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sabato 28 dicembre 2013

Mini Miss


La storia è questa: il governo francese è contrario ai concorsi di bellezza destinati alle minorenni e il Parlamento sta discutendo un progetto di legge per vietare a chi ha meno di 16 anni di partecipare alle sfilate. Le principali motivazioni sono l’ipersessualizzazione e lo sfruttamento commerciale dei più piccoli.
Il divieto e le ragioni addotte a sostegno del divieto hanno attirato la mia attenzione. Perché in generale un divieto legale andrebbe giustificato con argomenti solidi. Una volta che abbiamo rifiutato un sistema politico teocratico (“è vietato perché un dio così vuole”) o paternalista (“è vietato per il tuo bene”), quello che dovrebbe rimanere è un sistema che deve motivare i divieti che impone, molto approssimativamente ispirandosi al principio del danno a terzi: un divieto è legittimo quando è sostenuto da un danno che noi infliggeremmo a qualcun altro (omicidio, aggressione e così via).
Le motivazioni che invochiamo a sostegno di un divieto, poi, non dovrebbero essere facilmente riutilizzabili per vietare mille altre cose. Possiamo pensare che i concorsi di bellezza - in generale o solo quelli per i minorenni - facciano schifo, che siano inopportuni, volgari, noiosi, ma stiamo parlando di un divieto e non di una preferenza. Non possiamo mica vietare per legge le cose stupide o di cattivo gusto. Non finiremmo mai.
Ci dovremmo quindi domandare se partecipare a un concorso di bellezza sia intrinsecamente dannoso o se lo sia in alcune circostanze, come quelle di avere meno di 18 anni e di esservi stati portati verosimilmente dai propri genitori (quando una ragazzina può davvero scegliere?). Partecipare a Miss Francia provoca un danno tale da autorizzare i legislatori a dire “vietato per legge”?
Passiamo all’invocazione dello sfruttamento commerciale delle piccole aspiranti miss da parte dei genitori: se valesse, dovremmo estenderlo a molti altri casi, affini e lontani. Attori e cantanti in miniatura, tanto per cominciare. Modelli per giocattoli, vestitini, magliettine, palloncini.
Ma poi anche quei genitori che decidono che il figlio debba diventare un grande campione: come non pensare ad Andre Agassi - che racconta in Open le torture inflittegli dal padre - o a Jennifer Capriati o a tanti altri le cui vite sono state profondamente indirizzate dal potere dei genitori. Potere che è inevitabilmente esteso, soprattutto nei primi anni. Potere che non è assoluto, ma i cui confini sono difficili da tracciare: far partecipare la propria figlia a un concorso di bellezza somiglia più a torturarla o a iscriverla a scuola?
Se accettiamo la bontà dell’argomento dello sfruttamento commerciale dovremmo dunque augurarci che le prossime leggi vieteranno un lungo elenco di attività decise dai genitori e destinate ai figli.
I due tennisti, Agassi e Capriati, non sono i soli esempi a disposizione, ovviamente. Mettendo insieme la giovane età, il travestimento e quel senso di fake che possiamo immaginare connessi a un concorso di Miss teen mi è venuta in mente la comunione. Rituale per me abbastanza estraneo, mi è capitato di osservarlo qualche mese fa perché la figlia di amici celebrava il sacramento.
Ora, provate a pensarci dismettendo la familiarità che avete accumulato in anni e anni: sono piccoli, vestiti in modo inusuale e sulla loro autonoma decisione si può avanzare qualche dubbio. Quanto allo sfruttamento commerciale, potremmo pensare ai regali, alle bomboniere, ai pranzi e a quello che sembra in tutto e per tutto un banchetto di nozze in miniatura. E se nei concorsi si rischierebbe l’ipersessualizzazione, durante il catechismo non si potrebbe rischiare l’obnubilamento? Sarebbero queste condizioni sufficienti per un divieto legale? ×

Il Mucchio di gennaio.

giovedì 29 agosto 2013

Stefano Cucchi e gli altri



L’aula bunker di Rebibbia è uno stanzone rettangolare. Ci sono le panche di legno al centro, le sedie ai lati - due file a destra, due file a sinistra -, le gabbie sulle pareti lunghe, le porte verdi.
Un lato corto è occupato da un banco con su la scritta “La legge è uguale per tutti” e dietro una decina di sedie nere. A sinistra c’è la porta da cui usciranno la presidente della terza sezione della Corte d’Assise e i suoi collaboratori. L’altro lato corto, in fondo, ospita un piano rialzato riservato al pubblico, di solito parenti e amici - come le gallerie nei vecchi cinema.
È pomeriggio, fa caldo, aspettiamo. Sembra che la sentenza sia attesa in tempo per i tg della sera. Nell’attesa non c’è niente da fare. Ci sono diversi giornalisti, gli avvocati, gli imputati e la famiglia Cucchi. Dopo l’impatto iniziale, non si riesce a rimanere seri e contriti troppo a lungo; il clima, per chi attende senza essere troppo coinvolto emotivamente, è più quello da ricreazione. Si scherza, si ride, si passeggia su e giù. È normale, è la tensione, è l’attesa. Fa caldo e non c’è niente da fare. Vado al bar che pare essere sopravvissuto agli anni settanta. I tavolini tondi con una tovaglia di plastica verde e quattro sedie di plastica bianca ciascuno, come quelle in un giardinetto di periferia. Il bancone è di alluminio e di legno, mentre accanto c’è un tavolo con piatti e tazze e dei bigliettini con il prezzo. Sembra un mercatino o una vendita improvvisata da ragazzini in un torrido pomeriggio estivo. Le luci al neon. Non c’è nessuno, o almeno all’inizio non vedo nessuno ma decido di chiedere - come nei film dell’orrore - “c’è qualcuno?”. Sbuca una signora, compro una bottiglietta d’acqua. Torno nell’aula dopo essere passata per una stanza con la targa “Testimoni” e un’altra con “Corte di Assise. Aula B”. Ogni parete, ogni sedia, tavolo o armadio è di uno squallore da stiva di traghetto.
Aspettiamo.
Un paio di volte sembra che stia per succedere qualcosa, ma l’eccitazione si spegne subito. Poi finalmente la Corte entra. Subito dopo la lettura della condanna, i giudici tornano nella stanza da dove sono venuti, molte persone gridano, alcune battono le mani, si alzano, si baciano, si abbracciano. I giornalisti si muovono verso la famiglia di Stefano Cucchi. Intanto dal fondo cresce un brusio e si mischia al rumore disordinato di passi. Gli imputati non condannati escono dall’aula, circondati - soffocati - da familiari e amici. Si sente gridare. “Assassini!”.
Mi avvicino alla balaustra oltre la quale si agitano una trentina di persone. Per qualche secondo le guardie fanno fatica a mantenere l’ordine, la sorella di Giuseppe Uva si sbraccia e grida. Continuerà a gridare fino alla fine. Fuori dall’aula, al telefono, alle persone che la circondano. Torno indietro e al centro c’è un capannello fatto di teste, microfoni, telecamere, luci. Alcuni cominciano a uscire. Sento dire a una voce sprezzante “Uvetta”, mi giro e vedo una toga nera - deve essere l’avvocato di qualcuno, non so di chi.
La madre di Stefano Cucchi è circondata da microfoni e videocamere. “Mio figlio è stato recluso per sei giorni, è uscito massacrato. Non è stato nessuno? Fino a poco fa avevo fiducia nella giustizia che invece non è stata capace di fare ammenda a se stessa. Mio figlio è morto di giustizia. Me l’hanno ucciso due volte”.

Il Mucchio Selvaggio, luglio 2013.

