alla piena attuazione della 194, finora poco applicata nella parte dedicata alla prevenzione”. Punto primo, ricorso alla Ru486 solo a condizione che l’espulsione dell’embrione coincida col ricovero obbligatorio. Punto secondo, subordinare l’utilizzo della pillola alle sole donne che superano una sorta di test socio-psicologico, sulla scia del questionario adoperato in Francia, dove l’aborto chimico è datato 1988. Il test consentirebbe di vietare la pillola per le categorie considerate più a rischio: le donne che non hanno conoscenze linguistiche adeguate (straniere da poco in Italia), chi risiede ad oltre un’ora da un ospedale, chi non ha un’alta tolleranza al dolore, le donne sole o prive di assistenza, quelle prive di un’auto. È una bozza, un’ipotesi in cantiere che tuttavia – sanno bene al ministero – non potrà essere imposta, semmai pilotata attraverso protocolli di intesa con le Regioni.
In sé, l’idea delle condizioni non è sbagliata: è ovvio che esistono dei requisiti minimi da soddisfare perché l’aborto farmacologico possa avvenire in sicurezza. Ma a che altezza sarà posta l’asticella? Saranno tutte ragionevoli e necessarie le condizioni? Che senso ha, per esempio, imporre fra queste la disponibilità di un’automobile quando già viene richiesto di risiedere a meno di un’ora da un ospedale?
Può essere utile, per giudicare la ragionevolezza di queste e di altre future condizioni, fare un confronto con quelle che in Francia l’Association Nationale des Centres d’Interruption de grossesse et de Contraception (ANCIC) raccomanda di verificare ai medici prima di praticare un aborto con la RU-486. Si noti che l’ANCIC fa riferimento all’aborto farmacologico praticato fuori dagli ospedali: in Francia, a partire dal 2001, è consentito a medici qualificati di somministrare la pillola abortiva nei loro studi; le pazienti possono tornare subito alle proprie occupazioni. La situazione non è comunque drasticamente diversa da quella di una donna dimessa subito o entro poche ore da un ospedale dopo l’assunzione del farmaco; ritroviamo in queste raccomandazioni la residenza entro un’ora di tragitto dall’ospedale e la vicinanza di un’altra persona, ma non ovviamente la disponibilità di un’auto. (A proposito: da dove avrà tirato fuori, la Roccella, la notizia del «questionario adoperato in Francia»? Non ne trovo traccia da nessuna parte, nemmeno nella circolare del 26 novembre 2004, che regola l’aborto farmacologico fuori dagli ospedali, e in cui si parla solo di una consultation psycho-sociale – cioè di una «visita psico-sociale» – comunque solo facoltativa per le donne maggiorenni.)
Le cose peggiorano – e parecchio – con lo «scoraggiamento» richiesto agli operatori sanitari, che ovviamente non trova paralleli in nessun altro sistema sanitario. Certo, la donna avrà sempre il diritto di infilare la porta e andarsene; ma la prospettiva di dover probabilmente litigare con qualcuno che ti sbarra la strada e ti urla che stai andando incontro a morte quasi certa – qualcuno che magari sa che la sua carriera dipende da quante donne riesce a trattenere, o che è stato pescato direttamente dal serbatoio dei puri e duri – non è propriamente incoraggiante. A quel punto l’aborto chirurgico sembrerà forse la strada più semplice.
Non ci resta, direi, che sperare nelle Regioni...

sabato 27 giugno 2009

RU486: sommando mele e arance

Eravamo stati, qualche giorno fa, facili profeti nel pronosticare un ricorso da parte degli integralisti alla carta della sicurezza di fronte all’imminente prospettiva del via libera alla pillola abortiva: un’ora e venti minuti dopo la pubblicazione del post su Bioetica, le agenzie rilanciavano le dichiarazioni del sottosegretario Roccella su un dossier della Exelgyn (la casa produttrice della RU-486) che riportava una serie di decessi seguiti all’assunzione di mifepristone, il principio attivo alla base della pillola abortiva. Poco dopo un’altra agenzia citava un documento redatto da Assuntina Morresi, consulente della Roccella, che – trasgredendo a quanto pare un accordo di riservatezza stipulato con la Exelgyn – scriveva fra l’altro:

