venerdì 24 ottobre 2008

Una domanda di Michele Aramini

Su Avvenire di ieri («Una vita che “non vale più”?», Inserto È vita, p. II) Michele Aramini afferma di voler «porre una semplice domanda» – e si dà anche la risposta:

se un giovane appena maggiorenne volesse rinunciare a vivere in virtù della sua autodeterminazione assoluta sostenendo che «mi avete fatto entrare in un mondo che non mi piace, perciò aiutatemi a morire», dovremmo consentirlo o no? A essere coerenti con l’autodeterminazione totale, si dovrebbe assecondare una simile richiesta. Ma credo che tutti noi cercheremmo di distogliere quel giovane dal proposito, e meno che mai accetteremmo di dargli l’eutanasia. Ma allora, perché alcuni possono determinarsi e altri no? Viene qui alla luce la premessa non dichiarata: la vita di alcuni vale, e la vita di altri non vale più.
In sostanza, il «diritto all’autodeterminazione» viene lasciato a coloro che riteniamo non abbiano più valore. Allora non stiamo parlando più della libertà dell’uomo, ma di un uomo-oggetto che viene valutato in base alle sue condizioni fisiche. Dal punto di vista pratico, l’esito di questo processo sarebbe l’eliminazione d’ufficio di coloro che non valgono nulla, in nome di una qualità della vita ritenuta ormai insufficiente.
La domanda ha un senso: effettivamente è probabile che saremmo portati a frapporre qualche ostacolo a un giovane che vuole suicidarsi, anche dopo esserci accertati che sia in grado di intendere e di volere, e che saremmo più propensi ad acconsentire alla fine di un paziente gravemente malato. Qual è la ragione di questa diversa reazione a richieste identiche? Credo che il motivo risieda nella apparente insufficienza di motivazioni del giovane: ci riesce difficile capire come un ragazzo sano, che ha davanti a sé tutta la vita, possa preferire la morte alla vita; al suo posto non effettueremmo certo la sua stessa scelta! Sappiamo che a quell’età è possibile concepire idee sbagliate sulla vita e sul nostro posto nel mondo (Aramini ci spinge un po’ a questa considerazione, parlando di un ragazzo «appena maggiorenne», ma non lo accuso comunque di tendenziosità), e – ragioniamo – questa potrebbe essere la causa di una decisione altrimenti inspiegabile.
Fermiamoci un attimo: non stiamo forse infrangendo il diritto all’autodeterminazione del giovane, «appena maggiorenne», sì, ma comunque sempre maggiorenne? Non stiamo assumendo un atteggiamento paternalistico, ipotizzando che il ragazzo si sbagli e che noi conosciamo cosa è davvero bene per lui? No. In realtà, il principio di autodeterminazione non consiste affatto nell’assumere che noi siamo giudici infallibili di noi stessi, ma solo che siamo i giudici migliori: mediamente più adatti di chiunque altro a indirizzare le nostre vite, ma non per questo immuni da errori. Anche nel mondo liberale ideale c’è dunque uno spazio per l’ascolto dei consigli altrui, per la pausa di riflessione – specie di fronte a decisioni irreversibili. A patto, ovviamente, che la decisione finale spetti a noi (ci torneremo fra un attimo).
Viceversa, nel caso del malato grave la maggioranza di noi comprende bene le ragioni alla base della decisione di porre fine alla propria vita; c’è come un’oggettività nel dolore che ci porta ad escludere che si sia qui di fronte a un errore, che il malato non voglia veramente morire – anche se poi, alla fine, imponiamo anche a lui pause di riflessione e ci accertiamo che non sia semplicemente depresso o bisognoso soltanto di cure palliative e di attenzione umana.
Qualcuno potrebbe rispondere: ma così stai dando ragione ad Aramini, perché sostieni che la vita di alcuni vale, e la vita di altri non vale più. Chi obiettasse in questo modo, però, commetterebbe la fallacia principe dell’integralista: l’elevazione della preferenza personale a norma universale, valida per tutti, volenti o nolenti. Se la maggioranza dei giovani appena maggiorenni trova la vita degna di essere vissuta, questo non vuol dire necessariamente che ogni giovane appena maggiorenne debba essere costretto a vivere una vita che lo disgusta; e se la maggioranza di noi trova intollerabile il pensiero di vivere immobilizzati in un letto attaccati a un respiratore, questo non vuol dire affatto che uno debba andare in giro a staccare respiratori a quei pochi che intendono resistere in quella condizione. Il salto logico è evidente a tutti, ma non all’integralista, che proietta sui «perfidi laicisti» (lo vedevamo anche nel post di ieri) quella che è solo la sua brama di imporre agli altri i propri gusti.

