Un grande Aioros.
venerdì 4 maggio 2012
sabato 21 giugno 2008
Diagnosi non invasiva per la Sindrome di Down
A risk-free blood test for Down’s syndrome in pregnancy, Times, june 21, 2008:
A test that can detect Down’s syndrome from the blood of pregnant women has raised the prospect of routine screening for the condition for every expectant mother who wants it.
Genetic markers that show whether a foetus has the chromosomal disorder can now be identified in the mother’s bloodstream, after research that promises the first reliable noninvasive prenatal test.
The experimental procedure, developed in Hong Kong, has been shown to diagnose 90 per cent of Down’s syndrome cases in a small trial, while also correctly identifying 97 per cent of foetuses that do not have the condition.
If its accuracy can be improved and it is validated in larger patient trials, which scientists believe should take three to five years, it would transform prenatal testing for Down’s.
sabato 1 settembre 2007
Chi ha paura della Sindrome di Down?
Il Foglio prosegue la sua campagna ipocrita e buonista scomodando perfino un linguista (!) allo scopo di fare chiarezza sui termini – condizione necessaria prima di passare ai concetti. Ma torniamo ai termini.
In Mio figlio è Down, non “sbagliato” (31 agosto 2007 – ma chi ha mai detto che i disabili, e non solo chi è affetto da Sindrome di Down, siano “sbagliati”?) la parola viene lasciata a Michael Bérubé (sottotitolo: Il linguista Michael Bérubé ha rotto con i liberal perché giustificano la “microeugenetica”. “Abbiamo introdotto nella società missioni ‘cerca e distruggi’. Possono portare via la dignità umana di Jamie”).
La premessa: alla seconda gravidanza per Janet e Michael si prospetta la possibilità di fare l’amniocentesi. “Cosa facciamo se aspettiamo un bambino con la sindrome di Down?”, si legge nel pezzo. La risposta è affidata a una lunga perifrasi:
A quel bambino, che poi chiamarono Jamie, suo padre ha dedicato uno dei libri più commoventi degli ultimi vent’anni, “Life as we know it”. Bérubé, che insegna Letteratura alla Penn State University e collabora con molte riviste progressiste, non è stupito che anche in Italia sia caduto il tabù nell’uso della parola “eugenetica”, come dimostrano i siti Internet delle Asl (vedi il Foglio del 29 agosto).E menomale che ci fa pure il linguista! E si prosegue:
Proprio sull’eugenetica Bérubé ha rotto con la cultura liberal di provenienza, facendosi paladino del diritto degli invalidi, fino a contemplarne la difesa a livello costituzionale.Valore morale trascendente? Io non so quale fosse la cultura liberal di provenienza di Bérubé, ma di certo una cultura che nega i diritti ai disabili tanto liberal non è. Il problema casomai è l’effettiva realizzazione di quei diritti (ma questa è un’altra storia). Quando Bérubé arriva poi a sostenere che “non abbiamo idea neanche di cosa intendiamo quando pensiamo al ‘bene della specie in quanto tale’” dimostra di avere dimenticato del tutto di mettere a fuoco. Continua a guardare nell’obiettivo pensando che fuori ci sia molta nebbia.
“I liberal sono riluttanti a vedere i diritti dei disabili come parte di un programma di diritti civili” ci dice Bérubé. “Sanno benissimo che le persone con disabilità sono esseri umani come ogni altra persona. Eppure sostengono lo screening prenatale e l’eutanasia, sulla base dell’idea che l’autonomia individuale deve essere rispettata e che non c’è valore morale trascendente”.
Non manca il richiamo alla potenziale maggiore felicità delle persone “non normali”, resistente come un tormentone estivo ma affatto pertinente:
Oggi che Jamie è quello che è, sono arrivato alla conclusione che la nostra paura del ritardo mentale è del tutto sproporzionata e che milioni di persone ‘mentalmente ritardate’ possono vivere felicemente, forse più di coloro che vivono una esistenza ‘normale’.Dimenticavo: cos’è la microeugenetica per Bérubé (non poteva mancare un neologismo...)?
la manipolazione embrionale è tale che “se iniziamo a pensare sulla base della scala biochimico-molecolare, ci avviamo sulla strada di un nuovo tipo di microeugenetica, in cui l’obiettivo dell’eugenetica non è più prevenire che certe persone si riproducano, ma di ‘migliorare’ certi tratti individuali negli embrioni”.Bastava forse usare manipolazione genetica positiva/negativa o manipolazione terapeutica/migliorativa, ma a Bérubé piaceva questo termine e perché fargliene una colpa.