Dal 28 dicembre 1988 al 28 febbraio 2009 sono riportati 29 decessi a seguito di mifepristone. Non è possibile calcolare il numero dei pazienti esposti, perché le dosi utilizzate per le diverse indicazioni sono variabili. Dodici decessi sono a seguito di ‘uso compassionevole’ e diciassette a seguito di aborto medico, confermando tutte le segnalazioni risultate dalle inchieste giornalistiche, ed aumentandone il numero.
Come valutare queste «rivelazioni», in particolare per quanto riguarda l’unica informazione autenticamente nuova, cioè quella sui dodici morti in seguito all’uso compassionevole del farmaco?
Cominciamo col dire che quasi nessuno dei 29 decessi è al momento attribuibile con certezza all’effetto del mifepristone. In alcuni casi il rapporto causale è molto probabile; in altri si tratterà verosimilmente di una concomitanza casuale di eventi, in cui solo la tendenza a cadere nella vecchia fallacia del post hoc, ergo propter hoc potrebbe far scorgere qualcosa di più sostanziale. Notiamo in particolare che con «uso compassionevole» di un farmaco si intende l’uso off label – cioè al di fuori degli impieghi approvati ufficialmente – in casi in cui non sono disponibili altri trattamenti; e in effetti il mifepristone è stato sperimentato fra l’altro nel trattamento di alcuni tipi di cancro. Sembra intuitivo che in questi casi la mortalità spontanea sia abbastanza elevata, e che il decesso possa dunque verificarsi in casuale concomitanza con l’assunzione di un farmaco.
Una seconda osservazione riguarda il tentativo più o meno velato di implicare che se i casi mortali noti sono raddoppiati allora è raddoppiata anche la mortalità. Ora, in questi casi la mortalità non va misurata in valori assoluti ma bensì in percentuale: un farmaco che causa 30 morti su 30 somministrazioni è un potente veleno, mentre uno che ne causa 30 su 30 milioni è un prodotto molto sicuro (il rischio zero, ahimè, non esiste). Allora, se vogliamo conteggiare i morti per uso compassionevole assieme agli altri, dovremo anche sommare i trattamenti totali per uso compassionevole a quelli per aborto; ma da questo segue (è algebra elementare) che, a meno che i trattamenti per uso compassionevole non siano in numero molto minore degli altri, la mortalità non raddoppia, neppure approssimativamente; in effetti, se i trattamenti per uso compassionevole fossero più numerosi degli altri (cosa, va ammesso, molto improbabile), la mortalità totale sarebbe diminuita!
Ma in fondo – e veniamo alla terza, fondamentale osservazione – questi discorsi sono oziosi. I rischi di un farmaco sono sempre collegati a una molteplicità di fattori: età e condizioni di salute del paziente, altre patologie presenti, predisposizioni genetiche, modalità di assunzione, dose, interazioni con altri farmaci, etc. etc. Per questo motivo, sommare il rischio della somministrazione del mifepristone a giovani donne sane al rischio della somministrazione a pazienti terminali equivale alla proverbiale somma di mele e arance – e mi scuso se il paragone può apparire irrispettoso per le vittime. Se i rischi per patologie differenti fossero comparabili, ne seguirebbe la conclusione assurda che di ogni farmaco che si fosse dimostrato sicuro per una patologia si potrebbe approvare l’uso off label per qualsiasi altra patologia e per qualsiasi altra classe di pazienti senza bisogno di testarne daccapo la sicurezza. Eppure Morresi & Co., quando pensano che faccia loro comodo, dimostrano di conoscere la distinzione fra i rischi connessi a usi differenti di uno stesso farmaco: sempre a proposito dell’aborto farmacologico, si odono spesso le loro alte strida perché il Cytotec, la prostaglandina che serve a espellere l’embrione dopo l’assunzione del mifepristone, è ufficialmente registrato solo come gastroprotettore, non come abortivo.
Se non sapessimo nulla dei rischi dell’uso del mifepristone come abortivo, allora i rischi legati al suo uso in campi diversi potrebbero forse servire da prima, grossolana indicazione; ma non è questo il caso. In Francia, per dirne una, il mifepristone è usato dal 1988 nell’aborto medico. Dal 1992, da quando cioè viene usato in associazione con misoprostol (cioè Cytotec) o gemeprost (un’altra prostaglandina), perlopiù secondo il protocollo che verrà usato anche in Italia, i trattamenti effettuati sono stati più di un milione; su questi, il numero di vittime è stato esattamente pari a zero. Zero. Ma di questo gli integralisti non amano parlare...

