Se Slow Food si limitasse a rappresentare i buongustai non ci sarebbe nulla da ridire: che c’è di male nel voler mangiare e bere bene? Ma se vuole porsi come soluzione alla fame nel mondo e ideologia salvifica, lo scenario cambia.
L’ideologia di Slow Food è il sottotitolo del libro di Luca Simonetti Mangi chi può. Meglio, meno e piano (Mauro Pagliai, pp. 120, euro 8,00), analisi impietosa e divertente di una associazione che è sintomo e interprete della condizione politica e dell’opinione pubblica italiane.
Che rapporto ha Slow Food con il linguaggio?
Ambiguo. È tipico del degrado culturale costruire trappole linguistiche. Faccio un esempio recente: Giorgio Fidenato, agricoltore friulano, decide di piantare mais geneticamente modificato in polemica con il Governo e la Regione (ma sostenuto da una sentenza del Consiglio di Stato e dalla normativa europea). Gli attivisti di Greenpeace gli devastano il campo. Il giorno dopo Slow Food costituisce un Presidio per la Legalità e contemporaneamente elogia l’azione, palesemente illegale, di Greenpeace. “Aspettiamo che il Ministero prenda provvedimenti” avvertono “altrimenti li prenderemo noi”. Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, scrive su la Repubblica del 3 agosto un pezzo intitolato Quei campi Ogm in Friuli sono un Far West da fermare, atteggiandosi a tutore della legalità. Fidenato è accusato di essere un cow boy e un delinquente perché non rispetta la legge: ma il Far West è proprio farsi giustizia da soli!
L’ignoranza è una condizione necessaria per sostenere tesi bizzarre, come quella che i fast food sarebbero figli dei tempi attuali e quindi da condannare?
Non sapere o fare finta di non sapere che il cibo “veloce” sia sempre esistito serve a giustificare la condanna della modernità e della tecnica, giudicate di per sé cattive. Slow Food ricostruisce il passato a suo piacimento ignorando la storia e occultando i reali processi di produzione: in un’inesistente età dell’oro tutti avrebbero assaporato i pasti con lentezza e in lieta compagnia, e tutti avrebbero avuto da mangiare. Ma in realtà anche i romani, i cinesi, gli aztechi mangiavano “fast food”, cioè cibi consumati rapidamente e a poco prezzo, e inoltre fino a tempi molto recenti la stragrande maggioranza della popolazione faticava a mettere insieme un pasto decente. Anche se poi fosse vero che i fast food sono innovazioni moderne, non sarebbe questa una ragione sufficiente per condannarli e per ricoprire di ingiurie i loro estimatori, da Slow Food definiti barbari, disumanizzati, stupidi e tristi.
venerdì 24 settembre 2010
Mangiar bene?
Postato da Chiara Lalli alle 10:49 3 commenti
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domenica 9 maggio 2010
Su darwin Slow Food e RU-486
È da pochi giorni in edicola il n. 37 (maggio-giugno 2010) di Darwin, in cui a p. 72 potete trovare una mia recensione del libro di Luca Simonetti, Mangi chi può. L’ideologia di Slow Food (Pagliai, 2010, pp. 119, Euro 8). Questo è l’incipit:
«Il fatto che un movimento come Slow Food – ideologicamente antiprogressista, antiscientifico, idolatra delle società tradizionali, delle piccole comunità stratificate e perenni, dedite a riti e festività atavici, in cui il posto di ognuno è eternamente fisso […] – possa essere oggi considerato, in Italia, di sinistra, è cosa che ci sembra debba generare più di qualche preoccupazione in chiunque abbia a cuore le sorti del nostro paese». È questa preoccupazione che ha spinto Luca Simonetti, avvocato esperto di diritto commerciale, a dedicare la sua prima, brillante «sortita fuori dalle materie giuridiche» all’associazione fondata da Carlo Petrini nel 1986, che oggi conta circa 100.000 iscritti e sedi in sette paesi diversi.(Il libro è la versione aggiornata e ampliata di un articolo che avevo segnalato qualche tempo fa.)
Di interesse per i lettori di Bioetica anche il pezzo di Anna Meldolesi, «Le pillole della politica» (pp. 68-69), sulla pillola abortiva RU-486:
La pillola abortiva Ru486 (mifepristone) ha iniziato a essere somministrata per via ordinaria anche in Italia. Ventidue anni dopo l’approvazione in Francia. Dieci anni dopo il via libera negli Stati Uniti. Ma il divario con gli altri paesi occidentali è tutt’altro che colmato. Quello che sta accadendo, infatti, è che una volta conclusa la battaglia sul divieto, il fronte si è spostato sul terreno dei protocolli, che rischiano di essere piegati all’obiettivo politico di complicare la vita alle donne in cerca di un’alternativa all’aborto chirurgico.