La conclusione dimostra – se ce ne fosse ancora bisogno – quanto sia sballato tutto il discorso di Bérubé (o quanto sia usato a sproposito):
A partire dal 1927, la disabilità è stata una giustificazione sufficiente alla Corte suprema per dichiarare legale la sterilizzazione involontaria.(Nella foto: Michael, Nick e Jamie Bérubé).
Aggiornamento/approfondimento: consiglio vivamente di leggere il commento di Filter al riguardo.
martedì 28 agosto 2007
L’aborto ‘selettivo’
Cosa pensa la senatrice Paola Binetti del caso dell’ospedale San Paolo, dove è stata abortito per errore un feto sano al posto di uno affetto da trisomia 21 (che dà luogo alla sindrome di Down)? Ne pensa qualcosa di strano («“Questa è eugenetica. Arrivato il momento di rivedere la 194”», Corriere della Sera, 27 agosto 2007, pp. 8-9):
In questo caso, poi, aggiungerei subito come premessa che quello che è stato praticato al San Paolo non è un aborto terapeutico ma un aborto eugenetico. Sì, insomma, si è voluto appositamente uccidere il feto malato e salvare quello sano. Quello che non ha funzionato è proprio la selezione.Il ragionamento della senatrice sembrerebbe essere questo: ci sono due feti; visto che uno è sano, si rigetta l’altro, perché giudicato di qualità ‘inferiore’. Questo spiegherebbe perché la Binetti si affanni a distinguere «questo caso» dagli altri, l’«aborto eugenetico» («quello che è stato praticato al San Paolo») dall’«aborto terapeutico». E del resto anche Carlo Casini, presidente del Movimento per la Vita, trova qui qualcosa di speciale (Simona Ravizza, «Aborto selettivo: bufera sull’ospedale», Corriere della Sera, ibidem):
L’aborto eugenetico apparentemente non è consentito, ma oramai viene accettata l’idea che ci possano essere discriminazioni tra esseri umani. La selezione embrionale aggiunge ingiustizia a ingiustizia.Su linee analoghe si muove Lucetta Scaraffia, che su Avvenire di oggi rispolvera persino la balla della Svezia immune dall’aborto dei feti down («Se il senso morale si è atrofizzato», 28 agosto, p. 1).
Ma naturalmente le cose non stanno così. Nel caso del San Paolo, la scelta della madre non è certo dipesa dal numero dei feti: ce ne fosse stato uno solo, affetto dalla trisomia, sarebbe stato ugualmente abortito (non è una illazione: dopo l’aborto del feto sano è stato abortito anche quello malato). Non siamo dunque di fronte a una «selezione»; né la motivazione di questa scelta è la ricerca di una indefinita (e indefinibile) perfezione, ma più semplicemente il desiderio umanissimo di avere un figlio sano, di non consumare con sacrifici enormi la propria esistenza dietro un bambino che non sarà assistito da Binetti Casini e Scaraffia, ma dai suoi genitori. Ci troviamo insomma – checché se ne dica – nell’ambito previsto dalla legge 194 (art. 6):
L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: […] b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.Il caso del San Paolo rientra dunque – al di là dell’errore deprecabile – nella legalità, ed è inoltre moralmente legittimo (a 18 settimane un feto non è certo ancora una persona).
Di fronte al ripetersi sempre più frequente di attacchi al diritto all’aborto è forse giunto il momento di lanciare un monito agli apprendisti stregoni: uno Stato che neghi o significativamente intralci l’autodeterminazione dei propri cittadini, e che in particolare non riconosca la signoria piena e incontrastata di una donna sul proprio corpo e sulle proprie scelte di vita, costringendola anzi al ruolo di incubatrice naturale solo perché qualche superstizioso possa poi ricavare edificazione morale dalla contemplazione di bambini malati, è uno Stato autoritario, che si rende autore di una aggressione nei confronti dei propri soggetti. Uno Stato come questo è uno Stato illegittimo, contro il quale la resistenza – in qualsiasi forma – diventa non solo ammissibile ma doverosa. Sapienti sat.
Postato da Giuseppe Regalzi alle 10:19 26 commenti
Etichette: Aborto, Eugenetica, Paola Binetti, Sindrome di Down
mercoledì 11 luglio 2007
Ma in Svezia si abortisce ancora?
La strategia degli anti-abortisti ha conosciuto negli ultimi anni un’importante evoluzione. Dalla colpevolizzazione delle donne (assassine di bambini, capricciose che abortiscono per il solo gusto di farlo) si è passato progressivamente alla loro vittimizzazione: se le donne abortiscono è solo perché non sono sostenute dalla società, che le costringe a questa tragica scelta; stanziando fondi statali a sufficienza in favore delle famiglie, le donne – salvo una minoranza di incorreggibili snaturate – sarebbero felicissime di mettere al mondo tutti i bambini possibili, compresi quelli più gravemente disabili.
