La strategia degli anti-abortisti ha conosciuto negli ultimi anni un’importante evoluzione. Dalla colpevolizzazione delle donne (assassine di bambini, capricciose che abortiscono per il solo gusto di farlo) si è passato progressivamente alla loro vittimizzazione: se le donne abortiscono è solo perché non sono sostenute dalla società, che le costringe a questa tragica scelta; stanziando fondi statali a sufficienza in favore delle famiglie, le donne – salvo una minoranza di incorreggibili snaturate – sarebbero felicissime di mettere al mondo tutti i bambini possibili, compresi quelli più gravemente disabili.
Si tratta di una strategia astuta, perché cerca di evitare di inimicarsi coloro da cui, alla fine, dipende la sorte di ogni legge sull’aborto, e perché strizza l’occhio alla sinistra politica, mutuandone linguaggi e parole d’ordine, pur mantenendo fermamente la barra del timone a destra. All’ideologia di sinistra, infatti, che non a caso è l’ideologia elettiva degli operatori sociali (insegnanti, assistenti sociali, etc.), viene naturale pensare i cittadini come in stato di minorità; la stessa legge 194/1978 non sancisce la totale libertà di abortire, ma la fa sottostare come minimo a condizioni di disagio economico, sociale o familiare (art. 4). Anche il femminismo della differenza (la donna è per essenza madre; l’ideale dell’emancipazione è un complotto borghese), sospetto, è la reazione delle élite femministe di sinistra al successo della propria predicazione, che ha prodotto donne più libere e non più interessate, dopo un po’, a sottostare alle direttive di leader spesso autoritarie.
Esiste un ovvio corollario di questo discorso: nei paesi in cui il welfare è più sviluppato l’aborto dovrebbe essere un fenomeno grandemente ridotto. E infatti, sul Foglio del 3 aprile di quest’anno («Quelle illetterate donne del sud», p. 3) si consiglia al professor Carlo Marcelletti e alla giornalista Concita De Gregorio (colpevoli, a opinione dell’anonimo editorialista, di addebitare il tasso minore di aborti terapeutici nel meridione d’Italia alla cultura cattolica ivi imperante) di
indagare, viste le spiccate attitudini sociologiche, sul perché le svedesi, donne notoriamente non colte, cattoliche e sudiste, decidono sempre più di far nascere i loro bambini Down.Tralasciamo la logica decisamente zoppa del Foglio, e concentriamoci sul nudo dato di fatto che presenta: in Svezia si ricorre sempre meno all’aborto terapeutico nel caso di feti affetti da trisomia 21 (la malattia che dopo la nascita genera la sindrome di Down). La stessa notizia la ritroviamo in un pezzo di Eugenia Roccella, la femminista rinnegata che ha coronato la propria carriera facendo da portavoce con Savino Pezzotta al raduno omofobico del Family Day («Una sistematica violazione della legge 194», Avvenire, 9 marzo, p. 1):
In Francia i bambini Down sono praticamente scomparsi, grazie alla diagnosi prenatale e all’aborto; al contrario le donne svedesi scelgono in genere di tenersi i figli affetti da trisomia 21. La differenza tra i due Paesi è nella cultura, nel modo in cui è strutturato il sistema sanitario e il welfare.Questa non è un opinione, ma un dato di fatto ben preciso; andiamo a vedere cosa c’è di vero.
Se davvero «le donne svedesi scelgono in genere di tenersi i figli affetti da trisomia 21», devono essere in primo luogo messe in condizione di effettuare una scelta: in altre parole, devono conoscere in anticipo di portare in grembo un feto affetto dalla malattia. In Svezia, al dicembre 2004, non veniva ancora offerto uno screening precoce ed esteso a tutte le donne basato sui marker sierici (il cosiddetto Tritest) e sulla traslucenza nucale, anche se la procedura era in fase di valutazione (Eurocat, Special Report: Prenatal Screening Policies in Europe, ed. by Patricia Boyd, Catherine de Vigan and Ester Garne, Newtownabbey, University of Ulster, 2005, p. 21); invece, per le donne con più di 35 anni (quelle a maggior rischio di dare alla luce un bambino Down), era disponibile gratuitamente la tradizionale amniocentesi (o il prelievo dei villi coriali). Non risulta che queste donne siano più propense delle altre ad abortire un feto malformato: anzi, per loro quella gravidanza potrebbe essere l’ultima possibile. Siamo quindi autorizzati a restringere la nostra analisi alle donne svedesi maggiori di 35 anni.
Il Socialstyrelsen, un’agenzia governativa che dipende dal Ministero della Sanità e degli Affari Sociali svedese, pubblica i Missbildningsregistrering, statistiche aggiornate sulle malformazioni congenite. I rapporti disponibili vanno dal 1999 al 2005 (l’ultimo è uscito nel dicembre 2006), e riportano fra l’altro i dati relativi ai casi di trisomia 21 e di Sindrome Down individuati nell’anno di riferimento. Ecco in particolare i dati relativi alle interruzioni di gravidanza e al totale di aborti e nati vivi (una fonte minuscola di incertezza potrebbe essere rappresentata dai nati morti, che non sembrano essere stati computati), per le donne la cui età era maggiore o uguale a 35 anni:
ANNO ABORTI TOTALE PERCENT.