Che la politica si spinga fin dentro questioni tecniche come le modalità di somministrazione di un farmaco è una degenerazione tutta italiana, resa possibile dalla politicizzazione dei nostri organismi tecnico-scientifici. Solo così si spiega che il Consiglio superiore di sanità possa raccomandare il ricovero in ospedale fino all’espulsione del prodotto del concepimento, a differenza di quanto accade negli altri paesi, e nonostante la sperimentazione del farmaco sia già avvenuta in regime di day hospital senza problemi di sicurezza anche in qualche ospedale italiano. […]
Postato da Giuseppe Regalzi alle 12:27 2 commenti
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lunedì 15 febbraio 2010
Dieci volte sì agli OGM
Dario Bressanini dà dieci risposte a Carlo Petrini, che sull’Espresso aveva detto dieci volte no agli OGM:
«I prodotti Gm non hanno legami storici o culturali con un territorio. L’Italia basa buona parte della sua economia agroalimentare sull’identità e sulla varietà dei prodotti locali: introdurre prodotti senza storia indebolirebbe un sistema che ha anche un importante indotto turistico».Da leggere tutto.
FATTO: se questi ragionamenti fossero stati fatti nei secoli scorsi in Italia non si sarebbe potuto importare pomodori, patate, mais, zucchine, melanzane, per non parlare del recente Kiwi, e così via. Il patrimonio agroalimentare italiano è ricco proprio perché è stato in grado di adattare al proprio territorio prodotti di altri paesi. Il già citato grano Senatore Cappelli è una varietà tunisina, senza “legami storici o culturali con un territorio”.
In più esistono molti ogm completamente italiani, sviluppati dalla ricerca pubblica italiana. Pomodoro, melanzana, melo... Lasciamo liberi gli agricoltori di scegliere.
mercoledì 23 settembre 2009
Slow Food non lo mando giù
Luca Simonetti (noto nella blogosfera come Karl Kraus) ha scritto una critica devastante dell’ideologia di Slow Food, il movimento fondato da Carlo Petrini per la riscoperta dei sapori «tradizionali». In 31 pagine ricchissime di citazioni, Simonetti mette in luce il carattere essenzialmente reazionario di un pensiero che serve da copertura a una sinistra affluente, desiderosa di consumi di lusso ma anche ansiosa di dar loro una giustificazione ideologica, e al tempo stesso ignara (e forse disinteressata) dei destini e dei bisogni reali delle masse contadine del mondo.
[I]l ritratto della vita dell’uomo-slow è quella di un signore benestante e fornito in abbondanza di tempo libero. Il modo in cui questo signore è divenuto quel che è, a S[low ]F[ood] non interessa, lo riceve come già dato, lo presuppone. Il fatto che i mezzi che consentono all’uomo-slow di esercitare il suo gusto, i suoi sensi, il suo amore per la ‘lentezza’ possano provenirgli, come di fatto spesso accade, proprio dall’esercizio delle attività ‘diaboliche’ della velocità, dell’industrializzazione, dell’omologazione, insomma del capitalismo, è qualcosa che a SF non viene neppure in mente. Così come non immagina affatto che un simile modo di vita non sia proponibile al di sotto di un determinato livello di reddito, e come tale quindi non possa costituire il fondamento di un ‘nuovo modello di sviluppo’, presupponendo, al contrario, lo sviluppo proprio come di fatto già avvenuto. Questo mettere fra parentesi i processi reali, concreti, questo completo oblio o travisamento dello sviluppo storico reale, è tipico dell’operazione ideologica così come vien definita fin dai tempi di Marx […] attribuire alle società preindustriali, ‘arretrate’ o peggio primitive, la lentezza e il tempo necessario per pensare ecc., è una pura mistificazione. Sono proprio le società ‘sviluppate’ quelle che possono permettersi di ‘perdere tempo’, in quanto gli aumenti di produttività (altra parolaccia, su cui il manifesto di SF, come si è visto, scagliava anatemi) consentono ad esse di produrre maggior reddito in tempi minori. Sono in realtà proprio le società tradizionali, pre-industriali, ‘sottosviluppate’ quelle che dedicano la maggiore quantità di tempo alla produzione del reddito, quelle più ossessionate dalla produzione, nonché quelle che sfruttano più spietatamente le risorse naturali mettendo più a repentaglio l’ambiente. Ma anche questo punto, che pure non è del tutto ignoto a SF, viene sistematicamente taciuto nei suoi tentativi di elaborazione teorica.Da leggere tutto: anche per portare alla luce, fra tante scorie, le cose buone – qualcuna c’è – che Slow Food ha prodotto.