Si tratta di una strategia astuta, perché cerca di evitare di inimicarsi coloro da cui, alla fine, dipende la sorte di ogni legge sull’aborto, e perché strizza l’occhio alla sinistra politica, mutuandone linguaggi e parole d’ordine, pur mantenendo fermamente la barra del timone a destra. All’ideologia di sinistra, infatti, che non a caso è l’ideologia elettiva degli operatori sociali (insegnanti, assistenti sociali, etc.), viene naturale pensare i cittadini come in stato di minorità; la stessa legge 194/1978 non sancisce la totale libertà di abortire, ma la fa sottostare come minimo a condizioni di disagio economico, sociale o familiare (art. 4). Anche il femminismo della differenza (la donna è per essenza madre; l’ideale dell’emancipazione è un complotto borghese), sospetto, è la reazione delle élite femministe di sinistra al successo della propria predicazione, che ha prodotto donne più libere e non più interessate, dopo un po’, a sottostare alle direttive di leader spesso autoritarie.
Esiste un ovvio corollario di questo discorso: nei paesi in cui il welfare è più sviluppato l’aborto dovrebbe essere un fenomeno grandemente ridotto. E infatti, sul Foglio del 3 aprile di quest’anno («Quelle illetterate donne del sud», p. 3) si consiglia al professor Carlo Marcelletti e alla giornalista Concita De Gregorio (colpevoli, a opinione dell’anonimo editorialista, di addebitare il tasso minore di aborti terapeutici nel meridione d’Italia alla cultura cattolica ivi imperante) di
indagare, viste le spiccate attitudini sociologiche, sul perché le svedesi, donne notoriamente non colte, cattoliche e sudiste, decidono sempre più di far nascere i loro bambini Down.Tralasciamo la logica decisamente zoppa del Foglio, e concentriamoci sul nudo dato di fatto che presenta: in Svezia si ricorre sempre meno all’aborto terapeutico nel caso di feti affetti da trisomia 21 (la malattia che dopo la nascita genera la sindrome di Down). La stessa notizia la ritroviamo in un pezzo di Eugenia Roccella, la femminista rinnegata che ha coronato la propria carriera facendo da portavoce con Savino Pezzotta al raduno omofobico del Family Day («Una sistematica violazione della legge 194», Avvenire, 9 marzo, p. 1):
In Francia i bambini Down sono praticamente scomparsi, grazie alla diagnosi prenatale e all’aborto; al contrario le donne svedesi scelgono in genere di tenersi i figli affetti da trisomia 21. La differenza tra i due Paesi è nella cultura, nel modo in cui è strutturato il sistema sanitario e il welfare.Questa non è un opinione, ma un dato di fatto ben preciso; andiamo a vedere cosa c’è di vero.
Se davvero «le donne svedesi scelgono in genere di tenersi i figli affetti da trisomia 21», devono essere in primo luogo messe in condizione di effettuare una scelta: in altre parole, devono conoscere in anticipo di portare in grembo un feto affetto dalla malattia. In Svezia, al dicembre 2004, non veniva ancora offerto uno screening precoce ed esteso a tutte le donne basato sui marker sierici (il cosiddetto Tritest) e sulla traslucenza nucale, anche se la procedura era in fase di valutazione (Eurocat, Special Report: Prenatal Screening Policies in Europe, ed. by Patricia Boyd, Catherine de Vigan and Ester Garne, Newtownabbey, University of Ulster, 2005, p. 21); invece, per le donne con più di 35 anni (quelle a maggior rischio di dare alla luce un bambino Down), era disponibile gratuitamente la tradizionale amniocentesi (o il prelievo dei villi coriali). Non risulta che queste donne siano più propense delle altre ad abortire un feto malformato: anzi, per loro quella gravidanza potrebbe essere l’ultima possibile. Siamo quindi autorizzati a restringere la nostra analisi alle donne svedesi maggiori di 35 anni.
Il Socialstyrelsen, un’agenzia governativa che dipende dal Ministero della Sanità e degli Affari Sociali svedese, pubblica i Missbildningsregistrering, statistiche aggiornate sulle malformazioni congenite. I rapporti disponibili vanno dal 1999 al 2005 (l’ultimo è uscito nel dicembre 2006), e riportano fra l’altro i dati relativi ai casi di trisomia 21 e di Sindrome Down individuati nell’anno di riferimento. Ecco in particolare i dati relativi alle interruzioni di gravidanza e al totale di aborti e nati vivi (una fonte minuscola di incertezza potrebbe essere rappresentata dai nati morti, che non sembrano essere stati computati), per le donne la cui età era maggiore o uguale a 35 anni:
ANNO ABORTI TOTALE PERCENT.