1999: 63 110 57,3%
2000: 70 104 67,3%
2001: 72 130 55,4%
2002: 89 127 70,1%
2003: 88 155 56,8%
2004: 101 154 65,6%
2005: 115 165 69,7%
Siamo come si vede, ben lontani dal poter dire che «le donne svedesi scelgono in genere di tenersi i figli affetti da trisomia 21»; anzi, si deve considerare che queste cifre rappresentano solo le percentuali minime delle donne che scelgono di non tenersi i figli affetti da trisomia 21, visto che non comprendono i falsi negativi dell’amniocentesi e i casi in cui le donne non hanno fatto ricorso all’esame solo per timore di subire un aborto spontaneo (che, come si sa, è un esito raro ma possibile dell’amniocentesi). Sarebbe davvero interessante sapere a quale fonte si è rifatta Eugenia Roccella...
Si potrebbe obiettare che stiamo restringendo indebitamente il campo d’indagine, e che Il Foglio e la Roccella usano le parole «decidere» e «scegliere» in senso sfumato (qualcuno direbbe: improprio). Vediamo allora le cifre relative a tutte le classi di età:
ANNO ABORTI TOTALE PERCENT.
1999: 75 199 37,7%
2000: 92 192 47,9%
2001: 96 230 41,7%
2002: 108 236 45,8%
2003: 117 271 43,2%
2004: 138 245 56,3%
2005: 153 282 54,3%
Almeno per quello che riguarda i due anni più recenti, continua ad essere falsa l’affermazione che «le donne svedesi scelgono in genere di tenersi i figli affetti da trisomia 21»; non solo, ma sembra possibile evidenziare in questi dati una tendenza (che non sembrava presente in quelli relativi solo alle donne più anziane, costanti pur se con continue oscillazioni in su e giù) a un aumento della propensione ad abortire, con buona pace di quanti vorrebbero farci credere che le svedesi «decidono sempre più di far nascere i loro bambini Down».
Eugenia Roccella effettuava anche un paragone con la situazione francese. Per la Francia purtroppo non è disponibile un registro nazionale unico delle malformazioni congenite come quello svedese; esistono invece tre registri regionali, che coprono circa il 21% del totale delle nascite in Francia. I dati dal 1995 al 2001 relativi alla percentuale di aborti di feti affetti da trisomia 21 sul totale dei casi accertati (per tutte le classi di età) si possono trovare in J. Goujard, «La mesure de la clarté nucale et le dosage des marqueurs sériques commencent-ils à modifier l’incidence de la trisomie 21 en France?» (Gynécologie Obstétrique & Fertilité 32, 2004, pp. 496-501, tab. 2 a p. 499):
Centre-est Paris Bas-Rhin totale
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1990-1994: - - - 44,9%
1995-1996: 53,1% 73,6% 59,6% 60,5%
1997-1999: 65,2% 78,8% 77,5% 71,2%
2000-2001: 73,2% 78,8% 63,3% 74,6%
I dati sono difficilmente sovrapponibili a quelli svedesi, come si vede; ma non si può comunque fare a meno di notare che fino al 1990-1994 la situazione era assolutamente comparabile a quella svedese, di poco posteriore, del 2000. Subito dopo, i tassi di abortività francesi cominciano ad aumentare marcatamente, pur con grandi differenze regionali. Cosa è successo?
Il fatto è che, a partire dal 1996, in Francia – caso quasi unico in Europa – è stato introdotto lo screening di massa della trisomia 21, gratuito e senza limiti di età, basato sulla traslucenza nucale, a cui dal gennaio 1997 si è aggiunto il test sui marker sierici; per le donne che risultano positive è gratuita anche la successiva amniocentesi (Goujard, cit., p. 497; Eurocat, cit., p. 9). Fino al 1995, invece, la situazione era simile a quella svedese: il servizio sanitario nazionale offriva solo l’amniocentesi alle donne maggiori di 38 anni o appartenenti ad altri gruppi a rischio.
Non si vogliono sottovalutare gli effetti sui tassi di abortività delle differenze culturali e socioeconomiche: basti considerare la varietà regionale francese (per un panorama esteso ad altre nazioni – ma solo dal 2001 al 2003 – si vedano i rapporti dell’International Clearinghouse for Birth Defects); ma il fattore di maggiore impatto non riguarda né la cultura né il welfare. Si diano alle donne mezzi diagnostici sicuri e poco costosi, ed esse decideranno nella maggior parte dei casi, sia pure con dolore, di non far nascere i loro bambini Down. È un fatto, checché ne dicano certi (poco) autorevoli opinionisti.
2 commenti:
Si diano alle donne mezzi diagnostici sicuri e poco costosi, ed esse decideranno nella maggior parte dei casi, sia pure con dolore, di non far nascere i loro bambini Down.
Direi di dare i mezzi diagnostici in ogni caso, sia che decidano di abortire che di tenere il bambino.
Per il resto, sempre nauseante l'atteggiamento paternalistico che, purtroppo, sempre più spesso viene fuori dagli editoriali di Avvenire
Complimenti per la vostra chiarezza. Conto di tornare a leggervi più spesso. :)>-
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