mercoledì 20 maggio 2009

La zuppa della Roccella

Repubblica intervistava ieri il sottosegretario Eugenia Roccella a proposito delle dichiarazioni del Presidente della Camera sulla laicità delle leggi («Roccella: “Il Presidente dice cose non vere”», 19 maggio 2009, p. 4). L’ultima domanda è sul testamento biologico, e la risposta della Roccella merita di essere riportata:

IL ddl sul testamento biologico obbliga all’idratazione e alla nutrizione artificiale.
«Non è un obbligo. Non c’è la possibilità di rifiutare».
Ieri notte ho avuto un incubo. Mi trovavo in ospedale, e all’ora del pranzo si avvicinava al mio letto un’infermiera, spingendo il carrello portavivande. La guardo in faccia, e – sorpresa! – mi accorgo che si tratta del sottosegretario Roccella in persona. «Avanti, prenda», mi fa, con i modi simpatici che tutti conosciamo, cacciandomi in mano una scodella fumante. «Oh, grazie signora, ma credo che salterò la zuppa e passerò direttamente al...». «ZUPPA?! QUALE ZUPPA?? Non vede che si tratta di pan bagnato?!». Poi, di fronte al mio attonito silenzio, aggiunge più dolcemente: «Ma comunque nessuno la obbliga». Sospiro di sollievo. «Però sappia che non lo può rifiutare».

sabato 10 gennaio 2009

A forza di ripetere magari qualcuno ci casca

Che ad Eugenia Roccella manchi il dono del ragionamento (e tante altre condizioni necessarie per essere considerata un essere pensante) lo si sapeva già. Ma rileggere alcune delle solite sgangherate argomentazioni fa pur sempre, ancora e ancora, saltare sulla sedia.
Eccola prodursi in una splendida intervista, dalla quale prendiamo due risposte - siamo masochisti, ma entro certi limiti.

Onorevole, quali saranno i punti chiave della legge?

"La legge consentira’ a tutti di lasciare dichiarazioni scritte sulla volonta’ di trattamento nel caso che dopo grave malattia o incidente non possano piu’ comunicare le proprie volonta’. Ma alimentazione e idratazione devono essere escluse dal testamento biologico. Diverso e' il caso della respirazione, legata a una macchina. Quanto al medico, la legge dovra' recuperare una dialettica con il paziente anche se quest'ultimo non e' in grado di comunicare: con nuove terapie, o in presenza di una diagnosi diversa, il medico potra' interpretare diversamente la volonta' del paziente. Un margine di autonomia che evitera' il problema dell'obiezione di coscienza dei medici. Sono convinta che su questi temi si trovera’ una posizione condivisa in Parlamento".
Nessuna novità, come anticipato. Chissà se a forza di ripetere insensatezze convincerà qualcuno.
Ormai siamo giunti al punto che non si ritiene nemmeno necessario spiegare perché sulla nutrizione e sulla idratazione artificiali non potrei decidere io, ma qualcun altro. La risposta, quella vera, è sintetica: paternalismo, abuso, prepotenza.
Mascherata da cura e pietas, ovviamente.
Interrompere le terapie sara’ possibile, insomma, ma non alimentazione e idratazione: di fatto, nel caso di Eluana Englaro la nuova legge non cambierebbe le cose.