sabato 2 marzo 2013

Università. Distruggere le aule


Cosa e come insegnare? Prima i filosofi e poi i pedagogisti hanno tentato di rispondere esaustivamente, con tutte le loro possibili declinazioni: si insegna in modo diverso a seconda delle età? È importante il luogo? Ci sono discipline migliori di altre? Socrate, Platone, Kant, Rousseau sono tra quelli che si sono cimentati teoricamente e a volte praticamente nell’insegnamento. Ad alcuni di loro sono legati ricordi indelebili: la maieutica socratica, per esempio, o l’Émile ou de l’éducation di Rousseau (1762). Tra i nomi della pedagogia moderna potremmo citare Durkheim, Emerson, Montessori, Dewey. Per quanto ci riguarda, siamo perlopiù abituati a collegare l’insegnamento alle ore e ore di prigionia scolastica in un contesto abbastanza astratto e avulso dal resto - nonché collocato nella prima parte della giornata secondo i precetti vittoriani. Ovviamente non è detto che questo sia il metodo migliore, è solo quello che ci è familiare.
[...]
Colin Ward, scrittore e anarchico britannico morto 3 anni fa, proponeva proprio l’eliminazione della scuola come la intendiamo: aule, orari fissi, muri. Nel 1987 in una conferenza al Massachussets Institute Of Technology (MIT) disse: “Nel diciannovesimo secolo Lev Tolstoj aveva deciso di fondare una scuola nel proprio villaggio e per questo visitò istituti in Germania, in Francia e in Inghilterra, arrivando a questa conclusione: ‘L’educazione è un tentativo di controllare ciò che è spontaneo nella cultura: è cultura sotto costrizione.’ A Marsiglia era stato in ogni scuola e aveva parlato con gli allievi e i genitori. Trovò spaventosi gli edifici scolastici: simili a prigioni, dove i bambini apprendevano meccanicamente solo quello che c’era scritto nei loro libri, senza essere capaci di aggiungere niente di più.” Ward conclude che se Tolstoj si fosse limitato a osservare questi reclusi avrebbe descritto la popolazione francese come rozza, ipocrita e ignorante. Ma poiché la strada e la storia dimostravano il contrario, dedusse che “la vera educazione veniva dall’ambiente”.
[...]
Da qualche tempo le domande pedagogiche possono essere riformulate in un campo giovane, quello dell’insegnamento online. Non è forse questo il modo in cui Ward immaginava di distruggere le aule e il muro dei Pink Floyd non è certo solo quello fatto di mattoni, ma potremmo vederla in parte anche così. Questo tipo di insegnamento mantiene alcuni degli interrogativi classici e ne aggiunge di nuovi, soprattutto rispetto alla metodologia e all’efficacia didattica. Per saperne di più mi sono iscritta a Coursera, iniziativa nata da una partnership tra molte università prestigiose - tra cui le statunitensi Columbia, Stanford, Princeton, Duke e John Hopkins - con l’intento di offrire corsi di alta qualità gratuitamente e online. Basta registrarsi su Coursera.org e poi scegliere cosa frequentare. Le categorie sono venti e si va dalla biologia alla medicina, dalla matematica alle arti e alle scienze sociali. In pratica, funziona così: ogni settimana una mail ti avvisa della messa online delle lezioni, disponibili da quel momento in avanti. Se sei un disastro totale nel gestire il tuo tempo potrebbe essere faticoso o impossibile evitare di accumularle tutte entro la scadenza prevista per l’esame. Dal tuo computer segui le lezioni - se non hai capito bene qualcosa perché il tuo inglese è mediocre c’è anche una sezione con i testi - e poi fai degli esercizi. Si tratta di test a risposta chiusa multipla che puoi ripetere finché vuoi, finché non le azzecchi tutte o il numero di quelle esatte ti sembra soddisfacente. La valutazione finale è affidata invece a dei quiz con trenta domande e un solo tentativo a disposizione.

Il Mucchio Selvaggio di marzo 2013.

martedì 8 gennaio 2013

Il papa e l’uccellino

È la notizia dell’anno: Joseph Ratzinger, in arte Benedetto XVI, ha inaugurato un account Twitter.

Se non sarà lui in carne e ossa a digitare, lo farà qualcun altro autorizzato da Ratzinger a esprimere pensieri papali in 140 caratteri al massimo. Il 12 dicembre il primo twit: “Cari amici, sono lieto di stare in contatto con voi tramite Twitter. Grazie per la vostra generosa risposta. Vi benedico dal mio cuore”.
Anche prima che ci fosse il primo twit i followers erano centinaia di migliaia - in effetti pochi pensando a quanti nella realtà riconoscono al papa un’autorità religiosa, e soprattutto tenendo a mente che Justin Bieber ne ha quasi 31 milioni e mezzo e Lady Gaga oltre 32 milioni. I followers aumentano di giorno in giorno e si frammentano nei vari profili: it, eu, es, uk - ognuno dei quali segue solo gli altri @Pontifex in un circolo autoreferenziale. Oggi il profilo principale - Pontifex senza estensioni di nazionalità - ne ha poco più di un milione. Gli altri qualche centinaia di migliaia tutti insieme. Ma a parte i numeri, comunque provvisori, l’arrivo di Ratzinger nel mondo virtuale di Twitter qualcosa dà da riflettere. Secondo Whitney Mallet (Follow The Leader, The New Inquiry) è sorprendente che un sistema religioso tanto fondato sul materialismo, un sistema la cui fede si basa sulla credenza che l’ostia sia fisicamente - e non simbolicamente - il corpo di Cristo, sia interessato al virtuale. E potrebbe essere rischioso combinare la santità all’astrazione. Il passato rapporto della Chiesa con la tecnologia e i nuovi media suggerisce che il Web sarà terra di conquista. Non è certo una novità: il Vaticano ha già un sito multilingue - molto old fashioned e con meno traduzioni di Scientology (che il potere lo si veda dal numero delle lingue?), un’applicazione per la confessione - che però vale più come allenamento che come mezzo per l’assoluzione che reresta prerogativa umana - e una indubbia familiarità con la radio, la tv e vari altri mezzi di informazione/evangelizzazione. Il web sembra essere ancora un terreno quasi vergine, o almeno meno usato degli altri media, e un luogo ideale da conquistare. Soprattutto se si tiene conto che l’espansione cattolica è più vitale in Paesi come l’Asia e l’America meridionale, e nelle popolazioni più povere - mentre in Europa è in arresto o in declino. Tablet e pc a basso costo potrebbero essere buoni alleati della diffusione del Verbo. Non è detto però che la gerarchia, su cui il sistema cattolico si regge, non possa esserne scossa profondamente, colpita dal boomerang twitterante in modo imprevisto. Le strade della nemesi virtuale sono infinite. Per ora sembra essere la cautela l’ispirazione del neonato profilo. Nel corso dello stesso 14 dicembre, mentre su Twitter si legge una domanda mite e compatibile con varie credenze religiose (“Qualche suggerimento su quale sia il modo più proficuo per pregare mentre siamo così occupati con il lavoro, la famiglia e il mondo?”), l’Agi riporta una tipica manifestazione di aggressività ratzingeriana (“Unioni gay minacciano la pace. Eutanasia e aborto un pericolo”). In occasione della giornata mondiale della pace il messaggio papale torna su alcuni dei cavalli di battaglia tipicamente cattolici, o addirittura clericali, seppure mascherati da principi razionali e appartenenti alla “natura umana”. Un mistero della fede, probabilmente. Troppo lungo da twittare e troppo importante per essere spezzettato. Appena Pontifex scoprirà google shortener o altri modi analoghi per accorciare i link, il baratro sarà probabilmente colmato. Nel frattempo il Vaticano accoglie Rebecca Kadaga, presidente del parlamento ugandese e fan della legge antigay. ×

I miei oscar 2012: Moonrise Kingdom di Wes Anderson, No di Pablo Larrein, Episodes 2.

Lamette, Il Mucchio di gennaio 2013.

giovedì 20 dicembre 2012

Siamotuttisallusti?




Secondo l’articolo 595 del Codice Penale “chiunque [...] comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032. [...] Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516”. Il 18 febbraio 2007 esce su “Libero” Il giudice ordina l’aborto. La legge più forte della vita a firma Dreyfus. Il 26 settembre 2012 la Cassazione conferma la condanna della Corte d’Appello per Alessandro Sallusti, allora direttore di “Libero”: 14 mesi di reclusione senza condizionale.
Si scatena un putiferio: dalla campagna e #hashtag “Siamotuttisallusti” alle innumerevoli dichiarazioni scandalizzate e prese di distanza dalla condanna. In pochi partono dall’articolo incriminato, in pochi si fermano a riflettere sul reato di diffamazione e a raccontare cosa è successo tra il 2007 e il 2012, soprattutto i tentativi di risolvere la questione, a cominciare dalla richiesta di una rettifica. L’articolo inizia così: “Una adolescente di Torino è stata costretta [falso] dai genitori a sottomettersi al potere di un ginecologo che, non sappiamo se con una pillola o con qualche attrezzo, le ha estirpato il figlio e l’ha buttato via. Lei proprio non voleva [falso]. Si divincolava [fonti?]. [...] I genitori hanno [...] deciso che il bene della figlia fosse: aborto. [Se fossimo in una puntata di “Law & Order” qualcuno griderebbe “obiezione vostro onore!”]. [...] Un magistrato allora ha ascoltato le parti in causa e ha applicato il diritto - il diritto! - decretando: aborto coattivo [falso]. Ora la piccola madre (si resta madri anche se il figlio è morto) è ricoverata pazza in un ospedale [falso]. Aveva gridato invano: “Se uccidete mio figlio, mi uccido anch’io” [Dreyfus era nel reparto di interruzione di gravidanza? Fonti?]. Qui ora esagero. Ma prima domani di pentirmi, lo scrivo: se ci fosse la pena di morte, e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo e il giudice [ecco, questa è finalmente una opinione].” Nella confusione s’è rischiato di usare l’esagerazione della pena (meglio sarebbe prendersela con il Codice Penale che con chi lo ha applicato) per giustificare la scelta di Dreyfus e l’ok del direttore responsabile a quell’elenco di bugie. Perché qui la questione non è essere contrari all’aborto (opinione) ma avere raccontato il falso, avere descritto la ragazzina come vittima di crudeli carnefici e i genitori in combutta con il giudice per costringerla ad abortire, anzi per stapparle il figlio dai visceri. Sulla diffamazione si potrebbe discutere a lungo: vogliamo considerarlo reato senza vittima, siamo pronti a prenderci tutte le conseguenze? Siamo sicuri che non ci sia una vittima e come potremmo difenderci se qualcuno scrive su un giornale che siamo dei serial killer? Che pensare dell’incitazione all’odio razziale o dell’omofobia? In Italia il primo è reato come crimine d’odio, sulla seconda siamo terribilmente evasivi. Si potrebbe - e dovrebbe - discutere sul tipo di pena e sull’inopportunità del punire l’intemperanza del linguaggio, anche se le critiche si basano su fatti veri. Il carcere non può che apparire spropositato e insensato - ma anche giocare a fare i martiri dopo avere rifiutato qualsiasi rimedio lo è. Prima di decidere cosa pensare è consigliabile leggere almeno Sallusti secondo me di Federica Sgaggio, 23 settembre 2012 e Libertà di diffamazione di Michael Braun, 27 settembre 2012, Internazionale. Così siamo pronti per l’ultima puntata, cioè il cosiddetto SalvaSallusti. È lo stesso Sallusti a commentare il 13 novembre sul suo profilo “Mi sento meno solo. Con la legge approvata dal Senato a San Vittore finiremo in tanti”.