Torniamo al nostro giovane che trova la vita insopportabile. Dopo che ogni nostro tentativo di convinzione è fallito, che cosa dovremmo fare? Rinchiuderlo da qualche parte per impedire un tentativo di suicidio? Le leggi, fortunatamente, non lo consentono. Se quello decide di lasciarsi morire di fame, addirittura, il Codice deontologico dei medici impedisce a un dottore di nutrirlo a forza (ma di questa norma ci si dimentica quando si ha a che fare con pazienti inermi, come Eluana Englaro...). La legge, è vero, obbligherebbe incoerentemente a soccorrerlo in ogni altro caso, se lo possiamo fare senza rischio per noi stessi, o almeno a chiamare aiuto; legge futile, perché farla finita lontano da sguardi indiscreti è molto facile. Nei casi di tentato suicidio, infine, si ricorre (se si sospetta la possibilità di recidive) al Trattamento Sanitario Obbligatorio, cioè all’internamento in un reparto psichiatrico; ma questo dovrebbe essere riservato a persone con problemi psichiatrici, e nella nostra ipotesi il giovane è sano di mente: non so immaginare violenza più terribile dello Stato sull’individuo che sottoporre una persona sana a cure psichiatriche. Confido – spero – che anche Michele Aramini sarebbe d’accordo su questo. Alla fine, quindi, l’autodeterminazione sta nei fatti, oltre che nel diritto.
Rimane un’ultima questione. Aramini dice: «meno che mai accetteremmo di dargli l’eutanasia». Lasciamo perdere le polemiche sulla confusione che spesso circonda questa parola, e prendiamola al suo valore nominale. Molti di noi sono favorevoli non solo alla sospensione delle cure per chi ne faccia richiesta, ma anche all’eutanasia attiva, cioè alla somministrazione di farmaci in grado di causare direttamente la morte. Questo, almeno, finché si parla di malati; ma di fronte a un’estensione agli aspiranti suicidi sani (pur dopo aver esperito tutti gli argomenti dissuasivi di cui siamo capaci), effettivamente ci viene naturale indietreggiare. Un punto per Aramini? Forse siamo influenzati da un’istintiva repulsione a dare la morte a una persona sana? Può darsi. Ma mi chiedo se in realtà la nostra repulsione non riguardi piuttosto la statalizzazione del suicidio, questa incapacità dell’individuo nel pieno possesso delle proprie facoltà di assumersi la responsabilità di portare alla logica conclusione la propria libera scelta di valore, chiedendo invece l’intervento degli altri – che non hanno oltretutto nessuna responsabilità per il suo essere venuto al mondo. Diversa ovviamente la condizione del malato, che si trova spesso nell’impossibilità oggettiva di accedere ai mezzi per farla finita.
In ogni caso, il diritto all’autodeterminazione, che è un diritto negativo, cioè un diritto alla non interferenza, rimane integro e inviolato. I diritti positivi degli individui, cioè il diritto a ottenere determinate prestazioni dagli altri, sono per forza di cose soggetti a limiti severi; le cure mediche sono un’eccezione riconosciuta, e l’eutanasia dei malati affetti da gravi patologie rientra in pieno nel loro ambito, costituendo la fine sempre possibile, seppure tragica, di un percorso terapeutico.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Secondo me non occorrono così tante parole.
Se il giovine di Aramini decide di dare l'addio alla vita, ha il pieno diritto di farlo. Punto.
Diritto alla vita per chi desidera vivere, e diritto di scegliere la morte per chi non riesce più a vivere.