"Eluana non e’ una malata terminale, respira da sola e viene idratata e nutrita, cosi’ come viene accudita, massaggiata, coperta. Tutti atti primari, non terapie, che non possono essere negati a nessuno, come peraltro stabilisce la Convenzione Onu sui diritti dei disabili ratificata dal nostro Parlamento poco tempo fa".
Sarebbe come se domandassimo a qualcuno cosa vuole mangiare e quello ci rispondesse che ha litigato con il fidanzato.
Di commentare non se ne ha quasi più voglia. Solo un dettaglio: ha detto bene Roccella sul fatto che non si possano negare. Il guaio è che lei e quelli come lei vogliono imporli, qualunque sia la volontà del diretto interessato. E questo è ben diverso!
Sulle funamboliche analogie abbiamo già detto innumerevoli volte. Poveretta Rocella, speriamo che non si accorga mai di quanto sia inconsistente e scomposto il suo ragionare, di quanto sia intriso di prepotenza velata di ipocrisia, di quanto sia disonesto il suo tentar di essere acuta.
E poveretti noi che ci ritroveremo, con tutta probabilità, una pessima legge sul testamento biologico.
Una legge che manterrà solo la forma della libertà, per trattarci invece come una massa di idioti incapaci di decidere delle nostre esistenze.

martedì 16 dicembre 2008

Un atto eversivo

Raramente si è visto un atto di disprezzo delle leggi e dei diritti fondamentali paragonabile a quello compiuto oggi dal ministro Sacconi, con la complicità dei sottosegretari Martini e Roccella. Il cosiddetto «atto di indirizzo» del ministro, infatti, pretende di stabilire cosa sia legale in questo paese; non potendolo fare da sé – saremmo in pieno golpe, visto che come tutti sanno un atto amministrativo di un ministero non può avere valore di legge – fa riferimento a un parere del Comitato Nazionale per la Bioetica e alla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. Ma un parere del CNB non ha forza di legge; e la Convenzione Onu non è ancora stata ratificata dal Parlamento (c’è solo l’approvazione del relativo disegno di legge da parte del Consiglio dei Ministri lo scorso 28 novembre – e a questo punto c’è da chiedersi quale fosse il vero scopo di questo atto del Governo). L’atto del ministro Sacconi è quindi nullo e illegale.
Questo dal punto di vista formale; dal punto di vista sostanziale, come già facevamo notare poco tempo fa, la Convenzione stabilisce all’art. 25 che

States Parties shall […] prevent discriminatory denial of health care or health services or food and fluids on the basis of disability.
Si noti la lettera dell’articolo: «discriminatory denial», rifiuto discriminatorio. Si ha discriminazione quando qualcuno è trattato ingiustamente in modo diverso dagli altri. Ma la Costituzione della Repubblica Italiana vieta l’imposizione di trattamenti sanitari senza il consenso del paziente (art. 32), e più in generale ogni restrizione della libertà personale (art. 13); il Codice di deontologia medica proibisce espressamente all’art. 53 di procedere o collaborare «a manovre coattive di nutrizione artificiale». Perché queste norme non si dovrebbero applicare anche ad Eluana Englaro, visto che la donna aveva manifestato a suo tempo la volontà di non essere sottoposta a trattamenti che ne prolungassero artificialmente l’esistenza? Sospendere l’alimentazione artificiale ad Eluana Englaro non è dunque discriminazione, perché questo è un diritto riconosciuto a tutti i cittadini italiani non disabili.
Nello stesso articolo citato della Convenzione si legge del resto:
[States Parties shall] require health professionals to provide care of the same quality to persons with disabilities as to others, including on the basis of free and informed consent [corsivo mio].
La traduzione ufficiale francese si comprende ancora meglio:
[Les États Parties] exigent des professionnels de la santé qu’ils dispensent aux personnes handicapées des soins de la même qualité que ceux dispensés aux autres, notamment qu’ils obtiennent le consentement libre et éclairé des personnes handicapées concernées.
La discriminazione consiste proprio nel non riconoscere ad Eluana Englaro il diritto a ricevere solo le cure per le quali aveva dato il suo consenso. È questa la vera, unica violazione della Convenzione Onu.