Lamette, Il Mucchio Selvaggio di dicembre.

giovedì 24 maggio 2012

Il giorno più bello


Hai deciso di sposarti prenotando con mesi di anticipo il ristorante o la chiesa o entrambi. Passi le notti a decidere come disporre a tavola i tuoi invitati e chi escludere senza che si offenda troppo. Devi decidere se fare la lista di nozze all’agenzia di viaggi oppure all’Apple Store, scegliere il vestito, fare le prove, decidere la pettinatura e le scarpe che indosserai. Ti preoccupi perché se poi quel giorno avrai i piedi gonfi? La stesso cruccio è indirizzato all’abito nuziale, che decidi di comprare o di farti fare secondo il tuo ideale di peso. Sarà o non sarà il giorno più bello della tua vita? E allora non puoi che essere magra, quel giorno. Se non rientri in quell’angusto dominio di donne con un metabolismo adolescenziale o con delle sane abitudini alimentari e sportive, comincerai a programmare la dieta per liberarti del culo di troppo. Da domani, da lunedì, dal prossimo primo del mese. Chiederai consiglio alle tue amiche sull’efficacia della dieta a zona, quella solo grassi, solo frutta, solo proteine, la dieta dissociata o quella del fantino. Farai sondaggi accurati e inaffidabili su quale ha effetti più evidenti e veloci (e reversibili). Ma poi magari ti imbatterai nella K-E diet, l’ultima frontiera delle diete estreme (Tube Feeding: What’s Wrong with the Latest Wedding Crash Diet?, The Guardian, 18 aprile 2012). Ti infili un tubo nel naso che arriva fino allo stomaco. All’estremità esterna del tubicino c’è una sacca contenente liquidi e proteine per un totale di circa 800 calorie - una donna adulta in salute dovrebbe mangiarne circa 2000. Nessun carboidrato, come fosse il diavolo della ciccia. Insomma ti affami con un sondino ficcato in gola per entrare nel vestito da sposa comprato un paio di taglie in meno. È comodo: non devi scervellarti a pesare i pasti o a eliminare quello che non puoi mangiare. Non perdi tempo né a cucinare né a masticare: una pompa ti spingerà lungo la trachea piccoli dosi di nutrimento. Tu puoi proprio dimenticarti del pranzo e della cena. Chi ha visto o usato un sondino nasogastrico - almeno finora - l’ha fatto o nella impossibilità di alimentarsi per via orale come facciamo noi, oppure per aspirare i succhi gastrici in modo meccanico perché magari un tumore ti ha distrutto le pareti dello stomaco o la peristalsi. Solo vedere la manovra per infilarlo - seppure a distanza - ti fa pensare che sia meglio morire di fame. E poi pensi a Eluana Englaro che per 17 anni è stata nutrita in quel modo perché non in grado di farlo autonomamente, come tutte le persone in stato vegetativo o con patologie gravi: demenze, neoplasie, stati di incoscienza permanenti o temporanei. Gli effetti di una nutrizione artificiale possono essere rischiosi: dalla chetosi - che è una alterazione metabolica del glucosio - a problemi renali o a possibili danni ai tessuti del naso e della gola. Un basso apporto calorico può causare poi una malnutrizione: invece di eliminare il grasso il tuo corpo attacca il tessuto muscolare. Gli effetti collaterali e i rischi di uno strumento o di una procedura vanno sempre valutati rispetto alle alternative e alle conseguenze di non farvi ricorso: nel caso del sondino, per esempio, morire di fame per l’impossibilità di alimentarsi per bocca o il non entrare nel vestito bianco. Se state pensando che tra le tante future spose è verosimile che ce ne sia una fuori di testa, dovete sapere che solo in Gran Bretagna oltre mille persone hanno fatto ricorso alla K-E diet e che in Italia ci sono diverse cliniche specializzate nella dieta del sondino. Chissà se i fruitori sono tutti ciccioni. Il protocollo nutrizionale dovrebbe essere attentamente controllato e rivolto a casi di obesità non trattabile altrimenti, nonché la prima tappa di un percorso volto a ridurre un rilevante eccesso ponderale. Su You Tube ci sono alcuni video esplicativi: basta cercare “dieta del sondino” o “NEP”. Oppure, solo per fare un esempio, andare sul sito www.diettube.com: pompa e sondino sono in comodato d’uso e c’hai pure l’assistenza medica telefonica. Se non avete matrimoni in vista, comunque l’estate è alle porte, cosa aspettate?

Sul Mucchio 695 di giugno.

giovedì 29 marzo 2012

Don’t ask, don’t tell

Stonewall, New York City

La morte di Lucio Dalla ha smosso un fondale fangoso e ben sedimentato. Non tanto la morte in sé - che ha comunque dato il via a una corsa a manifestare una specie di egocentrica mania di raccontarsi e ha diviso gli italiani tra detrattori e eterni sostenitori: cosa ha significato Dalla per me, qual è la mia canzone preferita, dov’ero quando ho saputo che è morto e cosa facevo. Sul fronte opposto: non faceva nulla di buono da vent’anni o più, non lo ascoltavo mai, vuoi mettere i Rolling Stones?, che brutto quel parrucchino e così via. Come se non bastasse s’è poi scatenata l’onda dei buoni (e cattivi) sentimenti sulla morte di chi non ha mai dichiarato la propria omosessualità, con un misto di commiserazione, adulta “comprensione” e posticipata denuncia. Su questo aspetto della sua vita si sono avventati tardivamente sciacalli e spioni: outing forzati e ipocrite manifestazioni verso Marco Alemanno - compagno, collaboratore, amico intimo o molto intimo, ci mancava solo colf. Non solo: commozione e apprezzamento per l’indubitabile segnale di apertura da parte della Chiesa, visto che il funerale proprio in una Chiesa s’è celebrato - secondo la regola “don’t ask, don’t tell” consigliata ai militari statunitensi. Basta non dire, basta non chiedere. Un suggerimento ipocrita e ignorato dai due innamorati all’aeroporto delle Hawaii alla fine del febbraio scorso: un sergente dei Marines e il suo compagno, che quando si sono rivisti si sono abbracciati e baciati in pubblico. Sullo sfondo la bandiera a stelle e strisce. Ma qui in Italia vale ancora, e se vuoi un funerale in Chiesa è meglio non fare dichiarazioni avventate. È il dominio dei diritti mai affermati o erosi, dove ci si arrangia e si chiede per favore, invece di poter reclamare un diritto (alla uguaglianza e alla non discriminazione). Rimane sicuramente controverso se le persone famose abbiano il dovere di combattere ingiustizie e discriminazioni esistenti tramite la propria testimonianza. E rimane anche il dubbio su quanta fatica sia necessaria per occultare, negare e rimuovere un pezzo tanto rilevante della tua vita. Dalla in ogni modo è un caso singolo, ma è anche una occasione per parlare di un buco di diritti che non accenna a restringersi. Il buco di un Paese in cui l’affetto e il legame tra due uomini e due donne non è protetto dalla legge sebbene non vi siano ostacoli costituzionali ad impedirlo: l’articolo 29 parla di coniugi e non di vagine e peni. Un Paese però confuso, perché se ti sottoponi a un intervento per cambiare sesso, puoi poi sposare qualcuno del tuo stesso sesso (quello genetico, quello originario che poi hai modificato chirurgicamente). E questo è giusto, ma solleva almeno un paio di domande: a fare la differenza è una parte anatomica presente o assente? E se due persone possono sposarsi e adottare in queste condizioni, perché siamo ossessionati dal guardare nelle mutande? Ma è proprio questo uno dei nodi: l’ossessione pornografica presente pure nella oscena circolare firmata da Giuliano Amato che impedisce di trascrivere matrimoni contratti all’estero, cioè in Paesi più giusti del nostro. Quella circolare ha invocato, per giustificarsi, ragioni di ordine pubblico e ha invitato i responsabili dell’applicazione di suddetta trascrizione a controllare bene il sesso dei richiedenti. Non solo il matrimonio in Italia ha confini tanto angusti, ma ogni tentativo di offrire almeno una caricatura di uguaglianza - DiCo, DiDoRe e altre mostruosità - è fallito miseramente. Sembra paradossale e inutile combattere l’omofobia se viviamo in uno Stato che la giustifica e la sostiene, perché è il primo a confermare che le persone non sono tutte uguali. Alla fine di dicembre scorso è stato pubblicato un report sull’American Journal of Public Health che mostrava i vantaggi del matrimonio: gli Stati in cui tutti possono sposarsi spendono meno in assistenza sanitaria. Se non fossimo pronti a giocarci la carta della giustizia, potremmo insomma attaccarci a quella della convenienza. Il moralismo però prevale su tutto. Se questo è un Paese giusto.