Il risultato allora è fatalmente la denigrazione o anzi negazione del progresso, che in SF si coniuga con l’elogio delle ‘piccole’ comunità locali e la rivalutazione delle tradizioni ataviche e secolari. Neanche questa è una novità: il pensiero reazionario, da Herder in poi, ha sempre insistito sull’imprescindibilità del legame coi luoghi, perché è solo nella dimensione locale che le ‘tradizioni’ possono sopravvivere, e perché solo l’ancoraggio al concreto, al particolare garantisce dagli attacchi che il razionalismo illuminista muove alle istituzioni della società tradizionale. Ma il paradosso è che le “tradizioni” a cui si richiama SF, cioè quelle locali, sono, nella quasi totalità, fenomeni quanto mai recenti, frutto della irrimediabile scomparsa della civiltà contadina preindustriale e, nello stesso tempo, tentativi ideologici di ovviare alla loro scomparsa mettendo al loro posto una “civiltà contadina” e una “campagna” idillico-pastorali del tutto artificiose. La finalità di questa operazione è, storicamente, quella di quietare le ansie della nuova classe egemone trasportando in un passato remoto gli ideali di pace, tranquillità, armonia che essa faticava a trovare nel presente. È difficile negare che il passato idillico a cui SF si richiama (e che non è mai esistito) fosse un passato nel quale le differenze di classe e di sesso erano soverchianti, in cui la mobilità sociale era sostanzialmente inesistente, in cui la quasi totalità della popolazione mancava del cibo in quantità sufficiente, e che la fine di questo sistema – profondamente iniquo ed oppressivo – è dovuta proprio alla vittoria di quel progresso tecnico e a quella crescita economica che SF ritiene responsabile di ogni male.
In questo lavoro ho quindi cercato di enucleare i principali “miti” costitutivi dell’ideologia di SF: le idee di natura, di tradizione, di limite, la critica del progresso e la diffidenza per la scienza, l’elogio del ruolo tradizionale della donna, il legame con la terra e con i luoghi – il semplice elenco sembra piuttosto eloquente. Lo stratagemma che consente a SF, così come ad altre ideologie politiche contemporanee, di presentare questa posizione come “progressista” consiste nel collegare la critica dello sviluppo economico, del progresso scientifico e tecnico e dell’industrializzazione – critica che di per sé è antichissima, avendo accompagnato la Rivoluzione Industriale fin dal suo sorgere – alla critica dell’imperialismo e dell’etnocentrismo da un lato, e dall’altro alla critica del consumismo e della cultura di massa (una posizione quest’ultima del resto assai vicina alla cultura cattolica contemporanea più conservatrice).
Postato da Giuseppe Regalzi alle 17:31 13 commenti
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lunedì 10 agosto 2009
Gli ex sessantottini e l’ex contadino
Sulle pagine dell’Altro è in corso da qualche giorno una polemica, innescata da un articolo di Gilberto Corbellini sugli Ogm e l’agricoltura biologica («Il biologico è moda, il futuro è OGM», 1 agosto 2009, p. 1) che esordiva significativamente così:
Una domanda agli ex-sessantottini che oggi si sono riciclati businessman e lobbisti dell’industria del cibo biologico, e che, con qualche conflitto d’interesse, hanno lanciato anatemi contro quei parassiti degli scienziati inglesi che hanno semplicemente ri-dimostrato quello che si sapeva da dieci anni; cioè che i cosiddetti cibi naturali non sono nutrizionalmente migliori di quelli tradizionali.Vari commenti all’articolo si sono succeduti nei giorni seguenti: di Roberto Musacchio e Francesco Martone («il principio di precauzione, fondativo dell’Europa […]»), di Rina Gagliardi («se ti mandassi un articolo […] contro l’aborto e il femminismo, lo pubblicheresti?»), di Gaia Pallottino («Che ci faceva il pessimo articolo di Gilberto Corbellini in un giornale così attento ai diritti umani, pacifista e quindi necessariamente ambientalista?»), di Vinicio Giandomenico («avete perso un lettore»). Da questa sequela di reazioni stizzite, indignate, incredule; da questo piccolo catalogo des idées reçus, si capiscono due cose: perché la sinistra radicale è virtualmente svanita dal panorama politico italiano; e perché questa scomparsa è una delle pochissime cose positive accadute ultimamente in questo paese.