In uno Stato serio Sacconi e i suoi sottosegretari sarebbero costretti entro domani alle dimissioni. Ma naturalmente questo non accadrà; non qui.

lunedì 3 novembre 2008

Eugenia (Roccella) e Bobby (Sands)

Riceviamo dal nostro affezionato Epicuro e volentieri postiamo.

Fra le tante argomentazioni capziose che il sottosegretario Eugenia Roccella ha sciorinato durante la puntata dell’“Infedele” dedicata al caso Eluana, una mi ha particolarmente colpito per il suo cieco ideologismo abbinato a una notevole ignoranza. A un certo punto l’ineffabile ex portavoce del Family Day ha portato l’esempio di Bobby Sands, il più famoso dei dieci detenuti irredentisti nordirlandesi appartenenti all’Ira e all’Inla, movimenti di lotta armata contro la presenza britannica nell’Ulster, che morirono nel 1981 in seguito allo sciopero della fame intrapreso per chiedere che fosse loro riconosciuto lo status di prigionieri politici.

Cito a memoria perché non ricordo le parole esatte, ma il ragionamento di Eugenia suonava così: “Ho parlato di quel caso con un inglese, il quale mi ha detto che per loro, se Sands era disposto a perdere la vita, si poteva anche lasciarlo morire. Ma io sono contenta di appartenere a un paese di cultura cattolica, dove in una situazione del genere sarebbe successo il finimondo”.

Insomma, vituperio ai laicisti anglicani britannici (gli stessi così scandalosamente permissivi in fatto di bioetica), che hanno lasciato crepare Sands perché contagiati da una fredda cultura della morte, e gloria eterna alla Santa Chiesa Cattolica e Apostolica, paladina immacolata della difesa della vita. Peccato che presentare la vicenda in questo modo sia una grossolana falsificazione, dovuta certo più a scarsa conoscenza dei fatti che a malafede, ma non per questo meno grave.

Andiamo con ordine. E’ forse il caso di notare, innanzitutto, che i detenuti impegnati nello sciopero della fame nella prigione di Long Kesh erano tutti fedeli della Chiesa di Roma (basta leggere il diario di Sands per constatare che pregava tutti i giorni, andava regolarmente a messa, riceveva visite di sacerdoti) e che tra la popolazione cattolica del Nord Irlanda (a lungo oppressa dal potere dei protestanti unionisti, decisi a tenere la regione sotto la sovranità del Regno Unito) divennero enormemente popolari, tanto che Sands fu eletto al Parlamento di Westminster mentre conduceva la sua protesta in carcere. E altri due detenuti in sciopero della fame (hunger strikers) furono eletti al Parlamento di Dublino.

In secondo luogo non è affatto vero che i britannici li lasciarono morire per indifferenza verso la vita. Il punto è un altro: il premier britannico Margaret Thatcher, che al sottosegretario Roccella non dovrebbe essere poi così antipatica, era nettamente contraria a concedere un riconoscimento politico ai militanti dell’Ira. “Non sono pronta a prendere in considerazione l’idea – dichiarò la lady di ferro il 21 aprile 1981 – di concedere lo status politico a gruppi di persone che sono state condannate per aver commesso dei crimini. Un crimine è un crimine; non ha nulla di politico”. La sua posizione in fondo fu analoga a quella dei cattolicissimi governanti democristiani, Giulio Andreotti in prima fila, che tre anni prima avevano rifiutato ogni trattativa con i rapitori di Aldo Moro.