Lamette, Il Mucchio n. 693 di aprile.

martedì 17 gennaio 2012

Test: scopri il discriminatore che è in te

È raro che qualcuno ammetta di essere ingiusto. La strategia più comune è quella di considerare immeritevoli quelli verso cui siamo ingiusti. “Discriminatorio io?” “Ma no, sei tu a non avere i requisiti per essere trattato diversamente da come ti tratto. Non sono ingiusto io, se tu che sei inferiore.” Il dominio dei destinatari è vasto: persone di un sesso diverso dal nostro, appartenenti a un’altra cultura, nate in un Paese o in una città più o meno lontani da noi. L’eventuale diversità viene trasformata in una gerarchia in cui noi siamo i più ganzi, e gli altri sono inferiori, in una visione claustrofobica e autistica. Chissà, magari non è solo mala fede o potere seduttivo del sopruso, alcuni ci credono davvero e non notano le analogie di una loro posizione (ingiusta e ingiustificabile) con altre che loro stessi valuterebbero inammissibili, moralmente ripugnanti e irrispettose dell’uguaglianza tra le persone. Non abbiamo ancora bisogno di discutere quest’ultimo punto, vero? È difficile capire se, nel caso di Michele Bachmann, siamo di fronte a malafede, lucida discriminazione o nonsense. Qualunque sia l’ipotesi più verosimile, seguire la sua logica bizzarra è un esercizio utile. Bachmann, repubblicana di ferro, candidata alle presidenziali del 2012, è nota per le sue posizioni ultraconservatrici e illiberali. Nel dicembre scorso uno studente di una scuola superiore dell’Iowa le domanda: perché due persone dello stesso sesso non possono sposarsi? “Certo che possono sposarsi - risponde Bachmann - ma devono sottostare alle leggi proprio come tutti gli altri. Possono sposare un uomo se sono donne. Oppure possono sposare una donna se sono uomini”. Alexandra Petri, columnist e autrice del blog ComPost sul Washington Post, dopo avere precisato che le leggi dell’Iowa permettono alle persone dello stesso sesso di sposarsi, propone alcune analogie che fanno ridere, ma che sono concettualmente potenti e precise, e dimostrano quanto sia ripugnante la posizione di Bachmann (Michele Bachmann gets things straight on gay marriage, 1 dicembre 2011). Sono analogie utili anche a tutti quelli che domandano: “che necessità c’è del matrimonio?”, “non vanno bene anche i DiCo?” - ignari, magari, di quanto queste domande siano intrise di discriminazione. Fate il test “scopri il discriminatore che c’è in te”. Petri immagina cosa risponderebbe Bachmann ad alcune domande. “Perché Rosa Parks non può sedersi nei sedili anteriori dell’autobus?”. “Può sedersi - risponderebbe - può sedersi in fondo all’autobus”. O immaginate, al ristorante, di chiedere il menu vegetariano. “Il menu vegetariano prevede bistecca” replicherebbe Bachmann in versione cameriera.
Il Mucchio di gennaio-febbraio 2012.

martedì 10 gennaio 2012

Io sto nel Mucchio

Stanno nel Mucchio anche: Subsonica, Afterhours, Artevox e tanti altri (www.ilmucchio.it).

giovedì 1 dicembre 2011

HIV +



Keith Haring, John Holmes e Gill Scott Heron hanno una cosa in comune: sono morti di Aids come milioni di altre persone dall’inizio dell’epidemia. Oggi, grazie ai farmaci, se contrai l’Hiv puoi condurre una vita quasi “normale”, ma la colpevolizzazione e la discriminazione sono ancora molto diffusi.

“All’inizio stava solo perdendo peso, si sentiva solo un po’ acciaccato, Max disse a Ellen, e non chiamò il suo medico per prendere un appuntamento, secondo Greg, perché stava cercando di continuare a lavorare più o meno allo stesso ritmo di sempre, ma smise di fumare, Tanya sottolineò, cosa che suggerisce che fosse spaventato, ma anche che volesse, anche più di quanto potesse rendersi conto, essere in salute, o più in salute, o forse solo recuperare qualche chilo, disse Orson”.
Quella paura che non basta a spaventarti, perché “ammalarsi gravemente era qualcosa che accadeva agli altri, una allucinazione normale, fece notare a Paolo, se uno ha 38 anni e non s’è mai preso una malattia grave”.
E poi non è detto che quel malessere sia qualcosa di grave. In fondo “le persone ancora si beccano malattie banali, di quelle brutte, perché ipotizzare che debba essere proprio quella”.

Iniziava così un articolo di Susan Sontag sul “New Yorker”. Era il 24 novembre del 1986. The way we live now. Da pochi anni si era diffusa una malattia spaventosa e carica di condanne moraliste. Una malattia che avrebbe cambiato il nostro modo di guardare il mondo.
Nel giugno 1981 il Morbidity and Mortality Weekly Report (“al contempo il migliore e peggiore nome mai inventato per una pubblicazione”, commenta Amy Davidson molti anni dopo sempre sul “New Yorker”) annuncia che 5 uomini si sono ammalati in modo inconsueto. Quel giugno di 30 anni fa il report descriveva “una polmonite da Pneumocystis carinii (ora P. jiroveci) in 5 uomini omosessuali di Los Angeles, California, USA, documentando per la prima volta quella che sarebbe stata poi conosciuta come sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS). L’editoriale introduttivo suggeriva che la patologia potesse essere collegata al comportamento sessuale degli uomini. Un mese più tardi, il MMWR segnalò ulteriori diagnosi di polmonite da P. carinii, di altre infezioni opportunistiche (OIs) e di sarcoma di Kaposi (KS) in uomini omosessuali a New York City e in California. Questi articoli furono i primi segnali di quella che diventò una delle peggiori pandemia della storia, con oltre 60 milioni di infezioni, 30 milioni di morti, e nessun accenno di una fine” (Reflections on 30 Years of AIDS, Emerging Infectious Diseases, Vol. 17, No. 6, June 2011). Era il debutto dell’Aids.
Come viviamo oggi, a molti anni di distanza dal report e dalla descrizione di Sontag?

IL GIORNO X
Non ho mai amato gli anniversari perché in molti casi sembrano essere una scusa per relegare una questione in un ambito con confini netti e precisi (il giorno x), evitando di pensarci il resto del tempo. Una riserva da cui non si può fuggire.
Non mi sono nemmeno mai piaciuti perché somigliano a una pianificazione della contentezza, a un obbligo di festeggiare - nel caso in cui sia l’anniversario di qualcosa di positivo.
Però non mi piace nemmeno che - una volta stabiliti - passino nel silenzio e nella indifferenza. Magari si può protestare e eliminare il giorno x, ma fare finta che non esista è la scelta peggiore.
E poi ci possono essere molti modi per ricordare. Un anniversario può essere usato per un buon fine, per esempio cercando di rompere quegli angusti confini temporali. Cercare di prolungare quel giorno x per quanti più giorni possibile.

