mercoledì 20 giugno 2007

Legge naturale e liberalismo / 2

Proseguiamo nell’analisi del post di Massimo Zambelli, che avevamo iniziato ieri:

Condivido che nella questione della normalizzazione dell’omosessualità c’è ben di più del far contenti una minoranza di persone. C’è una svolta antropologica decisiva, fondamentale. Si vuole sganciare l’essere umano da una natura normativa. Si vuole assimilarlo a un’idea di libertà disincarnata. Si chiamano a raccolta tutte le presunte prove della negazione di Dio, dal neodarwinismo alle ricerche della neurobiologia, per configurare l’uomo come pura pulsione senza limiti e desiderio senza vincoli. […]
C’è qualcosa di triste nella criminalizzazione sistematica che integralisti e atei clericali praticano nei confronti del desiderio. A parte l’assurdità di imputare l’insofferenza dei limiti a chi sta chiedendo il matrimonio o una forma equivalente di unione civile (come se gli omosessuali potessero ignorare quali obblighi giuridici – spesso anche pesanti – comporta sposarsi), questo rifiuto dei valori vitali e creativi, che non negano i limiti, ovviamente, e richiedono sforzo e impegno per superarli, in pro di un raggrinzimento sull’ethos primordiale della vita che di generazione in generazione produce altra vita e che lì esaurisce il suo scopo primario, suona immancabilmente funereo. Il rifiuto, poi, come accade, è più esibito che agito, ma l’effetto non si cancella.
Tu non chiedi di aggiungere un qualche legittimo diritto. Tu vuoi sovvertire l’antropologia e la comprensione etica della nostra Costituzione. Ragionando così si potrebbe alzare uno che dice: “Voglio legalizzare la schiavitù. Come puoi tu, pericoloso reazionario, non essere d’accordo? Cosa te ne viene a te? Se tu non vuoi farlo, non farlo, ma non impedirlo a me”. L’eliminazione di un riferimento oggettivo all’etica naturale porta a quella conclusione. Non essendoci più un bene e un male oggettivi, derivabili dal diritto naturale, ogni richiesta è valida. Il “purché non si faccia male ad altri” è un’opzione tra le tante. Non più vera (non c’è verità), non più giusta (non c’è giustizia), non più buona di altre (non esiste il bene oggettivo), ma semplicemente più conveniente per quelli che la chiedono. Se non esiste riferimento naturale, valido per tutti, universale, c’è solo la convenienza, il desiderio, il volere. Sparendo il Logos, una ratio comune, resta l’arbitrio. Dietro al rifiuto di vedere come normale l’omosessualità c’è la salvaguardia dell’intero impianto di civiltà che arriva a noi anche grazie al cristianesimo.
La scelta dell’esempio della schiavitù è piuttosto sfortunata, visto che quel principio di «non nuocere» che a Zambelli tanto sembra dispiacere non è certo compatibile con la riduzione in schiavitù di altri esseri umani. Per il resto, ci troviamo davanti l’abituale confusione tra relativismo (preferibilmente postmodernista) e liberalismo: se per il primo non ci sono che interpretazioni, tutte egualmente valide, per il secondo esistono invece sia la verità (a cui ci si approssima per mezzo della scienza, della logica e del semplice buon senso) sia la giustizia (a cui ci approssimiamo per mezzo dei principi dell’uguaglianza di fronte alla legge, del dominio del diritto, etc.). È vero che molti liberali negherebbero l’esistenza di beni oggettivi, ma questo non implica affatto che «tutto sia permesso». Il punto centrale è la giustificazione razionale del principio di non fare agli altri ciò che essi non vorrebbero fosse fatto loro, ovvero di rispettare i loro valori, anche se non sono assoluti: è possibile ottenerla?
Tutti gli uomini hanno fini e valori personali; ma per conseguirli devono ottenere, come minimo, la non interferenza dei loro simili. Anche il più potente e spietato dei dittatori ha bisogno della benevolenza di una cricca di accoliti. Ciascuno invoca implicitamente il rispetto dei propri interessi legittimi (e di quelli dei propri cari); invoca, in altre parole, il rispetto incondizionato dei propri diritti.
Ma se pretendo il rispetto dei miei diritti, non posso poi logicamente negare agli altri il rispetto dei loro. Le vecchie favole che una volta si raccontavano per giustificare le disparità sono morte: la mia razza, i miei quattro quarti di nobiltà, i miei valori benedetti da Dio non mi fanno speciale, non implicano logicamente che io possa passare davanti agli altri; non ho più argomenti, allora, per negare agli altri il diritto di essere liberi dalla mia interferenza.
Naturalmente nei fatti posso poi negare quel rispetto che a parole dico di voler praticare, ma questo è un problema che riguarda tutti i principi etici generali, e la cui soluzione è demandata al sistema giudiziario, ai condizionamenti dell’educazione infantile e all’empatia innata per i propri simili.
È inutile dire che una società basata su questo principio è molto diversa da un’anarchia violenta, dove domina il più forte. Le cose che non si possono fare in una società liberale sono molte – chi di noi non si è mai lamentato che a volte sembrano essere anzi un po’ troppe? Non puoi fumare in un locale pubblico; non puoi parlare ad alta voce con l’amico che ti ha accompagnato di notte sotto casa; non puoi spaccare la testa di chi sbeffeggia dalle colonne di qualche giornale tutto ciò che ami e rispetti.
Ma le cose possono anche andare peggio. Perché se hai qualche idiosincrasia nei confronti di quello che la gente fa per conto suo; se consideri un sacrilegio un libro che raccoglie le bestemmie più colorite, se rabbrividisci al pensiero di un sessantenne che va a letto con una quindicenne, o se ritieni il culmine della perdizione il fatto che due fratelli che non sapevano di essere figli degli stessi genitori si siano innamorati; in tutti questi casi dovrai sopportare il pensiero che tutte queste cose avvengano, senza poterci fare niente. L'illiberale protesta: «ma a me non piacciono!», e se gli rispondi «neanche a me, in effetti, o almeno non moltissimo», ti guarda come se ti stessi contraddicendo platealmente; perché questo è il canone del suo giudizio: il suo gusto personale. Poi viene il giorno in cui il fanatico di una fede diversa gli urla in faccia minaccioso il suo disgusto profondo per il concetto di transustanziazione o di Dio incarnato, e allora riscopre il valore del liberalismo...