Aggiungo due cose.
1) La depressione può essere una grave forma di "patologia", che può arrivare a rendere del tutto inabili a una qualunque forma di vita attiva e sociale, tanto quanto le peggiori malattie fisiche. E ci sono forme depressive che sono ancora fortemente resistenti a qualunque forma di psicoterapia o di farmacoterapia (e quest'ultima spesso funziona solo come cura sintomatica). Non capisco come mai a volte si dica che non ha senso prendere in considerazione il desiderio di lasciare la vita di chi è "solamente depresso", come se la sua fosse una sofferenza "di grado inferiore" di chi è intubato. La depressione è uno stato fisico cerebrale (a meno che non si creda nell'esistenza dell'anima) che produce dolore anche estremamente intenso, al pari di ogni altra condizione di disagio fisico.
2) Suicidarsi, al giorno d'oggi, è ancora tutt'altro che facile come si crede. Teniamo conto che chi è gravemente depresso, di solito, tende a evitare forme di suicidio che implichino dolore fisico o lo facciano supporre, il che riduce la rosa dei possibili metodi. Ci sono poi metodi di suicidio che causano disagi o persino rischio di morte agli altri: buttarsi sotto un mezzo in movimento, o, peggio ancora, usare il gas. In una società che riuscisse ad arrivare a patti e a non considerare più tabu il suicidio, anche questi problemi sarebbero risolti.
Negare il darsi la morte come possibilità dell'individuo non è altro che uno degli infiniti casi in cui una parte della società cerca di "spazzare lo sporco" sotto il tappeto, non facendo altro, però, che aumentare le sofferenze degli individui che nella loro idea di società non si riconoscono.

Anonimo ha detto...

Trovo anch'io che in queto posto siano state usate troppe parole, che spesso ci si ritorcono contro.
Punto primo, Aramini dovrebbe veramente mostarmi un esempio di questo "appena maggiorenne" completamente sano che intende suicidarsi; perché se no è come argomentare che non dovrei uscire di casa perché potrebbe esistere il caso ipoterico che io venga distrutto da un meteorite che mi cade sulla zucca!
Punto secondo, il caso della persona fisicamente sana che si vuole suicidare e quella della persona in malattia terminale e incurabile che vuole morire sono due cose completamente diverse: la prima macroscopica differenza è che il primo ha la capacita di suicidarsi in autonomia, il secondo no! Secondo il suicida veramente intenzionato a farlo, che però non è fisicamente malato, o lo fa perché è ha un patologia che lo prota alla depressione e quindi le sue capacità decisionali sono dettate da una visione della realtà più nera di quanto non avrebbe senza la depressione che può essere curata, o perché si trova in condizioni personali gravi (tipo la persona sormontata dai debiti) ma anche in questo caso la capacità decisionale della persona è dovuta a una temporanea disperazione; i suicidi che invece parlano tanto di farla finita perchè essere affetti dal "mal sottile" fa tanto fico, sono invece persone che voglino solo attenzione o parlano per dar aria ai denti.
La persona che invece è terminale, prima di tutto chiede l'eutanasiz a perché da sola non è in crado di suicidarsi, se no lo avrebbe già fatto, inoltre il suo desiderio non è dato da una alterazione mentale dalla visione di una vita che è comunque agli scoccioli o in un condizione come quella welby che non ha più nulla di naturale, ma anzi ha tutto dell'artificiale e poi, molti dimeticano, non ci è alcuna possibilità per tali persone di ritornare a uno stile di vita desiderato, se un tetrablecigo sapesse di poter tornare a essere autonomo con una operazione non chierebbe certo l'eutanasia
renzo

Anonimo ha detto...

non posso non segnalarvi questo articolo allucinante ovviamente apparso sul Giornale http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=300926#1

Anonimo ha detto...

Basta con i suicidi clandestini!
Vogliamo il suicidio assistito di stato!
E' ora che la società si faccia carico del rischio di danni collaterali di aspiranti suicidi che, non avendo a disposizione un kit igienico e socialmente non aggressivo, continuano a buttarsi dai ponti, a usare il forno di casa, a sdraiarsi sui binari, a spararsi sul tappeto persiano, a impiccarsi a piante secolari. Tutte modalità a rischio per il prossimo e la natura.
E' ora di smettere di nasconderci dietro questo buonismo e paternalismo che vuole per forza trovare una motivazione psicologica se non psichiatrica a chi, nella sua totale e libera autodeterminazione, ha deciso che -per lui- la vita non è degna di essere vissuta e, senza dover rendere ragioni a nessuno, vuole porvi fine senza arrecare dolore a sè stesso e disagio alla società.
Vogliamo la pillola per il suicidio gratuito e di stato!