Sono passati 30 anni dai primi casi di Aids. Questo trentennale è passato quasi sotto silenzio sulla stampa italiana. E se la ricorrenza è indubbiamente dolorosa, non è un buon motivo per fregarsene e poi si può anche metterla in modo diverso: 30 anni fa - o anche 20 anni fa - vivere con l’Hiv era molto più disagevole di oggi. La scoperta dell’infezione era spesso una ineluttabile condanna a morte.
Almeno dal punto di vista medico lo scenario è molto cambiato. Si sarebbe potuto ricordare, infatti, che è anche il quindicesimo anniversario della terapia antiretrovirale.
Oggi i farmaci, se presi regolarmente e dopo una diagnosi tempestiva, permettono di condurre una vita che potremmo definire normale, se questo aggettivo non fosse tanto connotato moralisticamente. E questo è un dettaglio positivo. Naturalmente il contesto in cui si vive è fondamentale e la differenza tra paesi è profonda.
Quello che non è molto cambiato è la percezione dell’Hiv - o meglio (e questo potrebbe essere un primo passo?) la percezione rispetto alle persone che hanno l’Hiv. Non è cambiata l’educazione. Quel poco che si muove in Italia si muove sulla prevenzione rispetto alla trasmissione - ma non è abbastanza. Né sulle modalità di trasmissione - basta consultare i sondaggi sulle informazioni sessuali per capirlo - né in un panorama meno angusto, in cui si considera l’esistenza di una persona con l’Hiv nella sua interezza: rapporti sociali, lavoro, genitorialità.
Non siamo un Paese ridicolo che ha deciso di bloccare l’albo di Lupo Alberto perché vi si nominava il luciferino preservativo? Che si nasconde nella ipocrita visione che chi contrae l’Hiv è un reietto che in fondo se l’è cercata e quindi deve scontare la pena senza infettare gli altri né pretendere di non essere discriminato? Abbiamo addosso quella visione manzoniana degli untori, una visione ingenua e carica di moralismo. Di ignoranza.
Tutto quel mondo che può renderti la malattia più leggera o può caricarla di una sofferenza assurda e evitabile - e forse per questo ancora più intollerabile.
Fate una prova con voi stessi: come reagireste se sapeste che il cuoco del vostro ristorante preferito ha l’Hiv? O la tipa che fa ginnastica proprio vicino a voi? O la maestra di vostro figlio?
Non barate e non fatevi questa domanda se avete una conoscenza abbastanza approfondita - e quindi fate parte di una microscopica minoranza.
Questa cosa si chiama stigma ed è brutta anche la parola, figuriamoci trovarsi a subirlo. E tu devi già ricordarti di prendere i farmaci, devi pensare se dirlo e come (questioni fortemente legate alla percezione altrui: la malattia come punizione per qualcosa), devi reimpostare la tua vita e imparare a conviverci. E devi bure beccarti le occhiate di traverso, e le discriminazioni e la disattenzione. E, ancora una volta, la vergogna è la migliore alleata della violazione dei propri diritti. Eppure non c’è nulla di vergognoso nell’avere una patologia.

GLI INSOSPETTABILI
Trentenni rampanti e quarantenni giovanili; mariti e padri; persone convinte della fedeltà del proprio partner; mogli e fidanzate. Lontani dal luogo comune del malato di Aids, eppure infetti.
Il 5 gennaio 2010 una ragazza invia una lettera al Corriere della Sera: Io, 21, anni, bocconiana, sieropositiva. Non chiudete gli occhi sull’Aids. “Ho 21 anni e vivo a Milano, studio all’università Bocconi, [...] appaio come una ragazza «normale». Eppure c’è un però, sono sieropositiva, e l’ho scoperto qualche mese dopo aver compiuto i miei 18 anni. [...] Due milanesi al giorno si infettano, e questi non sono ragazzini di 16 anni, ma sono padri di famiglia, che tradiscono le proprie mogli e che le infettano, e che rovinano la vita dei loro familiari”.
I ragazzini però non stanno messi meglio quanto a precauzioni. Il sondaggio “Sei maturo per il sesso sicuro?”, condotto lo scorso giugno dalla Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo) su 1.130 maturandi, disegna un panorama poco rassicurante.
Solo 1 su 3 porterà in vacanza i preservativi anche se il 64% pensa che avrà rapporti sessuali occasionali. Il 32% ha rapporti prima dei 15 anni, nella metà dei casi in estate. Il 42% degli intervistati ha già avuto da 2 a 5 partner, il 10% da 6 a 10 e il 9% più di 10. In pochi usano regolarmente i contraccettivi: il 19% non li usa perché non li ama, il 23% li dimentica e solo il 16% delle donne prende la pillola.
Un altro sintomo è: incontro un tipo, mi piace, facciamo l’amore, le prime volte gli faccio mettere un preservativo perché sono una tipa attenta alla salute, poi dopo un paio di mesi che ci frequentiamo non ci faccio più caso, perché poi fare l’amore senza preservativo è meglio e ormai ti conosco. Chi non c’è mai caduto?

IL DENTISTA
Nel forum della LILA, la Lega italiana lotta all’Aids, un utente racconta di un colloquio svoltosi con un amico-collega.

amico: come stai?
io: sto bene.
amico: la salute come va?
io: bene.
amico: bene?
io: cosa sai?
amico: lo so.
io: allora sto male.
amico: perché non me lo hai detto?
io: perché non avevo molta fiducia nella tua capacità di comprendere questa situazione.
amico: comprendo benissimo.
io: questa malattia ha dei risvolti sociali non indifferenti in termini di discriminazione.
amico: sciocchezze.
(silenzio)
amico: lo hai detto al nostro amico dentista che sei sieropositivo?
(silenzio)
io: gli ho detto che ho l’epatite e le precauzioni che con me deve prendere per l’epatite sono le stesse per l’hiv.
(silenzio)
io: e comunque un medico deve conoscere e applicare le regole sulla profilassi a prescindere dalla comunicazione del paziente.
(silenzio).

Come si legge nella sezione Info Aids della Lila, infatti, la decisione di informare o meno il medico di famiglia o il nostro dentista spetta a noi. “Non tutti i medici di base sono aggiornati rispetto all’evoluzione continua dei dati riguardanti questa infezione; se però hai con lui o con lei un buon rapporto di fiducia, il suo supporto potrebbe esserti di aiuto. Anche verso gli altri specialisti, ad esempio i dentisti, non ti devi in nessun modo sentire in obbligo di comunicare la tua condizione. Per legge hanno l’obbligo di adottare norme igieniche generali che proteggono i medici e gli operatori sanitari dal rischio di contrarre infezioni, a prescindere dalla conoscenza dello stato sierologico di chi hanno davanti.
Queste norme sono importanti perché proteggono sia loro che te stesso dal rischio di contrarre nuove infezioni.”
Già non avere bisogno di ricordarlo potrebbe essere un vantaggio. La prossima volta che andate dal dentista fate caso a come è vestito.

IL SILENZIO
Scrive marcomilano il primo giugno scorso.
“Gironzolando qua e là su questo forum, noto che il consiglio unanime di tutti gli iscritti è quello di PORTARSI QUESTO ENORME SEGRETO FIN DENTRO LA TOMBA... Le ragioni sono ovvie e più o meno condivisibili...
discriminazione, ignoranza, paura, volontà di non dare dispiaceri ai cari...
beh... io mi porto questo flagello solo da un mese e voi, seppur gentili, disponibili, discreti, ma pur sempre a me sconosciuti, siete le uniche persone ad esserne a conoscenza...
finora ho quindi seguito il consiglio...ma mi sento di scoppiare! Vorrei poter gridare al mondo che ho l’HIV e che non me ne vergogno...che lo ereditato inconsapevolmente da un atto d'amore... che ho comunque la voglia e la forza per affrontarlo... ma anche che mi sentirei più forte con la comprensione di chi mi sta vicino...
Sono già stanco di mentire... di inventarmi balle quando sparisco per andare in ospedale... di nascondere la mia preoccupazione...”.
In molti consigliano di tacere o almeno di procedere con molta calma, di non cedere alla tentazione di sfogarsi.
Y38 per esempio scrive: “Non dirlo a nessuno! Lo stigma sociale è così grande (e così pure il dispiacere e la preoccupazione che puoi dare a quelli che ti vogliono bene davvero) che vale la pena tenersi per sé questo stato”.
Qual è l’effetto dell’essere costretti a tacere? È facile fare una prova “per difetto”: scegliamo qualcosa che ci preoccupa o ci angoscia e immaginiamo di non poterlo dire a nessuno, di non poter chiedere aiuto o consigli, di non poter manifestare la paura o la rabbia. Che effetto fa?

QUANDO DIRLO?
Nel forum di Anlaids, è Gioia a domandarlo (il 25 ottobre 2007, “Quando dirlo ad un uomo”). Le risposte sono varie: subito, dipende dal rapporto, mai.
La risposta di Gioia, il 17 marzo 2008, descrive il dilemma: “su questo siamo d’accordo ma come fai a sapere a priori se una persona la frequenterai 1 - 10 -100 - 1000 volte o tutta la vita? Si certo è che a priori si capisce se uno ti piace e può nascere qualcosa oppure no, ma in genere se decidi di uscire con qualcuno (almeno parlo per me) vuol dire che ti piace e una volta visto non sai come andrà a finire. Il problema è molto più profondo, perché, indipendentemente da come tu lo dica, dicendolo subito si rompe la magia perché questa è sempre una notizia che raggela! E se non lo dici subito, poi ti dovrai giustificare in mille modi, ma c’è che si potrebbe arrabbiare... Secondo me questa problematica è alla base di ogni rapporto! Per quanto ci si possa presentare come rassegnati, comunque decisi a vivere la propria vita fino in fondo, è un gran caos. Anche perché va bene voler essere corretti fin da subito, ma non si può dire una cosa così personale a tutto il mondo! E inoltre ogni volta che lo si dice è un pò come riviverlo!
Io ci ho provato due volte ed è stata una tragedia. Alla fine mi sono trovata a dover consolare l’altra persona perché sono rimasti tutti scioccati. Che stress! Da allora non l’ho più detto, ma ho nemmeno frequentato quasi nessuno per più di una/due volte! Il mio stato psicologico non mi permette di lasciarmi andare, e nemmeno questo è giusto!”.