I principi liberali non sono propri di qualche utopia (o distopia) futuristica: pur tra mille contraddizioni e imperfezioni guidano le società dell’Occidente avanzato, senza che ciò determini l’anomia e l’anarchia tanto temute; anzi al contrario la maggior parte di quelle società gode di tassi di criminalità storicamente al loro minimo o comunque contenuti. Come per esempio in Francia, dove non esiste il reato di blasfemia, dove l’età del consenso per i rapporti sessuali è di 15 anni, dove persino l’incesto tra adulti consenzienti non è reato – e dove, per inciso, il numero di figli per donna è il maggiore in Europa: probabilmente non a causa di quelle leggi, ma sicuramente non nonostante quelle leggi.
Se fosse per me darei la reversibilità al figlio che resta dopo la morte del padre o anche a due amici. Ma il bilancio non lo permette. E dovendo redigere una lista che rispetti un budget limitato troverei molto più giusto privilegiare un figlio orfano o un fratello che resta dopo la morte dell’altro che amici e conoscenti. Perché quella affettività primaria non viene riconosciuta? Se ci fossero i soldi li darei a tutti. Ma intanto è almeno giusto privilegiare chi ha una famiglia con figli perché da lì nasce il futuro della società.
La ratio della pensione di reversibilità – istituto che non esaurisce certo le conseguenze del matrimonio, e che è oltretutto relativamente recente – non è di manifestare l’apprezzamento della società per un particolare tipo di affettività, ma di garantire la sopravvivenza al coniuge superstite che ha dedicato se stesso al partner, senza poter conseguire perciò un reddito autonomo. Naturalmente è già previsto che venga corrisposta, in assenza del coniuge, ai figli minori o ad altre persone a carico del defunto. Non si vede, stando così le cose, perché escluderne gli omosessuali che si trovino nelle medesime condizioni. E quando sono in gioco questioni di uguaglianza di fronte alla legge, i soldi si devono trovare.
La minaccia non è l’omosessuale, e neanche la tendenza omosessuale, ma la volontà di normalizzare tale tendenza. “Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro!” Lo dice Isaia (5,20), profeta dell’Antico Testamento.
Zambelli, e chi la pensa come lui, vorrebbe fare degli omosessuali (o meglio, dei loro diritti) la vittima espiatoria da sacrificare sull’altare della perpetua stabilità dei mores. Come Abramo sul Moria, si dichiara personalmente dispiaciuto del sacrificio; ma ciò che è necessario è necessario... Ma la società non è certo messa in pericolo dalle unioni civili o dal matrimonio degli omosessuali, nei cui confronti ha invece un debito che difficilmente riuscirà mai ad estinguere. Citazione per citazione preferiamo dunque questa: «Gli uomini nascono e vivono liberi e uguali nei diritti». Non lo dice la Bibbia: lo dice la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, all'art. 1; ma a noi va bene lo stesso.

(2 – fine)

1 commento:

Rossano Casagli ha detto...

Zambelli e' una buona penna, se lsciato libero di scrivere in condizioni di assenza di contraddittorio.
Se messo sotto pressione, sbrocca con una certa facilita', oltre a manifestare la tendenza perniciosa ad imbarcarsi in loop logici in cui A -> B -> C -> A, all'infinito, in una infinita ripetizione degli stessi concetti.

Esempi memorabili si potrebbero trarre dalla (ri)lettura degli archivi storici della lista [ateismo] su groups.yahoo, a suo tempo lungamente frequentata dallo Zambelli e dal sottoscritto, con numerosi episodi di confronto/scontro.

Un saluto