Si potrebbe obiettare che i britannici non sottoposero i detenuti a nutrizione coatta. E’ vero: “Se Sands persisterà nella sua volontà di commettere suicidio ciò sarà una sua scelta personale. Il governo inglese, da parte sua, non gli imporrà l’assistenza medica forzata”, dichiarò il 28 aprile 1981, una settimana prima della morte del detenuto, il segretario di Stato per l’Irlanda del Nord Humphrey Atkins. Quindi il governo di Londra tenne effettivamente la posizione rimproveratagli da Eugenia Roccella. Solo che la Chiesa cattolica non si sognò mai di chiedere l’alimentazione coatta: insistette sulle autorità britanniche perché accettassero le richieste degli hunger strikers, implorò questi ultimi di cessare l’azione di protesta, ma accettò il loro diritto all’autodeterminazione, quello che invece, secondo la Cei e i suoi pappagalli tipo Eugenia, non può essere il fondamento di una valida legge sul testamento biologico. E teniamo conto che gli hunger strikers non erano persone gravemente malate che chiedessero di cessare cure divenute per loro insopportabili: erano giovani sani che di loro volontà rifiutavano quella nutrizione che, sempre secondo la Chiesa e gli atei devoti, non deve mai essere fatta mancare a nessuno (nemmeno agli individui nella condizione di Eluana Englaro, anche se lo avessero richiesto quando erano ancora coscienti), perché non si tratta di terapia, ma di semplice assistenza.

C’è di più: a un certo punto i britannici sostennero che uno degli hunger strikers, Raymond McCreesh, ormai prossimo al coma, aveva manifestato incertezza circa la sua volontà di proseguire nello sciopero della fame. E si rivolsero ai parenti, tra i quali c’era un fratello prete cattolico, Brian Mc Creesh, per chiedere il loro consenso onde procedere alla nutrizione di Raymond. Quale fu la risposta di Brian? Cito da “I cristiani d’Irlanda e la guerra civile (1968-1998)” dello storico cattolico Paolo Gheda: “Il sacerdote si assunse la responsabilità e confermò al medico di non avere avuto alcuna comunicazione da parte del fratello di una sua eventuale volontà di concludere lo sciopero. Nel frattempo ebbe anche modo di osservare che il fratello aveva subito trattamenti chimici e ipotizzò che fosse stato drogato”. Poi Brian si rivolse al primate d’Irlanda, cardinale Thomas O’Fiaich, e “questi fu d’accordo con lui nel sostenere che Raymond era stato drogato per indurlo a desistere dallo sciopero” (pp. 103-104). Insomma, la Chiesa cattolica mostrò un assoluto rispetto per il diritto all’autodeterminazione di McCreesh (morto pochi giorni dopo), a costo di subire in seguito una violenta polemica da parte della stampa inglese. Più tardi la gerarchia ecclesiastica fece pressione sulle famiglie perché chiedessero assistenza medica per gli hunger strikers entrati in coma, ma non chiese mai che venissero alimentati contro la loro volontà o contro quella dei loro cari.

Per concludere va ricordato che Sands e altri nove detenuti si lasciarono morire, ma la Chiesa cattolica non ebbe alcuna difficoltà a concedere loro i funerali religiosi, negati invece per suo marito alla moglie di Piergiorgio Welby. Quel rifiuto è stato giustificato parlando di “volontà suicida” da parte di Piergiorgio, ma è difficile trovare una determinazione più ferrea di quella dimostrata dagli hunger strikers nell’anteporre la lotta contro i britannici alla sacralità della vita. Solo che erano fervidi credenti, assurti al rango di eroi della comunità cattolica, e la Chiesa non avrebbe mai potuto escluderli dal rito. Il che dimostra come i tanto celebrati “valori non negoziabili” possano risultare sorprendentemente flessibili a seconda delle contingenze politiche.