Non è che gli 8 milioni di italiani che, secondo un sondaggio Coldiretti-Swg, provano almeno una volta all’anno un prodotto naturale, penseranno di avere più diritti o di essere moralmente migliori degli 8 milioni di italiani che secondo l’Istat vivono in povertà? Magari perché questi ultimi non si possono permettere di consumare quello che prescrive il dottor Petrini. Dato che costa almeno il 30% in più, e loro non ce la fanno neppure ad arrivare alla fine del mese, andando a fare spesa nei discount. Vogliamo dire che gli 8 milioni di italiani poveri prodotti da una classe politica incompetente hanno almeno gli stessi diritti di chi può permettersi i sapori e le atmosfere delle catene di slow food, o una cena nel ristorante di Vissani?
Ai critici ha risposto in nome del giornale Nanni Riccobono, e ha soprattutto replicato lo stesso Corbellini in un articolo apparso ieri, di cui va assolutamente letta almeno la prima parte («Vorrei una sinistra darwinista», 9 agosto, p. 1):
Sulla polemica nata in queste pagine da un mio articolo su Ogm e agricoltura biologica vorrei svolgere una riflessione un po’ più generale e allo stesso tempo personale. Perché la condizione di vuoto culturale e di riflusso vittimista in cui si sta avvitando la cultura politica di sinistra è l’esito di un processo che non ho vissuto stando chiuso nelle biblioteche. E perché i temi sociali ed economici della produzione agricola non sono per me una questione meramente accademica, o una scoperta strumentale.Aggiornamento 19 agosto: Corbellini aggiunge un altro articolo alla serie, sempre sull’Altro: «Le staminali sì, gli Ogm no. Ma non sapete dire perché» (18 agosto, p. 1).
Comincerò dall’ultimo punto. Ancora esattamente trent’anni fa, di questi giorni, non ero certo in vacanza. Accadeva già da almeno una decina di anni, che tutte le estati io dovessi lavorare come salariato agricolo stagionale e trattorista, dato che, per i miei genitori, mantenermi agli studi era una spesa che incideva significativamente sul bilancio. Se volevo godermi il privilegio di studiare dovevo contribuire a pagarlo. Tutta la mia famiglia, fino ai bisnonni, materni e paterni, ha condotto una vita contadina, prima come braccianti e poi salariati agricoli. I miei nonni, e anche qualche mio coetaneo, venivano ancora dati in affitto dalle loro famiglie quando erano bambini – forse qualcuno sa che esistevano i “famei”, cioè appunto i bambini affittati in cambio di vitto e alloggio e che dovevano lavorare come schiavi presso famiglie contadine più agiate. Con tutta la buona volontà, ricordando molto bene i racconti dei miei nonni, e la mia infanzia, non riesco a trovare traccia di quelle rappresentazioni bucoliche descritte dagli Olmi, dai Celentano e dai Petrini quando teorizzano l’idea della Terra Madre. Io ricordo solo povertà, malattie, fatica, violenza, soprattutto nei confronti di donne e bambini, discriminazione e ignoranza intesa come analfabetismo. E una società patriarcale che nei secoli ha fatto più morti delle guerre mondiali e dei conflitti combattuti nel Novecento: che vorrei veder seppellita per sempre e anche più profondamente delle scorie tossiche.
Dunque io non parlo di agricoltura e prodotti agricoli per sentito dire. È qualcosa che conosco bene, non solo sul piano scientifico o tecnico, ma anche del cosiddetto vissuto. Non voglio fare del moralismo e rispetto tutti. Anche quegli amici e compagni che, diversamente da me, provenivano da famiglie ricche e non hanno mai dovuto fare particolari sacrifici, e che oggi mi trattano da reazionario perché voglio che tutti abbiano la possibilità di scegliere come vivere mentre loro teorizzano o praticano un ritorno obbligato per tutti alla povertà economica (che chiamano con termine colto “decrescita”).
Il mio pensiero è che chiunque deve essere libero di vivere e fare come vuole, senza pretendere di limitare la libertà di chi preferisce fare scelte diverse. Nella misura in cui le scelte e i comportamenti di ciascuno non producono danni fisici o interferiscono con la libertà di altri si dovrebbero rispettare. Credo che questo sia il minimo presupposto per convivere democraticamente. Al di sotto di questo la democrazia scompare. Orbene, questo significa però che non ci si possono inventare dei pericoli inesistenti per limitare delle scelte che magari non coincidono con le nostre preferenze ideologiche. Altrimenti si ragiona come gli integralisti cattolici che si inventano le peggio cose sull’omosessualità e il sesso in generale, con lo scopo appunto di reprimere delle libertà e dei diritti fondamentali.
Postato da Giuseppe Regalzi alle 09:52 25 commenti
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