Lo scenario sarebbe diverso se ci fosse una maggiore informazione sull’Hiv? È verosimile pensare che sì, perché la discriminazione si fonda essenzialmente sulla ignoranza. E l’ignoranza confonde i confini e sovrappone la prudenza all’isterico terrore. L’ignoranza ci rende temerari, indifferenti ai rischi, e allo stesso tempo ingiusti verso chi vive una condizione patologica. Vogliamo relegare gli infetti in un ghetto rassicurante (per noi) e immaginare che l’Hiv sia come un tratto somatico facilmente rilevabile. Così possiamo scartare i pezzi difettosi. Nello spazio di poche pagine non possiamo che accennare alle complesse questioni che riguardano l’Hiv e l’Aids, che comprendono questioni mediche, scientifiche, di salute e di opinione pubbliche. Però il primo passo è davvero banale: se avessi l’Hiv come vorrei essere trattato? Ah, ma tanto non può mica succedere a me.

Su Il Mucchio Selvaggio di settembre.

giovedì 24 novembre 2011

Il riparatore



Il 23 dicembre 2007 Davide Varì pubblica su “Liberazione” una inchiesta su Tonino Cantelmi e le terapie riparative - ovvero quelle terapie che vogliono aggiustare gli orientamenti omosessuali. Cantelmi querela Varì. Non perché gli ha dato del riparatore, ma perché ha definito il suo studio “un porto di mare”.
Il processo s’è concluso da poche settimane con l’assoluzione di Varì: la sua inchiesta non ha varcato i confini del legittimo esercizio del diritto di critica e di cronaca e il fatto non sussiste, non è reato. Anzi, il giudice ha ritenuto che il pezzo avesse un interesse pubblico incontestabile. Le espressioni che hanno offeso Cantelmi non possono considerarsi diffamatorie. Inoltre - e questo è l’aspetto preoccupante - “non è apparso del tutto estraneo il Cantelmi alla cura dell’orientamento sessuale dei propri pazienti”.
Ma andiamo per ordine. La vicenda inizia nel 2007 con Varì che finge di cercare aiuto perché è a disagio con la sua omosessualità. Il sospetto è che ci siano alcuni terapeuti convinti che l’omosessualità possa essere curata, anzi debba essere curata. Ricordiamo che considerare di per sé patologico un determinato orientamento sessuale è insensato e scorretto e che per fortuna l’omosessualità non è più considerata una malattia. Ciò non significa che la propria sessualità non possa sollevare conflitti o disagi, ma che il malessere va cercato altrove e che l’omosessualità non è un errore da correggere. Eppure alcuni si ostinano nel considerarla un difetto, una deviazione o qualcosa che non va e che, dunque, deve essere riparata. Alcune associazioni sono esplicitamente a favore della riparazione, come Obiettivo Chaire, Living Waters, il Gruppo Lot o il Narth (National Association for Research & Therapy of Homosexuality) - ma molti altri preferiscono essere meno espliciti: come Scienza e Vita o Agapo, Associazione di genitori e amici di persone omosessuali (da non confondere con l’Agedo, Associazione di genitori di omosessuali). Il dominio dei riparatori ha confini nebbiosi e può includere tutti quelli che credono che l’omosessualità sia intrinsecamente sbagliata - questa premessa è la condizione sufficiente per sentire puzza di riparazione.

Su Il Mucchio Selvaggio di dicembre.

lunedì 26 settembre 2011

Nepotismo mon amour



Su Plos One esce un articolo di Stefano Allesina sul nepotismo accademico: è una desolante fotografia del sistema universitario italiano che fa arrabbiare molti baroni indigeni. Ci siamo fatti raccontare da Allesina, assistant professor all’Università di Chicago, come si misura il nepotismo e a che punto siamo arrivati

Non c’è dubbio che esistano famiglie talentuose. Lo stesso Allesina ne cita alcune all’inizio del suo articolo, Measuring Nepotism through Shared Last Names: The Case of Italian Academia, pubblicato lo scorso agosto sulla rivista scientifica open-access della Public Library of Science: i Bernoulli si sono passati il dono della matematica per tre generazioni e nella famiglia Curie il talento per la fisica e per la chimica era contagioso. Queste sono eccezioni però e se, entrando in un dipartimento, ci imbattiamo nello stesso cognome scritto su troppe porte, dovremmo sentire puzza di bruciato, ovvero di nepotismo.
Qual è l’origine del termine “nepotismo”? Nel medioevo i papi, non potendo ufficialmente avere figli, riservavano posti prestigiosi e favori ai nipoti. Poco importa se il nipote avesse qualità o no. Questa pratica invade come una metastasi l’università italiana, dove la parentela e il clientelismo hanno sostituito le competenze. Il barone è il protagonista di questa distopia reale: crea e distrugge carriere a suo piacimento.
“La situazione accademica italiana” racconta Allesina “è afflitta da vari problemi tra cui il nepotismo, sebbene non ci siano dati certi della sua diffusione. Davanti al database del Cineca (www.cineca.it) mi sono chiesto se fosse possibile pesare il nepotismo, andando oltre i casi isolati di denunce. Tutti quelli che conosco sanno di 1, 2 o 3 casi, ma quanti sono in totale? L’evidenza raccolta è fatta da aneddoti. Io volevo i numeri”. E i numeri disegnano un sistema profondamente basato su pratiche nepotistiche.
Ci sono oltre 61.000 professori divisi in discipline, circa un accademico ogni 1.000 persone. “Se fossero assunti in base al merito” prosegue Allesina “la distribuzione dei cognomi per ogni disciplina dovrebbe essere equivalente alla distribuzione nazionale dei cognomi. Ho contato i cognomi distinti e li ho confrontati con quanti dovrebbero essere. Cosa penseremmo se tirassimo un dado mille volte e uscissero solo 4 numeri?”.

Su Il Mucchio Selvaggio di ottobre.

martedì 30 agosto 2011

HIV +


All’inizio stava solo perdendo peso, si sentiva solo un po’ acciaccato, Max disse a Ellen, e non chiamò il suo medico per prendere un appuntamento, secondo Greg, perché stava cercando di continuare a lavorare più o meno allo stesso ritmo di sempre, ma smise di fumare, Tanya sottolineò, cosa che suggerisce che fosse spaventato, ma anche che volesse, anche più di quanto potesse rendersi conto, essere in salute, o più in salute, o forse solo recuperare qualche chilo, disse Orson”. Quella paura che non basta a spaventarti, perché “ammalarsi gravemente era qualcosa che accadeva agli altri, una allucinazione normale, fece notare a Paolo, se uno ha 38 anni e non s’è mai preso una malattia grave”. E poi non è detto che quel malessere sia qualcosa di grave. In fondo “le persone ancora si beccano malattie banali, di quelle brutte, perché ipotizzare che debba essere proprio quella”.
Iniziava così un articolo di Susan Sontag sul “New Yorker”. Era il 24 novembre del 1986. Da pochi anni si era diffusa una malattia spaventosa e carica di condanne moraliste. Una malattia che avrebbe cambiato il nostro modo di guardare il mondo.
Nel giugno 1981 il Morbidity And Mortality Weekly Report (“al contempo il migliore e peggiore nome mai inventato per una pubblicazione”, commenta Amy Davidson molti anni dopo sempre sul “New Yorker”) annuncia che cinque uomini si sono ammalati in modo inconsueto. Quel giugno di trent’anni fa il report descriveva la polmonite da pneumocystis carinii in cinque uomini omosessuali a Los Angeles, in California, documentando per la prima volta quella che sarebbe divenuta nota come sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS). L’editoriale che lo accompagnava suggeriva che la malattia potesse essere collegata alle abitudine sessuali degli omosessuali.
Un mese dopo il MMWR rilevò nuovi casi di polmonite da pneumocystis carinii, altre infezioni e il sarcoma di Kaposi nei gay dalla California a New York. Questi articoli furono i primi accenni a
quella che diventerà una delle peggiori pandemie della storia con oltre 60 milioni di malati, 30 milioni di morti e nessuna soluzione in vista. Era il debutto dell’Aids. Come viviamo oggi, a molti anni di distanza dal report e dalla descrizione di Sontag?