giovedì 30 ottobre 2008

Testamento orale, testamento scritto

Quelli che lunedì sera hanno trovato la forza di non passare a un altro canale di fronte all’ennesimo sorrisino sarcastico di Eugenia Roccella, ospite di Gad Lerner nella puntata dell’Infedele dedicata a Eluana Englaro, avranno potuto ascoltare a un certo punto l’ennesima riproposizione di un argomento caro all’attuale sottosegretario al Welfare. Alla sentenza della Corte di Cassazione, che ha chiesto di stabilire la volontà della giovane in base alle testimonianze di quanti la conoscevano, la Roccella contrapponeva il fatto che per i testamenti patrimoniali è necessario che la volontà del testatore sia scritta: una volontà orale, ricostruita grazie a testimoni, non avrebbe in questo caso nessun valore – neppure, come ama ripetere il sottosegretario, se il bene ereditato è solo un motorino; a maggior ragione, quindi, dovrebbe essere richiesta una prova scritta della volontà di non essere sottoposti a terapia, visto che in gioco c’è la vita di una persona. Come giudicare questo ragionamento?

È vero: com’è noto il testamento nuncupativo, cioè orale, non è mai valido nel nostro e in altri ordinamenti giuridici (fanno eccezione alcuni Stati americani, e comunque con forti limitazioni). Qual è la ragione di questa esclusione? Forse che è impossibile trasmettere in questo modo la propria volontà? Supponiamo che un tizio proclami ad alta voce, di fronte a una folta tavolata, di voler lasciare tutti i propri beni all’adorata governante, e che un istante dopo stramazzi al suolo morto per un improvviso malore: è chiaro che in questo caso la sua volontà è stata espressa come e più chiaramente di qualsiasi testamento scritto. La vera ragione dell’assenza di valore giuridico di un ‘testamento’ di questo tipo sta in buona parte nella semplificazione, che ne deriva, delle vicende giuridiche che possono accompagnarsi all’esecuzione delle ultime volontà. La forma scritta garantisce infatti di norma una drastica riduzione (anche se certo non l’eliminazione) della necessità di ascoltare testimoni, di ricostruire circostanze e intenzioni precise, etc. Chi vuol fare testamento non ne riceve un danno particolare: se intendete lasciare i vostri beni alla vostra governante siete avvisati, e nulla vi impedisce di stilare per tempo un adeguato documento.
Ma a chi lascia direttive anticipate su quali terapie intende rifiutare e quali accettare non si può rimproverare di non aver seguito il corretto formalismo, perché non esiste ancora una legge in proposito (in tempi recenti grazie anche agli sforzi di persone come la stessa Eugenia Roccella). Una corte che voglia rendere il massimo di giustizia a un malato ormai incapacitato ad esprimersi farà allora proprio quello che ha fatto la Cassazione nel caso Englaro: disporrà che la volontà pregressa – ove sia stata espressa in modo esplicito – sia ricostruita in base a ogni mezzo, comprese le testimonianze di quanti hanno conosciuto quella persona. Ricordiamo che la Corte in questo modo non sta stabilendo una norma valida per tutti – checché ne dicano gli analfabeti che hanno sollevato il conflitto di attribuzione con le Camere, poi respinto dalla Corte Costituzionale; spetterà al legislatore, quando si occuperà di testamento biologico, fissare eventualmente formalismi analoghi a quelli del testamento patrimoniale (tenendo ovviamente conto delle differenze fra i due istituti).
La Legge, insomma, è fatta per l’uomo, e non l’uomo per la Legge; come dimostra il fatto che, a determinate condizioni, sia possibile provare a mezzo di testimoni il contenuto persino di un testamento patrimoniale andato perduto. Forse la Roccella smetterebbe di sorridere, se qualcuno la prossima volta glielo facesse presente...