1999: 63 110 57,3%
2000: 70 104 67,3%
2001: 72 130 55,4%
2002: 89 127 70,1%
2003: 88 155 56,8%
2004: 101 154 65,6%
2005: 115 165 69,7%
Siamo come si vede, ben lontani dal poter dire che «le donne svedesi scelgono in genere di tenersi i figli affetti da trisomia 21»; anzi, si deve considerare che queste cifre rappresentano solo le percentuali minime delle donne che scelgono di non tenersi i figli affetti da trisomia 21, visto che non comprendono i falsi negativi dell’amniocentesi e i casi in cui le donne non hanno fatto ricorso all’esame solo per timore di subire un aborto spontaneo (che, come si sa, è un esito raro ma possibile dell’amniocentesi). Sarebbe davvero interessante sapere a quale fonte si è rifatta Eugenia Roccella...
Si potrebbe obiettare che stiamo restringendo indebitamente il campo d’indagine, e che Il Foglio e la Roccella usano le parole «decidere» e «scegliere» in senso sfumato (qualcuno direbbe: improprio). Vediamo allora le cifre relative a tutte le classi di età:
ANNO ABORTI TOTALE PERCENT.
1999: 75 199 37,7%
2000: 92 192 47,9%
2001: 96 230 41,7%
2002: 108 236 45,8%
2003: 117 271 43,2%
2004: 138 245 56,3%
2005: 153 282 54,3%
Almeno per quello che riguarda i due anni più recenti, continua ad essere falsa l’affermazione che «le donne svedesi scelgono in genere di tenersi i figli affetti da trisomia 21»; non solo, ma sembra possibile evidenziare in questi dati una tendenza (che non sembrava presente in quelli relativi solo alle donne più anziane, costanti pur se con continue oscillazioni in su e giù) a un aumento della propensione ad abortire, con buona pace di quanti vorrebbero farci credere che le svedesi «decidono sempre più di far nascere i loro bambini Down».
Eugenia Roccella effettuava anche un paragone con la situazione francese. Per la Francia purtroppo non è disponibile un registro nazionale unico delle malformazioni congenite come quello svedese; esistono invece tre registri regionali, che coprono circa il 21% del totale delle nascite in Francia. I dati dal 1995 al 2001 relativi alla percentuale di aborti di feti affetti da trisomia 21 sul totale dei casi accertati (per tutte le classi di età) si possono trovare in J. Goujard, «La mesure de la clarté nucale et le dosage des marqueurs sériques commencent-ils à modifier l’incidence de la trisomie 21 en France?» (Gynécologie Obstétrique & Fertilité 32, 2004, pp. 496-501, tab. 2 a p. 499):
Centre-est Paris Bas-Rhin totale
-----------------------------------------------------
1990-1994: - - - 44,9%
1995-1996: 53,1% 73,6% 59,6% 60,5%
1997-1999: 65,2% 78,8% 77,5% 71,2%
2000-2001: 73,2% 78,8% 63,3% 74,6%
I dati sono difficilmente sovrapponibili a quelli svedesi, come si vede; ma non si può comunque fare a meno di notare che fino al 1990-1994 la situazione era assolutamente comparabile a quella svedese, di poco posteriore, del 2000. Subito dopo, i tassi di abortività francesi cominciano ad aumentare marcatamente, pur con grandi differenze regionali. Cosa è successo?
Il fatto è che, a partire dal 1996, in Francia – caso quasi unico in Europa – è stato introdotto lo screening di massa della trisomia 21, gratuito e senza limiti di età, basato sulla traslucenza nucale, a cui dal gennaio 1997 si è aggiunto il test sui marker sierici; per le donne che risultano positive è gratuita anche la successiva amniocentesi (Goujard, cit., p. 497; Eurocat, cit., p. 9). Fino al 1995, invece, la situazione era simile a quella svedese: il servizio sanitario nazionale offriva solo l’amniocentesi alle donne maggiori di 38 anni o appartenenti ad altri gruppi a rischio.
Non si vogliono sottovalutare gli effetti sui tassi di abortività delle differenze culturali e socioeconomiche: basti considerare la varietà regionale francese (per un panorama esteso ad altre nazioni – ma solo dal 2001 al 2003 – si vedano i rapporti dell’International Clearinghouse for Birth Defects); ma il fattore di maggiore impatto non riguarda né la cultura né il welfare. Si diano alle donne mezzi diagnostici sicuri e poco costosi, ed esse decideranno nella maggior parte dei casi, sia pure con dolore, di non far nascere i loro bambini Down. È un fatto, checché ne dicano certi (poco) autorevoli opinionisti.
Postato da Giuseppe Regalzi alle 09:18 2 commenti
Etichette: Aborto, Eugenia Roccella, Sindrome di Down