Su Il Mucchio Selvaggio di settembre.

sabato 2 luglio 2011

Amore di plastica


Che cosa si cerca in una bambola? Quali sono le motivazioni che spingono qualcuno a comprare una Real Doll? Per molti sarà squallido e triste e falso - come se tutte le relazioni con altri esseri umani fossero interessanti e allegre e “vere” - ma se il controfattuale per l’acquirente X fosse la solitudine? O peggio?
Hanno qualcosa in comune con quelli che amano e “sposano” un animale?
Forse la lettera di Tom allo staff di Abyss non fornisce una risposta, ma suggerisce un punto di osservazione: “Le ragioni per cui ho deciso di comprare una bambola sono varie: ero un single (abbastanza felice), ma una volta che mi resi conto che questa bambola avrebbe potuto cambiare la mia vita di solitudine, ho cominciato a cercare in Rete. […]
È qui da circa 4 ore e ogni volta che entro nella stanza mi spavento un po’ come se qualcuno fosse davvero seduto lì. Questo significa che mi ha dato la sensazione di essere in compagnia dal primo minuto, e non avrei mai creduto che fosse possibile.
[…] A qualche giorno di distanza posso dire: sta andando sempre meglio. Le cose che scopri… Le cose che puoi o devi fare: fare shopping per lei, prendersene cura (lavarla, incipriarla), vestirla, muoverla… Baciarla, accarezzarla, coccolarla, sdraiarsi accanto a lei, tenerle la mano, lavarle la parrucca… […] Sono così felice di averla con me!”.
Tom sarà fuori di testa? Forse sì. Però se fosse vero quanto lui scrive (“Sono così felice di averla con me!”), non sarebbe già abbastanza per ripensare la condanna assoluta, considerando che non
fa male a nessuno? La sua felicità è irrimediabilmente fasulla e vergognosa? Siamo convinti che una genuina infelicità sia necessariamente preferibile a una felicità fittizia?

Su Il Mucchio Selvaggio di luglio-agosto 2011 (in Real Dolls).

mercoledì 25 maggio 2011

Fuori dal coro


Dopo aver letto Gli ultimi. Vivere fuori dal coro (2011, Chiarelettere) incontro Pino Petruzzelli a Genova, accanto al porto e ai bar ancora chiusi perché la stagione non è ancora cominciata. Si sentono le voci dei bambini in lontananza. Petruzzelli è attore e regista, dirige il Teatro Ipotesi e questo è il suo secondo libro dopo Non chiamarmi zingaro.

Ho viaggiato molto nel mediterraneo, però non mi piace raccontare di un Paese - mi interessa parlare di alcune persone. In questo caso legate dal mare, ma soprattuto dalle scelte che hanno fatto. Raccontare queste persone e le loro vite è un modo per non rassegnarsi, perché loro non si sono rassegnati”.
Mentre lo ascolto penso ad alcune delle storie, come quella della giovane dottoressa che lavora in un ambulatorio per bambini poveri a Gerusalemme. Nua ha trent’anni e tutto ciò che desidera è “la banalità di una vita pacifica”. Invece vive una emergenze continua in cui filo spinato, carri armati, muri e morti sono la normalità. È meglio non ammalarsi in Palestina, perché “chiunque va negli ospedali palestinesi, anche se sta bene, esce morto”. Nua potrebbe andarsene, invece resta lì e cerca di accogliere quanti più bambini possibile.
C’è talmente un mondo che fa schifo, che è orribile - eppure tanta gente è contenta così, gode dell’orrore. Chi detiene il potere ha stravinto, perché nessuno più pensa di essere l’ultima ruota del carro quando lo siamo tutti. I totalitarismi non sono mai finiti, hanno solo affinato la tecnica. Ti illudi di essere parte di un meccanismo. Quando arrivi a credere di non essere uno sfruttato e addirittura a parteggiare per il carnefice sei proprio all’ultimo stadio. Il mio è un tentativo di raccontare e di recuperare - anche chi sta male. Mohamed Choukri, per esempio, che si prostituiva, si drogava, ha vissuto una vita dolorosa ma non si è rassegnato”.
Choukri è il primo de Gli Ultimi e ti fa venire una rabbia furibonda. Però ti offre anche l’occasione di pensare: se Choukri è stato capace di reagire, dopo tutto quello che ha passato, chi può attaccarsi a una scusa per non farlo? Mohamed nasce nel 1935 e fino a 9 anni è analfabeta. Quel poco che riesce a mangiare è spesso in compagnia di topi e scarafaggi. Il padre è violento. Uccide il fratello perché tossiva e piangeva. “Gli torce il collo come si fa con i polli” racconta Choukri a Petruzzelli. Poi lo vende a un fumatore di hashish per trenta pesetas al mese. “Ho vissuto un’infanzia di umiliazioni, insulti e disprezzo, rubando, fumando kif, bevendo, frequentando prostitute, prostituendomi io stesso. A sette anni ero già adulto”. L’incontro con Mohammed Saggah gli salva la vita. È affascinato dallo scrittore marocchino e decide che è quello il modo in cui vuole vivere. Comincia a leggere e, anni dopo, scriverà Il pane nudo, sequestrato e censurato in Marocco ma tradotto in molti paesi - uno dei traduttori è Paul Bowles.

Su Il Mucchio Selvaggio di giugno.

mercoledì 27 aprile 2011

Uomini e topi


Nel dicembre 2010, su queste pagine, Umore Maligno fa una battuta sulla sperimentazione animale. I protagonisti sono un cagnolino sottratto alla ricerca medica e un bambino che sta morendo di leucemia. Nelle settimane seguenti alla redazione del Mucchio arrivano molte mail di protesta. I temi più comuni e ricorrenti sono l’inopportunità di fare dell’ironia su un argomento tanto spinoso e l’inutilità della sperimentazione animale. In tutte le lettere si condanna la vivisezione. La scelta del termine è significativa. Riguardo alla critica che scherzarci su non sarebbe ammesso o gradito, ognuno sceglierà se concordare o sollevare dubbi al riguardo. L’ironia è un’indubitabile manifestazione di cinismo indifferente? I controesempi, dai giullari a Train de vie, sarebbero tanto numerosi da portarci su un altro piano e su un altro pezzo. Lasciamo da parte il come si parla e si scrive e arriviamo ai contenuti: l’aspetto che più colpisce del dibattito sulla sperimentazione animale è il disaccordo sulla utilità scientifica del ricorso agli animali.

(A CHE) SERVE LA SPERIMENTAZIONE ANIMALE?
Decido di saperne di più sulla storia e sui risultati medici ottenuti passando attraverso la sperimentazione animale e di parlarne con Gilberto Corbellini, professore ordinario di Storia della medicina alla Sapienza di Roma.
Quando è cominciata la sperimentazione animale e che cosa oggi dobbiamo alle ricerche passate? Come sarebbe la nostra esistenza senza? Corbellini ci riporta al 300 a.C. e alla scuola medica di Alessandria: la filosofia naturalistica antica cerca di capire come funzionano gli organismi viventi. Comincia la sperimentazione sugli animali umani e non umani. “Galeno, circa quattro secoli più tardi, ha costruito la sua dottrina fisiologica sulla sperimentazione animale. C’erano molte ingenuità, perché trasferiva agli uomini le osservazioni fatte sulle scimmie, sugli ungulati e sui cani, senza rendersi conto che non era possibile trasferire per analogia all’uomo queste osservazioni. Pensava che l’utero umano fosse a forma di corno, perché così era quello di cane”.

[...]

LA COSCIENZA DEGLI ANIMALI
Il manifesto dell’iniziativa nata esattamente un anno fa e voluta da Maria Vittoria Brambilla per promuovere il rispetto per “i nostri amici a quattro zampe” solleva perplessità fin dal titolo. Gli animali non umani avrebbero “un elevato livello di consapevolezza, coscienza, sensibilità e molti di loro hanno la capacità di sviluppare sentimenti”.
Quando si passa alla gerarchia di importanza, allora si perde davvero la pazienza.

- È necessario porre un freno al massacro degli animali nella stagione venatoria, fino alla totale abolizione della caccia.
- Va eliminata la inumana detenzione di animali nei circhi e negli zoo.
- Va drasticamente vietata l’importazione di animali esotici da altri Paesi e continenti.
- Va regolamentato il barbaro trasporto di animali da macello in condizioni vergognose, senza cibo e acqua per giorni, ammassati in spazi invivibili. Anche agli animali presenti negli allevamenti occorre garantire un ambiente sano e che consenta libertà di movimento.
- Deve essere sempre vietato il feroce sgozzamento degli animali da macello senza stordimento e la conseguente agonia per dissanguamento.
- Va vietata e penalizzata la vivisezione, che è priva di reale validità scientifica.
- Va inoltre punito l’abbandono degli animali domestici e la loro detenzione in condizioni degradanti e va promossa un’azione di sensibilizzazione contro l’uccisione di animali per ricavarne capi di abbigliamento, come le pellicce.
A parte la vaghezza dell’elenco e la mancanza di ipotesi per realizzare i punti indicati, a parte l’uso del termine “vivisezione”, a parte l’invito a regolamentare pratiche già regolamentate o a vietarne altre che già costituiscono reati (giustamente!, come l’abbandono o i maltrattamenti), a parte la perplessità di trovare Umberto Veronesi tra i firmatari del manifesto (sostiene il divieto della sperimentazione lui che incarna contemporaneamente la lotta ai tumori?), la promozione della sensibilizzazione contro l’uccisione di animali per farne pellicce lascia davvero sgomenti.
Si vuole vietare l’importazione di animali esotici e solo sensibilizzare sulle pellicce? Allevare e scuoiare ermellini e volpi è moralmente preferibile alla detenzione in uno zoo? E secondo quale gerarchia? Quella delle prime alla Scala di Milano?

Su Il Mucchio Selvaggio di maggio.

martedì 26 aprile 2011

Referendum rien ne va plus



Ogni gioco ha le proprie regole. Se non le rispetti non dovresti poter giocare o, almeno, gli altri dovrebbero accusarti di cialtroneria e estrometterti. Vale per gli scacchi e per il calcio, perché non dovrebbe valere per la deliberazione? Ecco, allora, quali sono le regole della buona deliberazione: conoscere il tema su cui si delibera, soprattutto nel caso di un referendum che ci invita a scegliere tra il “sì” e il “no” su una specifica questione; saper costruire buoni argomenti e saper riconoscere quelli fallaci o deboli; essere in grado di analizzare gli argomenti proposti a favore delle diverse posizioni e, dopo le necessarie informazioni, anche costruirne a sostegno della posizione prescelta. A contare insomma non è tanto il risultato finale, ma come ci arriviamo. Come in un processo non ci si può limitare, tanto nella difesa che nell’accusa, a proclamare: “Sono innocente!”, ma è necessario costruire ipotesi credibili e coerenti. Sembra scontato, ma non lo è affatto, abituati come siamo a sentir parlare tuttologi presuntuosi che si cimentano in monologhi di dubbia tenuta razionale. Di questo parliamo con il filosofo Giovanni Boniolo, autore di Il pulpito e la piazza, Democrazia, deliberazione e scienze della vita (Cortina, 2011, pp. 316, euro 26).

Cominciamo con alcune definizioni di concetti fondamentali della nostra vita politica: deliberazione, democrazia partecipativa, con particolare attenzione alla forma aggregativa, e referendum.
L’idea della democrazia partecipativa si basa sul fatto che siano i cittadini a partecipare attivamente al processo democratico. Nella versione deliberativa i cittadini, che partono da punti di vista diversi, attraverso un dibattito ben costruito dovrebbero arrivare a una scelta - politica o di etica pubblica - comune. Questa deliberazione dovrebbe essere basata su un processo razionale. Il referendum è uno dei modi in cui il cittadino viene chiamato direttamente a decidere, è una forma di democrazia diretta. Non prevede però alcuno strumento che permetta una buona costruzione del modo in cui decidere.
Soprattutto ora e specie in Italia, il referendum è diventato un modo di decidere senza una preparazione corretta, senza un precedente dibattito pubblico ben costruito e ben realizzato, senza un vero e proprio dibattito deliberativo. Prima ci si dovrebbe informare e discutere e solo poi andare alle urne. Sfortunatamente questo da noi non avviene quasi mai. Pensiamo a ciò che accadde con il referendum sulla Legge 40 nel giugno del 2005: la battaglia si è svolta a colpi di slogan e nessuno ha spiegato cosa fosse un embrione, quali fossero i problemi filosofici sollevati dalle tecniche riproduttive e perché i cittadini erano chiamati a votare. Di solito, si verifica una manipolazione dell’immaginario e della conoscenza collettivi, non si informa correttamente (cioè in modo non ideologico) il cittadino né gli si forniscono quegli strumenti che gli permetterebbero di ragionare in modo non fallace.Ma in fondo a chi veramente interessa un cittadino informato e razionalmente critico?

Su Il Mucchio Selvaggio di maggio.

martedì 22 febbraio 2011

Berlinguer



Quando c’era maestrale fortissimo, Enrico arrivava e cominciava a dire: “C’è un bel maestrale, e guarda che bel mare...”. E io: “Ho capito vuoi uscire”. Quelle fotografie sono state scattate con maestrale e mare forza 9. I pescatori, quando siamo rientrati, ci hanno detto: “Gesù bambino doveva essere bagnante”. Secondo loro ci proteggeva.

[...]

Dopo il gozzo ho comprato un Hobbie Cat 16 che era una bomba. Il gozzo andava a 6 nodi, il catamarano faceva 20! Quasi come un motoscafo. Quando l’ha visto, Enrico mi ha subito chiesto di uscire.
Eravamo sulla spiaggia di Tonnara, c’era un bel vento di libeccio. Enrico, come sempre, era circondato da guardie del corpo: c’erano quelle del questore di Sassari, quelle della Digos e quelle del partito. “Onorevole, quando torna?”. “Dipende dal vento”. Noi siamo partiti a razzo verso Porto Torres, mentre la scorta passeggiava nervosamente sulla spiaggia, lunga circa 12 chilometri e deserta. A bordo del catamarano bianco e giallo sfrecciavamo in silenzio terrorizzando aironi e cormorani.
L’Hobbie ce l’ho avuto per molti anni, poi si è sfasciato dopo la morte di Enrico.

Su Il Mucchio Selvaggio di marzo.

giovedì 23 dicembre 2010

In guerra



Cominciamo dalla guerra in senso letterale: ti sei mai sentita invadente nell’infilarti nelle vite altrui e nel loro dolore?
Qualche volta sì, ma quello che ti trovi davanti - soprattutto nelle situazioni più violente - sono persone che hanno voglia di raccontare cosa è successo loro e come vivono. Anche le donne che hanno subito atroci violenze, come le afghane o le pakistane, mi hanno sempre detto “scrivi la nostra storia nella speranza che non accada ad altre”.
Ho sempre rispettato, ovviamente, chiunque non volesse raccontare, ma non mi è quasi mai accaduto. Hanno sempre voluto parlarmi: dalla prostituta alla ragazzina che si è finta uomo durante il regime talebano per mantenere la sua famiglia.
Sono andata nel centro antiviolenza di Peshawar per raccogliere 2 o 3 storie. Tutte le donne presenti mi hanno voluto raccontare. Il fatto che ci fosse qualcuno che le avrebbe ascoltate dava loro un po’ di conforto. Donne umiliate, picchiate, terrorizzate, sopraffatte dalla sofferenza. Le ho ascoltate fino a sera inoltrata. Io sono uscita devastata.

Su Il Mucchio Selvaggio di gennaio.

venerdì 24 settembre 2010

Mangiar bene?


Se Slow Food si limitasse a rappresentare i buongustai non ci sarebbe nulla da ridire: che c’è di male nel voler mangiare e bere bene? Ma se vuole porsi come soluzione alla fame nel mondo e ideologia salvifica, lo scenario cambia.
L’ideologia di Slow Food è il sottotitolo del libro di Luca Simonetti Mangi chi può. Meglio, meno e piano (Mauro Pagliai, pp. 120, euro 8,00), analisi impietosa e divertente di una associazione che è sintomo e interprete della condizione politica e dell’opinione pubblica italiane.

Che rapporto ha Slow Food con il linguaggio?
Ambiguo. È tipico del degrado culturale costruire trappole linguistiche. Faccio un esempio recente: Giorgio Fidenato, agricoltore friulano, decide di piantare mais geneticamente modificato in polemica con il Governo e la Regione (ma sostenuto da una sentenza del Consiglio di Stato e dalla normativa europea). Gli attivisti di Greenpeace gli devastano il campo. Il giorno dopo Slow Food costituisce un Presidio per la Legalità e contemporaneamente elogia l’azione, palesemente illegale, di Greenpeace. “Aspettiamo che il Ministero prenda provvedimenti” avvertono “altrimenti li prenderemo noi”. Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, scrive su la Repubblica del 3 agosto un pezzo intitolato Quei campi Ogm in Friuli sono un Far West da fermare, atteggiandosi a tutore della legalità. Fidenato è accusato di essere un cow boy e un delinquente perché non rispetta la legge: ma il Far West è proprio farsi giustizia da soli!

L’ignoranza è una condizione necessaria per sostenere tesi bizzarre, come quella che i fast food sarebbero figli dei tempi attuali e quindi da condannare?
Non sapere o fare finta di non sapere che il cibo “veloce” sia sempre esistito serve a giustificare la condanna della modernità e della tecnica, giudicate di per sé cattive. Slow Food ricostruisce il passato a suo piacimento ignorando la storia e occultando i reali processi di produzione: in un’inesistente età dell’oro tutti avrebbero assaporato i pasti con lentezza e in lieta compagnia, e tutti avrebbero avuto da mangiare. Ma in realtà anche i romani, i cinesi, gli aztechi mangiavano “fast food”, cioè cibi consumati rapidamente e a poco prezzo, e inoltre fino a tempi molto recenti la stragrande maggioranza della popolazione faticava a mettere insieme un pasto decente. Anche se poi fosse vero che i fast food sono innovazioni moderne, non sarebbe questa una ragione sufficiente per condannarli e per ricoprire di ingiurie i loro estimatori, da Slow Food definiti barbari, disumanizzati, stupidi e tristi.


Su Il Mucchio Selvaggio di ottobre.